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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Macro USA e valute - proiezioni U$D

Scenari / Un dollaro piccolo piccolo

Analisi storica origine crisi creditizia

I due anni che hanno cambiato i mercati

Macro mondo - Situazione

Cina, USA e Germania guidano la ripresa globale. O no?

Politica estera USA

Obama vs. Bush jr.: continuità o rottura?

Opinioni - Macro e previsioni Guru

Dagli all'economista

Opinioni - Macro mondo e analisi FMI

La ripresa c'è ma sarà dura uscire dalla crisi

Crisi creditizia - Asset tossici e derivati

Banche tossico-dipendenti nulla è cambiato

Macro USA - Rischio default Stati unione

Usa in bancarotta: a casa gli statali

   
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ANSA   +++   Ven. 07 Ago. 2009 - Ws: IL RALLY ESTIVO CONTINUA   +++   16 Agosto 2009 19:08 BERLINO - Weber: «E' troppo presto per dire che la crisi è finita»   +++   18 Agosto 2009 07:55 NEW YORK - Usa: Greenspan, crescita economica sostenuta a fine '09   +++   21 Agosto 2009 08:23 PECHINO - Cina: verso crescita economia 8,5% nel terzo trimestre 2009   +++   25 Agosto 2009 18:07 NEW YORK - STATI UNITI SPENDACCIONI: DEFICIT ENORME NEL 2009   +++   ANSA   +++
 
  Sabato 01 Agosto 2009   Mercoledì 05 Agosto 2009   Giovedì 06 Agosto 2009  
       
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  Scenari / Un dollaro piccolo piccolo

05 Agosto 2009 09:24 - MILANO - di Martin Feldstein

Professore di economia all'università di Harvard, Feldstein è stato capo dei consulenti economici del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan.

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Il tasso di risparmio delle famiglie americane è cresciuto nettamente dall'inizio dell'anno, toccando a maggio la quota del 6,9% del reddito personale dopo le tasse, il livello più alto dal 1992. In base alle dimensioni attuali dell'economia, questa percentuale equivale a risparmi annui per 750 miliardi di dollari (530 miliardi di euro).

Un tasso di risparmio del 6,9% non è alto rispetto a quello di molti altri paesi, ma resta un cambiamento impressionante rispetto ai dati registrati nel 2005, 2006 e 2007, inferiori all'1 per cento.

Prima di cominciare a crescere, lo scorso anno, il tasso di risparmio delle famiglie americane era in calo da oltre vent'anni, per effetto dell'incremento della ricchezza delle famiglie. L'ascesa del mercato azionario e l'incremento del valore delle abitazioni ha indotto i cittadini a consumare una quota maggiore del loro reddito e risparmiare meno. Il risultato è stato che la maggior parte degli americani attivi ha ridotto la quota del proprio reddito da accantonare per la pensione, mentre i pensionati hanno potuto incrementare il loro livello di spesa. Il tasso di risparmio netto è sceso quasi a zero.

Il brusco calo della ricchezza delle famiglie avvenuto negli ultimi due anni, però, ha messo fine a tutto questo. L'impressionante discesa dei prezzi delle azioni e un calo del 35% dei prezzi delle case ha ridotto la ricchezza delle famiglie a 14mila miliardi di dollari, una perdita pari al 140% del reddito disponibile annuo. I cittadini ora devono risparmiare di più per essere pronti per la pensione, e i pensionati hanno meno soldi da spendere. In prospettiva, il tasso di risparmio potrebbe crescere ulteriormente, e in ogni caso rimarrà elevato per molti anni.

L'incremento del risparmio delle famiglie fa sì che per l'America sia meno necessario di prima poter disporre di fondi esteri per finanziare gli investimenti e l'edilizia residenziale. Di per sé, questi 750 miliardi di dollari risparmiati in un anno dalle famiglie potrebbero sostituire gli afflussi di capitale dal resto del mondo.

Considerando che il picco raggiunto da questi flussi di denaro in ingresso è stato di 803 miliardi di dollari (nel 2006), la maggiore risparmiosità delle famiglie potrebbe annullare quasi completamente la dipendenza dell'America dai capitali esteri.

L'afflusso di capitali negli Stati Uniti è pari ogni anno al deficit della bilancia dei pagamenti (la somma del deficit commerciale più interessi netti e dividendi dovuti dal Governo e dalle imprese Usa al resto del mondo). Il calo degli afflussi di capitale pertanto comporterebbe una riduzione del deficit commerciale.

Dal momento che per ridurre il deficit commerciale è necessario incrementare le esportazioni e limitare le importazioni, il dollaro dovrebbe perdere valore rispetto alle altre valute per rendere i prodotti Usa più allettanti per i compratori stranieri, e i beni e servizi Usa più allettanti per i consumatori americani.

Senza un calo del dollaro, con conseguente aumento delle esportazioni nette, un tasso di risparmio più alto e una riduzione della spesa per i consumi potrebbero spingere l'economia americana in una recessione profonda. Al contrario, un dollaro debole renderebbe possibile coniugare minor spesa per i consumi e piena occupazione, perché sposterebbe la spesa da beni e servizi d'importazione a beni e servizi di produzione nazionale, e perché a questa crescita della domanda interna aggiungerebbe anche la crescita delle esportazioni.

Ma questo collegamento diretto tra maggior risparmio delle famiglie e minor valore del dollaro verrà a crearsi solo se il maggior risparmio delle famiglie non sarà annullato da un incremento del non-risparmio pubblico, cioè da un incremento del deficit pubblico.

Un consistente disavanzo di bilancio aumenta la necessità di fondi esteri per evitare di far precipitare gli investimenti privati. Per dirla in altro modo, il valore del dollaro riflette il risparmio complessivo nazionale, non solamente i risparmi delle famiglie.

Sfortunatamente, il disavanzo di bilancio americano rimarrà elevato per molti anni, secondo le previsioni. L'Ufficio bilancio del Congresso stima che il deficit del Governo Usa arriverà nel corso del prossimo decennio al 5,2% del Pil, e fra dieci anni da oggi sarà del 5,5 per cento. Questo indebitamento pubblico, se avverrà effettivamente, assorbirà tutti i risparmi disponibili delle famiglie, anche ai livelli attuali.

Ciò vorrà dire che gli Stati Uniti continueranno a necessitare di forti afflussi di capitale estero per finanziare gli investimenti e l'edilizia residenziale. Perciò il dollaro dovrà restare ai livelli attuali per continuare a tenere in piedi il forte deficit commerciale e i conseguenti flussi di capitale in entrata.

È possibile, naturalmente - direi anche che è probabile - che la Cina e altri prestatori stranieri non siano disposti a continuare a garantire agli Stati Uniti gli attuali volumi di prestito. La minor domanda di dollari da questi paesi spingerà al ribasso la valuta americana e ridurrà il deficit commerciale.

Questo minor deficit commerciale e la conseguente diminuzione degli afflussi di capitale determinerà tassi d'interesse più alti negli Stati Uniti. I tassi d'interesse più alti faranno scendere gli investimenti e l'attività edilizia, fino a che non arriveranno a un livello tale da poter essere coperti dal ridotto volume di risparmio interno sommato ai ridotti flussi di capitale in entrata.

L'incremento del risparmio delle famiglie limiterà la crescita dei tassi d'interesse Usa, ma non cambierà il dato di fatto che la combinazione tra i forti deficit di bilancio del governo di Washington nei prossimi anni e la minore disponibilità da parte dei prestatori esteri ad acquistare titoli americani condurrà al tempo stesso all'indebolimento del dollaro e all'innalzamento dei tassi d'interesse negli Stati Uniti.

 

Fonte estera - Project Syndicate

 

Traduzione - Fabio Galimberti

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  I due anni che hanno cambiato i mercati

06 Agosto 2009 15:14 NEW YORK - di Massimo Gaggi

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La crisi che da due anni deva¬sta l’economia mondiale deflagra il 9 agosto del 2007 quando a Francoforte la Banca centrale euro¬pea inietta improvvisamente 100 miliardi di euro nei mercati per evitare una crisi di liquidità e un improvviso prosciugamento del credito.
Gli isti¬tuti della Ue sono, infatti, sull’orlo di una crisi di nervi: il collasso di due hedge fund americani in-corporati nella banca Bear Stearns che sembrava essere stato contenuto dalle autorità Usa, sparge, invece, le sue onde d’urto dall’altro lato dell’Atlan¬tico. Scricchiolano gloriose istituzioni finanziarie in Germania, Olanda, Lussemburgo.

Ma l’8 ago¬sto — a scoprirlo è un’approfondita inchiesta del Sole 24 Ore - è la francese Bnp Paribas la prima banca a rischiare il crac per il buco di 2,2 miliardi di dollari che emerge nei suoi fondi obbligaziona¬ri, fortemente esposti sul mercato americano dei mutui subprime. Quella della Bce è una ciambella di salvataggio che l’istituto, subito imitato negli Usa dalla Federal Reserve, getta ai mercati crediti¬zi. Ma l’effetto è quello di portare in superficie il panico che già si era diffuso tra i capi di molte banche.

L’onda monta rapidamente costringendo le banche centrali a una serie infinita di interven¬ti d’emergenza: gigantesche immissioni di liquidi¬tà e ripetute riduzione dei tassi d’interesse che ne¬gli Usa arrivano, alla fine, a quota zero.

Nemmeno questo basta ad evitare il crollo del castello di carte costruito da una finanza che ne¬gli ultimi anni si era abituata a moltiplicare senza fine esposizione finanziaria e rischi. E che, riem¬piendosi di titoli derivati basati su obbligazioni immobiliari, aveva scommesso su un mercato del¬la casa in perenne crescita. Passa qualche mese nel quale la Borsa di Wall Street trova anche il mo¬do di recuperare e segnare il record assoluto (14.164 punti dell’indice Dow Jones il 9 ottobre 2007) ma poi il crollo finale di Bear Sterns nel marzo 2008 e successivamente lo tsunami finan¬ziario seguito, a settembre, al fallimento di Leh¬man Brothers, gettano il mondo nel caos finanzia¬rio.

La crisi deflagra in Europa ma nasce in Ameri¬ca: è qui che all’inizio di questo decennio — l’era del «denaro facile» inaugurata dalla Fed per far crescere l’economia Usa — il volume dei prestiti alle famiglie, dei mutui-casa e dell’esposizione delle banche crescono tutti rapidamente e simul-taneamente. I mutui subprime, quelli concessi a famiglie non in grado di fornire adeguate garan¬zie finanziarie e, spesso, con redditi da lavoro precari, raddoppiano passando in pochi anni dal 10 al 21 per cento del totale: a marzo 2007 i presti¬ti di questo tipo in essere sono ben 7 milioni per un importo complessivo di 1300 miliardi, il 10 per cento del reddito nazionale Usa.

Ma intanto, con i tassi che hanno ricominciato a crescere e i prezzi degli immobili che per la prima volta cala¬no, chi ha scommesso sulla finanza derivata basa¬ta su «pacchetti» di mutui soffre: nel febbraio 2007 il gruppo bancario multinazionale Hsbc è costretto a cancellare dai suoi bilanci 10,5 miliar¬di di dollari di titoli basati sui mutui subprime. A giugno fallisce il gigante dei mutui American Ho-me Mortgage: è il primo di una lunga serie.

Gli Stati Uniti stanno entrando in una tempesta che, dalla metà del 2007 fino alla fine del 2008, spaz-zerà via oltre un quarto del patrimonio degli ameri¬cani. Una distruzione di ricchezza senza precedenti nella storia dell’umanità trasformatasi ben presto in un fenomeno globale e che, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, ha costretto i go¬verni di tutto il mondo ad attivare interventi di sal-vataggio o per attutire gli effetti della crisi per un volume complessivo di diecimila miliardi di dollari.

A fine giugno 2009 le perdite accumulate dalle sole banche e finanziarie occidentali venivano stimate dall’Fmi in oltre 4 trilioni di dollari: 2.700 miliardi negli Usa, 1.200 in Europa, 150 in Giap¬pone. E in questi due anni, c’è chi ha guadagnato e chi ha perso, an¬che tra i risparmiatori.

Ma all’inizio della crisi la Federal Reserve non si era mostrata più allarmata di tanto, tardando a in-tervenire sul costo del denaro. Il 3 agosto 2007 Jim Cramer — commentatore di Borsa della Cnbc dallo stile «scamiciato» e sempre sopra le righe, che è però un ex trader molto competente — aggredisce Bernanke: «Sul mercato del reddito fisso sta scop¬piando l’Apocalisse. Cosa aspetta la Fed a interveni¬re?». Il capo della banca centrale Usa tace, ma po¬chi giorni dopo è costretto a cominciare a correre. Due anni dopo non si è ancora fermato.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

  Cina, USA e Germania guidano la ripresa globale. O no?

06 Agosto 2009 19:22 MILANO - di Riccardo Sorrentino

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Dedicato agli ottimisti. È finita? Sì, sembra proprio di sì. Fare previsioni è diventata un'attività rischiosa, ma gli analisti ormai sono quasi certi: il mondo sta uscendo dalla crisi. Il problema e': come si fa a fidarsi degli analisti?

È finita? Sì, sembra proprio di sì. Fare previsioni è diventata un'attività rischiosa, ma gli analisti ormai sono quasi certi: il mondo sta uscendo dalla crisi. La ripresa è lenta, zoppicante, e non coinvolgerà subito i lavoratori, che continueranno a soffrire; ma le prospettive sono positive.
Le aride statistiche stanno diventando ora più vivaci, anche se non ancora brillanti, e iniziano a dare indicazioni univoche. Se si dimenticano i numeri ancora brutti sul prodotto interno lordo del secondo trimestre, che appartengono al passato, tutto sembra puntare alla crescita, un po' ovunque: dalle vendite di auto - i primi beni a cui si rinuncia durante una recessione - alla fiducia degli operatori economici, agli ordini, fino agli indici (i "Pmi", che riflettono le percezioni dei manager acquisti, i più vicini alla realtà economica) sull'attività attuale, tutto fa pensare a una ripresa.

«L'economia globale - spiegano Sophia Drossos e Yilin Nie di Morgan Stanley - sta guadagnando forza. Per dirne una, i dati sui Pmi delle maggiori economie hanno proseguito il loro miglioramento e il rimbalzo dell'attività dai minimi del primo trimestre è stato forte e segnala un impulso ora più deciso alla crescita mondiale».

In alcuni casi la ripresa appare persino consolidata. Secondo Christian Broda di Barclays, in Cina e Giappone, dove aumentano ormai anche le esportazioni, la crisi è finita a febbraio; nel resto dell'Asia e in Brasile a marzo, in Germania e in Francia ad aprile (anche se in settimana il Pil di primavera potrebbe riservare qualche brutta sorpresa). A giugno è poi toccato agli Usa, e a fine mese sarà il turno della Gran Bretagna - dove l'attività industriale era in espansione a luglio - e, forse, dell'Italia. La Spagna, però, uscirà dalle nebbie ad aprile, e l'Europa dell'est dovrà aspettare ancora.

Il punto più importante è che ormai c'è ripresa in tutte le aree del pianeta. «Le recenti notizie indicano che si sta verificando un rimbalzo sincronizzato della crescita globale», spiegano Bruce Kasman e David Hensley di JPMorgan, che puntano a una crescita della produzione mondiale dell'8% (semestrale annualizzata), «il ritmo più veloce dalla fine degli anni 80». A parte l'Asia sudorientale guidata dalla Cina, che conferma la sua relativa autonomia economica, il Brasile sta infatti trainando l'America Latina e la Germania torna a spingere Eurolandia. Gli Stati Uniti continuano infine ad acquistare più di quanto vendano e quindi a dare impulso a tutto il mondo.

Questo non significa però che tutto tornerà come prima: il potere economico continuerà a redistribuirsi nel mondo. Per ora - nel bene e nel male - è il capitalismo di Stato cinese e asiatico e quello oligarchico di India e America Latina ad aver gestito meglio la crisi, anche se si sta appannando il modello di sviluppo adottato da questi paesi, basato sulle esportazioni: la chiave per l'uscita dalla recessione è stata dappertutto il sostegno alla domanda interna.

Tutto finito, allora? No, non proprio tutto. L'occupazione continuerà a soffrire. «L'economia sta ancora perdendo posti» aggiunge Broda che ricorda: «Prima viene la crescita, poi si fermano i licenziamenti e soltanto dopo ripartono le assunzioni». È per questo che il presidente Usa Barack Obama, da politico più attento alle persone che alle astratte statistiche, dice semplicemente: «Vediamo la luce in fondo al tunnel». Se un analista può accogliere con soddisfazione la notizia che a luglio, negli Stati Uniti, "solo" 247mila persone hanno perso il lavoro, dopo le 443mila di giugno, non altrettanto possono fare tutti gli altri. Anche perché l'emorragia continuerà: nella sola Italia, secondo la Cgia, l'Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, sono a rischio altri 200mila posti in autunno.

Analogamente, la ripresa appare "senza credito", o quasi: «Le perdite su prestiti, negli Usa e in Europa, potrebbero aumentare: la guarigione del sistema bancario sarà lenta e dolorosa», aggiungono gli analisti della JPMorgan.

Si continua poi a discutere, quasi cabalisticamente, sulla forma della ripresa. Ora gli analisti pensano che potrà somigliare a una V, con un rimbalzo forte dopo la contrazione, come è avvenuto in Asia. In tanti però prevedono ancora che sarà una L, con una lenta stabilizzazione dopo la recessione. Tutti temono però che sia invece una W, con una ripresa seguita da una seconda fase di difficoltà.

È uno scenario estremo, questo, ma la crisi ha insegnato a non escludere nulla. Molte cose possono far arenare la ripresa. Soprattutto una domanda interna troppo debole per sostenere tutto. «I consumatori restano sotto pressione a causa dei cattivi bilanci familiari», aggiunge Broda, che pure resta ottimista.

Il nodo è allora lo stimolo della politica fiscale e monetaria, oggi iperespansiva e stretta tra mercati in forte rialzo - a cominciare dal petrolio, fonte di inflazione - ed economie ancora traballanti. Sbagliare i tempi della "strategia di uscita" è quindi facilissimo. Senza contare che i grandi squilibri globali sono ancora tutti lì: il surplus cinese, il deficit Usa, il cambio quasi fisso dello yuan. La crisi non li ha toccati, e nessuno sa che ruolo potranno avere ora.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

L'Europa fa i conti con la deflazione

11-08-09 - Marco Caprotti
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Dopo averne a lungo evocato il fantasma, la recessione ha fatto la sua apparizione in Europa. E non si tratta di una buona notizia (deriva dalla debolezza della domanda di beni e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e aziende, i quali poi attendono ulteriori cali dei prezzi, creando una spirale negativa. Le imprese, non riuscendo a vendere a determinati prezzi parte dei beni e servizi, cercano di collocarli a prezzi inferiori con impatti negativi sui ricavi).
Il fenomeno era atteso. Tanto che l’indice Msci della regione da tempo si sta muovendo con cautela. Nell’ultimo mese (fino all’11 agosto e calcolato in euro) ha guadagnato il 16% mentre da inizio anno ha segnato +15%. Ancora poco per sperare di recuperare il -45,5% perso nel 2008. A dare l’annuncio della nuova situazione macroeconomica è stato, il mese scorso, Eurostat. Secondo l’ufficio di statistica di Eurolandia i prezzi al consumo a giugno sono calati dello 0,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Colpa del calo del costo dei generi alimentari e di quelli energetici.
C’è poi un’altra ragione indiretta: le banche europee non hanno ancora aperto i rubinetti del credito. O almeno questa è l’impressione che hanno le famiglie del Vecchio continente. Gli ultimi dati sulla fiducia dei consumatori in Germania (calcolati dal think thank ZEW), ad esempio, mostrano un calo per la prima volta da ottobre proprio a causa della difficoltà ad avere prestiti dalle banche. L’associazione degli esportatori tedeschi, intanto, lamenta le stesse difficoltà.
La scivolata nella deflazione è una pessima notizia soprattutto per le aziende di grande distribuzione che non possono fare altro che abbassare i prezzi sperando di aumentare le vendite. La strategia, però, non sta funzionando per la catena di abiti low cost H&M che pur abbassando i prezzi dei suoi capi vede ancora gli scaffali pieni con ripercussioni negative sulla trimestrale. Una scelta analoga – e con risultati simili - l’ha fatta la francese Carrefour (supermercati).
L’entrata in una situazione di deflazione è facilitata anche da un pessimo scenario macroeconomico. Il tasso di disoccupazione in Eurolandia, secondo gli ultimi dati si attesta al 9,5%. L’attenzione degli operatori, a questo punto, torna a concentrarsi sulle mosse della Banca centrale europea. Fino ad ora è stata calma anche se prudente. Nel bollettino di luglio non ha nemmeno menzionato la parola “deflazione”, mentre il suo presidente Jean Claude Trichet ha detto di aspettarsi “un rallentamento dei prezzi nel medio termine”.

 

Fonte - Morninigstar.it

 

 

TASSI USA: LA FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%

12 Agosto 2009 20:16 NEW YORK - WSI
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La Banca Centrale lascia invariata al minimo storico la forchetta sui fed funds decisa per evitare il collasso del mercato finanziario. Tassi "eccezionalmente bassi per un lungo periodo di tempo". "L'economia si sta stabilizzando". Il comunicato.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse in un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25% confermando che i tassi americani resteranno "eccezionalmente bassi per un lungo periodo di tempo" e che "l'economia si sta stabilizzando".
La decisione del Fomc (Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Fed riunito gia' da ieri sotto la presidenza di Ben Bernanke) segue risoluzioni identiche prese dalla banca centrale degli Stati Uniti a gennaio, marzo, aprile e giugno, tutte precedute dal drammatico taglio di dicembre 2008, il nono della serie iniziata nell’ottobre 2007, tagli che avevano portato i fed funds all'attuale (e oggi mantenuto) minimo storico; lo scopo era di evitare il collasso del mercato finanziario dopo la crisi e stimolare la ripresa economica attenuando la peggior recessione in America degli ultimi 70 anni.

Nessun cambiamento significativo nel testo ufficiale che ha accompagnato la decisione rispetto alla riunione di giugno; confermato anche il programma di riacquisto di Treasury fino a $300 miliardi entro la fine di ottobre.

Nel dettaglio la Fed scrive che "l'attivita' economica sta trovando un punto di stabilizzazione. Le condizioni dei mercati finanziari sono ulteriormente migliorate nelle settimane recenti. La spesa delle famiglie ha continuato a mostrare segni di stabilizzazione ma rimane imbrigliata da continue perdite di posti di lavoro, crescita fiacca dei redditi, minor valore delle case e dalla stretta sul credito".

Il Fomc scrive che conferma "il target dei federal funds compreso tra 0 e 1/4 per cento" e che "continua ad anticipare che le condizioni economiche sono destinate a garantire livelli eccezionalmente bassi dei federal funds per un lungo periodo". "Come gia' annunciato in precedenza - si legge nel comunicato - per dare supporto ai prestatori di mutui e al mercato immobiliare e per migliorare in generale le condizioni del mercato privato del credito, la Federal Reserve acquistera' in totale entro la fine dell'anno fino a $1.25 trilioni (1250 miliardi di dollari) di "mortgage-backed securities" e fino a $200 miliardi di obbligazioni emesse da agenzie governative. In aggiunta, la Federal Reserve e' in fase di acquisto di $300 miliardi di Titoli del Tesoro".

"Le aziende stanno ancora tagliando sia gli investimenti fissi sia il personale ma stanno facendo progressi nel portare le scorte di magazzino a un miglior allineamento con le vendite", scrive la Fed. "Sebbene l'attivita' economica stia destinata a rimanere debole - continua il comunicato - il Fomc continua ad anticipare che le azioni di politica volte a stabilizzare i mercati finanziari e le istituzioni, gli stimoli fiscali e monetari e le forze del mercato, continueranno a contribuire a una graduale ripresa di una crescita economica sostenibile in un contesto di stabilita' dei prezzi".

Prima della riunione del Fomc di oggi, dando per scontata la permanenza del tasso di riferimento in prossimità dello 0%, l’attenzione è focalizzata su due punti, secondo un' analisi pubblicata su Wall Street Italia da MPS Capital Services: 1) ammissione eventuale della Fed di segnali di miglioramento dell’economia, pur in presenza ancora di elevati rischi; 2) estensione temporale o meno di due importanti programmi rappresentati dal piano di riacquisto di Treasury da $300 miliardi (in scadenza a settembre) e dal TALF (in scadenza a fine anno).

Sul primo programma l’aspettativa fino a qualche giorno fa era di una fine del programma stesso, vista l’assenza di effetti sui tassi che nel frattempo sono sensibilmente risaliti ed alla luce dei rischi inflattivi causati dalla conseguente creazione di moneta. La recente decisione in senso opposto da parte della BoE potrebbe però portare la Fed a differire la decisione al prossimo Fomc del 23 settembre.

Ed ecco il comunicato integrale della Federal Reserve:

Information received since the Federal Open Market Committee met in June suggests that economic activity is leveling out. Conditions in financial markets have improved further in recent weeks. Household spending has continued to show signs of stabilizing but remains constrained by ongoing job losses, sluggish income growth, lower housing wealth, and tight credit. Businesses are still cutting back on fixed investment and staffing but are making progress in bringing inventory stocks into better alignment with sales. Although economic activity is likely to remain weak for a time, the Committee continues to anticipate that policy actions to stabilize financial markets and institutions, fiscal and monetary stimulus, and market forces will contribute to a gradual resumption of sustainable economic growth in a context of price stability.

The prices of energy and other commodities have risen of late. However, substantial resource slack is likely to dampen cost pressures, and the Committee expects that inflation will remain subdued for some time.

In these circumstances, the Federal Reserve will employ all available tools to promote economic recovery and to preserve price stability. The Committee will maintain the target range for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent and continues to anticipate that economic conditions are likely to warrant exceptionally low levels of the federal funds rate for an extended period. As previously announced, to provide support to mortgage lending and housing markets and to improve overall conditions in private credit markets, the Federal Reserve will purchase a total of up to $1.25 trillion of agency mortgage-backed securities and up to $200 billion of agency debt by the end of the year. In addition, the Federal Reserve is in the process of buying $300 billion of Treasury securities. To promote a smooth transition in markets as these purchases of Treasury securities are completed, the Committee has decided to gradually slow the pace of these transactions and anticipates that the full amount will be purchased by the end of October. The Committee will continue to evaluate the timing and overall amounts of its purchases of securities in light of the evolving economic outlook and conditions in financial markets. The Federal Reserve is monitoring the size and composition of its balance sheet and will make adjustments to its credit and liquidity programs as warranted.

Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen.
 

Fonte - WSI

 

 

 

 

 

 

  Venerdì 07 Agosto 2009   Domenica 09 Agosto 2009   Venerdì 14 Agosto 2009  
       
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  Obama vs. Bush jr.: continuità o rottura?

August 13th, 2009 - Andrea Gilli

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Dopo sei mesi di presidenza Obama, e numerose inaspettate sfide sul panorama internazionale, due interpretazioni sembrano dominare relativamente alla politica estera perseguita dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Una vede la politica estera obamiana come una totale inversione di rotta rispetto al precedente corso americano. L’altra, invece, vede le politiche di Obama come una naturale prosecuzione della rotta tracciata da George W. Bush. La nostra posizione è una sintesi: siamo esattamente a metà. Poiché i fatti sembrano confermare quanto avevamo previsto a novembre (relativamente alla prima interpretazione), ci soffermiamo in questo articolo sulla seconda visione, quella appunto per cui Obama starebbe fondamentalmente proseguendo sulla via della precedente amministrazione.

La politica è un’arena complessa, variegata e difficile sia da prevedere che da spiegare e soprattutto da comprendere. Come abbiamo ricordato più volte, emozioni, tradizioni, storia, idee e interessi influenzano e si fanno influenzare dalla politica. Quando si entra dunque nel meandro dell’arte della sua interpretazione (la scienza politica) bisogna dunque prestare particolare attenzione a non farsi ingannare dalle apparenze o dalle proprie convinzioni.

Per capire se Obama abbia o meno proseguito le politiche di George W. Bush è dunque necessario innanzitutto identificare il nostro metro di giudizio. Solo definendo un criterio chiaro – esponibile ad eventuale critica terza – è infatti possibile stabilire un’interpretazione che abbia una sua coerenza interna e una sua validità generalizzabile.
L’unico modo per effettuare questa verifica è individuare una serie macro-punti cardine delle politiche estere sia di Bush che di Obama e vedere se vi sono divergenze o convergenze. I punti cardini, ovviamente, devono riguardare questioni di principale importanza. Altrimenti, il risultato del test verrebbe a dipendere dalla scelta dei casi da noi selezionati (tipico caso di selection-bias, come ci ricordano i metodologisti). Per fare un esempio: se selezioniamo la politica americana verso Cuba, non avremmo differenze tra le due amministrazioni. E ciò dovrebbe portarci a pensare ad una continuità tra i due Presidenti. Dall’altra parte, selezionando questioni minori nelle quali però vi è stato un netto cambio di rotta, per esempio il linguaggio del nuovo ambasciatore americano presso l’ONU rispetto ai suoi omologhi precedenti, avremmo la sensazione di una drammatica inversione di rotta. Selezionando tre casi abbiamo modo di osservare se divergenze o convergenze si registrano in più situazioni e soprattutto in quale grado.
Gli Stati Uniti, a partire dalla fine della Guerra Fredda, hanno dato particolare attenzione a tre questioni: Russia, Cina e Medio Oriente. Questa attenzione non sembra essere mutata sotto Bush jr. e neppure sotto Obama. Concentriamo su queste tre aree la nostra analisi.
Russia. Le relazioni verso la Russia sono state particolarmente aggressive sotto Clinton. L’obiettivo principale sembra essere stato il ridimensionamento della sfera di influenza russa. Guerra in Kossovo, espansione della NATO e poi dell’EU, dissidi sulle pipelines hanno infatti reso molto accesi i rapporti con Mosca. Sotto Bush, il tentativo di indebolire la Russia è stato ulteriormente rafforzato. Il progetto di scudo missilistico ha ricevuto nuovo impeto, Georgia e Ucraina sono stato aiutate nel loro tentativo di liberarsi dall’influenza di Mosca, al Kossovo è stato concessa l’indipendenza e la guerra delle pipelines si è ulteriormente esacerbata.
Avendo Obama come consiglieri di politica estera Zbigniew Brzezinski e Michael McFacul, ci si aspetterebbe un politica altrettanto muscolare verso la Russia. Soprattutto se si sposa l’interpretazione della continuità tra Bush e Obama. La realtà sembra andare esattamente dall’altra parte. Obama ha messo in stand-by il progetto di scudo, è stato molto cauto sulla Georgia e soprattutto ha messo tra le sue priorità un immediato miglioramento delle relazioni con Mosca – coronato poche settimane fa con un vertice bilaterale.
Cina. I rapporti tra Washington e Beijing sono particolarmente complessi. Profonde dispute geopolitiche si incrociano a comuni interessi economici che, negli anni, da commerciali hanno assunto carattere anche finanziario e monetario. Comprendere le relazioni tra i due Paesi non è assolutamente facile. Durante gli anni di Clinton, la politica americana ha cercato l’integrazione della Cina nel sistema internazionale sperando che la globalizzazione potesse favorire la trasformazione democratica cinese. L’apice di questa politica si è toccato con l’ingresso del Paese nel WTO accordato nel dicembre 2000. Sotto Bush, le relazioni con Pechino sono rimaste tese ma cooperative. Si era partiti con l’idea che la Cina fosse il nemico del nuovo secolo, ma l’amministrazione Bush ha dovuto accettare la crescente importanza della Cina nel sistema internazionale. Bush ha chiesto maggiore democrazia ai vertici del Partito Comunista, ma la sua politica estera è stata molto meno esigente: la necessità di finanziare il deficit delle partite correnti americane e di provvedere beni a basso costo per calmierare l’inflazione interna hanno infatti suggerito una certa cautela.
Obama sembra essersi collocato a metà tra Clinton e Bush. La dipendenza americana (economica e finanziaria) dalla Cina è cresciuta, ma le preoccupazioni sugli sviluppi militari cinesi sembrano non essere tra le priorità della Casa Bianca. Pressioni su diritti umani e democrazia sono scomparse, ma in realtà non hanno mai trovato eccessivo spazio neppure sotto Bush. Continua, invece, l’embargo sulle armi senza che nessuno si sorprenda.
Medio Oriente. Il discorso sul Medio Oriente è complicato in quanto l’area ingloba numerosi paesi, questioni e minacce che difficilmente possono essere raggruppate sotto una sola rubrica. Vediamo come le diverse amministrazioni hanno affrontato le varie questioni.

1. Promozione della democrazia. Clinton sperava che la globalizzazione favorisse la trasformazione politica del Medio Oriente. Il risultato, invece, è stato un indebolimento dei Governi e un rafforzamento dell’Islamismo – soprattutto per le dinamiche identitarie scatenate dai processi globali. Bush ha proposto la Freedom Agenda, parlare ai popoli e non ai regimi, ribaltare questi ultimi per stabilire la democrazia e chiedere ad alta voce democrazia ed elezioni. Obama ha buttato via la Freedom Agenda, ha cancellato i sogni democratici dell’Afghanistan, e si è detto disponibile a trattare con chiunque, eletto democraticamente o meno, e ha ricordato la sua stima per l’Islam.

2. Iraq. Bush aveva definito le date per il ritiro. Obama sta più o meno cercando di rispettarle. La sua promessa elettorale era di uscire il prima possibile dal teatro iracheno. La realtà è che un ritiro troppo veloce rischia di mettere in pericolo sia le truppe americane, che i pochi successi ottenuti sul campo che la stabilità geopolitica della regione. Non si tratta di non rispettare le promesse o di voler rimanere in Iraq, il punto è che ogni mossa deve essere messa in pratica nel momento giusto – almeno se si hanno a cuore gli interessi americani.

3. Iran. Bush ha sempre dichiarato che la minaccia non si trova nella bomba iraniana, ma nel regime. Di qui la necessità di ribaltarlo. Obama ha invece affermato di voler dialogare con l’Iran per trovare un accordo sulla stabilità e sullo sviluppo dell’Afghanistan, dell’Iraq e poi di tutto il Medio Oriente. I recenti fatti iraniani possono portare ad un cambio di rotta: vedremo se, in quale direzione e di che portata esso sarà.

4. Lotta al terrorismo. Per Bush il terrorismo nasce dalla dittatura. Obama non ha fatto affermazioni di sorta a proposito. Si è però detto disponibile a trattare con i talebani per dare un futuro all’Afghanistan. Dall’altra parte, Obama, come Bush, non ha mai accettato compromessi sulla sicurezza nazionale americana: vuole chiudere Guantanamo, ma solo se ciò non comporta liberare dei terroristi pronti a riprendere le armi contro l’America. Vuole sostenere il Pakistan, ma anche colpire chi dal suo suolo opera per minare i successi in Afghanistan.
Orientamento strategico. Bush ha lanciato la guerra in Afghanistan, prima, e quella in Iraq, dopo. Convintosi del successo della prima, ha dedicato i suoi sforzi sulla seconda – le cui alterne vicende hanno richiesto sforzi incrementali. Quando Obama ha preso le redini del comando, la situazione strategica regionale era nettamente cambiata. L’Iraq registrava numerosi segni di miglioramento, mentre l’Afghanistan era sempre più prossimo al baratro. Parallelamente, l’instabilità pakistana ha iniziato a minacciare non solo le operazioni intorno a Kabul ma anche la sicurezza nucleare della regione. Di qui la volontà da parte del team di Obama di focalizzare le risorse su Afghanistan e Pakistan.

Risultati
Esaminando la politica estera americana verso Russia, Cina e Medio Oriente, emerge una realtà molto più smussata di quella che molti cercano di far apparire. Se verso la Russia, il cambio di rotta tra Bush e Obama è stato totale, verso la Cina è quasi impercettibile, mentre verso il Medio Oriente si registrano sia cambiamenti che continuità. Inoltre, spesso, la transizione della politica americana, più che essere dettata dalla volontà dell’esecutivo, sembra essere stata guidata dai fattori ambientali. Il ritiro dall’Iraq di Obama, per esempio, sembra più dovuto ai miglioramenti in loco che non dalla fermezza del neo-presidente. Lo stesso, al contrario, vale per l’Afghanistan, dove la concentrazione degli sforzi americani deriva principalmente dal peggioramento della sicurezza del Paese.
Non esprimiamo un giudizio sulla bontà, o meno, dei cambiamenti o delle continuità avvenute. Ci pare però evidente che parlare di netta continuità o bruschi cambiamenti sia quanto mai inappropriato. Allo stesso modo, basare le proprie valutazioni su piccoli dettagli, come ci è spesso capitato di leggere, segnala una certa ignoranza sulla politica estera. Il fatto che un esercito continui ad usare le stesse armi non significa che continui ad adottare la stessa dottrina e tanto meno che uno Stato continui la sua politica estera precedente. Lo stesso vale quando si valuta la transizione dalla politica estera americana tra Bush jr. a Obama. Il fatto che Guantanamo non sia ancora chiuso o che i droni continuino ad attaccare il Pakistan non solo dice poco sulla politica estera americana: non dice quasi nulla.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

  Dagli all'economista

17 Agosto 2009 00:41 MILANO - di Giuseppe Turani

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Gli economisti sbagliano (come gli avvocati, i medici, gli architetti, e i giornalisti). Per mesi ci hanno detto che al di là della Grande Crisi avremmo trovato la strada bloccata da due mostri: l’iper-inflazione e la deflazione. Non era chiaro quale dei due sarebbe arrivato prima, ma certamente uno si sarebbe fatto vivo. L’iper-inflazione (determinata da tutti i soldi messi in giro per bloccare la Grande Crisi) ci avrebbe resi tutti più poveri nel giro di qualche mese. La deflazione (con il ribasso continuo dei prezzi) avrebbe trasformato la Grande Crisi in una Grande Depressione, e allora sarebbero stati guai seri.
Ebbene, ormai siamo arrivati sul confine della Grande Crisi, ma dei due mostri non c’è nemmeno l’ombra. Spariti, inghiottiti dalle nebbie. I prezzi si muovono più o meno dolcemente (quelli della benzina fin troppo alla svelta …), e c’è chi sostiene che la loro crescita moderata ci accompagnerà per un anno o due, fino alla piena ripresa dell’economia.

Intanto, in America (che è il cuore della crisi) le cose vanno meglio (meno disoccupazione totale e meno disoccupati mensili). Al punto che Goldman Sachs lancia una specie di scommessa. Sostiene che nella seconda parte del 2009 l’economia americana crescerà al ritmo del 3 per cento: una ripresa discretamente robusta. Ma, attenzione, gli economisti della banca d’affari avvertono anche che quel 3 per cento è frutto di uno stimolo fiscale pari al 3 per cento e a un processo di ricostituzione delle scorte del 2 per cento. Senza questi due movimenti, cioè, l’economia americana sarebbe ancora negativa per il 2 per cento. Altro che ripresa.

Gli ottimisti, però, fanno notare che la ricostituzione delle scorte è fisiologica e naturale: proprio la liquidazione delle scorte ha avuto tanta parte nel determinare la crisi (non si produceva più perché si vendeva quello che c’era in magazzino). Adesso è arrivata l’ora di tornare a mettere qualcosa nei magazzini. Certo, il fenomeno non potrà andare avanti all’infinito. Ma intanto c’è. Più complicata la situazione degli stimoli fiscali. Secondo alcuni cesseranno a fine anno, secondo altri a metà del 2010. Ma intanto ci sono, e l’economia americana si trova in ripresa (con un anno di anticipo rispetto alla previsioni dei gufi del Fondo monetario internazionale).

Ma anche gli stimoli fiscali (come la ricostituzione delle scorte) non potranno durare all’infinito. E’ probabile che, in misura più o meno sostenuta, vadano avanti fino a quando l’economia americana non sarà in grado di correre con le proprie gambe. In sostanza, gli Stati Uniti hanno acchiappato la ripresa con dodici mesi di anticipo (e in maniera quasi insperata): difficile che se la facciano svanire fra le mani.

In realtà, hanno comunque un problema: troppi disoccupati. Se la congiuntura non si mette a correre e se non comincia il riassorbimento di quelli che sono rimasti senza lavoro (e senza stipendio) sarà difficile avere una ripresa vera. In un’economia che per il 75-80 per cento dipende dai consumi interni, il 9,5 per cento di disoccupati è troppo. Questo è il vero problema.

Se dall’altra parte dell’Atlantico le cose vanno meglio (al punto che si parla di un rally di Borsa ormai senza fine), da questa parte, in Europa, tutto è ancora incerto. Per due motivi. Intanto c’è da superare lo scoglio dell’autunno (quando la disoccupazione morderà sul serio). E poi c’è il pericolo che a una breve fase di ripresa segua una lunga fase di crisi a causa proprio dei troppi disoccupati prodotti in questi ultimi mesi senza che dai governi venisse una politica di contrasto adeguata. In un certo senso, l’Europa rischia di ritrovarsi rapidamente in una "seconda" crisi a causa dell’inerzia e della pigrizia con la quale ha affrontato la "prima". L’America ci ha portati nei guai, ma ci ha anche fatto vedere come se ne può uscire. Solo che l’Europa non impara mai niente.

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

Rapida, lenta o altalenante, ecco i tre scenari per la ripresa

18 Agosto 2009 16:25 MILANO - Il Sole 24 Ore
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Economisti divisi sulla ripresa economica americana. Alcuni si attendono un forte rimbalzo, altri una crescita lenta, e altri ancora ripresa momentanea e poi un nuovo calo. Per cercare di stimare quale forma assumerà la ripresa - afferma il Wall Street Journal - gli economisti cercano paralleli con le precedenti recessioni. Ma a distinguere la crisi attuale da quelle passate è la forte contrazione del credito che, secondo gli economisti, si protrarrà probabilmente per anni.

«Alcuni settori dell'economia si riprenderanno prima di altri. I comparti manifatturiero e immobiliare hanno subito una forte contrazione e probabilmente inizieranno a riprendersi prima. Ma il settore finanziario è ancora in contrazione con le banche impegnate a ripulire i propri bilanci. Trovandosi di fronte a diversi scenari di crescita, gli americani mostrano o un forte ottimismo o un'ansiosa cautela».

Ecco di seguito - secondo il Wall Street Journal - i tre possibili scenari dipinti dagli economisti.

Un rimbalzo rapido come dopo la crisi petrolifera del '73
La strada più comune per l'economia dopo una severa contrazione è una forte ripresa dell'attività economica. «Non è possibile rintracciare una singola forte recessione seguita da una ripresa modesta», afferma Dean Maki, capo economista per gli Usa di Carclays Capital. Gli economisti che credono in una forte ripresa prevedono che l'economia americana crescerà fra il 3% e il 5% fino alla fine dell'anno.

Ripresa lunga e graduale come nei primi anni '90
L'economia potrebbe tornare a espandersi, ma ci sono molte barriere che impediscono una forte ripresa. Le difficoltà dei consumi e nel credito possono contribuire a rallentare le ripresa economica. «Uno dei motivi per non aspettarsi una crescita forte arriva dai consumi. Questo non significa che le spese dei consumatori non cresceranno, ma che di sicuro non saranno il motore che tutti abbiamo conosciuto finora» osserva Nigel Gault, capo economista per gli Usa di Global Insight. Chi, fra gli osservatori, sostiene una crescita lenta prevede una crescita fra l'1% e il 2% il prossimo anno, cioè molto al di sotto del 4-5% necessario per contribuire al rilancio del mercato del lavoro.

Una breve ripresa e poi un nuovo calo come nei primi anni '80
L'economia registrerà una naturale inversione di tendenza nei prossimi mesi grazie alla ripresa della produzione. Il piano di stimolo fiscale contribuirà ad aiutare gli americani fra la fine del 2009 e l'inizio del 2010. Ma non appena gli effetti del maxi-piano dell'amministrazione Obama si esauriranno l'economia rischia di restare senza una forza trainante, visto che i consumi non saranno più il motore della crescita. E questo potrebbe tradursi in una nuova flessione dell'economia. «Mi auguro che ciò non accada ma è una possibilità precisa Ron Heaton di State Bank».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Il consumo risparmiato

18-08-09 - Sara Silano
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Un anno e mezzo fa, la signora Rossi e Mrs Smith andavano volentieri a spasso per le vie di Milano o di New York a fare shopping. Oggi, la prima è in cassa integrazione e la seconda è stata licenziata. Entrambe se hanno qualche soldo lo lasciano sul conto di deposito o su un titolo obbligazionario. Le statistiche parlano chiaro: secondo la Confcommercio, in Italia i consumi scenderanno dell’1,9% nel 2009. Oltreoceano, il calo è stato dell’1,2% nel periodo aprile-giugno, contro stime pari a -0,5% (dati del dipartimento del Commercio Usa). L’indice di fiducia dei consumatori americani elaborato dall’Università del Michigan è precipitato ad agosto a 63,2 punti dai 66 del mese precedente. Per contro, la disoccupazione è in continua ascesa tanto in Italia quanto negli Stati Uniti.
Eppure si infittiscono le voci sulla fine della recessione e i mercati azionari, seppur nell’incertezza del quadro macro-economico, hanno continuato a salire anche nei mesi estivi (+6,32% l’Msci World dal 19 giugno al 19 agosto), grazie ai buoni risultati aziendali. “Sono i consumatori ad essere troppo pessimisti o gli investitori troppo ottimisti?”, si domanda Ad Van Tiggelen, senior strategist di Ing Investment management nella sua nota di agosto. In realtà i comportamenti degli uni sono mossi da fattori diversi da quelli che governano gli atteggiamenti degli altri.
I consumi dipendono principalmente dalla disponibilità di lavoro e dallo stato del mercato immobiliare, mentre gli investimenti tendono a ripartire non appena ci sono segnali che l’economia smette di peggiorare e aumenta la propensione al rischio. Come spiega Van Tiggelen, le famiglie sono pressate dalla disoccupazione, dalla mancata crescita degli stipendi reali e dal crollo dei prezzi delle case (negli Stati Uniti è il peggiore degli ultimi 80 anni). Soprattutto in America, dopo anni di consumi finanziati con il debito, la gente è tornata a risparmiare.
Tra gli economisti è sempre più forte la convinzione che il mondo post-crisi sarà molto diverso da quello che è sprofondato nella recessione. Todd Edwards, analista di Cambiar Investor, in un lungo articolo pubblicato sul sito Morningstar.com, sostiene che sta avvenendo un ribilanciamento della crescita globale, per cui con il tempo gli Stati Uniti consumeranno di meno (e risparmieranno di più), mentre la Cina e gli altri Paesi emergenti faranno l’opposto. Così la ripresa in America (e in tutte le nazioni sviluppate) sarà caratterizzata da una bassa domanda e da un forzato risanamento dei bilanci familiari. Dopo essere sceso in territorio negativo nel 2006, il tasso di risparmio è risalito negli Usa, sfiorando recentemente il 7%. Per contro, sono scese le richieste di finanziamento da parte dei privati.
Per Edwards, il cambiamento strutturale nelle dinamiche mondiali, con la Cina meno formica e gli States non più cicale, può disegnare un nuovo scenario espansivo a livello globale ed è un tema di investimento nel lungo termine. Per dirla con le parole dell’economista Michael Darda di Mkm Partners, il fatto che la signora Smith non compri il televisore a schermo piatto di ultima generazione, preferendo risparmiare e, magari, investire in titoli obbligazionari non significa che non ci sarà crescita, ma che questa avrà dinamiche diverse. Non tutti, però, sono d’accordo con questa ipotesi, perché la ripresa senza la spesa per consumi in occidente potrebbe essere zoppa.
 

Fonte - Morningstar

 

 

 

 

 

  Sabato 15 Agosto 2009   Martedì 18 Agosto 2009   Mercoledì 19 Agosto 2009  
       
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  La ripresa c'è ma sarà dura uscire dalla crisi

18 Agosto 2009 17:20 MILANO - di Olivier Blanchard

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Nelle recessioni normali, per quanto dirompenti possano essere le ripercussioni sulle imprese e sull'occupazione, le cose si svolgono in modo prevedibile. Ma la recessione che stiamo vivendo è tutt'altro che normale.
Di solito, per combattere una recessione, la Banca centrale abbassa i tassi d'interesse, facendo crescere la domanda e la produzione. La gente ricomincia a comprare beni durevoli come elettrodomestici e automobili. Le aziende avviano progetti d'investimento che erano stati rimandati. Spesso una svalutazione della moneta nazionale ridà slancio alle esportazioni rendendole più convenienti. La crescita inferiore alla norma durante la recessione cede il passo per un certo periodo a una crescita superiore alla norma, fino a quando l'economia riprende il suo ritmo di crescita consueto.
Ma il mondo non sta attraversando una recessione ordinaria e non sarà semplice invertire la tendenza. La crisi ha lasciato cicatrici profonde, che produrranno effetti per molti anni a venire, sia sull'offerta che sulla domanda.

Problemi dal lato dell'offerta
Alcuni elementi del sistema economico sono andati in pezzi. Sono fallite aziende che in una normale recessione non sarebbero fallite. Nei Paesi avanzati, i sistemi finanziari sono diventati parzialmente disfunzionali e ci vorrà molto tempo perché ritrovino forma. Nel frattempo, l'intermediazione finanziaria - e implicitamente il processo di riallocazione delle risorse, fondamentale per la crescita - rimarrà a mezzo servizio. Nei Paesi emergenti, i flussi di capitale in ingresso, diminuiti drasticamente durante la crisi, forse non torneranno subito ai livelli precedenti. Le trasformazioni nella composizione della domanda mondiale, man mano che i consumi si sposteranno dalle economie avanzate a quelle emergenti, potrebbero comportare cambiamenti nella struttura della produzione. In quasi tutti i Paesi, i costi della crisi hanno aggravato il carico fiscale e un incremento della tassazione è inevitabile.
Tutto questo significa che forse non torneremo alla crescita di un tempo, che la produzione potenziale potrebbe essere più bassa rispetto a prima della crisi.


Quanto è diminuita la produzione potenziale? È molto difficile dirlo: noi non vediamo la produzione potenziale, solo la produzione effettiva. I dati storici sono preoccupanti, però. Il World Economic Outlook dell'Fmi, di prossima pubblicazione, presenta i dati di 88 crisi bancarie avvenute negli ultimi quarant'anni in numerosi Paesi diversi. Pur essendoci variazioni enormi fra un Paese e l'altro, la conclusione è che in media la produzione non ritorna ai ritmi pre-crisi, anzi rimane stabilmente al di sotto.
La buona notizia forse è che il trend non sembra risentirne: mediamente, le crisi fanno scendere in via permanente il livello della produzione, ma non il suo tasso di crescita. Perciò, se il passato è d'insegnamento, l'economia mondiale probabilmente tornerà al tasso di crescita di prima della crisi. Ma il periodo di crescita al di sopra della media tipico delle normali riprese, potrebbe, specialmente nei Paesi avanzati, rivelarsi di breve durata o inesistente.

Problematiche dal lato della domanda
Anche solo ottenere una crescita "normale", tuttavia, potrebbe risultare difficile per via dei problemi della domanda. Le previsioni ora dicono che la crescita nei prossimi trimestri sarà positiva nella maggior parte dei Paesi, inclusi quelli industrializzati.
Ci sono però due distinguo da fare. La crescita non sarà abbastanza forte da ridurre la disoccupazione, che secondo le previsioni continuerà a salire fino al prossimo anno. Queste previsioni di crescita positive sono basate in gran parte su una combinazione di stimoli di bilancio e ricostituzione delle scorte da parte delle imprese, invece che su consumi privati forti e spese per investimenti in beni capitale. Prima o poi, gli stimoli di bilancio dovranno essere gradatamente ridotti, e anche la ricostituzione delle scorte terminerà.

La domanda allora è: che cosa serve per sostenere la ripresa? Dovranno entrare in gioco due ribilanciamenti. Il primo consisterà nel riequilibrare spesa pubblica e spesa privata. Il secondo consisterà nel riequilibrare la domanda aggregata a livello internazionale, con un ribilanciamento fra domanda interna e domanda estera, a favore della seconda negli Stati Uniti e a favore della prima nel resto del mondo, in particolare in Asia.

Riequilibrare spesa pubblica e spesa privata
I Governi hanno risposto alla crisi incrementando la spesa pubblica, abbassando le tasse e accettando incrementi sostanziosi del disavanzo pubblico. Di fronte al crollo della domanda privata e all'impossibilità di ridurre i tassi d'interesse al di sotto dello zero, i governi hanno fatto chiaramente la scelta corretta. Ma grandi disavanzi conducono in tempi rapidi a un forte aumento del debito, e considerando che in molti paesi i livelli del debito erano già alti, incrementi del genere non potranno andare avanti a lungo. Se un forte disavanzo si prolunga nel tempo, cresceranno sempre di più i dubbi sulla sostenibilità del debito. E con essi crescerà il rischio di un aumento dei tassi di interesse a lungo termine, sia perché lo stato estrometterà i privati dal mercato del prestito sia per il maggior rischio d'insolvenza.
Per quanto può andare avanti una politica di stimoli di bilancio? Di per sé, nella maggior parte dei Paesi avanzati, probabilmente non molto a lungo. Il rapporto medio fra debito e Pil per le economie dei Paesi del G-20 era alto già prima della crisi e secondo le previsioni nei prossimi anni supererà il 100 per cento. (La situazione è molto diversa in una serie di Paesi emergenti, dove il debito partiva da livelli molto inferiori e dove c'è più spazio per politiche di deficit spending.)

Sottolineiamo il "di per sé". Gli stimoli possono essere prolungati se contemporaneamente vengono prese misure strutturali per limitare la crescita futura dei programmi di spesa sociale (la crescita dei costi della sanità o l'effetto dell'invecchiamento della popolazione sul sistema pensionistico). Lo scambio è interessante. Secondo le stime dell'Fmi, i futuri incrementi di queste voci di spesa peseranno sui bilanci pubblici dieci volte di più dei costi della crisi. Pertanto, anche una modesta riduzione del ritmo di crescita dei programmi di spesa sociale può garantire uno spazio considerevole per portare avanti gli interventi di stimolo.

Alla fine, però, questa politica dovrà essere progressivamente abbandonata e la domanda privata dovrà prendere il posto degli stimoli di bilancio. Da dove verrà questa domanda, se dai consumi o dagli investimenti, rappresenta una questione fondamentale.

I tassi d'interesse bassi possono essere d'aiuto?
È probabile che la domanda Usa rimanga debole a lungo, più debole di prima della crisi con qualsiasi tasso d'interesse. Sottolineo "con qualsiasi tasso di interesse". Questo sembra lasciare spazio a un certo ottimismo.
Il tasso di rendimento a breve termine d'un investimento privo di rischio ora è più basso rispetto a prima della crisi. Nei tre anni precedenti alla crisi, il tasso d'interesse medio nominale sui buoni del Tesoro Usa era del 4%, mentre il tasso d'inflazione medio era del 3 per cento. Quindi il tasso reale, cioè dopo l'inflazione, era dell'1 per cento. Oggi il tasso d'interesse dei buoni del Tesoro è prossimo allo zero e l'inflazione prevista sembra ancorata intorno al 2 per cento. Questo implica un tasso reale di circa il -2%, vale a dire 3 punti percentuali al di sotto del livello pre-crisi.

La Federal Reserve può lasciare il suo tasso di riferimento - il tasso interbancario - a zero se ne ha necessità, e dal momento che l'inflazione attesa è più probabile che aumenti invece di diminuire, i tassi reali verosimilmente rimarranno in territorio negativo. Una regola empirica vuole che un tasso reale più basso di un punto percentuale, e che rimarrà tale secondo le previsioni per un certo periodo, conduce più o meno a un incremento di circa l'1% nella domanda complessiva. Un decremento del tasso reale di 3 punti percentuali sembrerebbe sufficiente a compensare la prudenza di consumatori e imprese e sostenere la ripresa.

Ma non è detto che andrà così. Quello che influenza la domanda è il tasso a cui consumatori e imprese possono prendere soldi in prestito, non il tasso di riferimento in sé e per sé. Com'è risultato chiaro durante questa crisi, il tasso a cui consumatori e imprese ottengono soldi in prestito spesso è molto più alto del tasso di riferimento. I premi di rischio sui titoli Usa con rating BBB (medio), ad esempio, sono più alti di quasi tre punti percentuali rispetto a prima della crisi. Questa maggiore percezione del rischio potrebbe essere un'eredità duratura della crisi. (La Grande Depressione portò a un forte incremento del premio di rischio sulle azioni, che si protrasse per quasi quarant'anni. Ma la Depressione durò a lungo, e questa crisi difficilmente avrà lo stesso impatto psicologico.) Premi di rischio più alti, dunque, potrebbero vanificare, almeno in parte, il calo dei tassi d'interesse. Le autorità Usa non possono fare affidamento solo sui tassi d'interesse per garantire una ripresa stabile.

L'Asia può essere d'aiuto?
Se si vuole che la ripresa negli Stati Uniti arrivi, se la politica di stimoli di bilancio dev'essere gradatamente abbandonata e se la domanda interna del settore privato è debole, allora devono crescere le esportazioni nette Usa. In altre, parole, Washington deve ridurre l'attuale disavanzo delle partite correnti. Questo significa che il resto del mondo, attualmente in forte surplus, dovrà ridurlo. Da dove dovrà arrivare questa riduzione?
Viene naturale guardare innanzitutto ai Paesi con grandi eccedenze commerciali. I primi fra questi sono gli asiatici, e la prima di tutti è la Cina. Dal punto di vista degli Stati Uniti, un decremento dell'attuale surplus nella bilancia dei pagamenti cinese contribuirebbe a incrementare la domanda e a sostenere la ripresa negli Usa: il risultato sarebbe più importazioni dagli Stati Uniti, che a loro volta contribuirebbero a sostenere la ripresa mondiale.

Per avere un'idea delle proporzioni è utile fare altri due conti alla buona. Il Pil dei Paesi emergenti dell'Asia è circa il 50% di quello Usa (con il rapporto che secondo le proiezioni arriverà nel 2014 al 70%). Dunque, se tutti i loro scambi fossero con gli Stati Uniti, i Paesi asiatici dovrebbero ridurre il loro surplus del 4% del Pil per migliorare la bilancia dei pagamenti Usa nella misura del 2% del Pil (che rappresenta una caduta del 3% nel rapporto fra consumi e Pil, meno l'incremento della domanda Usa derivato dalla riduzione dei tassi d'interesse). Dal momento che l'Asia, naturalmente, non commercia soltanto con gli Stati Uniti, l'aggiustamento probabilmente dovrebbe essere ancora maggiore, e questo induce a domandarsi se altri Paesi possano e debbano giocare un ruolo.

Quale ruolo per i paesi non asiatici?
Anche molti altri paesi, tra cui alcuni paesi industrializzati, hanno la bilancia dei pagamenti in attivo. Ad esempio la Germania, che nel 2008 poteva vantare un surplus pari alla metà di quello cinese (anche se si sta contraendo rapidamente); il surplus giapponese è pari a un terzo di quello cinese.
La Germania dovrebbe ridurre il suo surplus commerciale? Berlino non può seguire la stessa strada suggerita per la Cina, cioè una rivalutazione della moneta accompagnata da un decremento del risparmio. Facendo parte della zona euro, la Germania non può procedere autonomamente a una rivalutazione della moneta. E, sul versante della domanda, soffre in buona parte dello stesso problema degli Usa: ha poco spazio di manovra sul fronte della spesa pubblica e non è chiaro se sia auspicabile o praticabile convincere i consumatori tedeschi a risparmiare meno. La Germania tuttavia potrebbe migliorare la produttività nel settore dei beni e servizi non scambiabili, cosa che sarebbe nel suo interesse e che a sua volta porterebbe a una riallocazione della domanda verso i beni e servizi non scambiabili e ridurrebbe il suo surplus commerciale.

Lo stesso argomento si applica al Giappone. Ma, dal momento che riforme strutturali del genere sono politicamente difficili, e dal momento che gli effetti che producono si fanno sentire in tempi lunghi, probabilmente sarà un processo lento, troppo lento per offrire un supporto sostanziale alla ripresa nei prossimi anni. Perciò, se la necessità è quella di procedere a riequilibri rapidi, probabilmente dovrà pensarci soprattutto l'Asia, riducendo il tasso di risparmio e rivalutando le monete asiatiche rispetto al dollaro.

Che succede se il riequilibrio non avviene?
Da questo giro del mondo emergono tre conclusioni. La prima è che la crisi probabilmente porterà a un calo della produzione potenziale. Non c'è da aspettarsi tassi di crescita molto alti quando arriverà la ripresa.
La seconda è che per una ripresa sostenuta negli Stati Uniti e in altri paesi servirà in prospettiva un riequilibrio fra spesa privata e spesa pubblica.
La terza è che per una ripresa sostenuta probabilmente servirà un incremento dell'export Usa e un corrispettivo decremento dell'export del resto del mondo, soprattutto dell'Asia.
Tutt'e tre queste conclusioni sono contestabili. Dal lato dell'offerta, l'effetto della produzione potenziale è estremamente incerto. Dopo tutto, nonostante i pessimistici dati storici, alcuni Paesi sono usciti dalle crisi bancarie senza subire impatti evidenti sulla produzione potenziale (per altro verso, però, alcuni Paesi hanno riscontrato un impatto negativo duraturo non soltanto a livello del Pil, ma anche rispetto al tasso di crescita).

Dal lato della domanda, lo spazio di manovra in termini di spesa pubblica nei Paesi avanzati potrebbe rivelarsi maggiore del previsto, consentendo agli Stati Uniti di mantenere più a lungo di quanto stimato attualmente disavanzi prolungati e un livello d'indebitamento più alto, senza sollevare preoccupazioni nei mercati sulla sostenibilità del debito. Se sarà così, il riequilibrio fra spesa pubblica e spesa privata potrebbe, se necessario, procedere a ritmi più rilassati, lasciando più tempo per riportare in equilibrio la domanda mondiale. Oppure, la domanda privata negli Stati Uniti potrebbe essere più forte del previsto: i consumatori americani potrebbero tornare alle loro vecchie abitudini e risparmiare meno.
Questo aiuterebbe la ripresa ed eviterebbe di dover ricorrere a un aggiustamento su larga scala delle esportazioni nette, ma ricreerebbe sul lungo periodo alcuni dei problemi che hanno provocato l'attuale crisi. Oppure, il mondo potrebbe imboccare strade diverse: l'Asia, ad esempio, potrebbe riuscire a tornare a una crescita sostenuta, mentre nei paesi avanzati la ripresa arrancherebbe. Ma la crisi, e i forti legami commerciali che hanno trasformato un grave shock negli Stati Uniti in una recessione mondiale suggeriscono che il decoupling, per quanto possibile, è improbabile.

Ma se si accetta la tesi che entrambi i riequilibri siano necessari per una ripresa stabile, la domanda successiva è se essi avverranno o meno. È evidente che potrebbero non avvenire, quantomeno non nelle proporzioni necessarie. Se, ad esempio, l'Asia non sarà disposta a ridurre il suo surplus nella bilancia dei pagamenti e le esportazioni nette degli Stati Uniti non registreranno un miglioramento sostanziale, una domanda debole da parte del settore privato negli Usa potrebbe portare a una ripresa anemica negli Stati Uniti. In questo caso probabilmente ci sarebbero forti pressioni politiche per prorogare gli stimoli di bilancio fino alla ripartenza della domanda privata.
Se dovesse accadere questo, si possono immaginare diversi scenari: le autorità potrebbero resistere alla pressione politica, gli stimoli di bilancio verrebbero gradatamente abbandonati e la ripresa Usa sarebbe molto lenta. Oppure, gli stimoli di bilancio potrebbero essere prorogati troppo a lungo, portando a problemi di sostenibilità del debito e timori per i titoli di Stato Usa e per il dollaro, e provocando l'uscita d'ingenti flussi di capitale dagli Stati Uniti. La svalutazione del dollaro potrebbe avvenire, ma in modo disordinato, dando origine a un altro episodio d'instabilità e grande incertezza, che rischierebbe a sua volta di mandare a gambe all'aria la ripresa.
Per sostenere la ripresa nascente probabilmente serviranno delicate azioni di ribilanciamento, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Altrettanto cruciale nei prossimi anni, come lo è stato durante la fase più intensa della crisi, sarà probabilmente la comprensione dei problemi e dei pericoli e un certo grado di coordinamento tra Paesi.

 

Traduzione - Fabio Galimberti

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

RECESSIONE, ROUBINI: ATTENTI CHE ARRIVA LA SECONDA BOTTA

22 Agosto 2009 03:27 NEW YORK - di WSI
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Nouriel Roubini, noto come Dottor Sfiga (eppure e' uno dei pochi economisti che ha previsto con accuratezza e largo anticipo la gravita' della crisi) vede ora un "gran rischio" di ricaduta, dopo una breve ripresa.
Nouriel Roubini, uno dei pochi economisti che ha previsto con accuratezza e largo anticipo la gravita' della crisi finanziaria mondiale, vede oggi un "grande rischio" di ricaduta in recessione dopo una breve ripresa, stando ad un editoriale pubblicato domenica sul sito del Financial Times, intitolato The risk of a double-dip recession is rising.
Roubini, professore alla Stern School of Business della New York University, scrive che dai dati recenti sembrerebbe che l'economia globale abbia toccato il fondo o il suo punto peggiore nella seconda meta' di quest'anno, e che le economie degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale molto probabilmente vedranno una crescita "anemica" e "al di sotto della media" almeno per un paio di anni, secondo quanto riporta l'agenzia Reuters.

Per l'economista (noto come Dottor Doom, letteralmente Sfiga) i governi saranno dannati per un dilemma che li fronteggia in un verso o nell'altro: e cioe' sia che agiscano, sia che non agiscano per eliminare i massicci programmi di stimoli fiscali e monetari che finora hanno impedito all'economia globale di precipitare in depressione, lo scenario restera' comunque molto complicato.

Secondo Roubini se i governi cercheranno di combattere l'allargamento smisurato dei deficit di bilancio tramite un aumento delle tasse e un taglio delle spese, allora finirebbero per minare alla base qualsiasi sintomo di ripresa. D'altro canto, se i governi continueranno a mantenere gli attuali mega deficit, cresceranno anche i timori per un'eccessiva inflazione, il che causera' un aumento dei tassi sui bond e su tutti gli strumenti di credito, con la conseguenza di strozzare sul nascere la ripresa economica.

Per l'economista della New York University un altro motivo di preoccupazione e' che i prezzi dell'energia, degli alimentari e del petrolio stanno salendo molto di piu' di quanto i fondamentali giustifichino; e potrebbero essere essere fatti salire ancora di piu' dalla speculazione oppure se la liquidita' eccessiva creasse artificialmente una domanda troppo alta. "L'economia mondiale - scrive Roubini sul Finacial Times - non potrebbe tollerare un altro shock da contrazione" se la speculazione portasse in tempi rapidi il prezzo del petrolio verso la soglia dei $100 al barile". Alla chiusura dei mercati venerdi' scorso la quotazione dei futures sul greggio era salita ai massimi di periodo a quota $73.83 (vedi quotazione in tempo reale).

Per Roubini la crescita "anemica" che e' all'orizzonte fara' seguito ad un paio di trimestri di rapido sviluppo, grazie al fatto che le scorte di magazzino e la produttivita' stanno recuperando da livelli molto vicini a quella che e' stata una vera e propria depressione.
 

Fonte - WallStreetItalia
 

 

 

RIPRESA: ORMAI SI DELINEANO DUE SCUOLE DI PENSIERO

23 Agosto 2009 11:46 SIENA - di Carmela Pace – MPS Capital Services
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In settimana in area Euro sono attesi i dati finali del Pil tedesco e spagnolo ed i dati preliminari dei prezzi al consumo per gli stessi paesi. In Germania è inoltre atteso l’indice Ifo (sondaggio tra imprenditori) di agosto. Negli Usa oggi non sono attesi dati macro importanti. Nel corso della settimana segnaliamo la seconda lettura del Pil relativo al 2° trimestre. Attesi anche i dati relativi alla fiducia dei consumatori di agosto ed i redditi e spesa personale di luglio. Infine, a partire da domani, in programma anche emissioni di Treasury a 2, 5 e 7 anni per un totale di 109 Mld$.
Tassi di interesse: in area Euro i tassi di mercato sono saliti su tutta la curva potando il differenziale sul 2-10 anni a 193 pb da 197. Continua invece a scendere il differenziale sul decennale Italia-Germania, chiudendo la sessione di venerdì a 76 pb da 82 del giorno precedente. I listini azionari hanno chiuso la sessione in rialzo sulla scia dei positivi dati sui Pmi manifatturiero e servizi e del rialzo delle borse statunitensi. I dati preliminari dei Pmi manifatturiero e servizi hanno continuato il trend al rialzo degli ultimi mesi, portandosi in alcuni casi sopra la soglia dei 50.

In Francia il Pmi manifatturiero è infatti salito a 50,2 da 48,1, mentre il Germania il dato sui servizi si è portato a 54,1 da 48,1. Il membro della Bce, Liikanen, ha dichiarato che malgrado i segnali positivi che giungono dall’economia al momento non c’è alcun bisogno di modificare l’attuale politica monetaria, in quanto l’attività economica è ancora molto al di sotto del livello dello scorso anno e c’è ancora molta incertezza. Il tasso di disoccupazione inoltre dovrebbe continuare ad aumentare. Sul decennale la resistenza si colloca a 3,37% ed il supporto a 3,29%.

Negli Usa i tassi di mercato sono saliti in modo marcato su tutta la curva sulla scia del rialzo delle borse. Lo spread 2-10 anni è salito da 244 a 247pb. L’indice S&P500 si è portato sui massimi del 2009 guidato in particolar modo dagli energetici, industriali, produttori di materie prime e finanziari. Sul fronte macro le vendite di case esistenti a luglio sono salite sui massimi degli ultimi due anni.

Il governatore della Fed, Bernanke, ha dichiarato che le prospettive per un ritorno alla crescita nel breve termine appaiono buone, sia negli Usa sia a livello globale grazie agli interventi delle banche centrali e dei governi.
Sono ancora presenti alcune tensioni in molti mercati finanziari a livello globale, le istituzioni finanziarie si troveranno di fronte ad ulteriori perdite e le famiglie hanno ancora difficoltà nell’accedere al credito. Questa situazione lascia pertanto ritenere che il recupero sarà relativamente lento all’inizio. Altri economisti come ad esempio Roubini e Feldstein, hanno invece enfatizzato i rischi di una seconda fase recessiva, collegati principalmente alla fine degli stimoli fiscali e monetari.

Secondo tale filone di pensiero, l’economia globale dovrebbe recuperare nel secondo semestre 2009, però successivamente saranno presenti elevati rischi di ricadute nel momento in cui le banche centrali ed i governi decideranno di implementare le "exit strategy". Sul decennale governativo supporto a 3,37%, resistenza a 3,60%.
 

Fonte - Servizio Market Strategy MPS Capital Services

 

 

 

 

 

 

  Giovedì 20 Agosto 2009   Sabato 22 Agosto 2009   Mercoledì 26 Agosto 2009  
       
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  Banche tossico-dipendenti nulla è cambiato

24 Agosto 2009 04:05 LONDRA - di Mauro Bottarelli

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Ci risiamo. Dopo aver fatto le brave per qualche tempo, onde evitare il linciaggio e soprattutto di non ottenere i fondi statali per i piani di salvataggio, le banche Usa hanno ripreso le vecchie abitudini: bonus rivoltanti ai manager e, soprattutto, il brutto vizio di cercare di scaricare lo schifo presente nei propri assets spezzettandolo e rivendendolo come sicurissimo prodotto nuovo.
A denunciarlo è Herbert Kaufman, professore di Economia alla Arizona State University: «C’è un po’ di déjà vu in tutto questo», ha dichiarato interpellato da Cnbc. Anche perché, sempre secondo lui, «è proprio questa pratica di spezzettamento e impacchettamento che ha creato il cuore vero del problema, ovvero intasare i mercati e rendere non rintracciabile il punto di partenza del marcio, la sua radice, quella che di fatto va a infettare anche quanto di buono c’è nel mercato finanziario e di investimento». Sia come sia, quelle obbligazioni - nemmeno a dirlo - sono valutate l’una per l’altra con rating AAA: ancora déjà vu.

Siamo al passo successivo, all’evoluzione della specie dei re-remics (resecuritization of real estate mortagage investment conduits), ovvero una nuova generazione di cdo (collateralized debt obligations) che già ad inizio anno aveva cominciato a far luccicare gli occhi agli operatori della City e di Wall Street. Ma partiamo dai cdo per capire meglio di cosa stiamo parlando. Come ormai saprete i cdo sono dei pacchetti con un’obbligazione emessa dalla banca e con all’interno diversi debiti che cercano un investitore per coprirli, tra cui anche i tanto giubilati subprime.

Accade dunque che una banca che vuole dei finanziamenti emette questi cdo cercando credito, promettendo di ripagare il tutto con relativi interessi: in caso di mancato rimborso, però, la banca ci rimetterà i soldi investiti nel mutuato e i soldi da restituire all’investitore vedendo svalutare questi titoli e quindi anche il proprio portafoglio.

Cosa sono invece i re-remics? Un fondo di investimento in mutui ipotecari su immobili. In realtà si prendono un bel po’ di mutui, molti dei quali rischiosi, li si spezzetta, li si trasferisce in bond che vengono mischiati per bene e immessi nel mercato: una macedonia di cdo. Nei primi cinque mesi dello scorso anno, mentre la crisi esplodeva in tutta la sua virulenza, il volume di investimento in re-remics ha toccato quota 9,3 miliardi di dollari (il 47% di tutti i bond di debito emessi in quel periodo escludendo quelli di Fannie Mae e Freddie Mac, tre volte tanto rispetto allo stesso periodo del 2007).

Goldman Sachs, JP Morgan Chase e altre sei banche d’affari prima dell’estate si sono lanciate su questo mercato riassicurando pacchetti di investimenti che come cdo non riuscivano più a trovare mercato ma che come re-remics diventavano appetibili. Il perché è presto detto: i re-remics contengono meno di dodici tipi di bond a loro interno, quindi appaiono più analizzabili e soprattutto sono formalmente formati solo da debiti con rating AAA, sicurissimi sulla carta. Solo che la differenza tra i cdo subprime e i re-remics è quantomeno comica alla luce di quanto accaduto: nel primo caso si garantivano mutui a potenziali insolventi, nel secondo caso la controparte non è tenuta a provare il proprio reddito.

Ma non è tutto visto che grandi merchant bank e alcuni segmenti di hedge funds in questi giorni di turbolenza hanno creato desk appositi per l’acquisto di cdo e re-remics, investimenti che nel lungo termine possono risultare fruttuosi visto che prima o poi la crisi immobiliare finirà e il sottostante di quei veicoli sono beni immobili. Non male, alla faccia dei green shots borsistici, degli Stati che si svenano, dei cds sul rischio di default sul debito dei paesi dell’Est e baltici in continua crescita, della Cina che sbanda e degli Usa che - nonostante i buoni propositi - continuano a piazzare sul grande mercato delle riserve estere il debito sempre crescente.

Ma se l’atteggiamento di alcuni trader può apparire criminale (in effetti non lo è del tutto, l’evidenza storica sembra infatti mostrare che il rendimento medio di lungo periodo dei titoli "buoni" e dei junk bonds sia stato abbastanza allineato - ovviamente, basso e stabile il primo; grandi guadagni che si alternano a grandi perdite per i secondi. Nel caso specifico dei re-remics la spiegazione potrebbe essere che il prezzo è precipitato ed è ovviamente il momento di comprare: chi non ha problemi di deleveraging, eccessiva esposizione, può farlo con fondi propri e fa un affare), capire a quale gioco si stia giocando sul mercato delle commodities appare davvero un rompicapo. Ma di questo tema vi parlerò in un prossimo articolo.

Fonte - IlSussidiario.net.

 

 

 

 

 

Falliscono le banche Usa Parte lo shopping dall'estero?

24 Agosto 2009 17:28 MILANO - di Vittorio Carlini – Il Sole 24 Ore
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Le banche americane fallite, nel 2009, sono salite a 81. L'ultima, in ordine temporale, è la Guaranty Bank di Austin (Texas) i cui uffici sono stati posti sotto sigillo per ordine della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic).

I più grandi fallimenti delle banche americane

Nomi delle società Valore asset* Data fallimento
Washington Mutual 307 9/25/2008
Continental Illinois 40 5/17/1984
First RepublicBank 32,5 7/29/1988
IndyMac Bank F.S.B. 30,7 07/11/2008
American S & L 30,.2 09/07/1988
Colonial Bank 25,5 8/14/2009
Bank of New England 21,7 01/06/1991
MCorp 18,.5 3/28/1989
Gilbraltar Savings 15,1 3/31/1989
BankUnited, FSB 13,7 5/21/2009
First City 13 4/20/1988
Downey Savings 12,8 11/21/2008
Homefed Bank FSB 12,2 07/06/1992
Souteast Bank, N.A. 11 9/19/1991
*Dati in miliardi di dollari


Quello dell'istituto texano non è una bancarotta di poco conto: si tratta, infatti, del 12° fallimento bancario, per ordine di grandezza, mai avvenuto negli negli Stati Uniti. La Guaranty Bank (in inglese, letteralmente la banca garanzia...), al 30 giugno vantava assett per circa 13 miliardi di dollari e i suoi depositi arrivavano al valore di 12 miliardi. Insomma, non proprio noccioline. Ma il gruppo, proprio poco tempo fa, era stato costretto a realizzare svalutazioni per 1,5 miliardi nel business dei mutui immobiliari. Quali, adesso, le sorti dell'istituto texano? Il futuro parlerà spagnolo: Bbva Compass, la filiale americana del Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, ha accettato di acquisire i depositi di Guaranty e pagherà 12 miliardi per i suoi asset. Già lunedì prossimo, i 162 sportelli che operano sia in Texas sia in California saranno riaperti sotto il "marchio" del Bbva.

Jose Maria Garcia Meyer, presidente di BbvaCompass, ha sottolineato che si tratta di una transazione espressione «di una eccelente strategia» e rappresenta un'ottima opportunità per il Bbva di espandersi in «un'area con alti tassi di crescita». Già, espandersi. Proprio su questo fronte molti analisti e operatori si pongono una domanda: siamo di fronte all'inizio di una campagna di shopping delle banche europee in territorio americano? L'acquisizione, in effetti, rappresenta la prima operazione transoceanica del 2009. Ma non va dimenticato che il gruppo di Bilbao ha già fatto diverse acquisizioni in Texas prima di quest'anno e la sua presenza nell'area è già consolidata. Di più: il Bbva non è la sola banca straniera a tentare di cogliere l'attimo della crisi finanziaria a stelle e strisce. La Td Bank unit of Toronto Dominion (TD) ha fatto un'offerta in maggio per la Bank United (istituto finanziario della Florida fallito a causa dei subprime), perdendo l'asta di fronte all'offerta di un private equity. Inoltre, altre banche europee sono già attive sul territorio americano: nel 2008 il Santander ha comprato la Pennsylvania's Sovereign Bank e la britannica Hsbc ha più di 400 sportelli, soprattutto a New York.

Ciò detto, il fenomeno di una campagna di take over da parte degli europei, che sfruttano i fallimenti americani, non deve essere sopravvalutato. I big bancari del Vecchio Continente, e non solo, devono affrontare diversi problemi a casa loro. Anch'essi sono stati colpiti dalla crisi. Proprio in Spagna, per esempio, il tasso di disoccupazione sta crescendo molto e la crisi del mercato immobilare ha colpito duro sull'economia reale.
 

 

 

Banche, affare di stato

24 Agosto 2009 14:06 MILANO - di Morya Longo – Il Sole 24 Ore
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«Bail out people, not banks!». Nei giorni bui della crisi finanziaria, quando i Governi dovevano salvare gli istituti di credito a suon di miliardi, in America montava la protesta con lo slogan «salvate i cittadini, non le banche!». Alla gente comune, munita di cartelli e striscioni, non andava giù che lo stato spendesse i soldi dei contribuenti per aiutare banche e banchieri. Ma oggi la realtà appare un po' meno amara: da quei salvataggi gli stati (dunque i contribuenti) iniziano a guadagnare.


La Svizzera ha rivenduto per 7,2 miliardi di franchi la quota che aveva acquistato in Ubs, registrando in pochi mesi una plusvalenza di 1,2 miliardi di franchi (790 milioni di euro). In America il salvataggio di Citigroup sta già fruttando allo stato potenzialmente più di 11 miliardi di dollari e quello di Bank of America poco più di un miliardo. In Gran Bretagna una delle due banche nazionalizzate, cioè Royal Bank of Scotland, sta quasi riportando l'investimento pubblico vicino alla pari. Ancora in perdita, invece, quello in Lloyds Banking Group. Insomma: quelli che sembravano soldi buttati via, stanno in alcuni casi tornando. Con gli interessi.

Usa: i primi ritorni
Gli Stati Uniti hanno iniettato nel sistema finanziario, in vario modo, un totale di 8.500 miliardi di dollari: più della metà del Pil statunitense. Una spesa immane. Che in parte faticherà a essere recuperata. Ma almeno una fetta di questa montagna di soldi sta – potenzialmente – tornando indietro. Complice il rally delle borse (giustificato o meno che sia) e le caratteristiche tecniche dei salvataggi.

Le soddisfazioni principali stanno arrivando da Citigroup, dove lo stato ha iniettato 45 miliardi di dollari nei mesi più bui della crisi. Ebbene: le preferred shares (particolari titoli simili alle azioni) che il governo ha usato per aiutare la ex banca più grande del mondo, secondo i calcoli realizzati da Bloomberg a metà giugno hanno già fruttato interessi per 1,6 miliardi di dollari. Ma il boccone più grosso è arrivato dopo. Un mese fa lo stato ha convertito 25 miliardi di dollari di preferred shares in normali azioni ordinarie, al prezzo di 3,25 dollari. Dato che oggi Citigroup quota a 4,70, Ubs ha calcolato che se lo stato smobilizzasse l'investimento porterebbe a casa una plusvalenza di circa 10 miliardi di dollari (pari a 7 miliardi di euro). Insomma: frutta più Citigroup che la furibonda lotta all'evasione fiscale e al segreto bancario.

Un po' meno munifica è Bank of America, che – sempre secondo i calcoli di Bloomberg – ha pagato interessi allo stato per 1,1 miliardi di dollari (pari a 760 milioni di euro). Anche Goldman Sachs ha dato qualche soddisfazione ai contribuenti. A luglio l'istituto ha infatti restituito allo Stato 10 miliardi di dollari prelevati dal piano Tarp, cioè il piano di sostegno per i titoli tossici. E, contestualmente, ha riacquistato i warrant che il Governo americano aveva in mano. Ebbene: alla fine lo stato ha guadagnato un tondo 23% annualizzato. È invece andata diversamente per altre 11 banche minori che, al pari di Goldman, hanno restituito i soldi del Tarp e riacquistato il loro warrant. Si tratta di istituti americani meno noti, come Sun Bancorp, First Niagara Financial o Berkshire Hill. Secondo i calcoli effettuati dalla Congressional Oversight Panel, cioè l'organismo Usa che vigila sul programma Tarp, nel caso di queste ultime banche lo stato ha perso 2,7 miliardi di dollari. Per un motivo molto semplice: ha permesso loro di riacquistare i warrant al 66% del valore.

Europa a due velocità
Nel vecchio continente l'esito dei salvataggi bancari è più variegato. Se la Svizzera con Ubs ha incassato un assegno da 1,2 miliardi di franchi, la Gran Bretagna non è ancora riuscita a portare in attivo il suo investimento. Lo stato il 13 ottobre è dovuto intervenire per salvare Royal Bank of Scotland e Lloyds Banking Group, nazionalizzandole di fatto. Per la prima ha speso 20 miliardi di sterline (pari a 23 miliardi di euro) diventando azionista al 70%, mentre per la seconda ha usato 17 miliardi di sterline (19 miliardi di euro) e ha rilevato una quota pari al 43% del capitale.
Secondo i calcoli effettuati dalla Uk Financial Investment (l'organismo creato dal governo per gestire e monitorare i due salvataggi bancari), la Corona britannica ha rilevato le azioni di Royal Bank of Scotland a un prezzo medio di 50,5 sterline e quelle di Lloyds a 122,6. Ebbene: considerando che oggi la prima quota 48,48 sterline e la seconda 101,58, si capisce che lo stato è ancora in perdita ma anche che – grazie al rally delle Borse – ha recuperato molto rispetto al momento dell'investimento. Ancora – riferiscono dalla Uk Financial Investment – non è in agenda il disinvestimento, ma quando il governo deciderà di uscire dalle due banche potrebbe non perderci.

Decisamente peggio, invece, è andata in Germania. Soprattutto con Ikb, la banca creata negli anni 20 per aiutare l'economia tedesca sfiancata dalla prima guerra mondiale, lo stato ha perso il perdibile. Non esistono cifre ufficiali, ma quando la banca è stata venduta al fondo Lone Star i giornali locali ipotizzavano una minusvalenza pubblica di 10 miliardi di euro. Insomma: la banca che ha tirato fuori la Germania dalle rovine della Grande Guerra, ora ha fatto pagare il conto ai tedeschi.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Usa in bancarotta: a casa gli statali

25 Agosto 2009 09:32 MILANO - Il Giornale

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È come in Sim City, un vecchio videogame che simula la gestione di una città. Fai strade, ferrovie, centrali idroelettriche, investi, spendi, metti da parte i fondi per i sussidi di disoccupazione, giochi con le tasse e butti sul mercato qualche gratta e vinci, arriva però un momento in cui non ce la fai più e scopri che i conti sono di un rosso cupo. Se sei un pessimo amministratore da questa situazione non ne esci più, i debiti portano debiti, e a quel punto non resta che spegnere e resettare. Tutti a casa.

È quello che più o meno sta accadendo in molte città e Stati americani. È colpa della crisi, dicono. E un po’ è vero. Forse però anche lì negli States il pubblico costa. La risposta, però, è molto poco europea e porta anche i colletti bianchi nella dimensione liquida di questa stagione dove gli uomini sono costretti a convivere con il rischio quotidiano. Nulla è certo, neppure lo Stato. La bancarotta non fa paura solo ai privati. Che fare? A Chicago, patria di Barack Obama, il 17 agosto tutti gli uffici pubblici sono rimasti chiusi. Niente stipendio per un giorno. Niente raccolta di rifiuti, biblioteche serrate, anagrafi fuori servizio. Sarà così anche i giorni prima di Natale e dopo il Thanksgiving Day. Una scelta che fa risparmiare al comune 8,3 milioni di dollari. La speranza è di arrivare a tagliare il deficit di altri 34 milioni. Il problema è che il buco 2009 è di 300 milioni.

Il futuro è fatto di «ferie forzate». Messa così sembra una bella vacanza. Attenti. Non siamo in Italia. Qui la regola è che chi non lavora non prende lo stipendio. Le ferie non vengono pagate. I travet vedono la busta paga più sottile, mugugnano, ma sanno che l’alternativa è un giro di licenziamenti, una sorta di lotteria al contrario. Ma c’è di più. È lo Stato che si ritira, fa un viaggio a ritroso nell’America dei pionieri, in città senza legge, abbandonata al buon cuore dei cittadini. È quello che stanno pensando gli eredi di William Penn, a Filadelfia, un tempo pacifica città dei quaccheri, ora un inferno metropolitano di bande rivali e delinquenti, dove si esce al mattino e non si sa se si torna a casa. Le casse di Filadelfia sono un abisso, tanto che dovranno chiudere per qualche giorno tutti gli uffici pubblici, compresi tribunali e stazioni di polizia. Ecco, immaginate. Questa città violenta sembra sprofondare in un incubo alla Philip K. Dick, quartieri, strade, confini, case e negozi alla mercé dei senzalegge. È la sospensione del diritto per una manciata di giorni, ma può accadere di tutto. Ed è un paradosso per questa città dove i padri fondatori firmarono l’indipendenza e la costituzione. È l’America che inciampa proprio lì dove è nata.

Non ci sono solo le città. Le ferie forzate per i dipendenti pubblici sono in agenda in 19 Stati. In Rhode Island l’81 per cento dei 13.550 statali resteranno a casa, senza stipendio, per 12 giorni. Gli unici a lavorare saranno i poliziotti e le guardie carcerarie. In Michigan i giorni saranno sei, con un risparmio di 21,7 milioni di dollari. Il caso più noto è quello della California, dove Arnold Schwarzennegger annaspa nei debiti. Lì, dove un tempo c’era l’eden americano e la corsa all’oro, uffici pubblici chiusi tre volte ogni mese, fino al 30 giugno 2010. Obiettivo: tagliare dal bilancio 820 milioni. In Minnesota il senatore Dan Spark ha proposto di giocare d’azzardo, con slot machine nei bar e nei ristoranti, con un aumento delle tasse sulle giocate. Peccato che nelle terre del poker e del Black Jack la crisi sta rovinando gli Stati. In Nevada, dove c’è Las Vegas, le entrate fiscali sono scese del 30 per cento. Stessa musica nel New Jersey di Atlantic City. Meno giocatori, meno tasse. E anche lì i travet tremano, magari sfidando la fortuna.

Questa storia delle «ferie forzate» sembra una nuova frontiera del rapporto di lavoro. È molto americana, lì dove il dipendente pubblico non è una miniera di voti e il sindacato non fa grandi battaglie di principio. Qui in Italia ci sarebbe la rivoluzione. Brunetta sorride, ma davvero non ha modo e ragione di importarla. Le ferie da noi sono pagate, sono un sacro diritto inalienabile e se proprio si manda a casa il Fantozzi di turno fate la cortesia di non spacciare le sue giornate senza stipendio in una vacanza regalata allo Stato. Fantozzi non capirebbe. Nè lui né altri. È il federalismo, bellezza. Ma non fino a questo punto.
Questo vento di crisi che sconvolge i colletti bianchi potrebbe salvare la pelle a chi aspetta la morte in tuta arancione. «Nessuno tocchi Caino» dice che in Maryland, Colorado, Kansas, Montana, Nebraska, New Hampshire e Nuovo Messico vogliono sospendere la pena di morte. Costa troppo. Il senatore democratico Martin O’Malley spiega che «condannare a morte un assassino costa tre volte di più dell’ergastolo». Beccaria superato da Adam Smith. È la forza morale della mano invisibile.

Fonte - Il Giornale

 

 

 

 

 

Washington, continuiamo ad avere un problema

Tuesday, 25 August, 2009 at 13:22 - by John Christian Falkenberg
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La tabella seguente mostra le quantità di debito emessi dagli USA soltanto nell’ultima asta di Titoli di Stato. Le settimane precedenti hanno visto un torrente di debito di dimensioni simili e la domanda sorge spontanea: per quanto tempo questi livelli di emissione potranno essere mantenuti, prima di un calo dei corsi?
E’ vero che non si sa mai per quanto tempo l’equilibrio fra paura ed avidità possa essere sostenuto a livelli irrazionali prima di allinearsi ai fondamentali, soprattutto quando un mercato viene distorto e drogato dall’intervento pubblico.
In questo caso, abbiamo addirittura un duplice intervento di operatori al di fuori dei limiti del mercato. Da un lato, la Federal Reserve continua a mantenere tassi d’interesse vicini allo zero. Dall’altro, la Banca Centrale Cinese continua ad acquistare titoli di Stato, in parte come conseguenza della manipolazione del valore della propria moneta e in parte per sostenere le quotazioni dell’ingente posizione che detiene.
clipped from www.agorafinancial.com
 

Last week’s auction schedule was truly amazing, in and of itself:
* $31 billion in three-month bills
* $30 billion in six-month bills
* $27 billion in 52-week bills
* $42 billion in two-year notes
* $39 billion in five-year notes
* $28 billion in seven-year notes
 

Karl Denninger. “I count $207 billion, coming two weeks after a $250 billion dollar week


 

 

Consumatori americani fiduciosi. Per il futuro

Tuesday, 25 August, 2009 at 19:27 - by phastidio
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Il dato di agosto sulla fiducia dei consumatori statunitensi, elaborato dal Conference Board, è risultato in aumento, al livello di 54,1 da 47,4 in luglio e contro attese poste a 47,9. E’ il dato migliore da maggio, che a sua volta era il migliore da agosto 2008, prima del meltdown di Lehman. Quasi tutto il miglioramento nell’indice deriva dalla componente delle aspettative, cresciuta di circa 10 punti, mentre l’indicatore di situazione corrente è cresciuto di soli 1,6 punti, e resta solo 3 punti sopra il minimo dal 1983. Le aspettative sono al massimo da ottobre 2007, poco prima dell’inizio ufficiale della recessione, che il NBER data da dicembre di quell’anno.
Le risposte riferite alla condizione del mercato del lavoro mostrano un miglioramento, con la quota di quanti vedono una disponibilità di impieghi “abbondante” cresciuta di 0,5 punti, e quella di quanti ritengono gli impieghi “difficili da ottenere” scesa di 3,4 punti. Entrambi gli indici tornano così al valore di giugno. La quota di quanti pianificano di acquistare un’abitazione entro sei mesi è cresciuta di 0,7 punti, al massimo da maggio, mentre quella di chi pensa di acquistare un’auto è cresciuta di 0,4 punti, anch’essa massimo da maggio. E’ singolare notare che le aspettative sul tasso d’inflazione tra 12 mesi sono rimaste, durante questi mesi, pressoché costanti su livelli piuttosto elevati, e in agosto sono pari al 5,4 per cento, un decimo di punto percentuale in meno rispetto a luglio, malgrado un tendenziale che oggi è a meno 2,1 per cento.
In sintesi, gli americani sono molto ottimisti sul futuro, e questa caratteristica degli indici di fiducia dei consumatori è sostanzialmente comune anche all’Europa. Stanno formandosi aspettative molto favorevoli, che hanno tuttavia elevata probabilità di essere frustrate nei prossimi mesi, dato il costante deterioramento del mercato del lavoro. Forse anche per questo motivo i mercati obbligazionari non paiono aver alcuna intenzione di scendere, e quindi di far crescere i rendimenti, malgrado il furibondo rally azionario degli ultimi sei mesi.
 

 

 

Di zombies e robots

Friday, 28 August, 2009 at 17:42 - by phastidio
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Di zombies e robots
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Mentre Wall Street continua a posporre indefinitamente l’appuntamento con la correzione, l’andamento dei corsi appare influenzato da due fattori: cinque zombies (diciamo tre zombies e due too big to fail) concentrano su di sé circa un terzo del volume di scambi, peraltro divergente con il trend rialzista di mercato. Sono AIG, Fannie, Freddie, Citigroup e Bank of America. Difficile credere che si tratti di scalpers in overdose di Red Bull, soprattutto considerando che, secondo alcune stime, il 70 per cento degli scambi azionari implica un ordine di acquisto o vendita generato da società di high frequency trading. Gli umani facciano attenzione.
 

 

 

Segnali di stabilizzazione dall’economia reale?

Friday, 28 August, 2009 at 13:42 - by John Christian Falkenberg
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I dati sul trasporto merci ferroviario negli USA sono spesso indicati come un anticipatore delle tendenze dell’economia reale: quello che viene prodotto o consumato va, per la gran parte, trasportato. Gli ultimi dati evidenziano nel breve periodo un aspetto positivo , ma giustificano poco ottimismo per il medio e lungo termine.

 

  USA - Indice trasporto merci ferroviario  
     
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La buona notizia è che abbiamo smesso di peggiorare. La cattiva notizia è che non si vede alcuna ripresa all’orizzonte: il traffico è comuncuqe in calo del 18 percento su base annuale. Quello che si può dire è che siamo in vista del fondo, ma questo non garantisce che si possa risalire prima di un lungo periodo, o che una volta toccato il fondo non si cominci a scavare.

 

 

Welcome to Japan

Sunday, 30 August, 2009 at 16:08 - by John Christian Falkenberg
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Il tasso d’interesse interbancario in dollari americani è più basso di quello per lo yen giapponese per la prima volta in sedici anni. E’ un segno di ripresa dei mercati o un segnale d’allarme per un futuro di stagnazione decennale “alla giapponese”?

Il tasso LIBOR è una delle variabili fondamentali per misurare le condizioni dei mercati monetari e la salute del sistema dei pagamenti internazionali. E’ conosciuto soprattutto per il ruolo che riveste sul mercato dei mutui, e dei prestiti ad aziende e privati, perché è il principale parametro di riferimento per i prestiti a tasso variabile, ma la sua importanza va al di là di questa funzione. Tecnicamente, il LIBOR è la rilevazione giornaliera del tasso d’interesse medio a cui le maggiori banche si prestano denaro fra loro per un determinato periodo di tempo; il tasso più osservato è quello per i prestiti a a tre mesi. Il LIBOR a tre mesi in dollari ha toccato giovedì il livello di 0.37188%; per indebitarsi in yen, una banca dovrebbe pagare il 0.38813% . Si tratta della prima volta dal Maggio 1993 in cui il LIBOR in dollari è inferiore a quello in yen.

L’interpretazione di una parte degli analisti e della stampa è stata almeno inizialmente positiva: la discesa dei tassi LIBOR segnalerebbe la fine dell’emergenza nel mercato monetario ed una normalizzazione dei flussi di liquidità. La crisi nel mercato interbancario ha innescato il calo del commercio mondiale e con esso l’inizio della recessione nei settori economici al di fuori di quello finanziario. Il ritorno ad un normale funzionamento del mercato monetario rafforzerebbe le tendenze alla stabilizzazione del quadro economico che cominciano ad emergere anche negli USA. D’altro canto, esistono fondati motivi per essere cauti. Il calo dei tassi può indicare anche una scarsa domanda di credito (un aspetto della cosiddetta trappola della liquidità): aziende, consumatori ed investitori non hanno sufficiente fiducia nelle prospettive economiche per ricominciare ad investire prendendo denaro a prestito. Ad esempio nell’Eurozona, che ha sperimentato un’analoga caduta dei tassi interbancari, la domanda di credito pare tuttora anemica.

La strada di fronte agli USA non è ancora sgombra dal rischio di una deriva giapponese. Per sedici anni, le autorità monetarie giapponesi hanno mantenuto i tassi d’interesse vicini allo zero, cercando di stimolare un’economia messa in ginocchio da una bolla immobiliare generata dall’assenza di flessibilità del mercato interno e da una precedente, eccessiva iniezione di liquidità diretta a mantenere competitivo il cambio. I risultati non sono certo incoraggianti: l’economia giapponese, pur essendo all’avanguardia in alcuni settori industriali, è rimasta stagnante per un decennio e mezzo. Agli stimoli monetari si sono affiancati quindici anni di pacchetti di stimoli fiscali senza alcun effetto, se non l’esplosione del debito pubblico. Le riforme necessarie a liberare il campo e ripartire sono state promesse, ma raramente portate avanti, in una parodia di altri membri del G7. La tentazione di rimandare riforme e rigore a tempi migliori ha portato alla prevalenza di aziende e banche “zombie”: troppo deboli per prestare denaro od investire, troppo grandi per essere risanate, troppo protette perché i concorrenti più efficienti possano scalzarle, anche tali concorrenti vengono svantaggiati dalla protezione e privati di risorse per competere, tramite la tassazione ed i prestiti di favore proprio alle aziende in difficoltà. Il risultato è una nazione di fatto paralizzata, dove le banche non sono in grado di prestare o non trovano aziende desiderose di investire.

Negli USA, lo stimolo monetario ha già superato l’esempio nipponico. Per quanto riguarda l’aspetto fiscale, le previsioni per il deficit pubblico statale sono preoccupanti e previsioni indipendenti arrivano ad ipotizzare un totale di 14 triliardi di dollari (pari a circa il 100% del PIL) in 10 anni e un’analisi delle componenti del PIL evidenzia il rischio di una ricaduta nella recessione, quando (non se) lo stimolo governativo verrà a cessare. Nel frattempo, le riforme varate dall’amministrazione Obama sembrano andare nella direzione di un aumento della regolamentazione di incerta utilità, di una maggiore ireggimentazione dell’economia, di una ulteriore cessione di potere a elementi che mirano a conservare l’esistente più che ad aprire la strada al cambiamento, di un trattamento a volte punitivo ed arbitrario degli investitori. La scelta fra le due interpretazioni del movimento dei tassi, a questo punto, diventa molto meno semplice e molto più rilevante di una mera curiosità statistica.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 
 

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