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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Sistema finanziario - Mondo

Gufi & Analisti: la tempesta perfetta sull'economia

Sistema finanziario - Mondo

America: credit crunch non così drammatico

Sentiment - Borse

Psicodramma in Borsa

Macro USA

Crisi immobiliare: quel bluff americano sui mutui

Sentiment - Borse

Sulle Borse é già orso

Sentiment - Borse

Pochi doni sotto l’albero

Italia

Fondi, crollo di fine anno (-8 miliardi)

Italia

Gli italiani non ce la fanno più a risparmiare

 

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News dal Mondo   +++  Putin vince in  Russia, buona affluenza alle urne   +++   La  Spagna supera l'Italia nella classifica dello sviluppo    +++   Ex primo ministro pakistano Bhutto resta uccisa in  attentato - Pakistan nel caos   +++   News dal Mondo

  Lunedì 03 dicembre 2007   Domenica 09 dicembre 2007   Venerdì 28 dicembre 2007  
       
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Gufi & Analisti: la tempesta perfetta sull'economia

04 Dicembre 2007 01:58 NEW YORK - di *Nouriel Roubini

*Docente della New York University e presidente di RGE Monitor
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Gli avvenimenti delle ultime settimane dimostrano che la stretta del credito e di liquidità cominciata in agosto negli Usa e in Europa non solo non è migliorata ma si è aggravata. Negli Usa quest’improvviso inasprimento e altre gravi debolezze implicano che il paese è diretto verso un’inevitabile recessione. Già la crescita di questo trimestre sarà verosimilmente prossima allo zero. Come sempre, quando gli Stati Uniti starnutiscono il resto del mondo si prende il raffreddore: in questo caso, però, gli Stati Uniti non soffriranno solo di un comune raffreddore, ma andranno incontro a una polmonite vera e propria, grave e duratura. Il resto del mondo, di conseguenza, deve prepararsi a essere contagiato dal virus in modo grave.

Prendiamo in esame lo scompiglio dei mercati finanziati. Malgrado le iniezioni nei mercati finanziari di liquidità per centinaia di miliardi di dollari e di euro praticate da agosto a oggi, a dispetto di un taglio di 75bps dei tassi di interesse effettuato dalla Fed, la stretta creditizia oggi è altrettanto grave se non peggiore di quella dell’estate scorsa. Per esempio, la differenza tra il tasso di interesse al quale le banche statunitensi ed europee si concedono reciprocamente prestiti relativamente ai sicuri rendimenti governativi di maturità simile rappresenta una misura della avversione al rischio e ai rischi della controparte finanziaria.
Questa differenza è tornata ancora recentemente a quei massimi che segnalano che i mercati finanziari sono quasi nel panico. Il motivo per il quale una simile massiccia iniezione di liquidità e una politica monetaria piu’ espansiva sono miseramente fallite è che il sistema finanziario non ha sperimentato soltanto illiquidità, ma anche seri e gravi problemi di credito e d’insolvenza. La politica monetaria non può risolvere le questioni di insolvenza. Effettivamente, ci sono due milioni o più di famiglie americane che probabilmente saranno insolventi e non onoreranno i loro mutui; decine di enti erogatori di mutui hanno già fatto bancarotta; moltissimi imprenditori edili subiranno gravi perdite e dovranno chiudere l’attività; ci sono istituti finanziari di tutto il mondo (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Australia e così via) fortemente che hanno fatto investimenti avventati e sono falliti; e adesso che l’economia andrà in recessione perfino le insolvenze delle grandi imprese inizieranno ad aggravarsi e crescere di numero.
Come se non bastasse, l’entità delle perdite finanziarie è sconvolgente e peggiora di giorno in giorno: finora gli istituti finanziari hanno ammesso perdite per circa 50 miliardi di dollari, ma una molteplicità di analisti stima che le perdite totali dovute ai soli subprime potrebbero arrivare a una cifra compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari. Si aggiungano a ciò le perdite dovute ai mutui nearprime e prime, le perdite per le carte di credito e i prestiti automobilistici le cui percentuali di insolvenza si stanno moltiplicando, le perdite dovute alle proprietà commerciali che hanno vissuto un boom e sperimentato una bolla simile a quella immobiliare, e infine le perdite che le banche subiranno concedendo prestiti alle imprese e nei finanziamenti di LBO. Tutto ciò potrebbe portare a perdite per una cifra sconvolgente, nell’ordine del milione di miliardi di dollari. Considerata poi l’entità di tali perdite, la necessaria contrazione del credito da parte di istituti finanziari che hanno un capitale inferiore potrebbe ridurre la capacita’ di creare credito – e provocare quindi una massiccia stretta del credito – dell’ordine di svariati trilioni di dollari americani.
A sua volta, una simile stretta del credito renderà minore la quantità di credito e alzerà i costi per le famiglie, le aziende e gli enti debitori in generale, riducendo la domanda aggregata di consumi e investimenti. Come se non bastasse, considerata la globalizzazione finanziaria e di cartolarizzazione queste perdite non colpiranno soltanto le banche, ma anche le banche di investimento, i fondi di copertura, i fondi di investimento, i fondi del mercato monetario, SIV e Conduits, e società di assicurazioni degli Stati Uniti e di tutto il mondo. Di conseguenza il contagio finanziario si estenderà dalle banche al resto del sistema finanziario, e dagli Stati Uniti all’Europa e al resto del mondo, aumentando il rischio di una crisi finanziaria sistemica. Questa è in realtà la prima crisi della globalizzazione e securitizzazione finanziaria.
Non meraviglia a questo punto che i principali mercati finanziari si trovino adesso in una crisi di credito e di liquidità: i mercati interbancari, i SIV finanziati da ABCP, i mercati di cartolarizzazione, i mercati derivati, i mercati di LBO, i prestiti frazionati e i mercati CLO. Considerata l’incertezza sull’entità delle perdite e su chi sia in possesso di asset "contaminati", tutti temono le loro controparti e accumulano liquidità. Questa è ciò che si ottiene per aver creato un sistema finanziario caratterizzato da meno trasparenza, più opacità, mancanza di informazioni e di limpidezza finanziaria.

Negli Stati Uniti la stretta di liquidità e di credito, le perdite ingenti subite dagli istituti finanziari per i loro prestiti e mutui sconsiderati, la peggior recessione edilizia della storia degli Stati Uniti, unitamente all’odierna caduta libera dei prezzi delle case, al prezzo del petrolio ai suoi massimi storici e a un consumatore medio fragile implicano che gli Stati Uniti vivranno – a partire dall’inizio del 2008 – una grave e dolorosa recessione. Il consumatore medio americano, che risparmia poco ed è sovraccarico di debiti, è oggi a un punto di fragilità severa: non può più usare la propria casa per ottenere soldi con un rifinanziamento e spendere più di quello che guadagna, visto che il valore della sua casa è in caduta.
Questo consumatore è colpito da molti shock negativi: la caduta delle prezzo delle case, il calo del finanziamento diretto dei consumi via prestiti collaterali che usano la casa come accessorio finanziario, un indebitamento maggiore dovuto al più alto servicing ratio, una stretta creditizia per l’abitazione e il credito al consumo, i prezzi del petrolio e della benzina in impennata, un mercato del lavoro indebolito e, quanto prima, un mercato azionario in calo. Gli aiuti dalla Fed non eviteranno l’imminente recessione, poiché arriveranno troppo tardi e saranno troppo inadeguati, anche perché la politica monetaria diventa meno efficace quando si ha un grande eccesso di offerta di case, di beni di consumo durevoli, di automobili e di motoveicoli. Occorreranno anni per smaltire questa sovrabbondanza.
Il resto del mondo – Europa inclusa – finora si era illuso di potersi dissociare dal rallentamento degli Stati Uniti. Ciò potrebbe accadere soltanto se gli Stati Uniti avessero un atterraggio morbido: se invece gli Stati Uniti dovessero atterrare sul duro nella recessione non ci sarà modo di prendere le distanze e la crescita globale subirà un forte rallentamento. L’Europa, oltre tutto, potrebbe essere una delle prime vittime di questo duro atterraggio degli Stati Uniti. Non solo il sistema finanziario europeo non si è ancora dissociato da quello americano, ma da agosto è stato esposto a un contagio ancora maggiore. E poiché le aziende europee dipendono dai prestiti bancari più di quelle statunitensi, la stretta del credito colpirà il settore delle aziende europee e la loro capacità di produrre, assumere e investire. Si tenga anche conto che il boom e la bolla edilizia non si sono limitati agli Stati Uniti: simili bolle hanno interessato la Spagna, il Regno Unito, l’Irlanda e in scala minore la Francia, il Portogallo, l’Italia e la Grecia. In questo periodo le bolle edilizie stanno iniziando a sgonfiarsi in tutta Europa, contribuendo di fatto a rischi di rallentamento della crescita.
Si aggiunga poi ai problemi dell’Europa la forza dell’euro, che sta pesantemente riducendo la concorrenza esterna all’eurozona, e non dimentichiamo l’imminente indebolimento della domanda di prodotti europei in ragione della pesante caduta della crescita degli Stati Uniti. Nel frattempo, mentre la Fed ha già iniziato a tagliare aggressivamente i tassi di interesse, la Banca centrale europea si illude di poter alzare ulteriormente i propri tassi una volta superata la cosidetta "temporanea" stretta finanziaria. Quello che la Bce dovrebbe fare, al contrario, è iniziare a tagliarli adesso. Prendere tempo come fece nel periodo 2001 2002 – garantirà soltanto una cosa: che il contagio negativo dagli Stati Uniti all’Europa sarà più grave e più duraturo.
Pertanto, sussistono tutte le condizioni perché una "tempesta perfetta" – di natura finanziaria ed economica – negli Stati Uniti si diffonda in Europa e in tutto il mondo. Come disse una volta Bette Davis in "All About Eve": «Allacciate le cinture e tenetevi forte: sarà una corsa piena di scossoni!».

 

Traduzione di Anna Bissanti - Fonte - La Repubblica

 

 

 

America: credit crunch non così drammatico

09 Dicembre 2007, MILANO - di Vincenzo Sciarretta

Intervista a Kenneth Arrow, premio Nobel in economia.
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«I ristoranti sono pieni come al solito. E gli imprenditori si lagnano piuttosto di non trovare abbastanza lavoratori qualificati che della crisi immobiliare». Ascoltare Kenneth Arrow, premio Nobel dell'economia per il 1972, equivale a una fresca ventata di ottimismo. Perché Arrow insegna a Stanford, nel cuore della Silicon Valley, una delle zone più duramente segnate dalla frenata dell'edilizia. In effetti, tutta la California è il teatro di una brusca gelata dell'attività residenziale. Stando ai dati ufficiali, il numero di compravendite è crollato in un anno del 48% a Los Angeles e del 32 a San Diego. «Eppure - dice Arrow - non vi è traccia del temuto effetto contagio sui consumi e sulle altre attività produttive».
«La mia impressione - aggiunge - è che siccome tutti hanno prefigurato le turbolenze dell'edilizia e del credito, gli effetti saranno meno drammatici di quanto si possa immaginare».
Forse si è diffuso troppo pessimismo fra gli economisti? Forse sì, anche perché bisogna sottolineare la celerità con cui le banche stanno svalutando gli attivi di bilancio. Una bella differenza rispetto al Giappone degli anni '90, quando montagne di crediti inesigibili venivano lasciati a incancrenirsi nella pancia degli istituti finanziari. Mi pare che l'America stia reagendo in modo rapido e appropriato. Una volta fatte le pulizie, l'economia potrà tornare a una nuova prospettiva di vita.
Dunque, niente recessione in vista? Questo non lo so. Come diceva Niels Bohr, fare previsioni è difficile, soprattutto riguardo al futuro. Però, credo che anche se avremo una recessione, sarà piuttosto moderata. Non dimentichiamo come nel 2001 vivemmo solo qualche trimestre di tentennamento, nonostante il Nasdaq fosse sprofondato del 70 per cento.
Si avvicinano le presidenziali del 2008. Quale saranno le sfide più importante che dovrà affrontare la nuova amministrazione? A mio modo di vedere, i prossimi quattro anni saranno caratterizzati da un aumento della pressione fiscale. Naturalmente nessun candidato lo confesserà mai. Tuttavia emergono nella società americana delle istanze nuove.
Per esempio? Quella di una copertura sanitaria generalizzata. Gli Stati Uniti sono la massima potenza economica mondiale, ma una larga fetta della sua popolazione non ha una copertura.
Ci sono altre sfide per la nuova amministrazione della Casa Bianca? Un secondo aspetto riguarderà forse le rivendicazioni salariali. La polarizzazione dei redditi in favore delle fasce più abbienti ha relegato in un angolo la borghesia. Il lavoratore medio se la passa grosso modo come quindici anni fa. È quindi probabile che inizi a chiedere una fetta della torta.
Nel complesso, come giudica questo periodo del capitalismo? Molto positivamente. Sono gli anni di maggiore prosperità nella storia moderna.

 

Fonte - Finanza&Mercati

 

 

 

 

Usa, Contro la crisi varato il Superfondo

10 Dicembre 2007 - di MiaEconomia
 

Chi rompe, paga. questo il ragionamento che sta alla base delle operazioni che le grandi banche a stelle e strisce stanno ponendo in essere in questi ultimi mesi del 2007, consapevoli che alla base delle crisi del mercato del credito c'è la poca fiducia che loro hanno messo in circolazione.
Per questo motivo, dopo il congelamento delle rate sui mutui, arriva il 'SuperSiv': Bank of America, Citigroup e JPMorgan hanno finalmente trovato la quadratura del cerchio sull'atteso maxi-fondo di salvataggio, visto come ancora di salvezza per evitare il potenziale crollo dei veicoli d'investimento nella finanza strutturata che hanno portato sull'orlo del baratro diversi istituti di credito e fondi speculativi. Con il maxi-fondo le tre banche puntano a raccogliere da 75 a 100 miliardi di dollari, in parte provenienti dalle loro stesse casse, in parte dalle sottoscrizioni delle altre banche che vorranno aderire all'iniziativa.
A sostenerle non c'é soltanto la potenza di fuoco finanziaria delle tre maggiori banche statunitensi. C'é anche l'appoggio del segretario del Tesoro americano Hank Paulson, che vuole scongiurare l'impatto distruttivo della potenziale bancarotta di una banca, e che assieme al presidente George Bush ha appena annunciato il congelamento delle rate sui mutui, per evitare una valanga di pignoramenti.
E a gestire il SuperSiv, che ha il nome tecnico di 'Master Liquidity Enhancement Conduit' (M-LEC), sarà BlackRock, garanzia di credibilità ed esperienza nella gestione dei rischi.
Da lunedì mattina inizierà il giro di incontri per raccogliere il massimo possibile di adesioni (e quindi soldi) dagli altri istituti che, a livello globale, vorranno partecipare. Bank of America e soci vogliono arginare la corsa al ribasso del valore degli attivi dei SIV (Special Investment Vehicle), facendoli acquistare da parte del 'SuperSiv' per sostenerne i prezzi.
I SIV, finiti all'epicentro della crisi de mutui, lucrano su un principio ben noto: prendere in prestito soldi a breve termine, e reinvestirli a lungo. Hanno cioé investito miliardi di dollari in titoli garantiti da mutui ad alto rischio come i 'subprime', e per finanziarsi si sono indebitati emettendo debito a breve termine chiamato 'commercial paper'.
Da quando è esplosa la crisi dei mutui, però, la scarsità di liquidità che ha colpito i mercati ha lasciato i 'SIV' a secco, costringendoli a svendere i titoli in cui hanno investito, unico modo per ripagare i propri debiti la cui scadenza a breve è diventata una tagliola. Una corsa al ribasso dei prezzi dagli effetti potenzialmente disastrosi.
Ma il successo del piano non è garantito. Secondo il Financial Times "il progetto è cattivo quasi come i problemi che intende risolvere". Perché il maxi-fondo "potrà soltanto comprare titoli ad elevato rating (non quelli garantiti da subprime)", senza riuscire ad evitare una svendita di quelli più rischiosi.
E perché - scrive il quotidiano della City - "il 'rischio sistemico per le banche' non c'é, visto che la maggior parte di queste attività sono nelle mani degli hedge fund, non delle banche".

 

 

 

 

 

  Giovedì 06 dicembre 2007   Giovedì 06 dicembre 2007   Mercoledì 12 dicembre 2007  
       
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GR1 RAI - 03 DIC. ore 23:00

   

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GR1 RAI - 06 DIC. ore 23:00

   

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GR1 RAI - 10 DIC. ore 23:00

   

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Attenti: la crisi subprime tocca anche noi

12 Dicembre 2007 13:54 LUGANO - di Alfonso Tuor
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La Federal Reserve ha tagliato ieri sera di un quarto di punto i tassi di interesse americani. La banca centrale ha anche fatto intendere che continuerà ancora a ridurre il costo del denaro per evitare che l’economia americana cada in recessione o subisca un forte rallentamento. La politica della Federal Reserve è un importante tassello di un insieme di provvedimenti tesi, da un canto ad arginare la crisi del mercato immobiliare americano affinché quest’ultima non incida negativamente sui consumi e, dall’altro, ad evitare una crisi del sistema bancario dovuta alla perdita di valore dell’enorme quantità di titoli in circolazione con cui sono stati finanziati non solo i mutui ipotecari più a rischio, ma anche l’enorme volume di crediti erogati negli ultimi anni.
Quindi, si deve agire contemporaneamente su due fronti: da un lato, bisogna evitare che il peggioramento delle condizioni di salute dell’economia reale aumenti la quantità dei crediti inesigibili e la caduta dei prezzi degli immobili e quindi peggiori ulteriormente la crisi del sistema bancario e, dall’altro, occorre creare le condizioni perché le banche riescano a digerire le loro perdite senza destabilizzare l’intero sistema. I pezzi del puzzle sono a questo punto chiari.
Il primo è una forte riduzione dei tassi di interesse e la disponibilità delle banche centrali di approvvigionare di liquidità il sistema bancario occidentale. Gli effetti di questa politica monetaria sulla crescita economica non sono ancora chiari. È invece già certo un suo parziale fallimento: non è ancora riuscita ad allentare la tensione sul mercato monetario ed interbancario, dove la differenza con i tassi base non è stata così ampia nemmeno nei giorni più bui della crisi, ossia nello scorso mese di agosto.

Il secondo tassello è il piano dell’amministrazione Bush di mettere un tetto all’aumento dei tassi ipotecari per evitare un’esplosione del numero dei pignoramenti e un’accelerazione della crisi del mercato immobiliare. Questo provvedimento risponde più a logiche di demagogia politica piuttosto che a ragioni economiche. Infatti si stima che ne potrebbero beneficiare circa 300mila famiglie, ben poche rispetto alle famiglie, si stima attorno ai 2 milioni, che sono a rischio di vedersi pignorare la propria casa. Inoltre questo provvedimento ha scarsa o punto influenza sui prezzi delle case che per la prima volta dalla Grande Depressione degli anni Trenta sono in calo in tutti gli Stati dell’Unione per ogni tipologia di oggetto immobiliare.
Il terzo tassello è una ricapitalizzazione del sistema bancario facendo ricorso ai fondi sovrani dei paesi asiatici e del Medio Oriente e, ove ancora non bastasse, la creazione di un veicolo finanziario speciale (chiamato SuperSiv), dove parcheggiare i titoli finanziari legati ai mutui subprime per dare tempo alle banche di smaltire le perdite. La crisi del sistema bancario è infatti talmente grave da spazzar via il «protezionismo finanziario» invocato da governi ed ambienti finanziari per impedire che i gioielli di famiglia dell’Occidente cadano in mano agli Stati arabi e a quelli asiatici. Detta in altro modo, la crisi creata dalla grande finanza fa sì che questa stessa grande finanza è costretta ad andare ad implorare l’aiuto di questi paesi, come hanno già fatto UBS, l’americana Citigroup, la belga-olandese Fortis ed altre ancora.
Dal successo di questo piano americano dipendono anche le sorti di alcune grandi banche, come UBS. Infatti, se questo programma non avesse successo, le perdite della maggiore banca svizzera non si limiterebbero agli 11 miliardi di franchi, annunciati lunedì scorso, e ai 4 miliardi di franchi già iscritti nei conti del terzo trimestre. Inoltre, molto probabilmente non basterebbe nemmeno la ricapitalizzazione della banca attuata grazie agli 11 miliardi di franchi dello Stato di Singapore e ai 2 miliardi di un investitore del Medio Oriente.
Sta di fatto che le perdite di UBS in queste operazioni le pagheremo un po’ tutti. La tassa sarà una perdita di gettito fiscale di alcune centinaia di milioni. Per il solo Canton Ticino la perdita di gettito supererà i 20 milioni di franchi, cui devono aggiungersi le perdite dei Comuni ed in particolare quelle di Lugano (attorno ai 13 milioni di franchi), Manno e Chiasso. Dunque la crisi dei mutui subprime non è una faccenda d’oltre Atlantico che ci tocca solo di striscio. Essa si manifesta anche da noi e le perdite di UBS sono solo l’inizio di questa vicenda, il cui epilogo dipenderà dall’evoluzione della crisi del mercato immobiliare americano e dall’entità del rallentamento dell’economia statunitense. I dati contrastanti provenienti dagli Stati Uniti non permettono ancora di capire come si concluderà questa crisi causata dalle grandi banche internazionali e dai diabolici meccanismi della nuova ingegneria finanziaria. Ma in ogni caso è certo che vi saranno nuove spiacevoli sorprese.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

Giallo: Perchè la FED non è intervenuta ieri ?

12 Dicembre 2007 17:17 NEW YORK - di WSI
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Nel piu' massiccio intervento coordinato sui mercati finanziari dall'11 settembre 2001, la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e tre altre grandi banche centrali hanno annunciato che metteranno a disposizione decine di miliardi di dollari di liquidita' per alleviare la crisi del credito che sta minacciando la crescita economica a livello globale (leggi il comunicato ufficiale della Fed).
La Fed rendera’ disponibili alla BCE e alla Banca Nazionale Svizzera $24 miliardi nel tentativo di incrementare l’offerta di dollari in Europa. La Banca Centrale Usa iniettera’ nuovo denaro nel sistema finanziario globale anche attraverso quattro diverse "aste" (due gia’ nel mese di dicembre) relative all’offerta di altri $40 miliardi. Il piano di interventi coordinati servira' secondo alcuni economisti anche per innescare un meccanismo tale da abbassare in Europa il tasso interbancario sul dollaro, con il Libor come target specifico della manovra.
La decisione arriva all’indomani dei taglio al costo del denaro effettuati dalla Fed, dalla Bank of England e dalla Banca Canadese che avevano fallito nell’alleviare i timori degli investitori su un possibile ingresso dell’economia in una fase di recessione.
"Si tratta di un’azione scioccante" ha detto a Bloomberg Fred Goodwin, fixed-income strategist di Lehman Brothers. "Il fatto che l’operazione sia coordinata significa che le Banche Centrali hanno deciso di unire le forze per attaccare alla radice il problema, le banche non hanno piu’ fiducia le une dalle altre".
"E' sicuramente un’importante risposta di politica monetaria su vasta scala per far fronte al deterioramento delle condizioni del mercato del credito a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi", commenta Neil MacKinnon, chief economist dell’hedge fund ECU Group di Londra. "Il problema maggiore sul mercato creditizio non e' che i tassi sono troppo alti, ma che le istituzioni finanziarie sono riluttanti a prestare denari. Questa mossa coordinate della Fed con le altre banche centrali per immettere liquidita' dovrebbe allentare in parte le pressioni" dice Alan Skrainka, economista di Edward Jones.
"La Fed deve fronteggiare condizioni di mercato senza precedenti in tempi moderni" ha detto al Wall Street Journal Ian Shepherdson, capo economista di High Frequency Economics. "Penso che queste misure siano un passo nella giusta direzione, ma non c'e' modo di sapere per certo quanto saranno efficaci. La domanda cruciale e': per quale motivo la Fed non ha fatto questo annuncio ieri, al momento della decisione sui tassi, senza quindi cercare di evitare che la borsa fosse enormemente delusa (dal taglio di appena lo 0.25%). Gran parte della sofferenza a Wall Street di ieri sarebbe stata evitata, se la Fed avesse semplicemente avvertito che oggi avrebbe fatto lo stesso annuncio che poi in effetti ha fatto. Al fondo, comunque, queste misure sono importanti, ma non impediranno all'economia di scivolare in basso nel breve termine".
Dello stesso parere (per quale motivo la Fed non e' intervenuta ieri?) anche Joseph Brusuelas, di IDEAglobal: "Questo piano coordinato chiaramente non e' stato messo in piedi in fretta e furia durante la notte. L'unica domanda che abbiamo e': per quale motivo non e' stato annunciato ieri in parallelo al deludente comunicato sulla politica monetaria del FOMC?".
Altri economisti mettono in evidenza che la Fed avrebbe potuto abbassare direttamente i fed funds e il tasso di sconto di 50 punti base, invece di ridurre dello 0.25% e annunciare il giorno dopo l'immissione coordinata di liquidita' con le altre banche centrali. Il fatto che la Federal Reserve intenda fornire denaro alle banche attraverso il sistema delle aste (2 a dicembre e 2 a gennaio) lascia pensare alla volonta’ della Banca Centrale di controllare il livello di liquidita’ immessa sul mercato. Un maggiore abbassamento del tasso di sconto (il tasso applicato alle istituzioni finanziarie sui prestiti ottenuti direttamente dalla Fed) avrebbe potuto avere effetti meno immediati e significativi.
"Il problema principale del mercato non e’ legato ai tassi d’interesse troppo alti, bensi’ alla recente riluttanza delle istituzioni finanziarie a concedere credito. La nuova liquidita’ garantita dalla Fed dovrebbe finalmente ridurre le forti pressioni che hanno messo in ginocchio il comparto finanziario negli ultimi mesi", ha concluso Alan Skrainka, chief market Strategist di Edward Jones.
Ed ecco l'opinione di Giacomo Vaciago, pubblicata dal Sole24Ore.com: "Da mesi ci domandavamo perche' le banche centrali non facevano in intervento comune visto che il problema più comune di così non poteva essere. Bene: finalmente ci hanno fatto sapere di essersi accorte che il problema non è circoscritto a Francoforte o a Londra ma è gloable perché globali sono i grandi intermediari e i mercati finanziari. Così come è globale il mercato della liquidità su cui operano le banche centrali, in diverse ore della giornata.
Come si è visto alle ultime tre riunioni dei board, la settimana scorsa a Francoforte e a Londra e ieri a Washington, il mercato globale pretende sempre di piu' da ciascuna banca centrale. Le Borse, infatti, avevano reagito male alle decisioni di politica monetaria, anche per il sommarsi delle maggiori esigenze di liquidità tipiche dell'ultimo mese dell'anno alla situazione già determinata dalla crisi dei mutui subprime. L'intervento congiunto di oggi alimenta la speranza che, quando a febbraio conosceremo - si spera - la reale situazione dei conti bancari, il mercato monetario si normalizzi e la tensione sui tassi di interesse si allenti".

 

Fonte - WallStreetItalia.com


 

 

 

Psicodramma in Borsa

14 Dicembre 2007 17:02 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
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Oscillanti tra paura e avidità, senza che l’una riesca a spiazzare l’altra, i mercati si suonano e si cantano il De Profundis e l’Inno alla Gioia a ore alterne e si convincono per autosuggestione, spesso senza supporto alcuno dal mondo reale, che la recessione è ormai inevitabile o che, al contrario, ormai ce l’abbiamo fatta e siamo fuori dal guado. Da due mesi va in scena lo psicodramma del taglio dei tassi, che ha avuto finora due repliche quasi identiche.
Prima si spera in 25 punti base e si darebbe l’anima per averli, poi la Fed fa sapere che acconsente. Il mercato festeggia, ma dopo qualche ora a qualcuno viene in mente che i 25 potrebbero diventare 50, mai porre limiti alla provvidenza. La voce isolata si fa rapidamente coro e il fuoco dell’entusiasmo divampa nei cuori assetati di speranza. Dopo qualche giorno i 50 diventano certezza, tutti dicono di vederli splendere in un alone di luce e di poterli toccare con le mani imploranti. Alla data stabilita la Fed consegna esattamente quanto promesso ma i 25 punti per i quali si era pure festeggiato diventano ora causa di disperazione e di risentimento contro il Fomc dei professori parrucconi e duri di cuore che ci porterà diritti alla recessione.

Lo psicodramma viene vissuto in modo sempre più concitato anche perché si avvicina la fine dell’anno e nessun gestore può permettersi di sbagliare. Si è quasi tutti più o meno convinti che l’anno si chiuderà con un rally, ma non è dato sapere se il rialzo è per l’ultimo mese, per l’ultima settimana, per l’ultimo giorno o per l’ultima ora, per cui c’è sempre tempo per scendere, all’occorrenza.
Dal mondo reale, intanto, arrivano segnali tanto costanti e regolari quanto volatili e stravolte sono le rappresentazioni mentali che se ne fanno i mercati. I segnali sono di tre tipi. Il primo è dato dal flusso martellante di comunicazioni di perdite, svalutazioni e "write off" provenienti dal mondo della finanza. Queste operazioni dovevano essere finite in agosto, sembravano completate ai primi di novembre e vengono date per vicine all’esaurimento oggi. In realtà, pur con le cifre imponenti annunciate negli ultimi giorni, continuano a non tornare i conti. Tra il buco complessivo stimato top down e gli scheletri finora scoperti negli armadi e annunciati bottom up c’è un divario di parecchie decine di miliardi che induce a pensare che ci sarà un flusso di scheletri emergenti ancora per qualche mese.
Il secondo flusso di dati di segno costante e regolare proviene dalle economie reali. Dopo il brusco calo di velocità registrato in tutto il mondo, da due mesi in qua si procede a velocità stabile (molto bassa negli Stati Uniti, media in Europa, alta ma non altissima in Asia e qualche sobbalzo in Giappone). Dire che si sta rallentando, se si sta ai fatti, è quindi fuorviante e dà un’idea più negativa del dovuto. Naturalmente nulla vieta che ci siano dietro l’angolo nuovi rallentamenti (e per i consumi americani questo appare piuttosto probabile), ma è sempre bene distinguere i fatti accertati dalle ipotesi, per legittime che siano.
In realtà, le stime macro per il primo e secondo trimestre, quelle cioè che, essendo vicine, contengono meno metafisica di quelle più lontane, non sono così brutte come si potrebbe pensare. I più pessimisti di tutti, a quanto ci consta, danno crescita zero negli Stati Uniti e rallentamento ulteriore, ma non drammatico, nel resto del mondo. Qua e là, a ben vedere, si intravede addirittura qualche riaccelerazione in Europe e in America nel primo trimestre.
Il terzo flusso di segnali regolari arriva dalle banche centrali, che agiscono ormai da agosto su due binari separati. Il primo è il binario generale, quello in cui si cerca di conciliare il sostegno alla crescita con la prevenzione dell’inflazione. Su questo binario viene di fatto mantenuto un atteggiamento il più possibile composto, fatto di stabilità in Europa e di graduali e cauti ribassi dei tassi in America. Mantenere questa compostezza sarà in futuro ancora più difficile e stressante. Da una parte c’è chi guarda lontano come l’Ocse e raccomanda di non tagliare più, pena il ripetere errori passati che hanno portato a bolle e inflazione, dall’altra c’è la richiesta pressante e quasi ricattatoria di banche e mercati che vorrebbero i tassi a zero (salvo poi volerli a infinito quando, come nel marzo 2006, si scoprono all’improvviso rischi d’inflazione). Tirata da tutte le parti la Fed, per quello che si può supporre oggi, taglierà ancora due, forse tre volte (e la Bce, forse, una).
Quanto al secondo binario, quello dedicato alle banche, le banche centrali continuano a trasmettere lo stesso segnale. Faremo, dicono, tutto quello che occorre per garantire liquidità al sistema. Tutto. Visti dai mercati, questi tre flussi regolari di dati dal mondo reale dovrebbero indurre a una certa cautela, ma non a situazioni di tensione o di panico. Molti strategist dicono anzi che questa cautela è eccessiva e che il costante calo dei tassi di policy dovrebbe portare a un riprezzamento del premio per il rischio e a un recupero dei corsi di azioni e crediti. Chi dice questo aggiunge quasi sempre, a mo’ di disclaimer, che questa idea vale finché non c’è recessione. Nel qual caso ci sarebbe invece parecchio spazio per scendere, guardando ai casi passati.
In questo modo si produce un range di previsione amplissimo che poggia, nei due estremi, su differenze modeste nei livelli di crescita. Basta che l’America cresca dell’uno per cento e si può andare verso un fair value ben più alto dei livelli attuali, ma d’altra parte basta scendere a crescita zero per giustificare un significativo ribasso. I mercati, che al di là delle convulsioni e delle autosuggestioni mostrano un certo equilibrio di fondo, devono sistemarsi tra queste due ipotesi e ci sembra giusto che, come mostrano i livelli attuali, si sbilancino in una certa misura dal lato della prudenza.
Se ipotizziamo che i prossimi tre-sei mesi vedano ancora prodursi svalutazioni di bilancio, crescita ridotta e tagli dei tassi allora i mercati non dovrebbero allontanarsi troppo da dove si trovano adesso. Il lungo viaggio verso il fair value, se si vuole che sia sicuro, sarà bene che cominci più avanti, quando la situazione di crediti si sarà normalizzata sul serio e quando si avrà qualche certezza in più sulla tenuta dei consumi negli Stati Uniti.
Lo stesso ragionamento va fatto per il dollaro. Ci sembra legittimo passare da negativi a neutrali (e iniziare a smontare almeno parzialmente le coperture che abbiamo raccomandato in questi anni), ma ci sembra ancora presto per diventare positivi. Perché il dollaro possa iniziare il suo cammino verso il fair value, oltre alla normalizzazione dei crediti e alla tenuta dei consumi occorrerà avere qualche altra conferma sul trend di riduzione del disavanzo delle partite correnti. Attenzione dunque, sul dollaro, alle false partenze.

 

Fonte - Il Rosso e il Nero


 

 

 

 

La mossa delle Banche Centrali

14 Dicembre 2007 - di MiaEconomia
 

Non si era mai visto, o meglio, non si vedeva dal post 11 settembre, ma allora c'era stato un fattore esterno e non prevedibile a rendere necessario l'intervento. Ora è diverso.
Tanto diverso da obbligare La Federal Reserve a muove d'urgenza contro il rischio 'credit cruch' causato dalla crisi dei mutui subprime, e la Fed prva a farlo attraverso un piano straordinario di liquidità da pompare sui mercati d'intesa con le grandi banche centrali mondiali, Bce in testa.
A sorpresa l'istituto guidato da Ben Bernanke annuncia la più grande manovra di cooperazione internazionale dagli attentati terroristici dell'11 Settembre 2001, coinvolgendo oltre alla Banca centrale europea, la Banca d'Inghilterra, la Bank of Canada e la Swiss National Bank.
La Fed spiega in una nota di aver definito un nuovo programma d'aste di finanziamenti temporanei (temporary auction facility, Taf) da iniziali 40 miliardi di dollari per rendere disponibili risorse a favore degli istituti di credito, oltre ad aver autorizzato un regime temporaneo di reciprocità valutaria (linee di swap), della durata massima di sei mesi, con Bce e Banca nazionale svizzera, dell'ammontare, rispettivamente di 20 e 4 miliardi di dollari.
In altri termini, lo scopo non è aumentare la liquidità netta in circolazione, ma finanziare di fatto le banche più a lungo termine in base al 'term funding market' (con prestiti ad esempio di un mese), piuttosto che sul pronti contro termine.
"Il fatto che l'azione sia coordinata significa che c'é l'unità degli sforzi per dichiarare guerra al problema", nota Fred Goodwin, strategist di Lehman Brothers. Malgrado il taglio dei tassi di riferimento da parte delle banche centrali di tutto il mondo, esclusa la Bce, la liquidità sui mercati non si è normalizzata al punto che i tassi interbancari (primi tra tutti quelli negli Usa) sono spesso tornati sopra i benchmark.
"C'é la possibilità che l'azione annunciata dalla Fed, rinforzata dal coordinamento globale, possa contenere il contagio e ammorbidire i tassi interbancari su scala mondiale, non solo negli Usa", rileva Ian Morris analista di Hsbc.
La Fed si riserva di effettuare iniziative aggiuntive nei prossimi mesi in funzione dell'evoluzione dei mercati, mentre l'esperienza acquisita quanto al piano di finanziamento del credito sarà utile per valutare la potenziale utilità degli strumenti di politica monetaria della Federal Reserve, con la creazione di una struttura permanente per le aste.

 

 

 

 

 

Mercoledì 19 dicembre 2007   Mercoledì 19 dicembre 2007   Venerdì 28 dicembre 2007
   
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Crisi immobiliare: quel bluff americano sui mutui

18 Dicembre 2007 13:29 NEW YORK - di Paul Krugman
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Per gli standard dell’amministrazione Bush, il segretario del Tesoro Henry Paulson è sicuramente una brava persona. Non è visibilmente incompetente, non sta cercando di portarci in guerra fraudolentemente, non giustifica la tortura, non protegge contrattisti corrotti. Le sue iniziative però riflettono le priorità dell’amministrazione per la quale presta servizio. E’ questo ciò che non va del suo piano di salvataggio ideato per risolvere la crisi dei mutui. Secondo un editoriale del New York Times, il piano è «troppo poco, troppo tardi e troppo facoltativo», ma teniamo presente che dal punto di vista dell’amministrazione queste non sono pecche ma tratti caratteristici.
Tra gli osservatori finanziari cresce infatti il consenso su un punto: il piano di Paulson non è concepito più di ogni altra cosa per dare risultati concreti. Suo intento, piuttosto, è creare l’illusione di un intervento, minando in tal modo il supporto politico ai tentativi concreti di aiutare le famiglie nei guai. In particolare, il piano di Paulson è con ogni probabilità un tentativo di togliere supporto a Barney Frank, presidente democratico della Commissione della Camera per i Servizi Finanziari, sostenitore di una proposta di legge che nei casi di bancarotta concederebbe ai giudici il potere di riscrivere i termini dei mutui ipotecari. Ma, come scrive il Congress Daily, «le banche sperano che il piano di Bush per la crisi dei subprime mandi all’aria la proposta della Camera».
Elizabeth Warren, esperta in bancarotta a Harvard, dice: «Il piano per i mutui subprime dell’Amministrazione è il sogno della lobby delle banche» e, considerati i trascorsi della stessa Amministrazione Bush, ciò non dovrebbe sorprendere più di tanto. Ci sono infatti tre precise preoccupazioni legate all’ondata crescente di pignoramenti in America. La prima è la stabilità finanziaria: se le banche e gli altri enti subiscono enormi perdite per i loro investimenti legati ai mutui, è l’intero sistema finanziario nel suo complesso a risentirne e traballare. La seconda è la sofferenza in termini umani: centinaia di migliaia, probabilmente milioni, di famiglie americane perderanno la loro casa.
Terza, infine, è l’ingiustizia: il boom dei subprime ha comportato prestiti da avvoltoi – prestiti ad alto tasso di interesse rifilati a sottoscrittori che si qualificavano per tassi molto inferiori – su scala spettacolare. Il Wall Street Journal ha scoperto che più del 55 per cento dei prestiti subprime concessi all’apice della bolla edilizia "sono stati erogati a persone con punteggi creditizi abbastanza alti da qualificarsi spesso per prestiti convenzionali a termini di gran lunga migliori". E nel mercato edilizio in forte calo, queste vittime si ritrovano ora nei guai, impossibilitate a rifinanziare.
Questi, dunque, i tre problemi. Il piano di Paulson – altrimenti detto, con il suo nome ufficiale, il "Piano Alleanza di Speranze" – si concentra invece esclusivamente sulla riduzione delle perdite per gli investitori. Qualsiasi minimo aiuto possa fornire ai mutuatari è chiaramente del tutto marginale. E in più non offre assolutamente nulla alle vittime dei prestiti capestro. Il piano prospetta linee guida facoltative in virtù delle quali alcuni mutuatari – e soltanto alcuni – le cui rate del mutuo sono destinate ad aumentare potrebbero ottenere un sollievo temporaneo.
Si presume che ciò debba aiutare invece gli investitori, perché il pignoramento di una casa ipotecata è costoso: ci sono enormi spese legali da affrontare e la casa in genere si vende in seguito a un valore nettamente inferiore a quello del prestito. «Il pignoramento non costituisce un vantaggio per nessuno» ha detto Paulson nel corso di un forum interattivo della Casa Bianca. «Ho sentito dire che da alcune stime risulta che gli investitori dei mutui perdono dal 40 al 50 per cento del loro investimento, se si arriva al pignoramento».
Ma non avrebbero anche da guadagnarci? Non se gli ideatori del piano riescono a evitarlo. Gli aiuti sono limitati ai mutuatari il cui indebitamento dovuto al mutuo sia pari almeno al 97 per cento del valore della casa – il che significa che in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, coloro che riceveranno aiuti saranno i debitori che posseggono più di quanto vale la loro casa. Questi soggetti praticamente starebbero altrettanto bene in termini finanziari se, molto semplicemente, lasciassero perdere tutto.
E che dire di coloro che avendo un buon credito sono stati malconsigliati a sottoscrivere pessimi accordi per il mutuo, e che avrebbero invece dovuto essere indirizzati a prestiti con condizioni migliori? Non otterranno niente: il piano di Paulson esclude specificatamente i mutuatari con buoni punteggi creditizi. Anzi, il piano in realtà fornisce ad alcune persone un incentivo a saltare qualche rata del mutuo, perché questo farebbe di loro soggetti a grave rischio creditizio e pertanto diverrebbero candidati ad accedere al piano di aiuti.
In realtà, il tentativo di Paulson di aiutare gli investitori facendo poco o nulla per i mutuatari nei guai e defraudati, potrebbe aver senso se il suo piano riducesse almeno le perdite degli investitori in misura tale da poter seriamente migliorare la situazione finanziaria nel suo complesso. Ma soltanto una minima percentuale di mutuatari subprime si qualificherà per gli aiuti e molti di loro alla fine dovranno comunque affrontare il pignoramento.
Pertanto il piano nel suo complesso è inverosimile che possa ridurre le perdite complessive connesse alla crisi dei mutui, se non di pochi punti percentuali al massimo, non abbastanza quindi per fare granché differenza per la stabilità finanziaria. Effettivamente, gli aumenti dei tassi di interesse che stanno evidenziando una crisi di fiducia nel sistema finanziario non si sono assolutamente contratti all’annuncio del piano. Certo, si potrebbe sempre affermare che il piano di Paulson è meglio di niente. Ma l’alternativa più interessante non è propriamente "niente": è un piano che – come la proposta di Barney Frank – di fatto aiuterebbe concretamente le famiglie dei lavoratori. Ed è questo che l’Amministrazione sta cercando in ogni modo di impedire.
(Traduzione di Anna Bissanti)

 

Fonte - La Repubblica


 

 

Sulle Borse é già orso

18 Dicembre 2007 01:23 MILANO - di Massimiliano Malandra
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Parola di guru. O meglio di John Murphy, uno dei padri dell’analisi tecnica, considerato anche l’inventore dell’analisi intermarket. «Lo studio delle relazioni fra le varie asset class rimane assolutamente valida, anche se alcune correlazioni col passare del tempo si sono modificate». La premessa, perfino ovvia, è che tutti i mercati sono collegati; ma non per questo è sempre facile capire. In pratica ciò che avviene da una parte ha ripercussioni altrove. Un processo che certamente la globalizzazione finanziaria ha accentuato. I mercati in questione sono essenzialmente quattro: materie prime, valute, obbligazioni e titoli azionari.
Mr. Murphy, ci può fare qualche esempio di minore relazione?
Certo. Ad esempio, a partire dal 1998 è venuta meno la tendenza di bond e azioni a muoversi in senso opposto. Allo stesso modo si è indebolito il legame - forte in precedenza - fra obbligazioni e commodity.
Ha capito il motivo?
L’ingresso sulla scena dei Paesi emergenti, affamati di materie prime, ha scombussolato le relazioni fra le asset class. Dal 1998 il ciclo economico internazionale è entrato in un periodo di progressiva discesa dell’inflazione. Ma proprio per questo l’analisi intermarket è uno strumento prezioso: consente scelte di allocazione e rotazione settoriale e offre una visione completa dello scenario finanziario facilitando il dialogo tra analisti tecnici e fondamentali, dal momento che si basa su una logica coerente con quella che spiega gli sviluppi macroeconomici. Tuttavia…
Dica pure…
Come detto le relazioni mutano, ma le correlazioni globali rimangono. Personalmente, ad esempio, utilizzo ancora molto l’analisi intermarket per identificare quelle che potrebbero essere le possibili rotazioni settoriali nel corso dei vari cicli borsistici.
A proposito di Borsa, come vede Wall Street?
Penso che gli indici azionari statunitensi siano entrati in una fase di «topping»; in pratica stiamo assistendo a quella che sembra a tutti gli effetti una fase distributiva delle quotazioni. In ogni caso, a mio parere, vi è ancora spazio per il tradizionale rally di fine anno. Che potrebbe arrivare a riportare le quotazioni in prossimità dei precedenti massimi.
Vi sarà un asset class dominante nel 2008?
Penso che saranno ancora le commodity a tenere il palcoscenico il prossimo anno. Con tre classi principali, le agricole (grano e soia soprattutto), le energetiche e infine i metalli preziosi. Rimango infatti decisamente positivo sull’oro, che continuerebbe a beneficiare del calo del dollaro americano. La valuta Usa secondo me rimarrà inserita in un mercato Orso ancora a lungo.
E i bond?
L’obbligazionario dovrebbe tornare a vivere una fase più positiva rispetto al comparto azionario. L’economia negli Usa sta iniziando a rallentare e di conseguenza avremo più pressione sui rendimenti, quindi i bond dovrebbero tornare a salire.
L’azionario proprio non le piace…
Diciamo che ci sono altre asset class che a mio parere potranno spuntare rendimenti migliori rispetto all’equity. Tuttavia, dovendo puntare su qualche comparto dell’azionario, mi orienterei verso l’healthcare, i consumi di base, le utility. E il fatto che questi settori siano diventati i più forti non è un caso.
Vale a dire?
Questi settori sono tutti e tre difensivi. E solo recentemente sono diventati comparti leader. la teoria - confermata dalla pratica - spiega che in un mercato che sta rallentando, la rotazione settoriale premia i comparti difensivi. Come vede l’analisi intermarket funziona ancora. E continuerà a farlo.

 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

Pochi doni sotto l’albero

21 Dicembre 2007 13.28 MILANO - di Sara Silano
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L’anno scorso la stella azionaria brillava nel cielo terso di un inverno secco e non freddo. Quest’anno non è più così. La perturbazione dei mutui subprime, quelli di bassa qualità, è arrivata in estate e ha portato volatilità e timori per il rallentamento dell’economia. L’indice Msci mondiale si avvia a chiudere il 2007 in rosso (-4% in euro al 19 dicembre), mentre nel 2006 aveva guadagnato circa l’8%. Colpa soprattutto delle Borse occidentali e del Giappone, mentre quelle emergenti hanno risentito meno dell’ondata ribassista.

Come ricorda Sebastian Paris-Horvitz, strategist di Axa Investment managers, proprio come per il vino, anche nella storia economica ci sono annate buone e annate cattive. Nel 2007 si è riaffacciato il timore di una recessione in seguito alla crisi del mercato immobiliare e creditizio americano. E’ tornata, inoltre, a far capolino l’inflazione, che sembrava fosse scomparsa dalla scena finanziaria per effetto dell’arrivo di prodotti d’importazione a basso costo dai Paesi emergenti e del contenimento degli aumenti salariali. Infine, il ciclo dei profitti ha raggiunto il suo picco e per la prima volta dal 2003 le revisioni al ribasso hanno superato quelle al rialzo.

Insomma, ce n’è abbastanza per essere pessimisti e se si guarda al passato un po’ di brividi possono venire. Le crisi immobiliari negli Stati Uniti, con l’eccezione del 1967, hanno sempre portato alla recessione e un analogo effetto aveva provocato lo shock creditizio negli anni Novanta e quello petrolifero nel 1973. Tuttavia, i confronti possono essere fuorvianti. “Stiamo attraversando una fase di profondi cambiamenti strutturali”, sostiene Ad Van Teggelen, senior strategist di Ing Investment management. Negli ultimi dieci anni, l’evoluzione tecnologica ha accelerato la globalizzazione e l’aumento della produttività, i Paesi emergenti, soprattutto quelli che si sono arricchiti con l’incremento del prezzo del petrolio e delle materie prime, hanno cominciato ad entrare nelle banche e in altre società occidentali, e l’invecchiamento della popolazione determina meno pressioni sul fronte occupazionale.

“Cautela” e “prudenza” sono le parole che più spesso sono ripetute in questi giorni, ma non “panico”. La crisi creditizia si è rivelata molto più profonda delle attese e ci vorrà del tempo perché le banche possano risolvere i loro problemi di bilancio, ma gli istituti centrali stanno agendo per evitare uno shock di liquidità. Fed e Bce dovranno anche scegliere tra stimolare la crescita e combattere l’inflazione. E non possono sbagliare perché la posta in gioco è alta. Negli Stati Uniti, l’istituto guidato da Ben Bernanke non potrà sottovalutare i rischi legati alla crescita e alcuni analisti stimano che i Fed Fund possano scendere intorno al 2,5% entro l’estate. Nel Vecchio continente, invece, Jean Claude Trichet probabilmente rimarrà fermo fino alla primavera per evitare fiammate inflazionistiche, poi potrebbe tagliare, soprattutto se l’euro rimarrà forte.

La divisa comunitaria è, a giudizio di molti sopravvalutata, ma per il dollaro il momento del riscatto non sembra vicino. Per dirla con le parole di Michael Gordon, responsabile della strategia di investimenti di Fidelity International, “Nel 2008, New York rimarrà una destinazione privilegiata per gli amanti dello shopping, non per gli investitori”.

 

Fonte - MorningStar.it.

 


 

  Giovedì 06 dicembre 2007   Sabato 22 dicembre 2007   Venerdì 28 dicembre 2007  
       
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Fondi, crollo di fine anno (-8 miliardi)

06 Dicembre 2007 13:20 MILANO - di Finanza&Mercati
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I trenta giorni più brutti nella storia del risparmio gestito italiano. A novembre l’industria dei fondi comuni ha registrato un deflusso netto di patrimonio di oltre 8miliardi. Il peggiore risultato da quando vengono pubblicati dati mensili di raccolta. Unennesimo campanello d’allarme per un settore che sembra ormai in ginocchio: dall’inizio dell’anno i fondi stanno subendo riscatti netti per oltre 47 miliardi, e il bilancio sembra aggravarsi di mese in mese.
Già lo scorso luglio era stata sfiorata una perdita simile,ma allora il rosso era stato provocato da Cariplo. La Fondazione aveva deciso di creare una propria Sgr (Polaris Investments), e a luglio aveva prelevato 5 miliardi dal fondo Geo (in precedenza del gruppo Intesa).Liquidità rientrata nel sistema dei fondi nel successivo mese di agosto. Dietro il rosso di novembre non sembrano esserci invece movimenti di operatori istituzionali. I dati di ieri sono ancora provvisori, e oggi Assogestioni fornirà i numeri definitivi, con i risultati delle singole Sgr. Ma i deflussi di novembre segnalati dall’associazione presieduta daMarcello Messori sembrano far capo integralmente ai riscatti dei risparmiatori retail. I sottoscrittori, spaventati dalle oscillazioni delle Borse, hanno venduto soprattutto i fondi azionari, che hanno registrato un deflusso di 4,99 miliardi.Maanche i prodotti obbligazionari hanno chiuso con un rosso di 3,9 miliardi. I risparmiatori si sono rifugiati invece nei prodotti di liquidità, che hanno chiuso il mese con un bilancio positivo per 2,25miliardi. Per quanto riguarda poi il domicilio dei fondi, a novembre non c’è stato scampo per nessun operatore: i prodotti di diritto italiano hanno perso 4,5 miliardi, quelli creati all’estero dagli italiani (i cosiddetti roundtrip) sono stati in rosso per 2,1 miliardi, mentre gli esteri puri hanno subito un deflusso di 1,2miliardi. Segno che almeno questa volta la penalizzazione che i prodotti italiani hanno rispetto agli esteri sul fronte della tassazione (con il prelievo fiscale sul maturato anziché sul realizzato) non ha pesato sul deflusso. Ma una riforma del sistema, a cominciare proprio dalla tassazione fiscale, appare però sempre più inevitabile. E anche la ricetta per rilanciare il sistema, proposta più volte dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che ha chiesto di allentare il legame tra le Sgr e le banche controllanti, non può più essere ignorata.

 

Fonte - Finanza&Mercati

 

 

 

Gli Etf fanno boom

06 Dicembre 2007 MILANO - di Sara Silano
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Sul listino milanese, il numero di fondi indicizzati è più che raddoppiato rispetto al 2006. Ora arriva la seconda generazione, che adotta strategie più complesse. E le potenzialità di crescita, dicono gli esperti, sono enormi. Così come le opportunità per gli investitori che, però, devono saper scegliere.
A Piazza Affari, gli Exchange traded fund (Etf) hanno superato quota duecento. Rispetto al 2006, il numero è più che raddoppiato e da settembre 2002, quando sono stati quotati i primi fondi, la crescita è stata esponenziale. All’inizio sono stati lanciati Etf su indici europei e americani, poi sugli obbligazionari e gli emergenti. L’anno scorso hanno prevalso i debutti di strumenti settoriali, mentre il 2007 è stato caratterizzato dall’ampliamento dell’offerta con l’arrivo degli strutturati e degli Exchange traded commodities (Etc) sulle materie prime.

L’ultima frontiera sono gli Etf basati su indici fondamentali. I primi sono stati lanciati da Lyxor Asset management a settembre, due sono stati quotati da Invesco PowerShares, che è sbarcata in questi giorni in Italia ed è pronta a collocarne altri tre dal 10 dicembre, di cui uno specializzato sul listino milanese. E nel futuro, neppure troppo lontano, della Borsa milanese, ci sono gli Etf intelligent index, che hanno benchmark costruiti con metodologie quantitative messe a punto dal professor John Southard (Invesco PowerShares), per individuare le società con maggior potenziale di crescita.

A Piazza Affari, non è solo aumentata l’offerta, ma sono esplosi gli scambi. I contratti medi giornalieri nel 2007 hanno sfiorato quota 5.400, con un turnover che è raddoppiato rispetto a un anno fa. A ottobre il patrimonio in gestione degli Etf ha superato i 10.100 miliardi di euro contro i 531 milioni di fine 2003. Secondo i dati presentati da Bruce Bond, fondatore di PowerShares durante la conferenza di lancio dei nuovi prodotti a Milano, il trend continuerà ad essere positivo, analogamente a quanto sta accadendo nel resto del mondo: si stima che entro il 2011 gli asset globali supereranno i 2 mila miliardi di dollari contro gli attuali 700 milioni.

La storia ci insegna che le rapide ascese, siano esse di un’industria, di un listino o di un titolo, sono pericolose perché possono trasformarsi in brusche discese. Inoltre, quando un settore tira, molti operatori sono tentati di entrare per trarne profitto. Così le buone idee si mischiano con le cattive e non sempre è facile distinguere le une dalle altre. In un’analisi del mercato statunitense degli Etf, Russel Kinnel, direttore della ricerca in fondi di Morningstar a Chicago, fa notare che il boom di questi strumenti porta con sé dei rischi, soprattutto quando dominano i cosiddetti “trendy fund”, che seguono le mode e sono iper-specializzati.

Se questo accadesse, sarebbe un vero peccato, perché gli Etf rappresentano realmente una nuova opportunità destinata a cambiare le abitudini degli investitori. Rispetto ad altri strumenti hanno il vantaggio di essere quotati in Borsa, sono trasparenti, generalmente liquidi e poco costosi.

Il mercato italiano degli Etf è più giovane di quello americano e nel suo sviluppo è stato meno influenzato dalle mode. Negli anni, infatti, si è assistito a un progressivo completamento della gamma, geografica, settoriale e di stile, più che al lancio di “trendy fund”, anche se non mancano le eccezioni. Quella in arrivo ora si può definire la “seconda generazione” di Exchange traded fund, simile alla prima perché replica un indice ed è soggetta alle stesse regole di trasparenza e liquidità che la Borsa impone a questi strumenti, ma si differenzia per le strategie d’investimento più complesse.

I fondi sono definiti “passivi” perché, una volta stabilito il modello matematico di gestione, la discrezionalità lasciata al gestore è praticamente nulla. E’ bene, però, che l’investitore comprenda le caratteristiche di questi Etf per valutare se sono adatti ai propri obiettivi e coerenti con il proprio portafoglio. Se si ricerca semplicemente una diversificazione geografica a basso costo, è possibile scegliere un tradizionale Exchange traded fund, che replica i comuni indici basati sulla capitalizzazione del mercato; se al contrario si vuole avere un’esposizione a un paniere di società con le migliori prospettive di crescita, bisogna scegliere tra i prodotti di seconda generazione. Ancora, se l’obiettivo è partecipare ai movimenti di un indice in modo più che proporzionale per perseguire in modo consapevole particolari strategie (e non solo perché attratti dalla prospettiva di ottenere guadagni maggiori), lo strumento adeguato può essere un Etf a leva. Tutti questi strumenti possono essere ugualmente validi se usati con “intelligenza”; al contrario, come dice Kinnel, il rischio è di rimanere delusi.

 

Fonte - MorningStar.it


 

 

 

Foto di gruppo con il Fondo

Venerdì 21 Dicembre 2007, 22:40 - Di MiaEconomia
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Sono sempre meno, visto che negli ultimi mesi la fuga dai fondi comuni è stato un dato di fatto abbastanza evidente. Però ci sono ancora, e Assogestioni ha cercato di tracciarne l'identikit, eccolo qua: il risparmiatore italiano medio ha 55 anni, è impiegato, vive a Nord, sceglie prodotti a breve termine e ha due fondi, in cui investe complessivamente 34.000 euro. Il decimo rapporto annuale sui sottoscrittori di Assogestioni, che si riferisce al 2006, sottolinea l'invecchiamento graduale dei sottoscrittori: gli over 65, infatti, rappresentano un terzo della popolazione che possiede quote di fondi. La fascia che va da 36 a 55 anni costituisce il 40% del totale.
Guardando alle aree geografiche, i residenti nel Nord-Ovest hanno un patrimonio medio di circa 38.000 euro. Il Lazio, con 40.000 euro, guida la graduatoria regionale. Dal rapporto di Assogestioni emerge una correlazione indiretta tra importo investito e rischiosità del portafoglio: si investe maggiormente nei fondi azionari se si dispone di una somma modesta. I fondi obbligazionari sono preferiti da chi investe fino a 15.000 euro.
Cresce la percentuale di donne, che supera il 42%, mentre, guardando alle professioni, gli impiegati rappresentano il 57% dei sottoscrittori di fondi, seguiti dai pensionati con il 17%. Aumenta, infine, il ricorso ai piani di accumulo (Pac): a fine 2006, l'11% dei risparmiatori sceglie esclusivamente la formula del Pac per investire.
 

 

 

Fondi: I sottoscrittori scelgono strategie di breve

Venerdì 28 Dicembre 2007, 22:40 - Di Marco Caprotti - MorningStar
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Il rapporto annuale di Assogestioni (relativo al 2006) disegna il profilo dell'investitore italiano in fondi. Un'industria nella quale mettono i propri risparmi 11 milioni di famiglie italiane.

Ha 55 anni, è impiegato, vive a nord, sceglie prodotti a breve termine e ha due fondi in cui investe complessivamente 34 mila euro. È questo l’identikit del risparmiatore italiano che emerge dal decimo rapporto annuale di Assogestioni sui sottoscrittori, relativo al 2006.

L’analisi, condotta principalmente sui fondi di diritto italiano, illustra le caratteristiche di 8 milioni di individui, che rappresentano il 42% del patrimonio del settore fondi comuni aperti in Italia. Conti alla mano e considerando anche la diffusione dei fondi di diritto estero, si può affermare che il numero di sottoscrittori è costante ed è pari alla metà delle famiglie residenti in Italia (circa 11 milioni).
Il progressivo invecchiamento demografico, l’allungamento del periodo di formazione scolastica e la cresciuta incidenza dei contratti di lavoro atipici, sono alcuni dei fattori che giocano un ruolo rilevante sul graduale invecchiamento dei sottoscrittori.

Nel 2006, infatti, gli over 65 rappresentano un terzo della popolazione che possiede quote di fondi. La fascia che va da 36 a 55 anni è però quella più rappresentativa e pesa per il 40% del totale. I più giovani, che hanno bisogno di un periodo più lungo di accumulazione prima di poter investire, rappresentano il 14% del totale.


Il rapporto tra età e capacità di risparmio è la conseguenza diretta del fatto che, anche nel 2006, siano gli over 65 coloro che investono le somme più consistenti (47 mila euro).
 

 

 

 

 

Gli italiani non ce la fanno più a risparmiare

21 Dicembre 2007 MILANO - di MiaEconomia
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La metà degli italiani non ha risparmiato nel 2007, come nel 2005, contro il 49% del 2006. Il dato arriva dal Rapporto sul Risparmio e sui Risparmiatori Bnl/Centro Einaudi, giunto alla venticinquesima edizione.
L’acquisto o la ristrutturazione della casa restano i motivi principali, selezionati dal 26% di chi ha risparmiato nel corso del 2007; l’integrazione della pensione resta a livelli relativamente bassi ma é in crescita rispetto allo scorso anno, dall’11% al 15%. Motivo primario per il risparmio restano gli eventi imprevisti, indicati dal 41% degli italiani. Si conferma la scarsa diffusione dei fondi pensione rispetto ad altri strumenti: il 26% ha una polizza sulla vita che garantirà un vitalizio, il 14% aderisce a un fondo pensione di categoria, il 7,3 a un fondo pensione aperto. Come in passato, la scelta più frequente é quella che ribadisce la validità del “fai-da-te pensionistico”: la compie addirittura il 42,3% degli intervistati.
A chi ha deciso di mantenere il Tfr presso l’azienda, sono state chieste le motivazioni della scelta. Il 28% ha affermato che si é trattato di “una richiesta da parte dell’azienda che non potevo rifiutare”, il 25% ha risposto “perché voglio contribuire alla crescita dell’azienda presso cui lavoro”, il 47% “perché non mi fido dei fondi pensione”. É stato chiesto a coloro che hanno lasciato le risorse finanziarie presso l’azienda quale sia il rendimento atteso dal Tfr e “ciò che colpisce delle risposte é però che le aspettative di oltre quattro lavoratori su dieci siano totalmente irrealistiche”.
La ricerca di sicurezza anche nella scelta degli investimenti rimane una costante: il 52% degli intervistati assegna il primo posto a questo aspetto nonostante il buon andamento mostrato dai mercati a partire dal 2003. A conferma di ciò, l’avversione al rischio negli impieghi finanziari é dichiarata dal 44% del campione. Si mantiene infatti elevata la soddisfazione nei confronti dell’investimento in abitazioni: il 52% del campione ha affermato di essere “molto soddisfatto”. Il 23,9% degli intervistati ha in corso un mutuo ipotecario e di questi il 74,2 lo ha utilizzato per l’acquisto della prima casa.
La quasi totalità dei mutuatari ha sottoscritto il finanziamento presso una banca, per lo più la cosiddetta banca di famiglia. Il mutuo continua a rappresentare la quota più rilevante dell’indebitamento delle famiglie. Nel 2006 in Italia il rapporto tra l’ammontare dei mutui (244 miliardi di euro) e il Pil é stato pari a circa il 17%; negli Stati Uniti tale percentuale sale al 74% e nel Regno Unito 78%. Francia 32%, Germania 42%, Spagna 56%.
Sul fronte delle scelte di investimento, solo il 5% del campione sceglie una gestione azionaria, il che si abbina anche ad una quota molto ridotta, ferma da anni al 10%, di quanti si pongono come obiettivo il rendimento di lungo periodo. Da notare anche un evidente squilibrio tra determinate scelte di asset allocation e aspettative di rendimento: a fronte di profili di rischio prudenziali, le aspettative di rendimento sono altamente speculative.
A proposito di rapporti tra i risparmiatori e le banche, va evidenziato che l’83,5% delle famiglie con un conto in banca si relaziona con un solo istituto, la cosiddetta banca di famiglia, che gode di un elevato grado di soddisfazione dei propri clienti (78,3%), una quota in crescita rispetto agli anni precedenti. Si osserva inoltre una riduzione dei clienti poco soddisfatti della banca di famiglia (15,7 dal 17,6%) ma anche un leggero aumento di quelli totalmente insoddisfatti (2,9 dal 2,4 dello scorso anno).

 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

Alitalia: Crisi In Cerca Di Soluzione Da Tre Anni/Cronologia

Sabato 15 Dicembre 2007, 19:32 - di ANSA

(ANSA) - ROMA, 15 DIC - Nella cronologia, le tappe della crisi della compagnia Alitalia da tre anni in cerca di soluzione: - 27 febbraio 2004 - l' ad Francesco Mengozzi lascia. Al timone sale Marco Zanichelli con Giuseppe Bonomi presidente.
- 6 maggio 2004 - Giancarlo Cimoli, ex numero uno delle Ferrovie, è il nuovo presidente e amministratore delegato.
- 27 settembre 2004 - Il piano industriale accelera su risanamento e taglio costi: prevede 3.700 esuberi, ed un piano di ricapitalizzazione per reperire nuove risorse.
- 8 ottobre 2004 - Il Tesoro da via libera al "prestito ponte" da 400 milioni di euro.
- 11 novembre 2004 - Il Consiglio dei ministri approva un nuovo schema di decreto per la privatizzazione. Autorizza il Tesoro a scendere sotto il 50%.
- 10 ottobre 2006 - Prodi lancia l'allarme: Alitalia, dice, "vive il momento più difficile della sua storia".
- 23 novembre 2006 - Il presidente di Air France, Jean-Cyril Spinetta, annuncia che sono stati avviati "colloqui esplorativi" per una alleanza su richiesta di Alitalia.
- 1 dicembre 2006 - Il Consiglio dei ministri decide la cessione di una quota di controllo della compagnia.
- 29 dicembre 2006 - Il Tesoro pubblica l'invito a presentare manifestazioni di interesse.
- 17 gennaio 2007 - Il Cda decade dopo le dimissioni di Jean-Cyril Spinetta. Cimoli resta per l'ordinaria amministrazione.
- 9 febbraio 2007 - Il Tesoro indica il giurista Berardino Libonati alla presidenza di Alitalia.
- 13 febbraio 2007 - Cinque le cordate in gara per la fase di presentazione delle offerte non vincolanti: AP Holding di Carlo Toto con il supporto finanziario di Intesa-Sanpaolo; il fondo salva-imprese di Carlo De Benedetti Management & Capitali; MatlinPatterson Global Advisers; Texas Pacific Group Europe; Unicredit Banca Mobiliare.
- 16 aprile 2007 - Tpg, Aeroflot e Ap Holding presentano al Tesoro le proprie offerte preliminari non vincolanti.
- 27 giugno 2007 - Aeroflot annuncia il ritiro dalla gara per la compagnia.
- 6 luglio 2007 - Il ministero dell'Economia proroga al 23 luglio il termine per la presentazione delle offerte vincolanti - 17 luglio 2007 - AirOne annuncia di abbandonare la gara perché le condizioni fissate dal Governo "non consentono il rilancio della compagnia". La gara, di fatto, fallisce - 31 luglio 2007 - Il presidente Berardino Libonati si dimette dalla compagnia. Al suo posto il Tesoro proporrà Maurizio Prato.
- 10 agosto 2007 - Per l'acquisto si presenta una cordata di imprenditori italiani e stranieri, rappresentata da Antonio Baldassarre, già presidente della Corte Costituzionale e della Rai.
- 30 agosto 2007 - Il consiglio d'amministrazione vara un "piano di sopravvivenza e di transizione", che prevede esuberi fra i dipendenti, sospensioni di voli in passivo, ridimensionamento dello scalo di Malpensa.
- 25 settembre 2007 - Prato avvia ricerca di acquirenti, 'a tutto campo', tra ex partecipanti alla gara e grandi carrier internazionali.
- 8 ottobre 2007 - Il cda Alitalia delibera di verificare l'interesse di Aeroflot, Air France-Klm, Ap Holding, cordata Baldassarre, Lufthansa, Tpg.
- 19 novembre 2007 - Rinuncia la compagnia russa Aeroflot.
- 30 novembre 2007 - La compagnia annuncia che l'indebitamento netto del gruppo a fine ottobre sale a 1,182 miliardi, più 11 milioni (+0,9%) rispetto al 30 settembre.
- 13 dicembre 2007 - Nuovo rinvio, al 18 dicembre per la scelta del partner da parte del consiglio di amministrazione della compagnia, che ritiene opportuni ulteriori approfondimenti.
- 14 dicembre 2007 - Le azioni Alitalia perdono valore in borsa per le voci di offerte inferiori alle attese da parte di Air France-KLM e AirOne. (ANSA).