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Geo politica

E' tempo di guerra

Macro USA

Stati Uniti: la frenata c'è ma con l'abs

Macro USA

Rischio recessione per la gelata dei consumi USA

Valute

Friedmann: il Dollaro tiene. Anzi ...

Borse & Mercati

Borsa: per l'Europa un fine anno da fuochisti ?

 

+++   Iran non fermerà progetto di arricchimento dell'uranio   +++   Il Papa condanna la Guerra Santa   +++   Iran, non ci serve la bomba atomica   +++

Venerdì  1  settembre 2006   Sabato  2  settembre 2006   Lunedì  4  settembre 2006
   
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  E' tempo di guerra

7 Settembre 2006  New York - di Maurizio Molinari 
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«E’ arrivato il momento di una War Resolution contro la Repubblica Islamica dell’Iran». E’ stato Bill Kristol, direttore del Weekly Standard e nome di punta dei neoconservatori, a dire ciò che molti repubblicani hanno maturato negli ultimi mesi: bisogna chiedere al Congresso di assegnare al presidente il potere di ricorrere alla forza contro l’Iran se ciò sarà necessario per tutelare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. «Bush deve disporre di una minaccia credibile nei confronti di Teheran per obbligarla a rinunciare al nucleare» dice Kristol.
Sebbene la Casa Bianca non abbia neanche degnato l’opinonista neocon di una risposta e senatori repubblicani fedelissimi del presidente Bush - come Rick Santorum della Pennsylvania e Sam Browback del Kansas - abbiano scelto d mantenere il basso profilo, il tam tam di Washington suggerisce che la provocazione lanciata da Kristol dagli schermi della Fox News cela la convinzione di un sempre maggior numero di leader conservatori: l’esito non solo delle elezioni del 7 novembre per il Congresso ma anche di quelle ben più importanti del 2008 per la Casa Bianca è legato alla partita iraniana. Se Bush riuscirà a trovare una soluzione di alto profilo alla minaccia nucleare iraniana - con mezzi diplomatici, di intelligence o anche militari - i 61 milioni di conservatori che lo elessero nel 2004 torneranno a fare quadrato.
Se invece il caso-Iran dovesse restare irrisolto i candidati repubblicani alla presidenza nel 2008 rischierebbero di essere bersagliati dall’offensiva di quei leader democratici centristi - da Mark Warner a Hillary Clinton, da Evan Bayh a Tom Wilsak - secondo i quali la guerra in Iraq è stata sbagliata perché ha portato l’America a sottovalutare la minaccia iraniana. Karl Rove, consigliere politico di Bush ed architetto della vittoria del 2004, sin da giugno ha consigliato al presidente di tornare a cavalcare il tema della lotta al terrorismo - l’unico sul quale la grande maggioranza degli americani è ancora con lui - evitando di dover continuare a difendersi dalle critiche dei democratici sull’Iraq.
Da qui anche il cambiamento di marcia delle feluche del Dipartimento di Stato, da John Bolton a Nicholas Burns, che hanno iniziato a parlare con maggiore chiarezza della necessità di adottare «sanzioni molto robuste». A sostegno delle ragioni di Kristol e Rove ci sono anche i nuovi memorandum dell’intelligence secondo i quali Teheran potrebbe arrivare alla bomba entro un massimo di cinque anni: se Bush dovesse lasciare questa patata bollente a chi lo sostituirà alla Casa Bianca rischierebbe di restare negli annali come il presidente che ha commesso l’errore più grave della guerra al terrorismo da lui stesso iniziata abbracciando un anziano pompiere sulle macerie fumanti di Ground Zero la mattina del 14 settembre 2001.

 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

  Stati Uniti: la frenata c'è ma con l'abs

3 Settembre 2006  Milano - di Vincenzo Sciarretta 
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ECONOMIA USA, SARÀ HARD O SOFT LANDING?/1 L’economia americana cadrà sotto il peso dello sboom immobiliare, avvitandosi in una recessione, oppure troverà al suo interno degli elementi di contrappeso, tali da garantire una frenata dolce al locomotore a stelle e strisce? Insomma, ci si deve attendere una planata morbida o uno schianto? È questa la domanda che appassiona economisti e operatori finanziari. A dire il vero, le statistiche emerse questa settimana hanno già abbozzato la risposta, lanciando una luce di rinnovata speranza sulla prospettiva degli affari e dell’attività produttiva Usa.

DATI MACRO RASSICURANTI. In primo luogo la revisione del dato di crescita del secondo trimestre ha fissato il Pil al 2,9%, in crescita rispetto al 2,5% annunciato un mese fa. In seguito, sempre dal fronte macro, sono giunte ulteriori conferme. In particolare sia i redditi sia la spesa per consumi dimostrano un elevato dinamismo, essendo balzati smaccatamente in avanti a luglio. Il buon andamento sembra ripetersi in agosto, perché le vendite presso le catene dei grandi magazzini (come Wal-Mart) hanno battuto le stime. Infine è stato comunicato il risultato di un sondaggio a cura dell’associazione delle piccole imprese, secondo cui il vero problema delle aziende è trovare lavoratori qualificati. In altre parole, le società sono a caccia di operai, impiegati e dirigenti per accrescere la base produttiva.

LA PAROLA AGLI ESPERTI. Secondo il consenso degli economisti, Ben Bernanke riuscirà a rallentare dolcemente la congiuntura americana, consentendo il graduale raffreddamento dell’inflazione e lo sgonfiamento ordinato della bolla immobiliare. Spiega Janet Henry, global economist del gigante bancario Hsbc: «La spesa per consumi dovrebbe assottigliarsi in risposta alla flessione dell’edilizia, senza però scivolare in una recessione».
Dello stesso parere John Silvia, capo del team di strateghi di Wachovia Securities: «L’attività residenziale sta subendo una brutta batosta, ma il consumatore continua a beneficiare di un buon apprezzamento del suo reddito. L’occupazione è ai massimi livelli, le esportazioni reagiscono positivamente allo sviluppo in Europa e in Asia, e l’eccezionale performance degli utili societari ha messo le ali agli investimenti da parte delle imprese. Non siamo in stallo, stiamo solo digerendo qualche eccesso».
Parole confortanti a cui si aggiungono anche quelle di Kurt Karl, chief economist di Swiss Re: «Se il denaro è disponibile, si può contare sul consumatore americano. Se a ciò aggiungete i piani di ammodernamento delle imprese, avrete un quadro in linea con un Paese sano e solo in fase di leggera moderazione». Allora niente rischio recessione? Non è esattamente così. Il rischio c’è, ma al momento è abbastanza remoto. «Di per sé - argomenta Scott Brown di Raymond James & Associates - l’ipoteca che grava sul settore immobiliare non è sufficiente per provocare una crisi su larga scala. Però rende l’economia vulnerabile a un eventuale shock».

QUALI RISCHI ALL’ORIZZONTE? La teoria di Brown non è isolata per gli Usa. Un sondaggio della National Association for Business Economics, svolta presso duecento economisti di mestiere, individua in un nuovo attacco terroristico o in un’impennata del petrolio oltre 100 dollari al barile il punto di rottura del motore statunitense. L’altra grande preoccupazione fa perno invece su un ricorso storico. Quasi tutte le recessioni del dopoguerra sono state precedute da una politica restrittiva da parte della Federal Reserve, che ha causato a un certo punto un’inversione della curva dei tassi. Cioè, apparentemente, la situazione attuale. Eppure, secondo gli osservatori più attenti, il paragone col passato può risultare fuorviante.
Per Matthew Strauss della Rbc Capital Markets di Toronto: «Nonostante il costo del denaro sia salito dall’1% al 5,25%, è difficile affermare che la politica della Federal Reserve sia eccessivamente restrittiva, perché il tasso di sviluppo viaggia al 3% e l’inflazione oltrepassa il 2 per cento». In altre parole, le condizioni del credito sono calibrate per la situazione contingente. Un’opinione che viene condivisa anche da Silvia. «Quando si rievoca la flessione dell’economia seguita alle strette della Fed negli anni ’70 e ’80, si dimentica di dire che allora il costo del denaro raggiungeva picchi assai più elevati di quelli attuali - spiega lo strategist di Wachovia Securities - Ecco perché, alla luce dei fatti, il parallelo non regge».
Inoltre è giudizio prevalente che Bernanke non agirà sui tassi di riferimento almeno fino alla riunione del 12 dicembre (cioè dopo le votazioni di metà mandato), mentre sia per il meeting del 20 di settembre sia per quello del 24 di ottobre, i mercati future si aspettano un nulla di fatto, con una probabilità del 90 per cento. «L’inflazione è una variabile ritardata - aggiunge Henry - Nel 2001, per esempio, continuò a salire persino a recessione già iniziata. Inoltre, le strette creditizie impiegano 12-18 mesi per dispiegare il proprio effetto frenante. Di conseguenza l’addolcimento della congiuntura, unito alle dosi di calmante instillate dalla Fed, dovrebbero riportare il costo della vita entro limiti ragionevoli, senza bisogno di dosi aggiuntive di medicina». Questo, naturalmente, sempre che gli esperti abbiano ragione.

 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza

 

 

 

 

Martedì  12  settembre 2006   Mercoledì  13  settembre 2006   Martedì  19  settembre 2006
   
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  Rischio recessione per la gelata dei consumi USA

12 Settembre 2006 New York - di Eugenio Occorsio
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Il tanto temuto crollo del mercato immobiliare americano è cominciato. E le conseguenze rischiano di essere pesantissime. «E´ la seconda grande bolla speculativa che esplode in sei anni. La prima riguardava le azioni: la deflagrazione, come tutti ricordiamo, cominciò nella primavera del 2000 e assunse presto proporzioni sorprendenti e sconcertanti», commenta Stephen Roach, il capo economista della Morgan Stanley che - unico fra gli analisti americani di prima linea - stava avvertendo già da un bel po´ di tempo dei rischi che via via crescevano.
«Ora il problema riguarda i consumatori», avverte Roach. «E´ qui il vero allarme: la loro capacità di spesa ha cominciato a incrinarsi, e se crollano i consumi americani, come tutto lascia prevedere, le conseguenze nefaste per l´economia si avvertiranno su scala globale».

Parliamoci chiaro, lei vede la possibilità che s´inneschi una recessione? «Certo. Le chances che ciò accada oggi sono del 40-45%. Il motivo è semplice. I consumi americani sono cresciuti negli ultimi dieci anni del 3,7% ogni dodici mesi, un ritmo senza precedenti nella storia, e ben superiore alla crescita dei guadagni. I soldi gli americani li hanno sempre di più presi in prestito, e fattore decisivo è stato il continuo refinancing dei mutui immobiliari, basato ovviamente sull´aumento progressivo ed esponenziale dei valori delle case oltre che sui bassi tassi d´interesse. Strada facendo, così, si è accumulato uno stock di debiti individuali impressionante. Ora d´improvviso tutto si è bloccato».
Con quali conseguenze? «C´è un doppio danno. Innanzitutto uno patrimoniale, perché le case non aumentano più di valore. Sono cresciute in media del 14% negli ultimi dieci anni: ora di colpo, dall´inizio di quest´anno, la crescita è scesa a zero, il che vuol dire una perdita di due-tre punti percentuali se si considera l´inflazione. In diversi casi i prezzi e i valori hanno già cominciato a scendere. E´ una grossa perdita perché le case valgono molto e quindi parliamo di grosse cifre. E gli stessi intermediari prevedono ulteriori svalutazioni. Il secondo danno, indiretto, è quello più devastante sul medio termine: è improvvisamente finito il discorso del refinancing e questo paralizza i consumatori, che ora hanno semmai il problema di pagare i debiti, altro che continuare a spendere. E l´economia americana si basa al 70% sui consumi, una percentuale altissima. In Europa questa quota è del 54%, in molte economie asiatiche non arriva neanche al 50, in Cina è del 38».
Avete già fatto dei calcoli su quanto tutto questo inciderà sulla crescita americana? «Per il 2007 prevedo che ciascuno dei due fattori, il danno patrimoniale e la contrazione dei consumi, sottrarrà un punto percentuale alla crescita del pil. Quindi due punti: se oggi è prevista una crescita del 3,6, diventa dell´1,6».
Non è ancora tecnicamente una recessione... «Infatti le chances di cui parlavo non sono del 100%. Ma sono molto preoccupato. Intanto, è comunque un brutto colpo. E poi la situazione potrà ulteriormente degenerare in tempi molto rapidi. Pensi che in pochissimi mesi si è creato uno stock di case e uffici invenduti del 40% per le nuove costruzioni e del 25% per quelle esistenti. L´attività di immobiliaristi, broker e costruttori si sta contraendo ad un ritmo impressionante, fra poco arriverà al 25% in meno rispetto agli anni d´oro. E i prezzi non risaliranno per un bel po´ di tempo. Il settore immobiliare ha contribuito con lo 0,5% alla crescita del pil nei passati tre anni, ora si avvia come dicevo a sottrarre un punto dall´anno prossimo».
E poi c´è l´altro fronte del problema, quello dei consumi. «Appunto. E questa è la parte più dolorosa della storia. I consumi possono crollare fino al 40% nei prossimi due anni. Ai fini della recessione, in America e nel resto del mondo, dipenderà dalla risposta dei mercati stranieri. Anche questi hanno beneficiato della bramosia di acquisto dei consumatori americani, e soffriranno pesantemente anch´essi di questo brusco stop».
Pensa che i rispettivi mercati interni non ce la faranno a compensare l´assenza di compratori americani? «Penso proprio di no. Il guaio delle economie globali, dall´Europa all´Asia, è che non sono riuscite a creare una domanda interna robusta che le supporti appunto in momenti come l´attuale. E´ una colpa grave. La stessa Cina ha costruito il suo miracolo economico interamente sull´export, e primariamente in America, esponendosi a rischi gravissimi. Ora sto per andare in Cina per vedere come pensano di fronteggiare la situazione. Come se non bastasse, in altri mercati importantissimi come la Germania e proprio l´Italia, sui consumi si stanno per abbattere provvedimenti fiscali, intendo di risanamento in senso lato, realisticamente piuttosto pesanti».
Ma perché si è arrivati a questo punto? «Cosa vuole che le dica? In America tutti lo sapevano che il mercato immobiliare era gonfiato e che era inevitabile un tracollo. Ma tutti facevano finta di niente. E ora il crollo è in corso. Guardi, le ripeto: le analogie con quanto successe con le azioni per tutta la seconda metà dello scorso decennio sono impressionanti. Anche allora si andava avanti sapendo che si viaggiava su cifre irrealistiche».
E ora ci saranno conseguenze sulla Borsa? «Bhè, certo, è inevitabile. Le lascio immaginare come vivono i mercati di fronte alla paura della recessione. Ora bisogna guardare cosa farà la Fed già a partire dal prossimo meeting che c´è il 20 settembre. Miracolosamente nell´ultima riunione ha arrestato l´aumento dei tassi dopo diciassette incrementi consentivi. E ora penso che dovrà seriamente considerare l´opportunità di ricominciare ad abbassare il costo del denaro, anche se mi risulta che è molto preoccupata per l´inflazione».
Ma si poteva evitare tutto questo? «Io continuo con ostinazione a chiedere a tutti questi araldi della globalizzazione - il Fondo Monetario, il G-7, le maggiori banche centrali - di impegnarsi per risolvere quello che resta il più grave squilibrio mondiale, e cioè il fatto che l´economia americana in primis e poi tutte le altre economie del pianeta, debbano dipendere da un solo attore: i consumatori americani. Altrimenti va a finire che basta una crisi del mercato immobiliare Usa perché il mondo si trovi sull´orlo della recessione».

 

Fonte - La Repubblica - Affari & Finanza

 
 

 

12 Settembre 2006  14:30  NEW YORK    +++   DEFICIT COMMERCIALE USA IN AUMENTO A $68 MILIARDI   +++   A luglio il dato sulla bilancia commerciale e’ risultato peggiore delle attese. Consensus: -$65.5 mld.   +++

 

Tassi USA ancora fermi? Oggi il Beige Book

6 Settembre 2006 Milano - di La Lettera Finanziaria
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L'appuntamento più rilevante della giornata è la pubblicazione, alle 20 ora italiana, del Beige Book della Fed, il rapporto sull'andamento dell'economia americana che verrà preso come base di discussione per la riunione del FOMC del 20 settembre, in cui il consiglio direttivo della Federal Reserve dovrà decidere se lasciare ancora i tassi invariati, come aveva già fatto lo scorso 8 agosto, o proseguire i rialzi del costo del denaro che hanno scandito gli ultimi due anni.
La convinzione prevalente tra gli economisti è che il Beige Book confermerà l'attuale fase di moderato rallentamento dell'economia americana, nonostante la revisione al rialzo del Pil del secondo trimestre e il buon andamento dell'occupazione in agosto. Fiducia dei consumatori e mercato immobiliare segnano infatti il passo, mentre l'inflazione potrebbe essere meno severa del previsto grazie alla fase di rallentamento del petrolio (la Fed ha rivisto al ribasso le
stime sull'inflazione per il 2007). Secondo alcuni analisti, la Fed non ha quindi motivo per aumentare ancora i tassi e potrebbe lasciare invariato al 5,25% il costo del denaro anche nella riunione del 20 settembre, come ha già fatto lo scorso 8 agosto.
Anzi, secondo gli esperti, è sempre più vicina la fase di politica monetaria espansiva da parte della Federal Reserve. Gli economisti di Ubm, per esempio, si attendono un taglio di un punto percentuale dei tassi americani nel corso del 2007, spalmato in un ribasso di 25 punti base per ogni trimestre. Ma c'è anche chi ritiene che la Fed non aspetterà nemmeno il 2007 per tagliare i tassi, e una prima riduzione del costo del denaro potrebbe avvenire già entro la fine del 2006.
Al di là delle ipotesi sulla tempistica sul prossimo taglio della Fed, quello che emerge è che in questo momento prevale l'idea che la Fed abbia terminato la sua politica restrittiva. All'inizio di agosto il mercato assegnava il 78% di probabilità a un aumento dei tassi Usa al 5,5% a fine anno, oggi questa percentuale è scesa al 16%. Ieri William Poole, presidente della Fed di St. Louis, ha detto che la banca centrale deve essere "paziente" nel considerare se alzare di nuovo i tassi, anche in presenza di un'inflazione che resta sopra i livelli di tolleranza indicati dalal Fed.
Il rallentamento della fiducia dei consumatori (l'indice calcolato dal Conference Board è sceso in agosto a 99,6 da 107 in luglio, il calo maggiore dallo scorso settembre, subito dopo la devastazione dell'uragano Katrina) dovrebbe infatti rallentare anche la spinta inflativa, impedendo alle imprese di trasferire gli aumenti dei costi sui prezzi finali. E con l'inflazione che fa meno paura e l'economia che rallenta, non c'è fretta per ulteriori strette creditizie. 
 
 

Fonte - La Lettera Finanziaria
 

 

 

FED: verso lo stop ai tassi, economia in frenata

19 Settembre 2006 New York - di ANSA
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La Federal Reserve si appresta a prolungare la pausa sui tassi d'interesse, tenendoli ancora fermi al 5,25%. A dare ulteriori elementi a uno scenario di questo tipo, alla vigilia della riunione del Federal Open Market Committee (il board di politica monetaria), sono, ultimi in ordine temporale, i dati macroeconomici di agosto sulle nuove case e sui prezzi alla produzione che confermano, in termini ancora più accentuati, il rallentamento della crescita di uno dei settori trainanti e una inattesa (ma positiva) frenata della dinamica dei prezzi alla produzione 'core', quella al netto delle componenti volatili come alimentari ed energia.
Le nuove costruzioni a uso di abitazione, infatti, registrano una caduta secca del 6% nello scorso mese, fino a 1,665 milioni di unità, molto al di sotto delle previsioni, e rappresentano la quinta flessione in sei mesi. Al dato, largamente peggiore alle attese di 1,746 milioni di nuove unità abitative, si aggiunge il rallentamento dei permessi edilizi, termometro dell' attività futura, a quota 1,722 milioni a fronte degli 1,763 milioni precedenti e a una stima di 1,740 milioni. La statistica ribadisce, in termini più netti, che uno dei settori trainanti dell'economia a stelle e strisce, quello immobiliare, sta tirando il fiato a conferma di un rallentamento statunitense più in generale. La Fed, anche attraverso le ultime testimonianze del suo presidente, Ben Bernanke, ha osservato che la crescita si mantiene a passo sostenuto, anche se più moderato, aiutando a disinnescare le spinte inflazionistiche legate soprattutto agli alti prezzi dell'energia. Un primo e consistente segnale, su questo fronte, lo si trova nei prezzi alla produzione di agosto, in aumento dello 0,1% (+0,2% le previsioni degli analisti). Al netto di cibo e petrolio, il core index registra un calo dello 0,4%, invece del +0,2% atteso. I dati diffusi alleggeriscono sensibilmente le pressioni inflazionistiche, ma se da un lato spingono i future sui Fed Fund in oscillazioni che esprimono nel 25-30% le possibilità di un nuovo rialzo dei tassi d'interesse, dall'altro deprimono gli indici di Wall Street che segnano il passo girando in negativo. Il mercato, in particolare, teme le conseguenze prevedibili del rallentamento dell'economia, con l'appesantimento dei conti societari sul fronte degli utili. Nell'ultima riunione del Fomc dell'8 agosto, quella che ha deciso lo stop alla stretta monetaria dopo 17 interventi consecutivi tutti da 25 punti base, il dibattito tra i banchieri centrali è stato piuttosto animato, come emerso dai verbali diffusi il 29 agosto. Le condizioni per un nuovo rialzo c'erano tutte, ma alla fine di una accesa discussione, il board decise l'opportunità (anche senza voto unanime) di dare il via a una pausa per non soffocare l'economia, in attesa di acquisire altri elementi, secondo una frase cara a Bernanke. I dati diffusi in giornata spingerebbero per un prolungamento dello stop alla stretta monetaria. Almeno nelle attese dei mercati.
 
 

Fonte - ANSA
 
 

 

 

Tassi USA: la Federal Reserve li lascia invariati

20 Settembre 2006 New York - di ANSA
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Come ampiamente atteso dal mercato, il Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Federal Reserve, ha lasciato invariato il costo del denaro degli Stati Uniti.
Il target sui fed funds e' dunque fermo al 5.25%. Nella riunione precedente, svoltasi lo scorso 8 agosto, la decisione di non ritoccare i tassi aveva chiuso la serie di rialzi durata per ben due anni. Il primo rialzo della serie fu deciso nel meeting del Fomc del 30 giugno del 2004.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open Market Committee ha deciso di lasciare i tassi sui fed funds al 5.25%.
La moderazione nella crescita economica sembra dover continuare, parzialmente in riflessione del raffreddamento del settore immobiliare. I segnali relativi all’inflazione core sono stati piuttosto elevati, e gli alti livelli dell’utilizzazione delle risorse e dei prezzi energetici e di altre commodities hanno ancora il potenziale di sostenere ulteriori pressioni inflazionistiche. Tuttavia, queste sembrano dover calmarsi nel tempo, come conseguenza dell’abbassamento dei costi energetici e sulla scia delle aspettative contenute sull’inflazione, nonche’ grazie alle azioni di politica monetaria ed altri fattori capaci di contenere la domanda aggregata.
Tuttavia, il Comitato ritiene che alcuni rischi inflazionistici ancora restano. La modalita’ e i tempi di qualsiasi azione di politica monetaria che potrebbe essere necessaria per contenere tali rischi dipenderanno dall’evoluzione dell’outlook inflazionistico e delle crescita economica, cosi’ come sara’ implicato dalle informazioni rilasciate quotidianamente.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Susan S. Bies; Jack Guynn; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin; Sandra Pianalto; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen. A votare contro e’ stato Jeffrey M. Lacker che avrebbe preferito un incremento di 25 punti base del target sui fed funds nel meeting giornaliero
 

Fonte - ANSA

 


 

 

 

  Friedmann: il Dollaro tiene. Anzi ...

24 Settembre 2006 Milano - di Borsa&Finanza
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Il cambio euro-dollaro è in stallo dal mese di maggio. Tecnicamente e graficamente in laterale. Qualche volta si spinge verso il limite superiore della banda di oscillazione, a quota 1,29, altre volte si adagia sul supporto a 1,26. Secondo il consensus più diffuso, il biglietto verde dovrebbe crollare sotto il peso del deficit commerciale. Eppure non accade. Nonostante tutti i venti contrari, il biglietto verde non cede terreno. Ostinatamente. Ma perché? Dove trova la forza di opporre tutta questa resistenza?
Secondo alcuni osservatori del mercato la tenuta del dollaro dipende soprattutto dalle posizioni speculative: hedge fund e grande speculazione sono già largamente esposti a favore della valuta comune. Di conseguenza ipotizzare acquisti supplementari risulta difficile. Insomma le cartucce dei grandi gestori sono già state usate. E chi voleva vendere dollari contro euro, lo ha già fatto. A conferma, le transazioni registrate sui mercati future.

FONDAMENTALI. Passando in rassegna gli strateghi valutari sul mercato, ci si accorge che la stragrande maggioranza propende per un graduale deprezzamento della divisa americana. Come detto, sul dollaro grava l’ipoteca del deficit delle partite correnti, ingente e in continua espansione. Le uniche due grandi banche d’affari in Europa che scommettono sul biglietto verde sono Morgan Stanley (l’analista Stephen Jen ha un obiettivo d’equilibrio a 1,24) e il team del Credit Suisse che vede un certo margine d’apprezzamento per la valuta statunitense. A difesa del dollaro si schiera poi un gigante come Milton Friedman.
Raggiunto al telefono, il premio Nobel per l’economia ribadisce una sua ferma convinzione, secondo cui la maggiore forza dinamica dell’economia a stelle e strisce esercita un’attrattiva irresistibile sui detentori internazionali di capitali. Un elemento che favorirà una nuova ascesa della moneta Usa. Su un solo aspetto i due opposti schieramenti trovano un punto di vista comune: l’analisi di breve periodo, che indica un bilanciamento possibile delle forze in campo.
Come spiega Steve Quigley della Bca Research: «L’arcinoto disavanzo commerciale americano, unito al fatto che Jean-Claude Trichet intende stringere le condizioni del credito, sono elementi a favore dell’euro. Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare: il punto di massima accelerazione della congiuntura continentale è già alle nostre spalle». Un fatto provato dal calo della produzione industriale in Francia e dalla contrazione delle vendite al dettaglio in Germania. «Inoltre - aggiunge Quigley - c’è da considerare l’imponente afflusso di denaro europeo sui titoli del debito statunitensi. Infine, non è chiaro se dall’altra parte dell’Atlantico la Federal Reserve manterrà il costo del denaro stabile o se sarà costretta a rimettere mano alla leva dei tassi d’interesse sul finire dell’anno».

LA SPECULAZIONE. Sempre secondo Quigley: «C’è da notare che la speculazione detiene già una posizione record al rialzo sull’euro. Ma nonostante questo il cambio non ha trovato l’energia per scavalcare di slancio la resistenza fissata a 1,295». Le posizioni in essere della grande speculazione sono un argomento molto caldo tra i cambisti. Per Paul Mackel, esperto di Hsbc, lo scenario più probabile è quello di un lento movimento laterale fra le due valute, che consenta di metabolizzare l’indigestione di acquisti in euro fatta negli ultimi mesi. In linea con parecchi colleghi, Mackel individua l’obiettivo di fine anno attorno a 1,30.

ORIZZONTE TECNICO. A ogni buon conto, il cambio euro-dollaro ondeggia per il momento senza prendere una direzione precisa. Gli analisti individuano due soglie sensibili ben definite, una verso l’alto e una verso il basso, oltre le quali partirebbe con ogni probabilità una nuova tendenza. «Verso l’alto la resistenza cruciale è a quota 1,2985, corrispondente ai massimi dell’estate - spiega Roberto Mialich di Ubm - mentre verso il basso il vero supporto critico staziona a 1,25». A sentire le voci degli operatori, la rottura di quota 1,2985 spingerebbe l’euro nell’intervallo 1,30-1,35. Ben più precipitosa sarebbe invece la discesa della valuta comunitaria, se dovesse scivolare sotto il supporto di 1,25. La ragione è abbastanza semplice. La grande speculazione, come si diceva, è orientata ampiamente sull’euro. Se, al contrario, la valuta comune dovesse arretrare, sarebbero inevitabili dei ripensamenti. Anzi, molti compratori sarebbero costretti a correre ai ripari, innescando una spirale ribassista per l’euro, dalle proporzioni al momento difficilmente quantificabili. Un evento prettamente finanziario, slegato da logiche macroeconomiche.

L’INDIZIO D’ORO. Un indizio che tale ipotesi vada messa in conto emerge dal mercato aurifero. Le quotazioni del metallo prezioso sono cadute in verticale non appena gli hedge fund hanno tentato all’improvviso di chiudere le posizioni in perdita. In quel momento ci si è accorti che non tutti avrebbero trovato facilmente un paracadute. Così da 640,7 dollari l’oncia (quotazione al 5 settembre 2006) l’oro è sceso agli attuali 582,9 (quotazione al 21 settembre), con un calo di circa il 9%. Una discesa che raggiunge il 19% se si guarda ai massimi dell’anno: 721,5 dollari l’11 maggio 2006. E solo un indizio ma potrebbero essere anche le prime scosse di qualche movimento forte fra valute che paiono addormentate.

 

Fonte - Borsa&Finanza


 

 

 

Domenica  24  settembre 2006   Martedì  26  settembre 2006   Mercoledì  27  settembre 2006
   
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12 Settembre 2006  15,43  NEW YORK    +++   WALL STREET RIPRENDE FIDUCIA CON INVERSIONE GREGGIO    +++

 

Materie prime a fine corsa. O no?

12 Settembre 2006 New York - di Finanza & Mercati
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«La lunga fase rialzista delle materie prime è ormai alle spalle». Lo dimostra la caduta di oro, petrolio e delle altre principali commodity che dai record segnati a maggio hanno in media perso oltre il 12%, «troppo per essere una semplice correzione».

Parola di Stephen Roach, guru di fama internazionale e responsabile dell’analisi economica di Morgan Stanley. «Le quotazioni di greggio e metalli - ha spiegato l’economista a Bloomberg News - hanno già iniziato a subìre il riflesso negativo provocato dalla stretta monetaria decisa dal governo di Pechino. Una manovra che farà diminuire i prestiti erogati alle big cinesi del comparto che negli ultimi quattro anni hanno fatto incetta di materie prime innescando una bolla sui prezzi».

E anche ieri sui mercati le commodity hanno segnato il passo: a Londra l’oro ha chiuso la seduta di ieri a 586 dollari per oncia (-4,04%, per la prima volta in dieci settimane sotto la soglia dei 600 dollari), l’argento è sceso del 7,7% a 11,3 dollari per oncia e il Brent ha perso l’1,8% a 64,1 dollari per barile. Convinto che la tendenza al ribasso avrà una lunga durata è anche Frederic Lassare, strategist di Société Générale che aggiunge: «Nei prossimi mesi dovremo fare i conti con una discesa delle quotazioni dei metalli di circa il 50 per cento».

Chi invece la pensa in maniera radicalmente opposta è James Gutman, responsabile delle strategie sulle materie prime di Goldman Sachs: «L’attuale discesa dei corsi fa parte di una serie di fluttuazioni cicliche più che fisiologiche». E Gutman si spinge oltre: «Questo ribasso è l’occasione per tornare, in vista di un ulteriore rally, a comprare a buon mercato».
 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati
 

 

 

Materie prime in calo, occhio al rame

12 Settembre 2006 Siena - di MPS Finance
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Tassi di Interesse: in area Euro la settimana è iniziata con un rialzo dei rendimenti su tutta la curva. Il movimento ha interessato soprattutto la parte a breve termine penalizzata dalle parole di Trichet che, in occasione della conferenza stampa successiva all’incontro del G10, ha avvalorato l’ipotesi di una prosecuzione della fase di inasprimento monetario.
Oggi il discorso di Constancio (membro della Bce) potrebbe generare nuove vendite di bond sul segmento a breve, anche se i dati relativi all’inflazione francese di domani e quelli dell’intera area Euro di giovedì potrebbero limitare il movimento e spostarlo alla prossima settimana, quando gli operatori, in attesa della riunione del 5 ottobre, potrebbero anticipare i toni hawkish nella conferenza stampa successiva all’incontro. Meno mossi ieri i tassi sulla parte a lunga della curva con conseguente ed ulteriore appiattimento del differenziale 2-10 anni, differenziale che la prossima settimana con l’avvicinarsi della riunione della Bce potrebbe scendere sotto i 10 pb. Il tasso decennale oggi potrebbe subire lievi pressioni al rialzo. Prossima resistenza a 3,87%.
Negli Usa tassi di mercato in rialzo in una giornata senza spunti di rilievo sul fronte macro. Il livello delle breakeven, dopo il calo delle scorse giornate determinato dal contestuale ridimensionamento delle commodity, si sta stabilizzando intorno ai 241pb sul tratto decennale. Contemporaneamente, l’attesa di un’offerta piuttosto corposa sul fronte corporate oltre che della riapertura del titolo decennale da 8Mld$ attesa oggi, potrebbero comportare oggi ulteriori lievi rialzi dei tassi fino alla soglia del 4,85% sul decennale. Movimenti più accentuati potrebbero arrivare a partire da giovedì, quando sono in pubblicazione importanti dati macro.
Valute: Dollaro in lieve deprezzamento verso Euro. Laddove il deficit commerciale Usa di luglio risultasse superiore alle attese potrebbe comportare una penalizzazione limitata (nell’estensione e nel tempo) del dollaro fino alla soglia di 1,2770. Rimane infatti ancora aperta la possibilità di ulteriori prese di profitto sulle posizioni lunghe di Euro vs. Dollaro da parte degli investitori speculativi in vista dei dati sui prezzi al consumo di venerdì. Ieri lo Yen si è indebolito contro le principali valute in seguito ai peggiori dati macro che hanno fatto allargare i differenziali sui tassi d’interesse attesi nei confronti dell’area Euro ed Usa. Contro Dollaro, il cross si è portato sopra l’importante livello di resistenza 117,5 ed adesso si trova contenuto dalla successiva a 117,90. Qualora tale livello venisse superato, potrebbero partire numerose vendite tecniche di Yen, con il cross che potrebbe velocemente raggiungere i 119. Yen debole anche contro Euro con il cross prossimo alla resistenza 149,80. Qualora venisse superata, il cross potrebbe riportarsi in prossimità dei massimi storici oltre i 150.
Materie Prime: i mancati uragani ed il miglioramento della situazione geopolitica continuano a spingere al ribasso i prezzi dei prodotti energetici. Ieri le quotazioni del Wti hanno registrato un calo dello 0,97%, rimanendo sotto i 66$/b. L’Opec, come nelle attese, ha lasciato invariato il tetto produttivo a 28 Mln b/g. L’Organizzazione ha deciso di non ridurre le quote in vista dell’aumento della domanda invernale e della fine della stagione degli uragani, rimandando ogni decisione nella riunione di dicembre. Anche l’oro, utilizzato per coprirsi da rischi inflttivi e geopolitici è infatti sceso sotto i 600 $/oncia, mentre il rame, buon indicatore della crescita economica, ieri ha registrato un calo dei prezzi del 4%. Più in generale l’indice Crb ha continuato a scendere, perdendo ieri il 2%.
 
 

Fonte - Servizio Research and Strategy MPSFinance
 
 

 

 

L'acciaio si sgonfia sulla recessione

13 Settembre 2006 Milano - di Finanza & Mercati
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Dopo la bolla di Internet verrà il turno della bolla dell’acciaio? A paventare questa ipotesi è il capo del team di economisti di Euler Hermes, Philippe Brossard. L’acciaio, come gran parte delle materie prime e in particolare il petrolio, sta registrando da circa sei anni un rally senza sosta. Tra picchi verso l’alto e verso il basso, dal 2000 i prezzi del metallo frutto dell’incrocio di ferro e carbonio sono più che raddoppiati (da 280 a 580 dollari a tonnellata).
Dal punto di vista produttivo, inoltre, il tasso di crescita a cinque anni ha raggiunto i livelli degli anni 50. Protagonista principale di questa corsa dei prezzi è stata la Cina, che non è soltanto il primo consumatore ma anche il primo produttore di acciaio. Basti pensare che nel decennio 1996-2006 Pechino ha prodotto acciaio a tassi di crescita del 15% l’anno rispetto all’1,7% dell’Europa, all’1,4% del Giappone e allo 0,4% degli Stati Uniti.
La qualità del prodotto finito made in China è generalmente medio bassa, tanto che la maggior parte delle importazioni dall’estero riguardano proprio quegli acciai finiti ed elaborati ad alto livello di tecnologia. Un elemento che ha contribuito ancor di più ad accentuare la spirale verso l’alto dei prezzi. Al contrario, nel Paese del Drago si è scatenata la competizione per accaparrarsi clienti locali e le acciaierie sono spuntate come i funghi.
Il risultato è che quando la domanda rallenterà, come prevede Brossard, saranno in molti a dover abbassare le saracinesche e a mettere gli operai per strada. Ora resta da capire perché la richiesta di acciaio sia destinata a diminuire proprio dal 2007, come sostenuto dal capo economista di Euler Hermes. La Cina, l’India e in generale i Paesi in via di sviluppo non hanno forse ancora ampi margini di crescita? La risposta a questa domanda è affermativa. Chi indurrà un decremento produttivo (e dei prezzi) del metallo, infatti, saranno i Paesi avanzati come Stati Uniti e Europa.
Secondo le stime dell’esperto, la crescita del pil mondiale rallenterà nel 2007 al 3% dal 3,7% atteso per quest’anno. «Gli Stati Uniti, dopo avere guidato la ripresa negli ultimi anni, saranno il Paese più esposto agli effetti dell’atterraggio del sistema economico mondiale - ha spiegato a F&M Brossard - La loro crescita rallenterà al 2,3% dal 3,3% previsto per il 2006». Le conseguenze di questa frenata si faranno sentire nel resto del mondo, in particolare nell’Eurozona, dove l’espansione scenderà all’1,7% dal 2,4% previsto per il 2006.
Di conseguenza anche la domanda di acciaio passerà dal +7,5% del 2006 al +4,8% del 2007. In Europa il calo sarà più soft (dal +3% nel 2006 al +1% nel 2007) mentre negli Stati Uniti si arriverà dal 5% alla sostanziale stabilità nel 2007. Anche i prezzi si raffredderanno e il valore dell’acciaio, rispetto ai 550 dollari a tonnellata attuali, si fisserà attorno ai 450 dollari a tonnellata.
 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

 

 

 

  Borsa: per l'Europa un fine anno da fuochisti ?

17 Settembre 2006 Milano - di Borsa&Finanza
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Che Borsa farà in Europa, nell’ultima parte dell’anno? Dopo la correzione di maggio i mercati del Vecchio Continente (la storia si replica Oltreoceano) sono in fase laterale. Una situazione d’incertezza che potrebbe trasformarsi in un periodo di ribasso o, viceversa, in una più decisa ripresa. Gli esperti, interpellati da B&F, propendono per la seconda tesi: negli ultimi 100 giorni dell’anno la Borsa paneuropea ha una buona probabilità di salire. Ben otto, su dieci banche, scommettono su un rialzo; due propendono per un andamento piatto, e nessuna crede a una svolta all’indietro.
Quali le motivazioni di un simile ottimismo? Da un lato c’è la valutazione contenuta delle azioni scambiate sulle piazze del Vecchio Continente; dall’altro, la stabilizzazione del costo del denaro da parte della Federal Reserve e il ripiegamento del prezzo delle materie prime. Sul fronte opposto, il rischio numero uno indicato dagli esperti (peraltro frequentemente dibattuto) è quello di una debacle del settore immobiliare statunitense, capace di spingere in recessione l’America.

FONDAMENTALI POSITIVI. Tra le cause dell’ottimismo, in primo luogo le quotazioni: «assai attraenti», le definisce Ian Richards di Abn Amro. «Basse», secondo Kevin Gardiner di Hsbc. «A livelli minimi», nelle parole di Florent Bronès di Bnp Paribas. Nessuno degli strateghi considera il mercato azionario caro o tirato, ma alcuni di loro tengono a fare dei distinguo. È il caso ad esempio di Ad van Tiggelen di Ing Investment Management: «I listini europei non sono né cari né regalati», afferma. «Semplicemente abbiamo assistito ad una corsa a mozza fiato degli utili e a un’espansione senza precedenti dei margini.
Insomma, il ciclo dei profitti è allo zenit e sta per scollinare. Di qui in avanti, il ritmo di espansione dovrebbe diminuire. Di conseguenza gli investitori non sono disposti a pagare multipli di Borsa elevati perché si aspettano un certo raffreddamento nel 2007». A ciò si aggiunge, secondo Frank Vranken, chief investment strategist di Fortis Private Bank, «il rischio di una graduale ascesa del costo del denaro, il quale staziona tutt’ora al limite inferiore della sua banda di oscillazione. Tassi d’interesse maggiori ridurrebbero l’appeal degli impieghi azionari».

PROFITTI OK. Se è vero che gli utili e i margini sono al massimo degli ultimi 50 anni, è altrettanto vero che i mercati di sbocco si sono moltiplicati, favorendo gli affari delle multinazionali. Ci spiega meglio il concetto Alain Bokobza di Société Genéralé: «Alcuni sono preoccupati a causa del volume record dei profitti rispetto alle dimensioni dell’economia in quanto temono che il trend non sia sostenibile. Ad esempio, si osserva come i guadagni delle società americane sono altissimi rispetto al passato. E lo stesso si potrebbe ripetere per le aziende quotate in Italia e in Francia.
Ma in questo ragionamento viene saltato un passaggio significativo: una volta, il giro d’affari delle imprese francesi o italiane era realizzato quasi totalmente all’interno del perimetro nazionale, mentre ora la globalizzazione ha dischiuso un mercato ben più ampio e dinamico. Si pensi alle società d’ingegneria, alle banche, alle utility, alle multinazionali tedesche e via enumerando. Ecco perché gli utili societari sono in grado di svilupparsi a tassi sensibilmente maggiori di quelli del prodotto interno lordo; almeno per qualche anno».

L’M&A. La tesi rialzista ha diverse altre frecce al proprio arco. Spiega Florent Bronès di BNP Paribas: «La corsa alle fusioni e alle acquisizione guadagnerà nuove prospettive di vita grazie all’ottimo flusso di contante generato dalle compagnie; all’ampia disponibilità di credito e al graduale abbattimento delle barriere nazionali».
Sul fronte degli accorpamenti e delle scalate, però, il Regno Unito vanta forse migliori credenziali rispetto al Continente. Perciò, se si tenta una scelta fra Inghilterra e zona euro, alcuni preferiscono la prima. «Uno dei motori del rialzo - chiarisce Richards - è appunto l’ondata di fusioni e acquisizioni. E bisogna riconoscere che il listino di Londra è meno permeabile alle intrusioni della politica di quanto lo siano le controparti continentali. Ciò offre un vantaggio competitivo». Mario Spreafico di Citigroup, mette poi l’accento sulla piega favorevole presa dalle materie prime: «In pratica è in corso il ridimensionamento generalizzato del prezzo delle commodity, con la prospettiva di alleviare la pressione inflativa».
Condivide la diagnosi di Spreafico Edmund Ng di Morgan Stanley: «L’inflazione negli Stati Uniti ha raggiunto un picco del 4,3%. Noi crediamo che la moderazione del Pil, unita alla flessione dei carburanti, innescherà un repentino rientro del costo della vita entro limiti di tranquillità, sorprendendo in positivo i risparmiatori e gli operatori professionali. Bisogna ricordare che tutte le misure di sentiment indicano grande cautela da parte del pubblico. In altre parole, le famiglie e i gestori sono rimasti in seconda fila, lontano dalle Borse. L’emorragia dai fondi comuni azionari offre l’immagine riflessa del cupo pessimismo nel quale è immersa la clientela retail. Se spunta qualche dato incoraggiante, i risparmiatori rischiano di essere colti in contropiede e, inseguendo le quotazioni, potrebbero dare vita al tradizionale rally di fine anno».

Le minacce a questo scenario idilliaco naturalmente non mancano. La più citata racconta di una sorta di Armageddon finanziario sull’immobiliare Usa che implode e trascina con sè l’economia Usa e Wall Street. Poi c’è l’eventualità di un acuirsi dell’inflazione che costringa la Federal Reserve a rimettere mano alla leva dei tassi. A seguire, gli attentati e l’instabilità geopolitica e, infine, si arriva addirittura al pericolo di una pandemia da influenza aviaria citata da Bronès di BNP Paribas. Tuttavia, a meno di catastrofi gli elementi positivi dovrebbero incidere più di quelli negativi, e il 2006 dovrebbe perciò concludersi nuovamente all’insegna del toro.

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

INVESTITORI IN FUGA DAGLI IMMOBILI APPRODANO A WALL STREET

28 Settembre 2006  Milano - La Lettera Finanziaria
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Non accadeva da 11 anni. E negli ultimi 38 anni è accaduto solo sei volte. In agosto, il prezzo medio delle case esistenti ha invertito il trend ultradecennale al rialzo e ha iniziato a scendere. In particolare, il prezzo medio è diminuito dell'1,7% su base annuale a 225 mila dollari Usa: è la prima volta dall'aprile 1995 ed è il secondo calo assoluto per entità nella storia americana. Il record è stato raggiunto nel novembre 1990 quando i prezzi segnarono un calo del 2,1%.
Il dato ha dunque una certa rilevanza e aumenta la diffidenza verso il settore immobiliare, reduce da una vera e propria bolla innescata dall’abbondante liquidità e dalla politica di tassi accomodanti portata avanti dalla Fed. Ora, dopo 17 rialzi consecutivi del costo del denaro,che hanno inasprito le condizioni a cui poter accedere a un mutuo, e di fronte a un trend di deprezzamento del valore delle abitazioni, gli analisti ipotizzano
un ulteriore disaffezione da parte degli investitori per il settore immobiliare. Non è una novità che le vendite di abitazioni siano in calo. Ad agosto, per esempio, le vendite di case esistenti sono diminuite dello 0,5% a 6,30 milioni di unità. Si è trattato del quinto calo consecutivo e del nono negli ultimi 12 mesi. Mentre il mercato immobiliare vacilla, Wall Street corre verso nuovi record. Un controsenso?
Niente affatto. Per dirla in parole semplici, chi ha soldi da investire preferisce oggi metterli in Borsa piuttosto che acquistare una casa, spiegano gli analisti. Anche perché la politica restrittiva della Fed sembra ormai essere finita e la prossima mossa della banca centrale americana sarà molto probabilmente un taglio del costo del denaro. Ed è risaputo che il denaro meno caro genera una situazione favorevole per le imprese.
Inoltre, la Corporate America resta ben impostata, con attese di utili che continueranno fino a fine anno a crescere a doppia cifra, dopo ben 16 trimestri consecutivi in ciò si verifica (non si era mai visto nella storia americana un periodo così prolungato di crescita così sostenuta degli utili!). La discesa del prezzo del greggio e l’umore ancora positivo dei consumatori completano il quadro di ottimismo che si sta respirando a Wall Street.
 

Fonte - La Lettera Finanziaria