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INDICE ARTICOLI

 

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Politica internazionale - proliferazione nucleare

Una nuova corsa asiatica al nucleare ?

Politica internazionale - USA: elezioni di metà mandato

Saper leggere il prezzo della benzina

Macroeconomia & Mercati

Attenzione al ciclo del dividendo

Sistema finanziario

Parla Soros: Hedge Funds fuori controllo

Macroeconomia & Mercati

Ecco gli effetti dello sboom immobiliare USA

Macroeconomia & Mercati

Lo scacchiere economico e i record di Borsa

Sentiment Borse

Wall Street fa già festa per i tagli di Ben

 

+++   Test nucleare coreano, Washington minaccia sanzioni economiche   +++   Anche la Cina si unisce al dissenso generale sul test nord-coreano   +++   Il Giappone definisce come atto imperdonabile il test atomico di Pyong Yiang   +++

Mercoledì  4  ottobre  2006   Domenica  8  ottobre  2006   Mercoledì  11  ottobre  2006
   
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   Una nuova corsa asiatica al nucleare ?

14 Ottobre 2006 NewYork - di Amy Goodman
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La Corea del Nord ha effettuato il suo primo test nucleare, scatenando un’ondata di condanne da parte della comunità internazionale. Amy Goodman ne parla con il giornalista free-lance Tim Shorrock (‘The Nation’, ‘AlterNet’, ‘Asia Times’, ‘Mother Jones’…), che si occupa delle vicende Stati Uniti-Corea del Nord da oltre 20 anni.
Il test è stato effettuato alle 10:36 ora locale di lunedì mattina. Secondo le dichiarazioni di un ufficiale superiore statunitense, la Cina avrebbe ricevuto un avvertimento 20 minuti prima del test e a sua volta lo avrebbe riferito a Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. L’Istituto geologico statunitense ha comunicato di aver registrato una scossa sismica di magnitudo 4.2 della scala Richter nella penisola coreana.
Qualche minuto più tardi, l’agenzia di stampa ufficiale della Corea del Nord, la Korean Central News Agency (KCNA), ha reso noto che il test sotterraneo “è stato un trionfo” e “che non ha comportato nessuna dispersione di radiazioni”. L’agenzia lo ha definito "un evento storico, fonte di grande gioia per il nostro esercito e il nostro popolo".
L’operazione ha suscitato dure condanne a livello internazionale. Gli Stati Uniti hanno definito il test un "atto provocatorio". La Cina ha espresso il proprio “risoluto dissenso", affermando che "si tratta di un gesto di sfida alla comunità internazionale". Il primo ministro giapponese Shinzo Abe lo ha definito "un gesto imperdonabile" e ha dichiarato che la regione sta "entrando in un’era nucleare nuova e pericolosa ". Gli ufficiali militari della Corea del Sud hanno ordinato ai propri soldati di stare in allerta.
La settimana scorsa, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva esortato la Corea del Nord a non effettuare alcun test, minacciando, in caso di rifiuto, conseguenze non meglio specificate.

Pyongyang si è ritirata dal Trattato di non proliferazione nucleare nel 2003, rinunciando per un anno a partecipare a negoziazioni aventi lo scopo di arrestare le proprie ambizioni.
Il test effettuato cade in occasione del nono anniversario della nomina del leader Kim Jong Il a capo del Partito dei Lavoratori coreano. E arriva proprio un giorno prima dell’elezione del ministro degli esteri sudcoreano Ban Ki Moon a segretario generale delle Nazioni Unite.

AMY GOODMAN: Tim Shorrock è un giornalista indipendente, si occupa dei legami Stati Uniti-Corea da decenni. È in collegamento telefonico con noi dalla sua casa nel Tennessee. Benvenuto a Democracy Now!, Tim.
TIM SHORROCK: Grazie.
AMY GOODMAN: Potresti parlarci del significato di questo test nucleare?
TIM SHORROCK: Beh, si tratta di un evento di enorme rilievo per la Corea, per gli Stati Uniti e per tutti i paesi dell’estremo oriente, ma non credo sia stata una sorpresa per nessuno. Si sa che la Corea del Nord da anni sta sviluppando ordigni nucleari e sta cercando disperatamente di usare il suo plutonio e le sue armi per ottenere negoziazioni bilaterali e instaurare un nuovo legame, si dice, con gli Stati Uniti. Un paio di anni fa, i coreani hanno mostrato ad un gruppo di scienziati statunitensi che stavano producendo plutonio. Quindi, sappiamo che da tempo miravano a produrre armamenti, e alla fine l'hanno fatto. Questo fa della Corea del Nord l’ottava potenza nucleare del mondo (nota di WSI: in realta' e' la nona, dopo Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Israele, Cina, India e Pakistan) – il che rappresenta un balzo clamoroso, soprattutto nell’unica parte del mondo dove le armi nucleari sono state impiegate in una guerra.
AMY GOODMAN: Esiste qualche ragione per credere che ciò avrebbe potuto essere evitato?
TIM SHORROCK: Sì. Come ho detto, i nordcoreani hanno chiesto in tutti i modi possibili negoziazioni bilaterali con gli Stati Uniti, ma l’amministrazione Bush, sin dall’inizio del suo mandato, si è sempre rifiutata di dialogarvi. In un primo tempo, penso che l’idea fosse che la Corea del Nord sarebbe crollata sotto il suo stesso peso. Molti ricorderanno che quando l’ex presidente sudcoreano Kim Dae-Jung – a lungo dissidente del regime militare ed eletto presidente della Corea del Sud alla fine degli anni novanta, il primo a creare un vero legame politico-economico con la Corea del Sud, mai esistito dai tempi della guerra di Corea – arrivò alla Casa Bianca, subito dopo l’insediamento di Bush, quest’ultimo rifiutò pubblicamente le politiche del Presidente sudcoreano, le cosiddette "Sunshine Policies" (vedi nota 1 a fondo pagina), affermando di non potersi fidare in nessun modo dei nordcoreani. Dal quel momento in poi, i legami si sono deteriorati.
Poco dopo l’11 settembre, i nordcoreani decisero di abbandonare il precedente accordo stipulato con gli Stati Uniti, e ribadirono costantemente la richiesta di confronti e negoziazioni bilaterali con gli Stati Uniti. Bush si è sempre rifiutato.
AMY GOODMAN: Potresti illustrarci la sostanziale differenza tra il Clinton e Bush nel modo di trattare con la Corea del Nord?
TIM SHORROCK: Beh, l’amministrazione Clinton accettò di negoziare direttamente con il governo. Alla fine del 2000, poco prima del cambio di amministrazione, l’ex segretario di Stato Madeleine Albright si trovava a Pyongyang, dove si incontrò con il presidente nordcoreano. A quel tempo, la corea del Nord e gli Stati Uniti avevano stipulato un accordo secondo il quale la prima avrebbe sospeso il proprio programma nucleare in cambio di aiuti economici e di migliori rapporti con gli Stati Uniti. Mentre la Albright si trovava nella capitale nordcoreana, vennero avviate negoziazioni con l’obiettivo di bloccare i test nucleari e la produzione di missili. Tali negoziazioni franarono quando Bush s’insediò, e da allora la sua amministrazione ha regolarmente rifiutato qualsiasi trattativa diretta con i nordcoreani.
E tutti i paesi facenti parte di questi negoziati a sei – Russia, Cina, Giappone, soprattutto Russia, Cina e Corea del Sud, naturalmente – hanno sempre affermato la necessità di trattative e confronti diretti tra i due paesi. Si tratta dell’unico modo per risolvere la questione, perchè la Corea del Nord si vede in conflitto non con altri paesi ma direttamente con gli Stati Uniti. I nordcoreani considerano le armi nucleari l’unico modo per garantire la propria sopravvivenza.
AMY GOODMAN: È curioso che il trambusto attuale giunga in un momento in cui gli Stati Uniti hanno aumentato la pressione sull'Iran e non sulla Corea del Nord. È stata focalizzata l’attenzione su un paese che le armi nucleari non le possiede ancora, nonostante tutte le indicazioni portassero ad “occuparsi” di Pyongyang.
TIM SHORROCK: Certo. Penso che fossero già stati predisposti diversi piani, che fossero stati delineati diversi campi d’azione. Tuttavia, l’amministrazione Bush, talmente presa dall’Iraq e dalla pianificazione degli scenari in Iran, abbia deliberatamente tralasciato ogni cosa. Credo sia un grave errore, che mostra il fallimento delle politiche di Bush nel nord-est asiatico.
AMY GOODMAN: Tim, parliamo della Cina e del Giappone. È stata la Cina a mettere in guardia gli Stati Uniti non appena la Corea del Nord ha rivelato l’intenzione di condurre il recente test nucleare.
TIM SHORROCK: Esatto. Gli Stati Uniti contano sulla Cina per limitare ogni ambizione di Pyongyang, per metterle pressione. La Corea del Nord e la Cina sono alleati. Durante la guerra di Corea, i cinesi entrarono nel conflitto per impedire agli Stati Uniti di occupare e prendere il controllo dell’intera Corea. Respinsero gli Stati Uniti al 38° parallelo e persero milioni di soldati. Quel legame è stato molto forte, e in realtà continua ad esserlo. I cinesi sono ovviamente preoccupati su cosa potrebbe succedere se la Corea del Nord acquisisse armi nucleari, sul fatto che il Giappone potrebbe in seguito procurarsene, e così via. E oggi hanno assunto una posizione molto critica riguardo questo il test in questione.
Ciononostante, poiché esiste questo legame – dobbiamo ricordare che gli stessi neocon che ci hanno portato in Iraq, e premono affinché gli Stati Uniti intervengano in Iran, vedono la Cina come la sfida strategica, ossia il vero nemico – negli ultimi 5-10 anni in Asia è in corso questo infinito balletto tra cinesi e americani, ognuno vuole imporre la propria influenza. Da una parte abbiamo la Cina, non direttamente alleata, ma ora più o meno sorprendentemente coinvolta economicamente e politicamente sia con la Corea del Sud sia con la Corea del Nord. Anche numerose nazioni del sud-est asiatico hanno instaurato stretti legami con la Cina. Dall’altra parte, invece, abbiamo Stati Uniti e Giappone che stanno congiuntamente fortificando i propri eserciti per cercare di contrastare l’avanzata di Pechino. Esiste questa dinamica per cui i cinesi sono preoccupati sia per sé che per il fatto che la Corea del Nord possa essere loro alleata in questa disputa.
C’è un articolo molto interessante oggi molto citato, scritto da uno studioso cinese di nome Shen Dingli, che ripercorre la storia dei legami della Cina con la Corea del Nord e il motivo per cui un test nucleare potrebbe risultare vantaggioso per entrambi i paesi. Si rivela come la Corea del Nord abbia obbligato gli Stati Uniti a collocare centinaia di truppe e missili ed altre forze in Corea del Sud, in prossimità del nord-est cinese – il che rassicura la Cina. Credo sarà molto difficile che la Cina rinneghi definitivamente il proprio legame con i nordcoreani e insorga contro il loro paese.
Sarà interessante vedere nei prossimi giorni e nelle prossime settimane cosa in effetti succederà, poiché non credo che la Cina trasformerà la Corea del Nord in un proprio nemico. Magari appoggeranno qualche tipo di sanzione economica, ma oltre a ciò dubito davvero che possano votare a favore dell’impiego della forza o di blocchi navali e cose del genere.
AMY GOODMAN: Tim, concludendo... tutto ciò è accaduto un giorno prima dell’elezione del ministro degli esteri sudcoreano Ban Ki Moon a segretario generale delle Nazioni Unite...
TIM SHORROCK: L’ultima volta che i nordcoreani hanno testato missili nucleari è stato il 4 luglio – è evidente che sono ben coscienti del valore simbolico temporale. È anche interessante sapere che il primo ministro giapponese Abe si è trovato in visita a Seul lo stesso giorno del test. Credo che il ruolo del Giappone sia piuttosto critico. Il predecessore di Abe, dopo tutto, aveva mandato su tutte le furie la Cina, la Corea del Sud e molti altri paesi per aver visitato il sacrario dove sono sepolti i criminali di guerra giapponesi. Penso che i legami tra il Giappone e la Cina e tra il giappone le due Coree siano labili proprio per questo. Perciò, non è un buon momento per dare vita a un’alleanza contro la Corea del Nord capeggiata dagli Stati Uniti . Ci vorrà tempo. Ma credo che l’unica cosa che impedirà di arrivare ad una crisi vera e propria sia che gli Stati Uniti accettino di negoziare direttamente con Pyongyang.
AMY GOODMAN: Tim, grazie per essere stato con noi.
 

nota 1. Con “Sunshine Policy” si intende il fondamento delle politiche della Repubblica di Corea che hanno lo scopo di raggiungere pace nella penisola coreana per mezzo della riconciliazione e della cooperazione tra il Nord e il Sud (NdT).
 

Traduzione a cura di Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media

Fonte - Democracy Now!

 

 

 

 

 

 

IL GREGGIO AI MINIMI DELL'ANNO
 

5 Ottobre 2006 NEW YORK - di Luca Testoni
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Il balzo a sorpresa delle scorte Usa affonda il barile ai minimi dell’anno (il Brent tocca i 57,7 dollari a Londra, prima di tornare sopra i 59 in serata). E si intravede la soglia psicologica dei 55 dollari, livello attorno al quale l’analisi tecnica individua la trendline che ha sostenuto la fase rialzista degli ultimi due anni e che fa da supporto alle quotazioni. Sotto tale soglia, la caduta potrebbe così aumentare di velocità.
A provocare l’ennesimo ribasso del Brent (ormai lontano dai 78 dollari di inizio agosto) sono stati i dati del Dipartimento dell’energia Usa: la scorsa settimana le scorte di greggio sono cresciute di 3,36 milioni di barili, a quota 328,1 milioni, mentre ci si attendeva una riduzione di oltre un milione di barili. A frenare la caduta del greggio non è bastata la prospettiva di un taglio produttivo Opec lasciata intendere dal Kuwait.
Il mercato non reagisce nemmeno ai cali di produzione che alcune major hanno anticipato sul terzo trimestre. A dover mordere il freno nell’estrazione saranno la norvegese Statoil, che paga il progressivo prosciugarsi dei giacimenti nel Mare del Nord, ConocoPhillips e Bp: su entrambe pesa lo stop forzato dei pozzi dell’Alaska, a Prudhoe Bay, ma per la compagnia inglese si tratta del sesto trimestre consecutivo di calo produttivo, mentre per Conoco i guai nel Nord America hanno contato solo per una frazione del calo complessivo della produzione.
Insomma, la spinta ribassista ha più forza dei livelli di estrazione. Secondo Barclays Capital, «il mercato dei future al Nymex la scorsa settimana ha registrato un ulteriore calo delle posizioni in acquisto speculative al netto di quelle in vendita. Il livello è ai minimi da marzo». Addirittura, nei future per il gasolio da riscaldamento, prevalgono i contratti di vendita a termine. «Questo potrebbe indicare che la pressione ribassista - aggiunge Barclays - provocata dalla speculazione è finita».

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

  

 
 

 


   Saper leggere il prezzo della benzina

7 Ottobre 2006 New York - di Micheal T. Klare
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Il prezzo del petrolio grezzo, che nel corso dell’estate minacciava di superare gli 80 dollari al barile, ultimamente è sceso per la prima volta in sei mesi – anche se per poco – sotto i 60 dollari, un ribasso del 23% rispetto ai picchi di luglio. Secondo il Dipartimento dell’Energia Usa, il prezzo della benzina nel Midwest, che fino a poco tempo fa era salito vertiginosamente fino a 3 dollari alla pompa, ora si mantiene su scala nazionale a un minimo di 2.20 al gallone (addirittura 1.89 in una stazione di servizio di Jackson, nel Missouri).
Al tempo stesso, un’altra percentuale cresce rapidamente. Secondo un recente sondaggio Gallup, il 42% degli Americani "concorda che l’amministrazione Bush ha deliberatamente manipolato il prezzo della benzina per far sì che scendesse poco prima delle elezioni autunnali". Due terzi degli intervistati sono esponenti del partito Democratico, per il quale la questione del costo del petrolio alla pompa si è rivelato un’argomentazione vincente.
Tali opinioni potranno sembrare faziose, ma non mancano di logica. Dopotutto, il presidente Usa Bush e il suo vice Cheney sono saliti al potere grazie al solido legame con l’industria energetica (grande sostenitrice del partito repubblicano Usa) e hanno subito favorito la compagnia Halliburton prima nell’esercito, poi in Iraq, e più tardi ancora a New Orleans; la Chevron aveva già battezzato una sua petroliera a doppio scafo con il nome di Condoleeza Rice, in onore del primo consigliere per la sicurezza nazionale (ora segretario di Stato). Infine, sia il primo ambasciatore americano in Afghanistan dopo la caduta dei talebani sia l’attuale ambasciatore (leggi: viceré) di Baghdad, Zalmay Khalilzad, erano già consiglieri di Unocal, la compagnia che aveva trattato, senza successo, per la costruzione di un condotto di gas naturale attraverso l’Afghanistan dei talebani.
Inoltre, Dick Cheney, responsabile del governo per la politica energetica nazionale, seguì tale progetto – com’è noto, per quanto lui neghi – organizzando incontri segreti con i dirigenti di Big Oil, nel 2001. Vari funzionari di Exxon Mobil, Conoco, Shell e BP America si incontrarono con gli assistenti di Cheney, e il direttore generale di BP fu ricevuto da Cheney in persona. La Chevron fu una tra le molte compagnie energetiche che, secondo il GAO (Government Accountability Office), "fornirono dettagliate raccomandazioni sulla politica energetica" allo staff del vice presidente Usa – mentre gli tutti ambientalisti venivano, è ovvio, completamente ignorati.
Le compagnie petrolifere – com’è altrettanto noto – hanno fatto un bel po’ di quattrini grazie ai profitti sproporzionati degli ultimi anni (e i petrolieri grazie agli esagerati benefit aggiuntivi), con la benedizione dell’amministrazione Bush; non si può quindi escludere che i funzionari di Washington possano aver abusato del proprio potere per ottenere qualche mese di energia a basso costo in cambio di un altro paio di anni di mega-profitti. Non esiste al momento però nessuna prova che lo confermi. Quanto agli altri motivi che hanno portato alla caduta del prezzo della benzina, se ne conoscono diversi – soprattutto grazie a Michael Klare, ospite fisso delle pagine di 'Tomdispatch' e autore del noto Blood and Oil. Riportiamo di seguito le sue risposte alle domande che tutti noi abbiamo per la testa.
Tom Engelhardt

Ma che diavolo sta succedendo? Appena un paio di mesi fa, il prezzo della benzina alla pompa si aggirava sui 3 dollari al gallone; oggi scende a poco a poco verso i 2 – e alcuni osservatori prevedono cifre ancora più basse prima delle elezioni di novembre. Il netto calo del costo della benzina è una buona notizia per il consumatore, che attualmente non ha più in tasca nemmeno un soldo per cibo e generi di prima necessità. Ma è una buona notizia anche per Bush, il cui indice di gradimento ha conosciuto un’improvvisa impennata.
Che sia il risultato di una cospirazione segreta tra la Casa Bianca e Big Oil per sostenere la causa repubblicana nelle prossime elezioni, come qualcuno suggerisce? Ma come si inserisce un’eventuale guerra contro l’Iran in questa equazione tra costi e benzina? E ancora, cosa ci dicono i prezzi in discesa sulla teoria del “peak oil”, secondo la quale abbiamo già raggiunto il limite massimo di disponibilità energetica sul pianeta?
Dopo che il prezzo dei carburanti ha iniziato a scendere rapidamente verso la metà di agosto, molti esperti hanno tentato di giustificare tale caduta, ma nessuno è ancora riuscito a fornire una spiegazione del tutto convincente. Il che rende plausibili le asserzioni secondo le quali l’amministrazione Bush e i suoi alleati di vecchia data nell’industria petrolifera starebbero manipolando i prezzi dietro le quinte. Secondo il mio punto di vista, il risultato determinante di questa flessione dei prezzi è stato semplicemente quello di attenuare considerevolmente “l’elemento paura” – la preoccupazione che il costo del greggio raggiungesse i 100 e più dollari al barile per via dell’allargamento della crisi in Medio Oriente, o che l’amministrazione Bush colpisse gli stabilimenti nucleari in Iran, o ancora che si scatenassero nel Golfo del Messico altri uragani come Katrina che avrebbero danneggiato le piattaforme petrolifere al largo della costa.
All’inizio dell’estate, quando il prezzo del petrolio cominciò la sua scalata, molti analisti avevano previsto per la fine della stagione o l’inizio dell’autunno uno scontro tra Stati Uniti e Iran (che coincideva grossomodo con l’altrettanto prevista intensa stagione degli uragani). Questo spinse commercianti e petrolieri a riempire i depositi con petrolio al prezzo di 70-80 dollari al barile. Costoro si aspettavano infatti di poter trarre grossi profitti dalla vendita delle scorte, nel caso in cui i rifornimenti dal Medio Oriente fossero stati sospesi e/o eventuali tempeste avessero devastato il Golfo del Messico.
Poi fu la volta della guerra in Libano. Inizialmente la crisi sembrò confermare le previsioni, aumentando soltanto la paura di un conflitto esteso a tutta la regione, che coinvolgesse anche l’Iran. Il prezzo del greggio raggiunse livelli da record. Nei primi giorni di guerra, l’amministrazione Bush assecondò tacitamente Israele nell’azione contro il Libano, credendo di poter in tal modo porre le basi per una campagna analoga contro gli obiettivi militari iraniani. Ma il successo riscosso da Hezbollah nel respingere l’esercito israeliano, sommato alle terrificanti immagini delle vittime civili trasmesse, costrinse i leader statunitensi ed europei a intercedere ponendo fine alle ostilità.

Non sapremo mai esattamente cosa spinse la Casa Bianca a cambiare rotta in Libano, ma il rincaro del prezzo del petrolio – e l’idea che il peggio dovesse ancora arrivare – giocarono sicuramente un ruolo determinante nelle valutazioni del governo americano. Non appena fu chiaro che la resistenza contro gli israeliani era più forte del previsto, e che gli iraniani sarebbero stati capaci di provocare danni di ogni sorta (tra cui, potenzialmente, lo scompiglio più totale del mercato mondiale del petrolio), i più saggi tra le schiere del partito repubblicano conclusero senza esitazione che un’ulteriore escalation o estensione della guerra avrebbe immediatamente spinto il prezzo del greggio oltre i 100 dollari al barile. Il costo della benzina alla pompa sarebbe quindi salito a 4-5 dollari al gallone, assicurando la sconfitta repubblicana alle prossime elezioni. Questo naturalmente succedeva all’inizio dell’estate, molto prima dell’arrivo della stagione degli uragani; sarebbe bastato aggiungere anche solo una tempesta della stessa potenza di Katrina a questo scenario per segnare il destino dei repubblicani Usa.
Ad ogni modo, alla fine Bush ha dato il suo consenso al segretario di Stato Condoleezza Rice per condurre, assieme all’Europa, le trattative per fermare la guerra in Libano, e da allora ha evitato qualsiasi accenno evidente a un possibile attacco all’Iran. Sempre attento a non scartare in maniera esplicita l’opzione militare quando si parla di impianti nucleari in Iran, da giugno il presidente Bush insiste fermamente nel dare una possibilità all’intervento diplomatico. Nel frattempo, siamo quasi riusciti a superare la stagione degli uragani, e non una singola tempesta-catastrofe ha finora colpito gli Stati Uniti.
Per tutte queste ragioni, nell’immediato si sono dissipati i timori di uno scontro con l’Iran, di una possibile estensione del conflitto ad altre regioni petrolifere del Medio Oriente, e di eventuali uragani provenienti dal Golfo del Messico – di conseguenza il prezzo del greggio è crollato. In aggiunta, sembra che l’economia mondiale stia rallentando in maniera percepibile – situazione aggravata, in parte, dai prezzi in aumento delle materie prime – portando quindi a una minore richiesta di petrolio. Risultato? I commercianti al dettaglio hanno a portata di mano abbondanti scorte di benzina: da qui – per la legge della domanda e dell’offerta – i prezzi in discesa.
Trovare energia in aree di difficile accesso
Per quanto ancora prevarrà questa combinazione di fattori?
Ipotesi migliore: il rallentamento nella crescita economica mondiale continuerà ancora per qualche tempo, portando il costo della benzina ad un ulteriore calo. Questo potrebbe favorire i venditori al dettaglio giusto in tempo per Natale – stagione degli acquisti che si prevede in generale leggera ripresa rispetto allo scorso anno, proprio grazie alla benzina più economica.
Ma una volta trascorso il periodo elettorale, Bush avrà meno interesse a mantenere contenuta la sua retorica nei confronti dell’Iran, e si potrebbe assistere a una netta ripresa degli attacchi ad Ahmadinejad. Se per la fine dell’anno non ci saranno progressi sul fronte diplomatico, dovremo aspettarci un’accelerazione dei preparativi per la guerra – che in realtà è già in moto – nel Golfo Persico (scenario già visto all’epoca dei preparativi militari di fine 2002 - inizio 2003, prima dell’invasione dell'Iraq). Tutto questo naturalmente porterà a un intensificarsi della “paura” e all’inversione della tendenza dei prezzi della benzina, che però ripartiranno al rialzo da un livello di molto inferiore ai 2 dollari al gallone.
Arrivati a questo punto, possiamo dire che il recente calo del prezzo dei carburanti e l’apparente improvvisa abbondanza relativa di petrolio smentiscano la tesi secondo la quale avremmo già raggiunto il “peak oil”? La teoria del peak-oil, che è andata catturando sempre maggior attenzione fino a quando il prezzo alla pompa è tornato a scendere, sostiene che le riserve di petrolio del pianeta sono limitate e che, non appena avremo consumato circa la metà delle riserve mondiali originarie, la produzione raggiungerà un livello massimo o “di punta”, superato il quale la disponibilità giornaliera entrerà in una fase decrescente senza ritorno, nonostante gli sforzi sul fronte dell’esplorazione e delle nuove tecnologie di estrazione.
La maggior parte degli analisti concordano che la produzione mondiale di petrolio raggiungerà prima o poi il suo culmine massimo, ma stabilire quando arriverà quel momento è questione ancora aperta. Un numero sempre maggiore di esperti – molti dei quali hanno fondato l’ASPO (Association for the Study of Peak Oil) – hanno recentemente dichiarato che circa metà dell’originaria eredità del pianeta, consistente in 2 mila miliardi di barili di petrolio convenzionale (allo stato liquido), sia stata già consumata. Siamo arrivati a quel famoso peak-oil, o ci siamo comunque molto vicini. Possiamo dunque aspettarci un imminente calo della produzione.
Nell’autunno 2005, quasi a conferma di questa tesi, il direttore generale di Chevron, David O'Reilly, finì su giornali e riviste a con la seguente dichiarazione: "Una cosa è certa: l’era del petrolio a basso costo è finita... La richiesta è alle stelle, come mai prima d’ora... Allo stesso tempo, molti bacini di petrolio e gas sul pianeta si stanno esaurendo. Nuove riserve energetiche sono presenti in luoghi in cui tali risorse sono difficili da estrarre – dal punto di vista fisico, economico, e anche politico. Se l’aumento della richiesta si scontra con un’offerta sempre più limitata, il risultato non potrà che essere lo scatenarsi di un’agguerrita competizione per le risorse stesse".
Non è questo però lo scenario cui stiamo assistendo. Le riserve di petrolio oggi, in effetti, sono più abbondanti di sei mesi fa. Sono stati rinvenuti nuovi promettenti giacimenti di gas e di greggio nel Golfo del Messico, e allo stesso tempo un contributo alle riserve mondiali è stato dato anche dalla realizzazione di nuovi condotti – tra cui il Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), da 4 miliardi di dollari, che va dal mar Caspio alla costa mediterranea della Turchia. Possiamo quindi pensare che la teoria del peak-oil sia ormai superata o che per lo meno il momento del picco sia ancora lontano?
La situazione attuale non dovrebbe affatto farci concludere che la teoria del peak-oil sia sbagliata. Tutt’altro. Come suggeriva il direttore generale di Chevron, O'Reilly, le scorte energetiche rimanenti sul pianeta sono situate per lo più "in zone in cui le risorse sono difficili da estrarre – dal punto di vista fisico, economico, e anche politico". Così è come stanno le cose.
Per fare un esempio, la tanto proclamata nuova scoperta nel Golfo del Messico, la cosiddetta “Sorgente Jack No. 2” di Chevron, è situata a 5 miglia di profondità tra mare e roccia, e circa 175 miglia a sud di New Orleans, in un’area in cui negli ultimi anni, come abbiamo visto, gli uragani Ivan, Katrina e Rita hanno raggiunto la massima potenza, infliggendo enormi danni alle piattaforme petrolifere al largo della costa.
Per quanto Jack No. 2 possa sembrare promettente a seguito della macchina pubblicitaria dell’industria petrolifera, è piuttosto ingenuo escludere che in futuro non potrà subire l’azione di uragani forza 5, soprattutto in tempi in cui il riscaldamento globale agisce nel Golfo del Messico generando tempeste ancor più violente. Naturalmente, Chevron non investirebbe miliardi di dollari in costose tecnologie per sfruttare una sorgente energetica così precaria se sulla terraferma o nei pressi della costa ci fossero opportunità migliori – la maggior parte delle riserve facilmente accessibili, però, sono ormai esaurite, lasciando ai magnati ben poca scelta.
E parliamo pure del condotto BTC, altrettanto decantato, che nel mese di luglio ha trasportato il suo primo carico di petrolio, paternamente assistito dai più alti funzionari statunitensi. Il condotto si estende lungo un percorso di 1.040 miglia da Baku, nell’Azerbaijan, al porto mediterraneo di Ceyhan, in Turchia, attraversando non meno di sei potenziali o effettive zone di guerra: l’enclave armena di Nagorno-Karabakh, nell’Azerbaijan; la Cecenia e il Dagestan in territorio russo; l’Ossezia del Sud e l’Abkazia, aree musulmane separatiste in Georgia; infine, le regioni curde in Turchia. Sono questi i luoghi in cui chiunque sia sano di mente costruirebbe un condotto petrolifero? Certamente no, se non fosse alla disperata ricerca di petrolio, e se i giacimenti più sicuri non si stessero prosciugando.
In realtà, quasi tutti gli altri nuovi giacimenti acquisiti o presi in considerazione dagli Stati Uniti e dalle compagnie energetiche internazionali – come la riserva ANWR in Alaska, le giungle colombiane, la Siberia settentrionale, l’Uganda, il Chad, l’isola di Sakhalin all’estremità orientale della Russia – sono situati in aree difficilmente accessibili, ecologicamente sensibili, o semplicemente pericolose. La maggior parte di questi giacimenti verranno sfruttati e produrranno rifornimenti di petrolio supplementari, ma se si è costretti ad appoggiarsi a queste zone significa che il peak-oil è già realtà e che, in generale, il prezzo del petrolio, nonostante alcune flessioni, tenderà a salire, perché i costi di produzione in queste insidiose zone continueranno a salire a loro volta.
La vita sull’altopiano del peak-oil
I teorici del peak-oil, tuttavia, affermando a scopo retorico che “il momento fatidico sarà... un picco decisamente a punta”, rendono un disservizio un po’ a tutti. Descrivono un grafico in cui la curva di produzione sale semplicemente e rapidamente verso l’alto giungendo a un apice, cui segue una discesa altrettanto netta e ripida. Forse, guardando indietro tra 500 anni, questo periodo potrà essere raffigurato proprio così sui grafici dei produttori mondiali di petrolio. Ma per noi che lo viviamo adesso, il “picco” sembra più che altro un altopiano – che durerà forse una decina d’anni o più – all’interno del quale la produzione globale di greggio attraverserà occasionalmente alti e bassi senza sostanziali impennate (come sostiene chi rifiuta la teoria del peak-oil) o cadute precipitose (come predetto invece dai suoi più accaniti sostenitori).
In questo “periodo di mezzo”, eventi particolari – un uragano, lo scoppio di un conflitto in una regione petrolifera – limiteranno temporaneamente i rifornimenti, facendo salire il costo dei carburanti; la realizzazione di nuovi bacini o condutture – o più semplicemente, come sta accadendo oggi, l’attenuazione dei timori immediati e un incremento temporaneo delle scorte energetiche – produrranno un calo dei prezzi. Alla fine, inevitabilmente, raggiungeremo l’estremità dell’altopiano, e il declino previsto dai teorici potrà avere inizio.
Nel frattempo, viviamo su questo altopiano, nel bene e nel male. Se quest’anno la stagione degli uragani passerà senza tempeste di rilievo, e se i prossimi mesi trascorreranno senza nuove gravi crisi in Medio Oriente, allora è probabile che il 2007 inizierà con un ribasso del costo dei carburanti come non si vedeva da tempo. Ma che non è, in realtà, sintomo di una comprovata tendenza. Dato che le riserve mondiali di petrolio non saranno mai più realmente abbondanti, basterà un nuovo sussulto a riportare il prezzo del greggio sugli 80 dollari al barile e oltre. Questo è il mondo in cui viviamo; la situazione non migliorerà fino a che non riusciremo a dare vita a un nuovo sistema energetico, basato su fonti alternative al petrolio e combustibili rinnovabili.

Micheal T. Klare è docente all’Università di Hampshire, Massachusetts, dove insegna Pace e Sicurezza Mondiale. È autore di 'Blood and Oil: The Dangers and Consequences of America’s Growing Dependence on Imported Petroleum' e di 'Resources Wars, The New Landscape of Global Conflict'.

 

Traduzione a cura di Francesca Campisi per Nuovi Mondi Media

Fonte - www.tomdispatch.com

 

 

 

 

Mercoledì  4  ottobre  2006   Lunedì  9  ottobre  2006   Martedì  10  ottobre  2006
   
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ALLARME TASSI AL 4%

4 Ottobre 2006  Milano - di La Lettera Finanziaria

Il denaro facile è morto. Questa la sensazione degli economisti di Morgan Stanley, secondo i quali la Bce si appresterebbe a condurre una vera e propria campagna di rialzi del costo del denaro in Eurolandia. "Nell'Eurozona, il ciclo del denaro facile è alla fine'', spiegano gli analisti della prestigiosa banca d'affari, secondo i quali Fraconforte alzerà il tasso refi al 3,25% domani 5 ottobre, per poi portarlo a fine anno al 3,50%.
Ma gli interventi non finiscono qui perché, dicono gli economisti di Morgan Stanley ''c'è il rischio significativo che la Bce non si fermerà al livello di supposta neutralità. Noi lo ipotizziamo al 3,5%, ma Francoforte porterà il costo del denaro all'interno di un sentiero restrittivo anche nel 2007. Alcuni membri del Board della banca centrale vedono infatti il livello di neutralita' al 4% e anche oltre''. Per Morgan Stanley quindi, l'impostazione restrittiva della Bce, che segue quella praticata dalla Fed drenando liquidità, renderà più vulnerabili i prezzi dei bond e il mercato obbligazionario potrebbe avviarsi lungo un classico sentiero ''bearish''.
D’altra parte, un aumento dei tassi di un quarto di punto al 3,25% viene dato per certo da tutti gli analisti, secondo i quali la Bce, nella riunione del consiglio direttivo in programma il 5 ottobre a Parigi, sceglierà di continuare la stretta in modo graduale.
I dubbi degli esperti riguardano invece l'orientamento per il 2007 della banca centrale europea. Su un pool di 30 economisti interpellati dalle agenzie di stampa Afx news e France Presse, 29 prevedono un aumento al 3,25% e uno solo punta su una mossa unica di 50 punti base nell'incontro in programma dopodomani. Per 28 economisti, la Bce continuerà la stretta con un secondo aumento da un quarto di punto al 3,5% a inizio novembre. Riguardo alla riunione di Parigi, dice Jonathan Loynes di Capital Economics, "qualsiasi cosa che non fosse un aumento di un quarto di punto, sarebbe un vero shock per i mercati e farebbe sorgere gravi dubbi sulla capacità di comunicazione della Bce".
Nella conferenza stampa di dopodomani, gli osservatori studieranno quindi molto attentamente le parole del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet il quale, dopo aver parlato di un atteggiamento "molto vigile" nello scorso appuntamento con la stampa (a fine agosto) per preparare l'aumento di giovedì prossimo, dovrebbe ora annunciare l'intenzione di "monitorare con molta attenzione" tutti i rischi inflazionistici. Questa frase, secondo molti analisti, segnalerebbe l'intenzione di aumentare nuovamente i tassi di interesse fra due mesi, in dicembre.
Anche un lieve cambiamento di tono potrebbe essere indicativo: "un'espressione alternativa - dice Julian Callow di Barclays Capital - potrebbe essere 'monitorare con attenzione', il che suggerirebbe che la Bce non è sicura se aumentare nuovamente i tassi in dicembre". Inoltre, se Trichet ribadirà la necessità, a fronte di una crescita economica in linea con le previsioni, di "una graduale rimozione della posizione accomodante della politica monetaria", questo sarebbe un chiaro segnale, dicono gli esperti, che la Bce non si fermerà al 3,5% di dicembre.
L'aumento dei tassi di un quarto di punto previsto dopodomani a Parigi sarebbe il quinto per la Bce da quando è partita la stretta nel dicembre scorso e riporterebbe il tasso di riferimento al livello del novembre 2002. Il 3,5% che dovrebbe essere raggiunto in dicembre si collocherebbe, secondo gli esperti, nella parte bassa di una gamma 'neutrale' di tassi che viene considerata la più adeguata alla luce dei rischi per crescita e inflazione del 2007 e che potrebbe rappresentare il picco della stretta. "Il ciclo restrittivo - prevede Peter Vanden Houte di Ing - riprenderà solo dopo che il temporaneo rallentamento della crescita previsto per il 2007 si sarà concluso, probabilmente verso la fine di quell’anno".

 

Fonte - La Lettera Finanziaria

 

 

LA BCE ALZA I TASSI DI 25 PUNTI BASE 

5 Ottobre 2006 Siena - di MPS Finance  

Oggi l’evento più importante è la riunione della Bce, che si dovrebbe concludere con un rialzo dei tassi di 25 pb e la riunione della Boe che dovrebbe lasciare i tassi invariati al 4,75%. Più importante sarà la conferenza stampa di Trichet successiva alla riunione, che dovrebbe confermare la prosecuzione del rialzo del tasso di riferimento.
Tassi di Interesse: in area euro tassi di mercato in calo su tutta la curva, sebbene il comparto a medio lungo termine resti quello più penalizzato. Si restringe lo spread sul tratto 2-10 anni tornato intorno ai 12pb, mentre il forte calo del prezzo del petrolio ha determinato un calo delle breakeven. Oggi è attesa la riunione della Bce, che dovrebbe confermare l’attesa di un rialzo di 25pb, con possibile rialzo dei tassi di mercato che dovrebbe però risultare più accentuato sulla parte a breve termine, con un appiattimento della curva sul tratto 2-10.
Negli Usa tassi di mercato nuovamente in calo dopo i dati macro peggiori delle attese. Inoltre Bernanke ha dichiarato che il rallentamento del settore immobiliare dovrebbe togliere circa l’1% alla crescita del semestre in corso. Al momento l’oscillazione del tasso decennale si mantiene ricompressa nel range 4,55/4,65%. I dati sul mercato del lavoro di venerdì possono comportare movimenti nel breve, se particolarmente disallineati rispetto al consensus. Il forte calo delle materie prime potrebbe però ridimensionare la percezione dell’impatto atteso del rallentamento del settore immobiliare e contribuire a prese di profitto nel corso di ottobre, con primo obiettivo 4,72%. Nel frattempo, verificheremo soprattutto domani la tenuta del supporto a 4,5% sul decennale.
Valute: il Dollaro continua a non risentire del flusso di dati macro che segnalano un rallentamento dell’economia, come nel caso dell’indice Ism non manifatturiero. La ragione principale potrebbe risiedere nel forte calo delle materie prime attraverso due canali di trasmissione: 1) percezione di un rallentamento meno accentuato rispetto a quanto segnalato da altri indicatori; 2) gli hedge funds stanno evidenziando difficoltà di fronte al forte ridimensionamento delle commodity e di conseguenza accelerano la chiusura di posizioni lunghe di Euro vs. Dollaro anche per ragioni di carry sfavorevole, ancor più evidenti dopo oltre due mesi di oscillazioni piuttosto contenute. Per oggi, per quanto possa sembrare noioso, si riconferma pertanto il trading range 1,265/1,275. In apprezzamento lo Yen dopo che il membro della BoJ, Toshiro Muto, ha dichiarato che la banca centrale aumenterà i tassi gradualmente fino a quando i prezzi al consumo continueranno a crescere. Ha altresì aggiunto che al momento la banca centrale non ha deciso quando ci sarà il prossimo rialzo. Contro Euro un primo supporto passa da 149 circa, mentre quello più importante è situato a 148,55.
Materie Prime: dopo una sessione caratterizzata dal segno meno, il prezzo del greggio Wti chiude la sessione sopra i 59 $/b. A convincere gli speculatori, è stata la diffusione della notizia secondo cui l’Opec sarebbe pronta a ridurre la produzione di greggio per evitare forti cali dei prezzi. Secondo il Financial Times Kuwait, Iran, Venezuela e Nigeria si sono informalmente accordati a ridurre la produzione di 1 Mln b/g. Ricordiamo che il presidente Opec è il ministro del petrolio della Nigeria. Poco peso è stato dato al rialzo delle scorte statunitensi che continuano così a mantenersi sopra la media di periodo. Il rialzo è da imputare anche alla ripresa dell’attività della Prudhoe Bay in Alaska. In controtendenza i settori industriali e dei preziosi, con rame ed oro in calo del 2,7% e 2,48% rispettivamente.


 

Fonte - MPSFinance

 

 

 

 

 

   Attenzione al ciclo del dividendo

17 Ottobre 2006 0:40 Milano - di Francesco Arcucci 
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All’inizio del 2000 il grande rialzo del mercato azionario di New York, che era cominciato nell’agosto del 1982 con l’indice Dow Jones dei titoli industriali a 776, ha toccato un massimo.
Per la verità il Dow Jones dei Trasporti ha registrato un picco nell’aprile del 1999 a 3783. Il Dow Jones ha continuato a salire fino al 14 gennaio 2000 a 11.722 e l’indice Standard & Poor’s ha raggiunto un massimo a 1540 il 24 marzo del 2000. Tutti questi indici sono scesi nettamente fino all’ottobre 2002, ma poi hanno ripreso a salire al punto che l’indice Dow Jones dei Trasporti ha superato, nel dicembre 2004, il massimo dell’aprile 1999 e ha continuato ad apprezzarsi fino ad un nuovo picco registrato all’inizio di maggio 2006.
In quegli stessi giorni il Dow Jones si è avvicinato di nuovo a 11.700, mentre lo Standard & Poor’s, sempre nelle stesse sedute, toccava 1330 rispetto a 1540 del 24 marzo 2000. I valori di maggio 2006, dopo una flessione durata fino al 18 luglio (Standard and Poor’s a 1219), sono stati reiterati in questi ultimi giorni e anzi superati, seppur di poco.

Se questi sono i principali paletti della borsa americana e se l’economia degli Stati Uniti è nel complesso piuttosto forte e stabile, perché allora pensare ad un probabile ribasso dei corsi di borsa?
Il motivo è che, studiando la storia economica e quella del mercato azionario di New York in particolare, si può identificare un fenomeno che ricorre con la massima affidabilità. Questo fenomeno si chiama "ciclo del dividendo". Storicamente, cioè, il rapporto fra dividendo e prezzi oscilla fra il 3%, in corrispondenza dei valori massimi dell’indice, e il 6%, in corrispondenza dei valori minimi dell’indice. I movimenti di lungo termine del mercato azionario si svolgono in cicli, anche se non regolari, da situazioni di sopravvalutazione (rapporto dividendo/prezzi eguale o inferiore al 3%) a situazioni di sottovalutazione (rapporto dividendo/prezzi eguale o superiore al 6%). Questo ciclo del dividendo è una costante da quando il mercato azionario americano esiste e cioè quasi da 200 anni.
Nel 2000, nel pieno della bolla speculativa, il dividendo scese addirittura a 1,70%, ma anche adesso lo troviamo a 2,25% che corrisponde ai valori dell’indice vicino ai massimi piuttosto che vicino ai minimi.
Neanche la forte flessione dalla primavera 2000 all’ottobre 2002 ha mai prodotto una situazione di sottovalutazione e il successivo rialzo dei prezzi ha abbassato ulteriormente il valore del rapporto in parola. Il motivo per il quale questo contesto di sopravvalutazione del mercato azionario è in essere da più di sei anni è che la Fed ha iniettato nel sistema economico moltissima liquidità al fine di ostacolare le forze naturali della correzione dei prezzi di borsa. Al posto della correzione dei corsi si è creata la più grande massa di debiti pubblici e privati che mai sia stata registrata negli Stati Uniti.

In particolare si è ecceduto drammaticamente nella concessione di crediti anche ad imprese e famiglie scarsamente solvibili. Mutui al 110% del valore degli immobili, mutui in cui è previsto solo il pagamento degli interessi, concessioni di carte di credito a pensionati, studenti e casalinghe già indebitate e con un pessima storia alle spalle di mancati rimborsi sono diventati la norma negli Stati Uniti. E’ questa grande massa di liquidità che ha ostacolato la sequenza del ciclo da sopravvalutazione a sottovalutazione.
Siamo rimasti per anni in fase di sopravvalutazione e la Fed si rifiuta di rallentare la creazione di liquidità per paura di una recessione economica. Un po’ lo sta già facendo da qualche mese, ma con grande timidezza. Prima o poi la battaglia per tenere lontane le forze della correzione sui mercati azionari sarà perduta poiché il ciclo del dividendo ha una sua logica intrinseca (fondata sulle ondate di ottimismo e pessimismo della popolazione) che nessuna banca centrale può contrastare indefinitamente.

 

Fonte - La Repubblica

 
 

 

 

 

 

   Parla Soros: Hedge Funds fuori controllo

17 Ottobre 2006 11:31 Tokyo - di Stefano Carrer
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Sono "troppo numerosi" e fanno "troppo leverage”, ossia agiscono attraverso un eccesso di indebitamento: perciò non si può negare che costituiscano un "rischio sistemico" per i mercati finanziari.
Gli hedge funds sono sempre più in sospetto, specialmente dopo che le perdite da $6 miliardi del fondo Amaranth hanno alzato la soglia di allarme su un settore cresciuto senza trasparenza fino a un vortice di $1.500 miliardi.
Ma se a dirne male è proprio il pioniere e il campione dell'investimento speculativo e alternativo, l'opinione assume una valenza particolare: George Soros, 76 anni, è l'uomo che lanciò il suo hedge fund nel lontano 1969,è il finanziere d'assalto che mise in ginocchio la Banca d'Inghilterra e la sterlina nel mercoledì nero del 16 settembre 1992, è il “criminale di guerra economica” (parole del primo ministro malese di allora) della crisi finanziaria asiatica del '97. Poi, certo, è anche l'uomo che con le sue fondazioni spende 400 milioni di dollari l'anno per promuovere la diffusione della democrazia in modo “soft” e che finora ha elargito 4 miliardi di dollari in iniziative benefiche.
A Tokyo per presentare l'edizione giapponese del suo libro «The Age of Fallibility» (tradotto con un altro titolo: «Il collasso dell'ordine mondiale»), Soros misura parole che suonano piuttosto preoccupanti per il mondo finanziario, mentre per i destini più generali del globo le sue tesi appaiono anch'esse allarmanti, almeno finché non ci sarà una svolta nella politica estera americana oggi guidata dalla sua bestia nera, George Bush.

Ritiene che gli hedge funds stiano ponendo le basi per una destabilizzazione dei mercati finanziari, oppure le rinnovate preoccupazioni odierne le paiono eccessive?
Io sono ovviamente un sostenitore degli hedge funds come modalità operativa e strumento importante per consentire agli investitori di fare profitti. Ma quando diventano troppo numerosi e assumono un ruolo di fattore importante sul mercato, sorgono pericoli. E il pericolo consiste principalmente nel leverage: non sono solo hedged, ma anche leveraged. Proviamo a immaginare che il mercato consista solo di hedge funds: allora la loro performance corrisponderebbe a quella media generale del mercato, eccetto per l'uso del leverage. Un uso improprio della leva finanziaria può provocare “dislocations”. Di qui le paure di default, specie legate a strumenti assicurativi ed esotici con cui non sono nemmeno in familiarità perché sono nati solo recentemente. Sì, io penso che c'è un rischio di “sistemic dislocations”.
Nel giugno scorso la magistratura ha bloccato i tentativi della Sec di introdurre maggiore trasparenza. Cosa pensa degli sforzi delle autorità di regolamentazione in questo senso?
Penso che le autorità siano ben consapevoli di questo. Ci sono sforzi di portare sotto controllo il rischio. Ciò comporta però a mio parere la necessità di portare sotto controllo l'uso del credito, non tanto quella di mettere sotto tiro gli hedge funds in quanto tali.
L'Asia è sotto i riflettori. Cosa pensa del clima per gli investimenti stranieri in Giappone?
Non sono più coinvolto direttamente nelle decisioni sugli investimenti. Penso che ci siano varie società giapponesi che, dopo aver fatto grandi progressi di ristrutturazione, costituiscano oggi interessanti occasioni di investimento. Sempre che il prezzo non sia eccessivo.
Della Cina che opinione ha?
In generale, è un peccato che il governo non approfitti della nuova situazione economica di prosperità per aprire il sistema. Il che potrebbe portare a gravi problemi politici nel caso di una eventuale crisi economico finanziaria. Penso che Pechino dovrebbe consentire al renminbi di fluttuare liberamente: lo stanno ammettendo al rallentatore, perché la preoccupazione numero uno del governo è la stabilità.
Sono in tanti a preoccuparsi per la corsa cinese all'accaparramento delle materie prime...
Non vorrei dare l'impressione di dire che anche questo è colpa di Bush. Pero' il fatto che non sia stato consentito ai cinesi di acquistare la compagnia petrolifera californiana Unocal ha fornito loro la perfetta scusa per andare a fare accordi anche con i regimi più duri in giro per il mondo.
 

La storia
George Soros nasce nel 1930 a Budapest da una famiglia dell'alta borghesia ebraica. Nel '47 si trasferisce a Londra per studiare alla London School of Economics, dove ha avuto come docente il filosofo Karl Popper, dal quale è stato fortemente influenzato. Nel '56 parte per New York e nel '69 fonda la Quantum Fund,per anni la famiglia di fondi più capitalizzata del mondo.Tra le iniziative che lo hanno reso celebre, la speculazione che il 16 settembre del 1992 mette in ginocchio Banca d'Inghilterra e sterlina. Diventa il «criminale di guerra economica» (parole del primo ministro malese di allora) della crisi finanziaria asiatica del '97. Al tempo stesso alle opere benefiche (ha elargito oltre 4 miliardi di dollari).

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 


 

 


 

   Ecco gli effetti dello sboom immobiliare USA

24 Ottobre 2006 Roma - di *Giovanni Ajassa
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Nel gergo anglofilo della pubblicistica economica un trilione sta per mille miliardi. Il valore in dollari del prodotto interno lordo degli Stati Uniti è stato pari a 12,4 trilioni di dollari nel 2005. Il valore in dollari raggiunto a metà del 2006 dall’indebitamento delle famiglie americane si è attestato a 12,4 trilioni di dollari.
Il numero è stato recentemente aggiornato dalla Federal Reserve nella pubblicazione periodica sul flusso di fondi tra i settori istituzionali. Tenendo conto della sfasatura di un semestre tra i due dati, ad ogni dollaro di prodotto degli Stati Uniti corrisponde oggi poco meno di un dollaro di debito delle famiglie americane. Non è poco.

Guardando all’Italia, i dati ci dicono che il PIL del 2005 è stato pari 1,4 trilioni di euro mentre l’indebitamento delle famiglie italiane alla fine dello scorso anno si è attestato intorno agli 0,4 trilioni di euro. Per un euro di prodotto lordo da noi ci sono meno di 30 centesimi di debito familiare. Meno di un terzo rispetto a quanto accade in America. La peculiarità delle famiglie USA vale anche nel confronto rispetto a paesi del Vecchio Continente finanziariamente più sofisticati del nostro.
In Francia, ad esempio, il rapporto tra debiti finanziari delle famiglie e prodotto interno lordo si è attestato nel 2004 intorno al 40%. In Germania è pari al 70%. In Spagna è del 63%. Nella media dell’area dell’euro ci si colloca intorno al 55%, ben al di sotto del grado di indebitamento raggiunto ora negli USA.
Ciò che colpisce del debito delle famiglie americane, oltre al livello, è la dinamica. Alla metà degli anni Novanta il rapporto tra i debiti finanziari delle cosiddette "household" e il PIL era pari al 66% negli USA. Saliva al 72% nel 2000. Oggi ci avviciniamo al 100%. E dall’inizio del nuovo millennio la progressione annuale di crescita dei debiti delle famiglie americane non è mai scesa al di sotto del 9% con punte reiterate dell’ordine del 12%. Nell’ultimo quinquennio il debito degli americani è salito a ritmi esattamente analoghi a quelli della crescita del prodotto non negli USA, ma in Cina.

E’ questa l’impressione che coglie chi legge i numeri pubblicati nella prima delle 85 tabelle riportate nel bel documento della Fed sul flusso dei fondi. Andando avanti nella pubblicazione, si scopre che il grosso del debito delle famiglie americane è fatto di mutui sulla casa. Parliamo di 9,3 trilioni di dollari. Con un cambio di 1,25 dollari per euro, si tratta di un ordine di grandezza non molto inferiore al valore del PIL dell’intera area euro nel 2005.

Per parecchi anni la crescita dell’economia americana ha tratto vantaggio da un poker di elementi: la continua ascesa dei prezzi e delle quantità scambiate sul mercato degli immobili, il vivace andamento degli investimenti in costruzioni, i bassi tassi di interesse, la capacità tutta americana di estrarre liquidità spendibile dalla rivalutazione delle case attraverso un aumento dell’indebitamento familiare. Tra la fine del 2000 e la metà del 2006 la ricchezza immobiliare delle famiglie americane è quasi raddoppiata passando da 11,4 trilioni a 20,3 trilioni di dollari.
Negli stessi anni un aumento speculare è stato segnato dalla consistenza dei mutui residenziali in capo alle "household" che in cinque anni e mezzo è pressocché duplicata rispetto ai 4,8 trilioni di dollari del 2000. La Fed ha stimato che una parte maggioritaria degli aumenti dei mutui degli anni recenti sia legata a operazioni di rifinanziamento rese possibili dalla concomitanza tra i bassi tassi di interesse e il costante apprezzamento delle quotazioni immobiliari. E tra il 2000 e la metà del 2006, oltre ai mutui, è aumentato anche il credito al consumo. L’ammontare in questione è salito del 33%, da 1,7 a 2,3 trilioni di dollari. Tradotto in euro, il credito al consumo di cui godono le famiglie americane equivale al PIL della Francia.
Negli USA, debiti e mattone hanno prodotto molta crescita, ma anche crescenti squilibri. La propensione al risparmio delle famiglie americane è divenuta negativa nel 2005: dal +2% sul reddito disponibile registrato ancora nel 2004 si è scesi al 0,4% dello scorso anno e al 0,7% stimato per quest’anno. Facendo i conti in dollari, nella prima metà del 2006 il deficit di risparmi rispetto al reddito disponibile degli americani, una volta proiettato sul base annua, supera i 60 miliardi rispetto ai 35 del 2005.
L’eccedenza dei consumi sul reddito delle famiglie si riflette sul disavanzo di parte corrente degli USA che si avvia quest’anno ad avvicinare la soglia del 7 per cento sul PIL. I risparmi negativi degli americani premono sulla capacità produttiva del paese e creano spinte inflattive di origine interna che si leggono negli aumenti effettivi della cosiddetta "core inflation". Dal lato del cambio, le pressioni verso un maggiore deprezzamento del dollaro sono state contenute dalla corrente di acquisti di titoli americani da parte degli investitori stranieri, soprattutto asiatici. Ma i dati sul flusso dei fondi aggiornati dalla Riserva federale segnalano che l’appetito del resto del mondo per la carta del tesoro americano sta diminuendo.

Negli ultimi due anni il peso crescente del debito delle famiglie e la delicata situazione del mercato immobiliare hanno indotto la Fed ad usare prudenza nella manovra di rialzo dei tassi di interesse. Oggi le cose appaiono complicarsi ulteriormente. Si osservano i segni di rallentamento dei consumi privati che decelerano nel II trimestre ad un tasso annuo di incremento del 2,6%. Si tratta di movimenti attesi, considerando gli effetti ritardati di un biennio di aumenti dei tassi di "policy". Ciò che attira maggiormente l’attenzione è la netta correzione di rotta del mercato immobiliare e dell’industria delle costruzioni.
Il "Beige book" pubblicato dalla Fed lo scorso 12 ottobre parla di un diffuso raffreddamento del settore degli immobili residenziali. L’ultimo bollettino mensile della NAR, l’associazione degli agenti immobiliari americani, segnala ad agosto un calo dei prezzi registrati nelle vendite di case esistenti pari a poco meno del 2% su base annua. Con riferimento allo stesso periodo del 2005, il prezzo medio di una casa scende da 229mila a 225mila dollari. Il numero delle vendite diminuisce di circa il 13% rispetto ad un anno fa. Gli immobili non nuovi che risultano invenduti salgono di più di un milione di unità in un anno, dai 2,8 milioni di agosto 2005 ai 3,9 milioni di agosto 2006. Riguardo alle case nuove, sui conti del secondo trimestre del PIL americano il contributo degli investimenti in costruzioni residenziali è stato negativo ed ha sottratto quasi ¾ di punto ad una crescita annualizzata complessiva di 2,6 punti percentuali.
Di fronte alla flessione dell’immobiliare qualcuno ha paventato il rischio che l’economia americana possa entrare in recessione. Si tratta di apprensioni eccessive. Secondo Philippe d’Arvisenet, global chief economist di BNP Paribas, è ragionevole prevedere un netto rallentamento, ma non ci sono fondati motivi per attendersi una recessione negli Stati Uniti. Nelle previsioni compiute dagli economisti del gruppo transalpino la crescita degli USA potrà calare dal 3,3% stimato per il 2006 all’1,6% previsto per il 2007.
Il calo dipenderà, soprattutto, dalla correzione del mercato immobiliare e dagli effetti depressivi che saranno mediati dalla pesante situazione debitoria delle famiglie americane. Una condizione dei mercati finanziari internazionali certamente migliore di quella della fine degli anni Novanta e la possibilità di un ammorbidimento della politica monetaria della Fed contribuiranno a contenere la misura del rallentamento americano. La decelerazione dell’economia USA non sarà di aiuto per le economie europee.
L’ultimo Rapporto di Previsione edito da Prometeia stima che lo "shock" di una riduzione del 20% del prezzo delle abitazioni degli USA potrebbe ribassare di circa mezzo punto percentuale la crescita europea nel giro di tre anni. Il rischio dovrà essere mutato in opportunità. All’Italia, che colloca sul mercato statunitense l’otto per cento delle proprie esportazioni, la prospettiva di un rallentamento americano servirà di ulteriore stimolo per mettere le cose in ordine in casa nostra. E diversificare le fonti interne ed esterne di una crescita più solida.

 

Fonte - Affari & Finanza - La Repubblica

 
 

 

 

 

 

 

TASSI USA: LA FEDERAL RESERVE LI LASCIA INVARIATI 
 

25 Ottobre 2006 20:13 New York - di Wall Street Italia
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Come ampiamente atteso dal mercato, il Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Federal Reserve, ha lasciato invariato il costo del denaro degli Stati Uniti.
Il target sui fed funds e' dunque fermo al 5.25%. Nella riunione dello scorso 8 agosto, la decisione di non ritoccare i tassi, poi confermata in quello del 20 settembre, aveva chiuso la serie di rialzi durata per ben due anni. Il primo rialzo della serie fu deciso nel meeting del Fomc del 30 giugno del 2004.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
La crescita economica ha subito un rallentamento nel corso dell’anno, riflettendo parzialmento il raffreddamento del settore immobiliare. Proseguendo, sembra che l’economia debba espandersi ad un tasso moderato.
I segnali relativi all’inflazione core sono stati piuttosto elevati, e gli alti livelli dell’utilizzazione delle risorse hanno il potenziale di sostenere ulteriori pressioni inflazionistiche. Tuttavia, queste sembrano dover calmarsi nel tempo, come conseguenza dell’abbassamento dei costi energetici e sulla scia delle aspettative contenute sull’inflazione, nonche’ grazie alle azioni di politica monetaria ed altri fattori capaci di contenere la domanda aggregata.
Tuttavia, il Comitato ritiene che alcuni rischi inflazionistici ancora restano. La modalita’ e i tempi di qualsiasi azione di politica monetaria che potrebbe essere necessaria per contenere tali rischi dipenderanno dall’evoluzione dell’outlook inflazionistico e delle crescita economica, cosi’ come sara’ implicato dalle informazioni rilasciate quotidianamente.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Susan S. Bies; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin; Sandra Pianalto; William Poole; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen. A votare contro e’ stato Jeffrey M. Lacker che avrebbe preferito un incremento di 25 punti base del target sui fed funds nel meeting giornaliero.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di lasciare il tasso interbancario al 5.25%:
 

The Federal Open Market Committee decided today to keep its target for the federal funds rate at 5-1/4 percent.
Economic growth has slowed over the course of the year, partly reflecting a cooling of the housing market. Going forward, the economy seems likely to expand at a moderate pace.
Readings on core inflation have been elevated, and the high level of resource utilization has the potential to sustain inflation pressures. However, inflation pressures seem likely to moderate over time, reflecting reduced impetus from energy prices, contained inflation expectations, and the cumulative effects of monetary policy actions and other factors restraining aggregate demand.
Nonetheless, the Committee judges that some inflation risks remain. The extent and timing of any additional firming that may be needed to address these risks will depend on the evolution of the outlook for both inflation and economic growth, as implied by incoming information.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Susan S. Bies; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin; Sandra Pianalto; William Poole; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen. Voting against was Jeffrey M. Lacker, who preferred an increase of 25 basis points in the federal funds rate target at this meeting.
 

 

Fonte - Wall Street Italia.com

  
 

 

 

 

 

   Lo scacchiere economico e i record di Borsa

25 Ottobre 2006 Milano - di Maria Grazia Briganti
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Il Dow Jones tocca livelli mai raggiunti, in un quadro macro che non è più quello che ha alimentato la crescita dei mercati azionari negli ultimi anni. Per comprendere quali potranno essere gli scenari futuri, bisogna tenere d’occhio la congiuntura e la liquidità internazionale, senza trascurare i possibili effetti dell’elevato indebitamento statunitense.

Immaginiamo di mettere su una grande scacchiera le pedine economiche che contano nell’attuale quadro macro: la crescita del Prodotto interno lordo (Pil) americano e mondiale, l’inflazione, i tassi di interesse, il prezzo del petrolio e la massa di liquidità presente sul mercato. Ciascuna pedina può andare in diverse direzioni e, a secondo di dove la spostiamo, cambia lo schema del gioco e il risultato.

Negli ultimi anni lo scenario è stato caratterizzato da una solida crescita economica, inflazione contenuta, tassi di interesse bassi, prezzi del greggio e dell’oro alti e un’abbondante liquidità che ha ridotto il premio per il rischio degli investimenti azionari e obbligazionari. Il risultato è stato un rialzo delle Borse (l’indice Msci globale ha guadagnato oltre il 40% in tre anni), che, però, non è stato accompagnato da un crollo del reddito fisso, perché, nonostante il rialzo dei saggi di riferimento da parte delle banche centrali, i rendimenti dei titoli decennali sono rimasti vicini ai minimi storici.

Oggi questo scenario è mutato. La congiuntura americana dà segnali di rallentamento (+2,6% il Pil nel secondo trimestre contro il +5,6% del primo), ma quella mondiale è ancora sul sentiero di una solida crescita: il Fondo monetario internazionale (Fmi) stima un incremento del 5,1% nel 2006, trainato dai Paesi emergenti. L’inflazione è in aumento su base annua, nonostante gli ultimi dati mensili siano stati migliori delle stime. Negli Stati Uniti, la fase di rialzo dei tassi di interesse si è interrotta e l’ultimo intervento il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha alimentato le attese per un taglio nei prossimi mesi. Il prezzo del petrolio è sceso del 23% dai massimi dell’estate a causa della diminuzione della domanda, del leggero incremento della produzione e di una riduzione della componente speculativa.

Cosa accadrà nei prossimi mesi? Gli economisti non sono concordi nel prevedere la direzione futura delle diverse pedine. Come osserva Maurizio Novelli, economista di Rasini & C., l’enorme massa di liquidità ha sostenuto lo sviluppo e le Borse negli ultimi quattro anni ed è stata alimentata principalmente dalla crescita dei consumi statunitensi, resa possibile dal ricorso all’indebitamento. La domanda privata ha accentuato lo squilibrio della bilancia con l’estero per effetto dell’incremento delle importazioni. A loro volta, i Paesi esportatori hanno utilizzato i dollari accumulati per comprare titoli di Stato americani, finanziando il deficit pubblico degli Usa. Insomma, è stato un periodo vissuto sul debito e sul ricorso alla leva (ossia su una spesa superiore alla disponibilità finanziaria).

Nonostante i numerosi rialzi dei tassi da parte della Fed, i consumi americani continuano ad essere elevati grazie all’incremento dei salari. Di conseguenza, né la liquidità internazionale né l’indebitamento si sono ridimensionati. Se, tuttavia, i consumi americani frenassero, le conseguenze sull’economia potrebbero essere significative, in quanto gli effetti del rallentamento potrebbero essere amplificati dall’elevata leva, analogamente a quanto avviene per gli investimenti finanziari speculativi.

E’ da capire, dunque, quale sarà la mossa della pedina economica americana (anche se non bisogna trascurare altri fattori, primo fra tutti quello denunciato dall’Fmi di misure protezionistiche che ostacolano il commercio internazionale e quindi lo sviluppo). Secondo alcuni esperti, la congiuntura a stelle e strisce dovrà “per forza” frenare; secondo altri la crescita si manterrà sostenuta. Nel primo caso si potrebbe passare rapidamente da uno scenario inflativo a uno deflativo, con conseguente spazio per un ribasso dei tassi di interesse; nel secondo i rischi del caro-vita si faranno più pressanti, costringendo le autorità monetarie a nuove strette.

I listini azionari, primo fra tutti il Dow Jones che ha battuto i record di tutti i tempi, hanno già cominciato ad assaporare la prospettiva di un taglio dei saggi di riferimento negli Stati Uniti, ma non possono trascurare le voci di coloro che considerano le politiche monetarie ancora troppo accomodanti, perché se queste diventeranno più rigorose, il sistema, che è basato sull’indebitamento, mostrerà tutta la sua debolezza.

 

Fonte - Morningstar.it

 

 

 

 

  Venerdì  6  ottobre  2006   Venerdì  13  ottobre  2006   Venerdì  20  ottobre  2006  
       
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GR1 RAI - 23 OTT ore 22:00

   

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GR1 RAI - 26 OTT ore 22:00

   

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   Wall Street fa già festa per i tagli di Ben

2 Ottobre 2006 New York - di Borsa&Finanza per WSI +
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Come ex-presidente della Federal Reserve di Atlanta, Bill Ford, conosce assai bene le logiche che ispirano le decisioni della potente Banca centrale americana. Anche per questo ritiene che le probabilità di un taglio dei tassi d’interesse, a cavallo fra il 2006 e il 2007, stiano crescendo sensibilmente.
L’economia degli Stati Uniti sta rallentando. I segnali sono inequivocabili. Sarà un atterraggio morbido o si rischia lo schianto? Sono favorevole a uno scenario di atterraggio morbido. Ritengo che la frenata dell’edilizia provocherà un rallentamento della crescita del Pil intorno al 2,5 per cento.
Se questo è il quadro congiunturale, quale sarà l’atteggiamento della Federal Reserve nelle prossime riunioni? Al prossimo incontro previsto il 24 e 25 ottobre il direttorio deciderà per un nulla di fatto. Tuttavia entrerà in agenda una prossima sforbiciata al costo del denaro. Credo che i tassi di interesse verranno abbassati a partire dalla riunione di dicembre o in quella di gennaio.

Da ex banchiere centrale quante probabilità attribuisce alle ipotesi appena indicate? Sulla base di quanto sappiamo oggi, direi che al 90% non ci sarà alcun cambiamento di politica monetaria durante il meeting di ottobre. Per i mesi successivi, se l’economia continuerà a mostrare segni di debolezza, la possibilità che venga abbassato il saggio-base già nella riunione di dicembre aumenta al 20-25%. A gennaio, se il quadro macroeconomico non darà chiari segni di miglioramento, la decisione della Fed di tagliare i tassi ha almeno una probabilità del 50 per cento.
I più pessimisti fanno notare che la curva dei tassi in America è invertita. In altre parole i rendimenti a breve sono maggiori di quelli a lunga. Sostengono, inoltre, che dal dopoguerra ad oggi, le recessioni hanno ricevuto un impulso da politiche restrittive della Fed che hanno causato, a un certo punto, l’inversione della curva. Che ne pensa? È vero, di solito l’inversione della curva preannuncia una recessione. Ma questa volta esistono almeno due ragioni per nutrire un certo ottimismo. In primo luogo la curva appare più appiattita che invertita. I rendimenti a breve e a lungo termine viaggiano entrambi intorno al 5 per cento. In secondo luogo, il costo del denaro è ancora basso. Vorrei fare un esempio per chiarire cos’è veramente una curva dei tassi invertita che preannuncia recessione.
Faccia l’esempio. Nel 1980 quando partecipavo al board della Fed il tasso di riferimento viaggiava tra il 18 eil 20% con i tassi a lungo termine al 12 per cento. La distanza era di sei punti: quella era una situazione che anticipava una futura crescita negativa.
In altre parole le condizioni attuali sono meno estreme. È esatto? Proprio ciò che intendevo dire. I rendimenti oggi si aggirano al 5 per cento. Non è un livello che spinge necessariamente alla contrazione dell’attività produttiva. A esempio, i tassi sui mutui ipotecari per un rifinanziamento trentennale gravitano intorno al 6 per cento. Ciò rallenta l’attività edilizia ma non la uccide. È una situazione ben diversa dal 1980, quando erano al 14%. Al contrario, oggi il denaro è ancora a buon mercato. Una situazione che non impedirà ai consumatori di acquistare una nuova automobile a rate o finanziare altre esigenze o neccessità di spesa.
Di recente il prezzo del petrolio è scivolato fino a poco meno di 60 dollari il barile. Produrrà effetti positivi sull’evoluzione della congiuntura? Si tratta certamente di una bella boccata d’ossigeno. Soprattutto per i sondaggi del presidente Bush. Più seriamente, è un’ulteriore sostegno alla tesi che prefigura un atterraggio morbido dell’economia. È evidente che il calo del prezzo dei carburanti finirà per restituire maggiore potere d’acquisto a famiglie e imprese. Accanto a questo, un eventuale calo dei tassi d’interesse a 10 e 30 anni dovrebbe scongiurare gravi shock nel settore immobiliare. Insomma, tutto gioca a favore di un soft landing.

 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza


 

 

 

 

 

BENZINA PER IL TORO
 

3 Ottobre 2006 8:25 Milano - di Vittorio Carlini
 
È qui la festa? All’improvviso, cogliendo di sorpresa chi ama le statistiche (settembre, il mese in cui «cadono» i titoli) e chi scrutava i cieli della geopolitica e delle banche centrali (rischi di shock petroliferi da uragano o da Teheran, squilibri valutari, strette monetarie e fiscali), il Toro ha deciso che era arrivata la stagione dei primati: Wall Street ha superato (almeno nell’intraday) le vette del gennaio 2000, punto culminante della Bolla e l’Europa segue a ruota.
Piazza Affari è in fondo al plotone (+9,8% da gennaio) per due motivi: l’effetto del caso Telecom, rimasta al palo mentre nel resto del Continente le tlc hanno guidato il rally; il notevole peso dei petroliferi, Eni in testa. E proprio il ribasso del greggio (e delle altre commodity) ha ridato ossigeno al resto del mercato. Ma anche per il listino italiano, non è da escludere uno sprint fuori stagione.
MENO OIL, PIÙ PIL. La chiave per interpretare il rally sta proprio in questo slogan, adottato da B&F a inizio luglio, quando, al di là dei venti della crisi libanese, si moltiplicavano i segnali di inversione del mercato. «Oggi - conferma Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank - il greggio disponibile è più che abbondante. Per alcuni prodotti, tipo il gas, addirittura ci sono seri problemi di stoccaggio». Nel prossimo futuro, insomma, è difficile ipotizzare un duraturo forte balzo in avanti dei prezzi.
Tony Dolphin, responsabile economico e strategico di Henderson Global Investors si spinge a dire: «La corsa delle materie prime è destinata ad arrestarsi. Il petrolio dovrebbe scendere attorno ai 50 dollari al barile». Più prudente Stefano Fabiani, gestore azionario di Zenit sgr: «Prevedo che il barile possa mantenersi nella fascia compresa tra i 55 e i 65 dollari». Un prezzo definito «meraviglioso» dal ministro saudita del petrolio, Alì Al-Naimi: i produttori incassano ottime plusvalenze e si scongiura sia la recessione sia la fiammata inflattiva. Le compagnie, dal canto loro, pianificano investimenti senza follie.
RALLY DA UTILI. Il risultato? Una volata finale dei listini. «Piazza Affari - dice Massimo Luca Borlera, direttore investimenti per Sella gestioni - dopo aver ritracciato, potrebbero fare un ulteriore balzo in avanti. Il saldo finale annuale dovrebbe essere una crescita a doppia cifra». «Per gli ultimi 3 mesi dell’anno - confrema Fabiani - le prospettive per Piazza Affari sono buone: il mercato salirà». Ma non sarà un fenomeno generalizzato.
Hanno tutto da guadagnare le aziende che potranno massimizzare il risparmio dei costi, grazie anche agli sforzi di questi anni per neutralizzare l’impatto delle commodities. Sarà, perciò, un rialzo assicurato da profitti più elevati di quanto previsto ad inizio estate. E chi, Fiat in testa (ma anche Indesit), arriva all’appuntamento con la ripresa della fiducia europea, con un’offerta di prodotti in evoluzione. O coloro che, vedi alcune utilities, rivedono i conti alla luce di uno scenario dei tassi meno grigio del previsto. Tuttavia valgono due avvertenze: la congiuntura rischia di essere breve, soprattutto se robusta; l’effetto Finanziaria, avrà il suo peso. Ma su quali settori puntare?
CEMENTIERI. Per Angelo Manca, gestore di Schroder Isf Italian Equity: «Il comparto dei cemetieri trarrà beneficio dal calo della bolletta energetica». Anche perché «l’impatto del petrolio sui costi - ricorda Carlo Devanna, responsabile equity Europa per Credit Suisse AM Italia - è notevole: il 20-25% circa». Le aziende hanno completato, del resto, un ciclo di investimenti per compensare, con la maggiore efficienza degli impianti e la crescita del fatturato nei Paesi emergenti, l’impatto del caro greggio. Certo, Buzzi Unicem, Cementir e Italcementi hanno già guadagnato da inizio anno il 41,30%, il 24,48% e il 26,5 per cento. Ma i margini di crescita non sono esauriti. Per AbaxBank, Italcementi (outperform con target price sul titolo a 22 euro) è avvantaggiata dalla diversificazione negli emerging market (il 37% dell’ebitda nel primo semestre). Discorso valido anche per Buzzi (presente in Messico, Europa dell’Est e Algeria) che vanta la redditività più alta con un Ros al 21,2% (16,7% Cementir e 18,4% Italcementi). Per Man Securities è buy con target price a 25 euro.
MULTINAZIONALI TASCABILI (E NON). La congiuntura tira. La Fiat alza l’asticella dei suoi target; l’industria italiana che ha saputo fare il salto nell’economia globale, come vendite ma anche come produzione, accelera. Sono le multinazionali tascabili, da Sabaf a Gefran (Brescia), a Carraro (Padova), evoluzione del made in Italy di cui Brembo (che di recente ha avviato la produzione nella nuova fonderia in Polonia) è un esempio simbolo. Ora la multinazionale dei freni può sfruttare il rimbalzo del pil in Germania (nel secondo quarter le vendite verso Berlino sono salite del 7,7%) e in Italia (+4,1 l’incremento dei ricavi). E visto che Eurolandia, a differenza degli Usa, si trova a metà (o poco oltre) del ciclo espansivo c’è spazio per correre. Ma non solo. Brembo si è avvantaggiata, per esempio, della crescita del Brasile dove le vendite sono aumentate del 48,9 per cento. Un discorso abbastanza simile a quello riferito alla società guidata da Alberto Bombassei, può farsi per Sogefi. L’azienda del gruppo De Benedetti, ha una forte esposizione (84,8% dei ricavi nel primo semestre 2006) sul mercato europeo.
BIANCO ALLA RISCOSSA. Tra i settori che più hanno sofferto sul lato dei costi delle commodities c’è quello degli elettrodomestici. Per fronteggiare il warning, le aziende si sono sottoposte ad un duro sforzo di delocalizzazione produttiva ed organizzativa. Così sia De’ Longhi sia Indesit Company possono sfruttare la riduzione dei costi dei polimeri e dell’energia (l’indice Crb da agosto è sceso del 14,5%) e tradurla in maggiori profitti. La società guidata da Marco Milani, ha chiuso il primo semestre con l’utile netto a 19 milioni di euro, in crescita dello 0,5% rispetto allo stesso periodo del 2005. Mentre il fatturato ha raggiunto 1,46 miliardi di euro in crescita del 5,1 per cento. «L’incremento delle vendite - ha detto Milani - è diffuso su tutte le aree con percentuali che variano dal più 1,3% dell’Europa occidentale al più 9,6% dell’East Europe». Come dire, insomma, che anche in questo caso l’accelerazione del Vecchio Continente giova.
Così, dopo la semestrale banca Akros ha alzato il giudizio su Indesit a accumulate con un target di 10 euro, mentre per Ing il titolo è da comprare fino a 13,75 euro. Discorso simile per De’ Longhi, che oltre ai costi dell’energia utilizza molti polimeri per il suo Pinguino e per gli altri piccoli elettrodomestici. Sull’azienda di Treviso gli analisti hanno però giudizi più cauti: target price fino a 3,3 euro.
...E PIASTRELLE. Anche Marazzi (-11,3% dall’Ipo di febbraio) dovrebbe risalire la china. «Si tratta - dice Borlera - del classico titolo energy intensive». Qui la riduzione del prezzo delle materie prime si fa sentire più che in altri casi. «Inoltre la società è esposta su mercati molto ricchi come, per esempio, quelli del Medio Oriente». Per Cheuvreux il prezzo obiettivo è 11,6 euro.
 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza

 

 

 

YARDENI: W.S. FINALE A TUTTO TORO

23 Ottobre 2006 9:45 New York - di V. Sciarretta

Alla fine la Borsa statunitense ce l’ha fatta: nuovo record di tutti i tempi, con il re degli indici azionari, il Dow Jones, che scavalca la soglia psicologica di 12mila punti e trascina tutti i listini. E per il futuro? La tendenza rimane favorevole sia al di qua che al di là dell’Atlantico. Intanto perché è alle porte il famoso semestre d’oro, quello che va da novembre ad aprile, che di solito è connotato da forti apprezzamenti in risposta al buon andamento della raccolta dei fondi. Ad esempio, dal 1987 ad oggi, la Borsa europea è stata negativa solo in due occasioni: dal novembre 2000 all’aprile 2001, e dal novembre 2002 all’aprile 2003, ossia in piena mattanza dei titoli high-tech. Poi c’è stato un caso di performance nulla a cavallo fra il 1994 e il 1995. Negli altri 15 casi il ritorno è stato sempre positivo. In media, nei 6 mesi in esame, gli investitori hanno portato a casa il 9 per cento. Non male.
IL FRONTE AMERICA. Il superguru di Wall Street Ed Yardeni che per la fine del 2007 l’indice S&P500 è in grado di toccare i 1.600 punti, con un balzo del 17% rispetto al livello corrente. La tesi d’investimento? A sentire lo stratega di Oak Associates, «una crescita discreta, tassi d’interesse stabili e una leggera espansione dei multipli spingeranno le quotazioni verso massimi inesplorati».
Il fulcro sul quale Yardeni poggia il suo ottimismo è la risoluzione di una serie di problemi e minacce pendenti. «Dal 2001 - dice - il prezzo del petrolio è salito di 8 volte. Ciò ha messo le ali alle aspettative d’inflazione. La Federal Reserve si è trovata costretta ad alzare i tassi d’interesse, facendo pesare un’ipoteca sul settore immobiliare. Ora siamo sul punto di assistere a un’inversione del processo storico - prosegue - il greggio è arretrato a 60 dollari al barile, la politica monetaria vive una fase di stabilizzazione, e l’edilizia ha forse già superato il punto di massima vulnerabilità. Con minori apprensioni, la Borsa può decollare». Nella previsione di Yardeni, il peso dell’oro nero è determinante.
Sessanta dollari al barile è un prezzo caro, ma tutto sommato accettabile e congruo con un mercato azionario al rialzo. Il picco di 80 dollari, invece, recava in sé eccessi dovuti a un apice di acquisti speculativi. Basti dire che, secondo il New York Times, esistono almeno 450 hedge fund che si accapigliano ogni giorno sui prodotti energetici. «Per parecchi mesi - conclude Yardeni - la tendenza del petrolio sarà quella di una tenuta all’interno della fascia tra 55 e 65 dollari al barile».
E QUELLO EUROPEO. Nei primi 11 mesi del 2006, i listini del Vecchio Continente hanno portato a casa guadagni nell’ordine del 13-15%, includendo i dividendi. Cio' nonostante, rischi di crolli non se ne vedono. Le valutazioni sono tuttora in linea con i fondamentali: mentre il grafico delle azioni segue una parabola ascendente, gli utili aumentano a un tasso di pari entità. In più «le condizioni di liquidità supportano le Borse», come spiega Kevin Gardiner, numero uno delle strategie per il colosso bancario Hsbc. «La massa monetaria è elevata - dice - l’attività di fusioni e acquisizioni sperimenta un forte dinamismo sotto l’impulso del basso costo del denaro e della robustezza dei bilanci. Tanto è vero che le scalate vengono pagate pronta cassa o ricorrendo al debito, e non attraverso operazioni carta contro carta com’è spesso avvenuto in passato».
Insomma, il buon momento delle piazze finanziarie europee prosegue. «L’unico rammarico è che il pubblico dei risparmiatori, dopo essersi dissanguato nella bolla della new economy, non ha invece affatto partecipato alla ripresa degli ultimi 4 anni, come indica il flusso di riscatti dei fondi - conclude Gardiner - Se la marea dovesse cambiare, il tradizionale risparmio delle famiglie potrebbe fornire un ulteriore tonico a una Borsa che già gode di ottima salute». 

 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

   E basta con questo rialzo

26 Ottobre 2006 16:03 Milano - di *Alessandro Fugnoli
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Basta, si sente dire, con questo rialzo di Borsa adesso si esagera. Non confondiamo una fortunata serie di circostanze (l’assenza di uragani, la temporanea sovrabbondanza di petrolio, il punto morto sul nucleare iraniano, l’effimera decelerazione dell’inflazione, i portafogli ancora sottopesati dopo lo shock di maggio-giugno) con chissà quale avvio di una Nuova Era di prosperità perpetua. E non dimentichiamo i fattori strutturali che pesano come macigni su tutti noi, come il disavanzo delle partite correnti americane, l’esaurimento dei fattori produttivi inutilizzati, il rallentamento della produttività, la non espandibilità dei margini, il graduale ritiro del surplus di liquidità da parte delle banche centrali.

Tranquilli, si sente rispondere, il rialzo di borsa è appena agli inizi. Lo S&P 500 è al livello di sei anni fa, mentre gli utili, da allora, sono raddoppiati, così come le case, l’oro e molte materie prime. Tre mesi fa si parlava ancora di stagflazione e oggi ci troviamo in un mondo perfetto di crescita in accelerazione e inflazione in calo, mentre per il medio e lungo termine si prospetta un meraviglioso stato stabile con la crescita globale perfettamente sincronizzata sulla crescita potenziale, senza sbavature al di sopra o al di sotto della velocità di crociera. Uno scenario così perfetto merita inoltre un’espansione dei multipli, si aggiunge.

Frastornati, andiamo a fare una piccola verifica. Un anno fa, a quest’ora, lo S&P 500 stava a 1196.54. In questo momento sta a 1379.80. La differenza è del 15.39 per cento. Notevole. E di quanto sono saliti gli utili nel frattempo? Se guardiamo le 209 società (su 500) che avevano riportato i loro dati a ieri sera la differenza è del 18 per cento. Alla fine, quando avremo a disposizione tutti i dati, l’aumento sarà compreso tra il 16 e il 17 per cento.
Fino a questo momento, dunque, il mercato azionario si è comportato in modo esemplare, rispecchiando fedelmente l’andamento degli utili (che, per il terzo anno consecutivo, battono le previsioni). Il fatto che nell’ultima fase il rialzo dei corsi sia stato particolarmente impetuoso non toglie legittimità al livello raggiunto. Non bisogna confondere ipercomprato con caro.
Gli utili realizzati sono un fatto roccioso. Finché le quotazioni seguono il loro andamento ci sono buone probabilità di rimanere nell’ambito della ragionevolezza.

Dopo qualche anno di bull market, però, capita puntualmente che settori grandi o piccoli del mercato spicchino il volo dalla fisica alla metafisica. E’ la mistica dell’espansione dei multipli, salto di fede verso la Nuova Era millenaria, da scontare tutta subito, con ingordigia.
E’ affascinante come all’inizio di un bull market quasi nessuno parli mai di Nuova Era in arrivo e gli ottimisti si esprimano sempre con grande pudore. Dopo qualche anno di rialzi, per contro, un meccanismo di intossicazione mentale si impadronisce di menti anche brillanti e le induce a proiettare il bull market nell’iperspazio.
Nei confronti dei discorsi sull’espansione dei multipli va adottato lo stesso atteggiamento che una persona ragionevole dovrebbe avere verso la levitazione o verso altri fenomeni paranormali. Nessuna preclusione a priori, ma una richiesta di prove certificate da una pluralità di specialisti e vagliate con il massimo rigore.
Al momento non vediamo nessuna giustificazione degna di questo nome per imbarcarci su questo terreno infido. In particolare non vediamo scendere i tassi, né a breve né a lungo, tanto meno nell’ipotesi di una riaccelerazione dell’espansione in America e in Cina e in condizioni di pieno impiego in un numero crescente di paesi.

E’ anche difficile pensare che le banche centrali intendano ripetere l’esperienza patologica del rialzo azionario del 1999-2000, trainato quasi esclusivamente dall’espansione dei multipli. A quel tempo c’era almeno la giustificazione della deflazione in Asia e del rischio di contagio al resto del mondo che richiedevano energiche misure per rilanciare la domanda globale e il sentiment degli operatori.
Oggi alla Fed fa sicuramente comodo che la borsa in rialzo bilanci almeno in parte l’arresto del bull market immobiliare, ma i rischi di recessione e deflazione sono infinitamente minori rispetto ai tempi della crisi asiatica. Per la Fed un rialzo azionario basato sugli utili dovrebbe essere sufficiente.
Quanto al livello assoluto dei multipli, il fatto che oggi sia dimezzato rispetto al 1999-2000 non significa che sia sbagliato oggi, ma che era sbagliato allora. Se escludiamo del resto Nasdaq e S&P 500, pesantemente influenzati dalla bolla della tecnologia, vediamo che gli altri indici a base più ampia sono da tempo ai massimi storici e ben più in alto di sei anni fa.

Tirando le somme, non sentiamo alcun disagio per i livelli attuali dei mercati. Non sentiamo nessuna urgenza di ridurre le posizioni. Sconsigliamo anzi di farlo almeno fino alla fine dell’anno. Non vediamo rischi significativi nel probabile ulteriore recupero del greggio (sul quale c’é molto short da chiudere) perché fino a 65-67 dollari saliranno i titoli petroliferi senza che scendano tutti gli altri (solo oltre quel livello ci potrà essere una reazione negativa del mercato in generale).
Detto questo, non vediamo motivo per porci obiettivi particolarmente ambiziosi. I prezzi delle azioni sono equilibrati, sono saliti molto e potranno andare avanti inerzialmente ancora qualche settimana. Si formerà, come sempre in questi casi, un po’ di schiuma. Il primo trimestre del 2007 sarà però meno trionfale del primo trimestre 2006. L’Europa subirà un arresto della crescita e per quanto tutti sappiamo che sarà temporaneo non sarà bello vedere per settimane e settimane un susseguirsi di dati mediocri. Prima o poi si tornerà anche a parlare di geopolitica. Il fatto che ci siamo tutti voltati dall’altra parte non significa che l’Iran abbia smesso di costruirsi la bomba (i lavori stanno in realtà accelerando).
Il 2007 si prospetta in ogni caso come il quinto anno di rialzo azionario. Per riuscire a vedere un sesto anno nel 2008 sarà bene che l’espansione dei multipli, se proprio avrà da esserci, sia la minore possibile.

 

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank


 

 

 

Sabato  14  ottobre  2006   Venerdì  20  ottobre  2006   Sabato  21  ottobre  2006
   
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   Finanziaria amara per i fondi

2006-09-29 - di Sara Silano

La tassazione passa dal 12,5 al 20%. E se non verrà cambiato l’attuale meccanismo di imposizione sul maturato, l’industria domestica perderà ulteriormente terreno rispetto ai concorrenti esteri. In tre anni sono migrati oltre frontiera 90 miliardi a fronte di 59 miliardi fuoriusciti dai prodotti italiani. E il dato è in crescita.
Oggi (venerdì), è previsto il varo della Finanziaria da parte del Consiglio dei ministri. Tra le novità vi è la “armonizzazione” delle rendite finanziarie al 20%. In pratica, la tassazione dei titoli di Stato di nuova emissione, delle obbligazioni in genere, dei guadagni derivanti dalla compravendita di azioni, dei pronti contro termine e dei prodotti del risparmio gestito (fondi comuni d’investimento, sicav, polizze assicurative, ecc.) aumenterà rispetto all’attuale 12,5%, mentre quella sui conti correnti, i depositi bancari e postali scenderà (ora è al 27%).
Per gli investitori in fondi, oltre dieci milioni di famiglie, si profila, dunque, un inasprimento fiscale. Ad esempio, se un individuo ha investito 10 mila euro in uno strumento del risparmio gestito con un ritorno annuo del 6%, con l’attuale aliquota ottiene un guadagno netto di 525 euro, che scendono a 480 con il nuovo regime.

Per l’industria italiana, l’aumento segna un ulteriore passo verso la perdita di competitività rispetto ai concorrenti esteri a causa del diverso meccanismo di imposizione. I prodotti domestici, infatti, sono tassati in capo al fondo, ossia sul maturato, mentre quelli stranieri lo sono sul realizzato, cioè su quanto effettivamente l’investitore guadagna al momento della vendita delle quote.
In una lettera a Romano Prodi, pubblicata il 28 settembre su alcune testate giornalistiche, il presidente di Assogestioni, Guido Cammarano, ha sollecitato un cambiamento dell’attuale meccanismo per evitare che il risparmio italiano emigri oltre confine. Secondo le ultime statistiche dell’associazione di categoria, il patrimonio gestito supera i 1.100 miliardi di euro, di cui circa 260 miliardi (23,6%) sono affidati a società estere o filiali straniere di case italiane.

Il dato è in costante crescita. Nel solo secondo trimestre del 2006, i fondi domestici hanno registrato riscatti per 14 miliardi a fronte di una raccolta netta di 6,4 miliardi realizzata da quelli non domiciliati nel nostro Paese. Negli ultimi tre anni i flussi diretti verso i prodotti italiani sono stati negativi per 59 miliardi e sono migrati oltre 90 miliardi. Molte società domestiche hanno ampliato la gamma lussemburghese o irlandese ed è in aumento il numero di quelle che intendono costituire sicav oltreconfine per poter competere sul mercato europeo ad armi pari (Anima sgr ha imboccato l’anno scorso questa strada e Nextam Partners ha recentemente annunciato di aver avviato il processo di istruttoria per farlo).
Il rischio che il risparmio italiano venga gestito interamente fuori dal Paese è concreto, se non saranno equiparati i meccanismi di prelievo, con conseguenze pesanti anche per le finanze pubbliche. Come rileva Cammarano, infatti, per ogni miliardo che migra, lo Stato perde un potenziale gettito fiscale di dieci milioni.
L’attuale sistema non giova a nessuno: gli investitori pagano il prezzo di minori performance se il fondo ha un credito d’imposta (una posta illiquida che si crea quando il risultato di gestione è negativo), le società non sono competitive rispetto a quelle estere e sono costrette a sostenere i costi della costituzione di veicoli domiciliati in altri Paesi, l’erario ha minori introiti perché i capitali escono dall’Italia. Eppure da anni giace in Parlamento una proposta di riforma che non è mai stata approvata. Con l’innalzamento delle aliquote, la questione è diventata improcrastinabile se si vuole evitare che i risparmiatori siano privati di uno strumento d’investimento semplice e trasparente.

 

Fonte - Morningstar.it


 


 

 

 

Cambia al mappa della finanza italiana 
 

20 Ottobre 2006 Milano - di Finanza&Mercati
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«Non siamo stati interpellati». Così Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa, ha commentato gli ultimi sviluppi di Telecom Italia, e in particolare la costituzione del patto di sindacato tra Olimpia, Mediobanca e Generali. Sarebbe stato strano, d’altra parte, se Passera fosse stato interpellato.
E non solo perché Intesa ha lasciato Olimpia qualche settimana fa. Ma soprattutto perché l’«intesa di consultazione» stretta intorno a Telecom - che ha avuto la sua elaborazione strategica in Mediobanca, ma sulla quale si staglia l’ombra di Cesare Geronzi e della sua Capitalia - si può considerare come la prima risposta all’operazione Intesa-Sanpaolo.
La chiave di lettura più adatta per cogliere e interpretare i prossimi movimenti tra i grandi e i piccoli potentati della finanza italiana è infatti uno schema bipolare: da una parte il blocco Intesa-Sanpaolo, con la sua capacità di attrazione e condizionamento nei confronti di vaste aree del sistema creditizio; dall’altra l’asse Mediobanca-Capitalia-Unicredito. E naturalmente Generali, che ha nei tre istituti i principali azionisti.
Ma la compagnia del Leone fa anche parte di quella «terra di mezzo» che, se davvero lo schema bipolare andrà a realizzarsi, è destinata a essere riassorbita dalle manovre dei due schieramenti. Generali è infatti azionista importante di Intesa, ma appare probabile che questo rapporto andrà a definirsi.
Per un caso di eterogenesi dei fini, potrebbe essere l’Antitrust a provocare questo chiarimento se vorrà individuare, e i segnali su questo versante si moltiplicano, nella presenza di Generali nel capitale del nuovo colosso bancario - con quanto ne deriva in termini di concentrazione nei mercati delle assicurazioni e dell’asset management - una delle difficoltà alla realizzazione della maxi-fusione.
Naturalmente la «terra di mezzo» è assai più ampia e articolata, andando a comprendere regni e principati dell’importanza, per esempio di Rcs. Per non parlare poi di quella sorta di «truppe irregolari» del polo Intesa che è rappresentata da Romain Zaleski, presente sia nel capitale di Generali che in quello di Telecom con quote, com’è nel modus operandi del finanziere, forse superiori a quelle fin qui denunciate.
D’altra parte la mappa della finanza italiana sta entrando in una fase di cambiamento destinata ad accelerare col passare delle settimane, come se solo ora si avvertissero le conseguenze ultime della successione alla poltrona di governatore della Banca d’Italia.
Chi, qualche mese fa, denunciava che l’uscita di Antonio Fazio non aveva dato luogo ad apprezzabili mutamenti della situazione, ha compiuto un errore di valutazione. Occorreva che maturasse una prima grande operazione, come appunto quella tra Sanpaolo e Intesa, per scatenare un effetto domino che toccherà raccontare per i mesi a venire. 
 

 

Fonte - Finanza&Mercati

  
 



 



   Maxi processo per il crack Parmalat

24 Ottobre 2006 17:29 Parma - di WSI
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Sono 35.000 le parti civili ammesse al processo parmigiano per il crac Parmalat. Lo ha deciso il gup di Parma Domenico Truppa che nel corso dell'udienza preliminare, che si è tenuta nell'auditorium Paganini di Parma, ha letto l'ordinanza di ammissione delle parti civili: 35 pagine in cui il giudice ha motivato l'ammissione della procedura fallimentare della vecchia Parmalat e l'esclusione della nuova Parmalat Spa, nata sulle ceneri del crac del gruppo di Collecchio. Una soluzione che ha trovato il favore e l'apprezzamento del legale della Parmalat Marco De Luca.
Sono invece state escluse le associazioni dei consumatori, in quanto riconosciute non portatrici di interessi specifici. Una decisione che non è piaciuta al 'Movimento difesa del cittadino', che ha accolto "con sorpresa e disappunto" la decisione del gup. Rimangono nel processo però molti dei risparmiatori che si erano affidati alle associazioni, visto che avevano presentato anche a titolo personale la richiesta di ammissione come parte civile.
Nell'ordinanza Truppa ha definito il principio di responsabilità patrimoniale solidale, che permetterà a ogni parte civile di rivalersi su ognuno dei singoli imputati. Particolarmente importante, a questo proposito, la richiesta avanzata da più parti (che vede d'accordo sia i legali della Parmalat sia quelli di Tanzi) di accorpare al processo principale anche i vari tronconi secondari, Parmatour, Ciappazzi e Ributti.
Oggi l'ex patron di Parmalat, Calisto Tanzi, ha partecipato all'udienza preliminare del processo. Sia entrando nell'aula in mattinata, sia uscendo, accompagnato dai suoi avvocati il 'cavaliere', come ancora lo chiamano tutti a Parma, non ha voluto rispondere a nessuna delle domande dei cronisti che lo attendevano. Per lui hanno parlato i suoi legali, Filippo Sgubbi e Giampiero Biancolella, che hanno annunciato di aver depositato la richiesta per l'accorpamento dei vari tronconi del processo parmigiano. L'udienza preliminare ricomincerà il 22 novembre.
E stamani davanti Palazzo Chigi, a Roma, si è svolta una manifestazione del 'Comitato Italia', che raccoglie i truffati degli scandali finanziari del nostro paese: i vari crac Parmalat, Cirio, Bond argentini. Truffati provenienti da tutte le regioni, con striscioni tipo 'La vergogna d'Italia', che si sono messi in contatto tra loro per lo più tramite il blog di Beppe Grillo, hanno chiesto che il governo li sostenga nelle loro richieste di risarcimento alle banche.

 

 

Fonte - La Repubblica