.

 
 

 
PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

.

Macro USA e crisi creditizia

America: un repulisti stile Merrill Lynch

Macro USA

La crisi crea il socialismo per ricchi

Macro USA e valute

Mercati: non disturbate i manipolatori

Macro USA e crisi creditizia

Crisi mondiale: é stupido curare il malato grave...

Elezioni USA

La crisi economica potrebbe favorire Obama

Geo politica - guerra Georgia

USA-RUSSIA: verso una nuova guerra fredda

Macro USA

Killing me softly

Macro mondo

L'economia mondiale scende dalla Limousine

Materie Prime

E' la fine del boom delle commodity ?

   
Vai alla parte cronologica della Rassegna Vai alla 2° parte della Rassegna
 
ANSA - 05 Agosto 2008 20:13 ROMA   +++   FED: LASCIA I TASSI INVARIATI   +++    07 Agosto 2008 14:37 FRANCOFORTE   +++   BCE: LASCIA COSTO DENARO INVARIATO ++  BCE: TRICHET;INFLAZIONE RESTA ALTA,BENE STRETTA LUGLIO ++  28 Agosto 2008 18:26 NEW YORK  ++  Crescita del secondo trimestre rivista al rialzo  ++  ANSA
 
  Venerdì 01 agosto 2008   Sabato 09 agosto 2008   Domenica 10 agosto 2008  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....
 

 

 

  America: un repulisti stile Merrill Lynch

03 Agosto 2008 21:16 MILANO - di Giuseppe Turani

________________________________________

E´ tradizione, quando gli italiani partono per le vacanze, chiedersi come sarà l´autunno, che cosa troveranno cioè al loro rientro. Oggi, però, conviene fare una piccola deviazione e domandarsi invece che cosa potrà essere l´autunno americano. Anche perché da come sarà dipenderà molto del nostro. E qui ci sono le sorprese, e le preoccupazioni.
In apparenza, tutto sembrerebbe andare per il meglio. Nell´ultimo trimestre dell´anno scorso gli Stati Uniti sono andati indietro dello 0,2 per cento. Un brutto segnale. Ma poi si sono subito ripresi e nel primo trimestre di quest´anno la loro crescita è stata dello 0,9 per cento. Ancora meglio sono andate le cose nel secondo trimestre (quello che si è chiuso a giugno): la crescita è stata di quasi il 2 per cento (1,9, per la precisione).
Un osservatore un po´ distratto potrebbe concludere che ormai l´economia americana ha superato le sue difficoltà e che ha imboccato la strada della ripresa: da qui in avanti le cose non possono che andare meglio. Invece non è così. Il rischio che le cose peggiorino (e di parecchio) è reale.
Per accorgersene, basta guardare i dati. La crescita del secondo trimestre è di fatto tutta frutto delle esportazioni che sono cresciute (dato annualizzato) di oltre il 9 per cento rispetto al trimestre precedente. Gli investimenti sono crollati e i consumi si sono mossi di pochissimo. Da lontano sembra quasi di leggere dei dati italiani: tira l´export, ma ristagna la domanda interna.
Dentro i numeri relativi al secondo trimestre c´è però una specie di sirena d´allarme, che si è messa a suonare fragorosamente: le imprese hanno liquidato (e con una certa larghezza) le loro scorte di magazzino. Questo potrebbe essere frutto di un errore: gli imprenditori americani hanno pensato di essere dentro la recessione e hanno fatto fuori le merci che avevano già prodotto, prima che il mercato le rifiutasse. Ma, in realtà, i consumi hanno tenuto abbastanza e c´è stata crescita.
Allora, non c´è stato errore, ma c´è stata una previsione (un po´ sinistra): gli imprenditori americani pensano che le cose andranno sempre peggio e vogliono arrivare dentro la crisi con poche merci in magazzino, leggeri.

Si sbagliano? Probabilmente no. Visto che più di un centro di ricerca prevede un quarto trimestre (ottobre-dicembre) decisamente negativo (cioè con crescita sotto lo zero). Inoltre, non può essere sottovalutato il fatto che ormai da sette mesi il "sistema America" perde regolarmente occupati (al ritmo di 60-70 mila unità al mese). È evidente che, se diminuisce il numero delle buste paga, non possono aumentare i consumi interni.
Inoltre, non è affatto finita la crisi del credito. Anzi, molti sono convinti che il peggio deve arrivare. A settembre ci sarà la grande asta pubblica delle case "sub-prime" sequestrate (cioè quelle per cui non sono state pagate le rate). Le banche, che ne sono entrate in possesso forzosamente, pur di liberarsene, le svenderanno, come è tradizione. C´è quindi il pericolo che i prezzi degli immobili subiscano un altro duro colpo. Ma, in questo caso, diventeranno indifendibili non solo i prestiti sub-prime, ma anche molti "prime", cioè regolari. Con il rischio di nuove difficoltà per le banche e per il credito.
Ma ci sono altri segnali allarmanti. La General Motors (per anni azienda numero uno al mondo) ha chiuso i conti del secondo trimestre con una perdita di 15 miliardi di dollari. Sembra che dentro queste perdite ci siano anche molte rate delle auto non pagate: chi non riesce più a pagare il mutuo della casa, evidentemente non paga nemmeno quello dell´auto. Insomma, forse sta arrivando una crisi "auto-prime".
Ma c´è, se possibile, ancora di peggio. La grande banca d´affari Merrill Lynch (da cui uffici una volta passavano due su tre delle azioni scambiate nel mondo) ha venduto 30 miliardi (di dollari) di obbligazioni al 20 per cento del loro valore facciale (e ha finanziato il compratore). Si è accorta, insomma, di avere in casa della cartaccia (dei crediti molto dubbi, poco esigibili) e li ha svenduti pur di ripulire il proprio bilancio. Poiché non c´erano compratori, ne ha inventato uno e gli ha prestato i soldi necessari. Ha pagato uno perché gli portasse fuori l´immondizia. Avete presente quelli che si chiamano per sgombrare cantine e solai dalla roba vecchia? La stessa cosa.
Dentro le banche, sembra di capire, non c´è solo la faccenda dei prestiti sub-prime. Probabilmente ci sono anche altri casi di prestiti fatti con troppa facilità a soggetti che si stanno rivelando incapaci di far fronte ai loro impegni.
Se le cose stanno così, nessuno è più in grado di dire quando finirà la crisi del credito (che sta frenando l´economia mondiale). Anche perché trattare un´obbligazione di una banca, a questo punto, può essere una cosa più rischiosa dell´andare a farsi una giocata a Las Vegas.
Insomma, l´autunno americano non sarà una tranquilla passeggiata lungo viali leggiadri rallegrati dai colori delle foglie che cadono. Sarà, se questi segnali sono corretti, una specie di inferno.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

AMERICA, DISOCCUPAZIONE AI MASSIMI DI 4 ANNI

03 Agosto 2008 18:10 NEW YORK - di WSI
______________________________________________

L'emorragia di posti di lavoro negli Usa continua e alimenta le preoccupazioni sull'economia, già sull'orlo della recessione. A luglio sono stati persi 51.000 posti di lavoro, facendo balzare il tasso di disoccupazione al 5,7%, ai massimi degli ultimi quattro anni. Si tratta del settimo mese consecutivo di contrazione del mercato del lavoro. Si tratta inoltre del settimo mese di fila che si registra una contrazione dei posti di lavoro, anche se la dinamica delle perdite fino ad oggi è risultata tutto sommato contenuta rispetto a precedenti periodi di grave crisi economica.
Dall'inizio dell'anno sono stati soppressi 463.000 posti. I dati diffusi dal dipartimento del lavoro arrivano a pochi giorni dalla riunione della Fed, chiamata a decidere sul costo del denaro. Gli analisti si attendono che i tassi, il prossimo 5 agosto, restino fermi al 2% alla luce delle incertezze sia sul fronte dell'inflazione sia su quello della crescita, che procede a ritmo più lento del previsto. Nel secondo trimestre, infatti, il pil è salito di un 'modesto, 1,9% nonostante gli sgravi fiscali concessi dall'amministrazione Bush. Nel quarto trimestre del 2007, inoltre, l'economia si è contratta dello 0,2%, scendendo in territorio negativo per la prima volta dalla recessione del 2001.
Con l'economia a rilento e la disoccupazione in aumento i timori per lo stato di salute dell'Azienda America crescono, anche alla luce del perdurare delle tensioni sui mercati finanziario e immobiliare. A luglio, infatti, l'economia ha continuato per la crisi dell'immobiliare, come dimostrano i 22.000 posti persi nel settore delle costruzioni. Nell'industria sono stati persi 35.000 posti, mentre nella distribuzione 17.000 e nei servizi alle imprese 24.000.
Nel settore pubblico e in quello dell'educazione-sanità, invece, si è registrata un tendenza inversa: nei due comparti sono stati rispettivamente creati 25.000 e 39.000 posti di lavoro. Nella pubblica amministrazione sembra andare contro corrente la California, barometro di ogni tendenza e uno degli Stati più colpiti dalla crisi dei mutui subprime: il governatore Arnold Schwarzenegger licenzia migliaia di impiegati e sforbicia le buste paga dei dipendenti statali.
L'ex Terminator di Hollywood ha firmato un ordine esecutivo che elimina 22 mila posti di precario e part-time nella sua amministrazione e riduce al salario minimo gli stipendi di altri 200.000 fino a quando il parlamento del Golden State non passerà il nuovo bilancio che cerca di far fronte a un deficit di 15,2 miliardi di dollari. "Ho esercitato i miei poteri per evitare una crisi della massima ampiezza e permettere al nostro stato di andare avanti", ha detto Schwarzy annunciando l'impopolare misura che sarà prevedibilmente contestata dai sindacati.
Il dipartimento del commercio, nel diffondere i dati odierni, spiga come "negli ultimi tre mesi c'é stato un aumento notevole della disoccupazione fra i giovani di età compresa fra i 16 e i 24 anni". Il salario orario medio di luglio si è attesto a 18,06 dollari (+3,4% su base tendenziale), mentre il numero di ore lavorate è sceso a 33,6 a fronte delle 33,7 di giugno.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

GREENSPAN CAPO-GUFO, SEMPRE PIU' APOCALITTICO

05 Agosto 2008 13:17 NEW YORK - di ANSA
______________________________________________

C'é il rischio che altre banche e istituzioni finanziarie dovranno essere salvate dai governi, prima che la crisi del credito sarà superata. Lo sostiene l'ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, in un articolo pubblicato oggi sul Financial Times. E pensare che proprio Greenspan ha gran parte di responsabilita' per la crisi attuale, essendo stato artefice della politica della iper-liquidita' con i tassi d'interesse ai (nel 2004) ai livelli piu' bassi dal Dopoguerra a oggi.
Ricordando i salvataggi di Northern Rock da parte del governo inglese e di Bear Stearns da parte di quello americano, Greenspan ritiene che "potrebbero esserci altre banche e istituzioni finanziarie che, sull'orlo del default, finiranno con l'essere salvate dai governi".
Tuttavia l'ex governatore della banca centrale Usa avverte: un deciso intervento dei governi per contrastare l'attuale crisi finanziaria rischia di "arrecare più danni che benefici", poiché innescando una spirale protezionistica e contraria al mercato, potrebbe spingere giù i prezzi dell'azionario a livello mondiale.
In particolare Greenspan guarda con preoccupazione alla possibilità che i governi, già pressati dall'inflazione, possano tentare di riaffermare il loro controllo sugli affari economici, spiegando che "se questo fenomeno diventerà molto esteso la globalizzazione potrebbe invertire rotta a un costo impressionante". Greenspan quindi spiega che l'attuale crisi finirà soltanto quando i prezzi delle case negli Stati Uniti inizieranno a stabilizzarsi.
 

Fonte - ANSA

 

 

 

CASE & CONTRARIAN: ORSI OVUNQUE, TEMPO DI RIALZO?

06 Agosto 2008 11:46 NEW YORK - WSI
______________________________________________

Parliamo di mercato immobiliare, non di borsa. Ci sono tanti di quei catastrofisti in giro che prevedono il collasso dei prezzi delle case in America, che vien voglia di usare il metodo detto "contrarian indicator". Cioe': in casi come questi il mercato considera come anticipatori alcuni indicatori, che fanno prevedere possa accadere esattamente l'opposto di quel che viene sbandierato.
Per esempio Fortune.com ha pubblicato un lungo profilo della super-apocalittica e "gufa onoraria", l'analista della CIBC Meredith Whitney, nota perche' nel 2005 aveva pronosticato "perdite sul mercato del credito senza precedenti" per le istituzioni finanziarie operanti nel comparto subprime. Oggi la Whitney predice una recessione terribile, stile anni Ottanta.
Il canale TV CNBC Usa ha mandato in onda pochi giorni fa un'intervista in cui la Whitney sostiene che i prezzi delle case negli Stati Uniti "caleranno molto piu' di quel che la gente si aspetta". Bhe' volete un po' di informazioni di background sul suo curriculum? Ecco: 38 anni, ha lavorato come opinionista per Fox News, ha un diploma del "Bikini Boot Camp", e' sposata con il professionista del wrestling WWE John Layfield, conosciuto anche come "il J.R. del wrestling". Grandi credenziali, no?
Il New York Times ha pubblicato un profilo dell'analista del settore bancario Richard X. Bove: dal 2005, Bove "si e' guadagnato una certa reputazione come uno dei pochi analisti bancari che ha predetto lo scoppio della bolla immobiliare e i conseguenti problemi in molti istituti di credito", scrive il quotidiano newyorkese. Anche qui, un po' di info di background: 67 anni, lavora da casa sua a Lutz, in Florida, crede che alcuni titoli del comparto bancario finanziario siano adesso "too cheap", troppo sottovalutati.
La scorsa settimana il settimanale della Dow Jones (cioe' Rupert Murdoch) Barron's ha dato spazio con un'intervista all'economista super-apocalittico Nouriel Roubini, che osserva: "Siamo nella seconda gamba di una recessione severa e prolungata, cominciata nel primo trimestre di quest'anno, destinata a durare almeno 18 mesi, fino a meta' dell'anno prossimo". Aggiunge Roubini: "La crisi bancaria sistemica andra' avanti per qualche tempo, costera' in totale fino a $2 trilioni (2000 miliardi di dollari) di perdite, centinaia di banche andranno gambe all'aria". Info di background: nativo della Turchia, cresciuto in Italia, Roubini tiene un suo popolare blog super-catastrofista (quante posizioni short ha sul mercato?) che si chiama RGE Monitor.
 
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  La crisi crea il socialismo per ricchi

09 Agosto 2008 19:43 LUGANO - di Alfonso Tuor

________________________________________

La crisi dei mutui subprime «festeggia» il primo compleanno. Infatti esattamente un anno fa, il 9 agosto 2007, la Banca centrale europea scendeva in campo per iniettare oltre 90 miliardi di euro di liquidità per frenare l’impennata dei tassi sul mercato interbancario. Quella fu la prima ammissione ufficiale che qualcosa di molto grave stava accandendo nei mercati finanziari dopo la chiusura di due Hedge Funds della banca americana Bear & Stearns attivi nello scambio di titoli legati al mercato immobiliare statunitense.
L’intervento della Banca centrale europea immediatamente seguito da quelli della Federal Reserve e della nostra Banca Nazionale hanno segnato l’inizio ufficiale della cosiddetta crisi dei mutui subprime.
A dodici mesi dal suo inizio è indiscutibile che non si intravvede ancora la fine di questa crisi e che è quindi possibile che potremmo essere chiamati a «festeggiare» altri compleanni. Infatti quella, che in Svizzera e in Europa è apparsa finora come una crisi che ha colpito duramente alcune grandi banche, sta cominciando ora ad intaccare pesantemente la crescita economica e quindi a toccare tutti. Questa scadenza offre comunque l’opportunità di ricordare le origini di quella che è la più grave crisi del sistema bancario di questo dopoguerra.
Il tracollo dei mutui ipotecari subprime è in realtà unicamente il detonatore di una crisi che mette in luce problemi ben più gravi: un’enorme espansione del credito, ossia una vera e propria bolla creditizia, favorita ed ampliata dalla nuova ingegneria finanziaria. È infatti il credito facile e a basso costo che provoca (e non solo negli Stati Uniti) un’impennata dei prezzi degli immobili. Il segmento dei mutui subprime è ovviamente quello più a rischio, ma rappresenta solo una piccola parte, valutata attorno ai 1.000 miliardi di dollari, dell’intero mercato ipotecario americano.
Se il problema fosse confinato a questo comparto, dopo oltre 400 miliardi di dollari di perdite denunciate dalle banche nell’ultimo anno, la crisi sarebbe già stata archiviata. In realtà, i problemi non si limitano ai mutui subprime e si sono già estesi agli altri comparti del mercato immobiliare, ai crediti al consumo, ai leasing, ai crediti agli studenti e con la frenata economica attualmente in corso si estenderanno ai crediti industriali.

La gravità della crisi non è tanto rappresentata dalla solvibilità dei soggetti indebitati, ma dal modo in cui il sistema bancario ha finanziato questi crediti. Infatti la quantità dei crediti è stata moltiplicata dal processo di cartolarizzazione, ossia dall’impacchettamento delle ipoteche (o di altri crediti) concesse dalle banche in titoli che poi venivano venduti sui mercati (le cosiddette Asset Backed Securities).
Nulla di preoccupante, fino a questo stadio. Anzi, il trasferimento a milioni di investitori dei rischi prima detenuti dalle banche, avrebbe dovuto rendere più sicuro l’intero sistema. In realtà, questo era solo il primo passo, poiché gli uomini di Wall Street avevano dato libero sfogo alla loro fantasia attuando una vera e propria moltiplicazione di questi crediti. Infatti, le obbligazioni inizialmente vendute sul mercato (le cosiddette ABS) venivano nuovamente reimpacchettate e rivendute, e quindi trasformate in obbligazioni di obbligazioni (i cosiddetti CDO), che a loro volta venivano reimpacchettati in CDO al quadrato, che poi venivano clonati in modo sintetico, usando i derivati, che ovviamente venivano ancora rivenduti.
Ma c’è di più, su tutti questi strumenti si sviluppa un enorme mercato, chiamato dei Credit Default Swap, che teoricamente, insieme a vere e proprie compagnie assicurative (le cosiddette «monolines») dovevano garantire il detentore di questi titoli di fronte ai rischi di insolvenza. E non è ancora finita, su questi titoli si scommetteva sull’andamento dei tassi ed altro ancora. È stato calcolato che su ogni 100 dollari di ipoteca Wall Street era riuscita a costruire e poi a vendere almeno sei strumenti finanziari diversi.
Per le banche questa è la nuova ingegneria finanziaria; per ogni persona di buon senso questa è un’enorme catena di Sant’Antonio di carta straccia, anche se munita di sofisticati prospetti di presentazione, di rating tripla A e di calcoli del rischio dei titoli elaborati da matematici e fisici assoldati dalle banche.
E infatti appena il mercato immobiliare americano ha cominciato a scricchiolare e, quindi, non appena sono sorti i primi dubbi sulla capacità di pagare i tassi e di restituire i prestiti ipotecari, il castello di carte è rapidamente crollato. Il crollo ha messo in luce alcuni aspetti sorprendenti.
La cartolarizzazione non aveva disperso il rischio, che come un boomerang ha colpito le banche che avevano avviato il processo. Si è scoperto inoltre che le banche erano a tal punto «dipendenti» da questi strumenti tossici che avevano costruito delle società fuori bilancio (chiamate SIV o Conduit) che detengono ancora circa 5.000 miliardi di dollari di questi titoli.
Dall’agosto dell’anno scorso nessuno vuole più questi strumenti inventati dalla nuova ingegneria finanziaria. Addirittura le stesse banche non si fidano l’una dell’altra. Ciò ha costretto le banche centrali a scendere in campo per sostituirsi al mercato continuando a finanziare le banche e diventando di fatto gli acquirenti di ultima istanza dei titoli detenuti dal sistema bancario. E infatti la storia dell’ultimo anno è costellata di continui interventi statali (soprattutto negli Stati Uniti) per salvare il sistema bancario ed evitare una crisi sistemica.

Come scrive il settimanale «The Economist», con la motivazione che le conseguenze del fallimento di una grande banca sarebbero devastanti per l’intera economia mondiale, siamo entrati in una fase di «socialismo per i ricchi». Ma il «Welfare State» (ossia lo stato assistenziale) approntato per le banche ha permesso di guadagnare tempo, ma non ha risolto la crisi. Anzi, essa colpisce sempre più duramente l’economia reale. Gli Stati Uniti hanno evitato finora di cadere in recessione grazie al piano di ristorni fiscali di Bush, ma molti prevedono che vi cadranno nei prossimi mesi. Sorprendentemente anche l’economia europea, che doveva essere più resistente, sta subendo una brusca frenata che fa temere che presto non potrà evitare di cadere in recessione.
La crisi dei mutui subprime si è già trasformata nella crisi del sistema bancario occidentale e ora rischia di provocare una pesante recessione delle economie occidentali. In conclusione, è certo che l’uscita da questa crisi, che è la più grave di questo dopoguerra, non è prossima. Incerto invece è quanti compleanni saremo ancora costretti a «festeggiare».

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

  Lunedì 11 agosto 2008   Martedì 12 agosto 2008   Mercoledì 13 agosto 2008  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....

 

 

 

 

 

 

Complotto: la guerra in Georgia ordita da Cheney per bloccare Obama

15 Agosto 2008 15:16 NEW YORK - di WSI - di WSI
______________________________________________

Ecco il retroscena che finora mancava sulla guerra tra Georgia e Russia. Il conflitto nell'Ossezia del Sud e' parte di un complotto ordito da Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti, per evitare che Barak Obama sia eletto presidente a novembre. Questo almeno e' quel che scrivono in queste ore i "cospirazionisti" russi anti-americani sui loro blog. La tesi, riporta il sito del quotidiano Times di Londra, e' stata sostenuta ufficialmente dal notiziario di Vesti FM, una stazione radio russa che, come quasi tutti i media controllati dal governo moscovita ha riabilitato i vecchi sistemi dell'era Sovietica (quando la mano americana era indicata come responsabile dietro qualsiasi conflitto vero o presunto con l'Occidente). "La Russia moderna potra' anche essere collegata a internet e al mercato globale ma nella battaglia per conquistare l'opinione pubblica mondiale il Cremlino sta riproiettando un vecchio film in bianco e nero dei tempi dell'Unione Sovietica" scrive il Times.
La tesi-bisogna-sconfiggere-Obama-per-far-vincere-McCain ha ricevuto ampio supporto e copertura in Russia. Ne ha parlato mercoledi' anche Sergei Markov, un analista politico russo vicino a Vladimir Putin, primo ministro e fact-totum del potere moscovita, vero stratega dietro al presidente di facciata Medvedev.
"L'amministrazione di George Bush sta appoggiando in pieno gli interessi del candidato repubblicano John McCain" ha detto Sergei Markov dai microfoni di Radio Vest FM. "Sconfitto da Barak Obama su tutti i fronti, McCain ha solo una carta ancora da giocare: la creazione di una Guerra Fredda virtuale con la Russia. Lo stesso Bush non voleva una guerra nel sud dell'Ossezia ma il suo partito Repubblicano, con la spinta decisiva del vicepresidente Cheney, non gli ha lasciato altra scelta". Markov ha poi aggiunto: "Gli americani penseranno adesso a costruire a tavolino un conflitto armato tra Ucraina e Russia".
Mosca insomma sta usando i vecchi metodi "cospirazionisti" per far circolare nel mondo politico questa nuova edizione della Guerra Fredda, nel caso specifico scatenata dal conflitto caucasico. Il disegno e' alimentato vieppiu' dagli esiti poco felici della politica estera del presidente Usa George Bush, in uscita dalla Casa Bianca tra cinque mesi e in enormi difficolta' interne per il conflitto in Iraq (McCain sta cercando addirittura di prendere le distanze da Bush in campagna elettorale). Tra gli altri media moscoviti che hanno ripreso la tesi del complotto dei repubblicani americani nel Caucaso c'e' anche Russia Today, un canale di stato russo in lingua inglese in onda 24 ore su 24.
 

Fonte - WallStreet Italia.com

 

 

 

 

 

 

  Mercati: non disturbate i manipolatori

18 Agosto 2008 17:00 ROMA - di Maurizio Blondet

________________________________________

Mentre Bush persegue la sua mega-politica imperiale, l’economia USA, letteralmente, fonde come un gelato a ferragosto. I pignoramenti di case sono saliti del 55% a luglio rispetto a un anno fa; ciò significa che una famiglia su 464 ha ricevuto notizia di insolvenza, o ha visto mettere all’asta la sua casa, o se l’è vista prendere dalla banca creditrice (1).
Con punte tragiche in certe zone: in un’area metropolitana della Florida, Cape Coral-Fort Myers, una famiglia su 64 ha perso o sta perdendo la casa; in California, una famiglia ogni 186; in Nevada, una ogni 106. Le banche si trovano con almeno 750 mila unità immobiliari sequestrate, che non riescono a vendere nemmeno a prezzi drasticamente calanti. Eppure, il peggio deve ancora avvenire.
Circa un milione e mezzo di famiglie (per lo più in California) sono incatenate ad un tipo di mutuo variabile più velenoso dei sub-prime. Si chiama «Option ARM» (Adjustable Rate Mortgage), perchè i debitori hanno scelto di pagare le prime rate ad un tasso addirittura inferiore al mero interesse (cioè senza la quota di restituzione del capitale), mentre la quota non pagata si aggiunge al prestito originale, fino a quando raggiunge un certo ammontare (tra il 110 e il 125% del prestito d’origine); a quel punto il mutuo viene «riformulato» (recast) e il debitore deve pagare un rateo aumentato, di colpo, del 60-80%.
Ciò poteva ancora andare quando i prezzi immobiliari salivano; oggi, coi prezzi calanti, è un nodo scorsoio strangolatore (2). I proprietari si trovano a pagare enormemente di più del valore attuale della casa. E ovviamente non pagheranno, preferendo abbandonare l’immobile e rendersi introvabili. Ciò sta anzi già avvenendo; ma il grosso delle «riformulazioni» avverrà fra ottobre e marzo 2009. Con relative insolvenze a catena, e conseguenze esplosive per le banche creditrici. Perchè il mercato delle opzioni ARM vale 400 miliardi di dollari, la metà della bolla dei subprime (1 trilione), ma colpirà un sistema bancario già alle corde. La linea di credito di emergenza aperta per Fannie Mae e Freddie Mac, le «assicuratrici» semi-statali dei mutui, è di 800 miliardi, e verrà dunque rapidamente risucchiata dagli ARM; peggio ancora, le opzioni ARM, coriandolizzate e confezionate, sono sparse in fondi di ogni genere, e su di esse è stato creato un business di derivati da trilioni di dollari, che dunque è minacciato di implosione, tale da gettare le banche nell’abisso.

Ciò pone la domanda: come mai, in questa situazione fallimentare, il dollaro si è apprezzato sull’euro? Banche e imprese denunciano perdite colossali, i bilanci degli Stati sono in rosso profondo, la disoccupazione aumenta, e in questa rovina il dollaro risale.
La risposta viene da James Turk, analista e fondatore di Gold Money: «Le Banche Centrali sono intervenute a sostenere il dollaro, e ne posso dare la prova. Quando le Banche Centrali intervengono sui mercati valutari, comprano dollari con le loro valute; poi usano i dollari per comprare titoli di debito di Stato USA, per lucrare un interesse. Questi titoli di debito acquisiti dalle Banche Centrali sono conservati in custodia presso la Federal Reserve, e questa ne riporta l’ammontare ogni settimana.
Ebbene: al 16 luglio 2008, la Federal Reserve riportava di detenere 2.349 miliardi di dollari (2,35 trilioni) in Buoni del Tesoro custoditi per conto di stranieri. Tre settimane dopo, i titoli in custodia erano più di 2,4 trilioni. Il che, in un anno, fa una crescita del 38,4%. Dunque le Banche Centrali accumulano dollari ad un ritmo mai visto, ingiustificato rispetto al deficit commerciale americano. La conclusione logica è che stanno sostenendo il dollaro, per impedirgli di precipitare. Provocando un rialzo, non troppo difficile da ottenere visto l’effetto-leva usato dei fondi hedge».
Il calo del barile e dell’oro è stato, con ogni probabilità, manipolato al ribasso allo stesso modo. E’ chiaramente all’opera il cosiddetto «Plunge Protection Team», il semisegreto gruppo di finanzieri (ufficialmente si chiama President’s Working Group on Financial Markets) allestito appunto per manipolare i cambi e i corsi onde contenere, o almeno ritardare, una catastrofe, a forza di effetti-leva (3).

Ellen Brown, un’avvocatessa civilista che studia i trucchi finanziari (il suo ultimo saggio ha per titolo «The Web of Debt», la rete del debito) sospetta addirittura che il conflitto in Georgia possa essere stato scatenato per distrarre dalla enorme crisi che incombe. E ricorda il film «Wag the dog» (in italiano «Sesso e potere»), il film del ‘97 in cui un consigliere della Casa Bianca (Robert De Niro) contatta un produttore di fiction tv (Dustin Hoffman) e gli dice: «C’è una crisi alla Casa Bianca, e per salvare le elezioni bisogna fingere una guerra» (4). Il presidente USA nel film è travolto da uno scandalo sessuale, e per salvarlo si finge una guerra contro... l’Albania, naturalmente tutta inventata, e resa nei TG a forza di effetti speciali elettronici.
Ohimè, il conflitto georgiano è una realtà. Anche se forse non a caso Saakashvili ha attaccato l’Ossezia il 7 agosto, il giorno in cui la FED ha pubblicato i dati sugli inauditi volumi di acquisti di BOT americani da parte delle Banche Centrali. Ma su questo ultimo punto bisogna concentrarsi.
«Quali» Banche Centrali stanno dilapidando miliardi per sostenere il dollaro? Se tra queste c’è la Banca Centrale Europea, com’è probabile, bisogna concludere quanto segue: la BCE, con il suo tasso primario rialzato fino al 4,25%, ha mandato l’economia europea in recessione - e però aiuta gli americani, non gli europei. La scelta di mantenere l’euro fortissimo, di restrizione del credito (denaro caro), e per conseguenza di minori esportazioni, sta provocando la contrazione dell’area europea, dello 0,2% in complesso, ma con drammatiche situazioni secondo i paesi (5).
La Spagna è in situazione di emergenza, tanto da costringere Zapatero a stanziare d’urgenza 20 miliardi di euro per lavori pubblici, tagli fiscali e sostegno ai mutui - tipici rimedi anti-ciclici. L’Italia e la Francia hanno visto contrarre le loro economie dell’ 0,3% nel trimestre; la Germania si è contratta ancora di più (0,5%), perchè più industrializzata e più esportatrice. L’Islanda è ormai in recessione, ossia crescita negativa, di un inquietante 3,7%. In crescita negativa sono anche Irlanda, Danimarca, Lituania ed Estonia, mentre rallentano drammaticamente l’Olanda e la Svezia.
Insomma tutta la zona euro è in recessione per la politica di «denaro scarso e caro» instaurata dalla BCE; sarebbe irritante apprendere che il denaro, reso così scarso in Europa, la BCE l’ha trovato (o stampato) in abbondanza per comprare BOT americani, ossia del Paese più indebitato del mondo.

La caduta della Germania, comparativamente più rapida, ha allarmato la Confindustria tedesca (BDI), che ora sarebbe favorevole ad un abbassamento dei tassi. Ma il delegato tedesco alla BCE, Axel Weber, fa il sordo e resiste: «La fiducia espressa da alcuni osservatori, che la crescita economica indebolita stia raffreddando l’inflazione, è secondo me prematura», ha detto. Traduzione: la BCE ci sta portando deliberatamente in una recessione per scongiurare la spirale inflazionistica prezzi-salari. La BCE è convinta che ci sia un’inflazione da eccesso di moneta. Quella moneta che ci fa mancare.
Invece sì, l’inflazione c’è (ufficialmente del 4,1%), ma essa dipende dai rincari mondiali del petrolio e degli alimentari, su cui le manovre della BCE non hanno alcun potere. Ma se si tolgono dal calcolo greggio e alimentari (la misura si chiama «core inflation») si vede che la pretesa inflazione è già divenuta deflazione: i prezzi d’altro genere sono infatti diminuiti dell’1,8% rispetto all’anno scorso. A soffrire di più sono ovviamente i salari, il cui potere d’acquisto è stato brutalmente accorciato. D’altra parte, l’obbligo europeo di limitare il deficit al 3% del PIL impedisce ai governi di attutire la recessione con un aumento della spesa pubblica; anzi, l’Italia deve stringere i cordoni in piena recessione (infatti le tasse non vengono tagliate, nonostante le promesse, e i consumi non vengono stimolati da iniezioni di potere d’acquisto ai salariati e pensionati). Il nodo scorsoio si stringe.
La Spagna, come abbiamo visto, s’è infischiata dell’imperativo di limitare il deficit a 3%, ed ha varato il pacchetto d’emergenza con 20 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva: ma non solo ha un debito pubblico inferiore a quello italiano, la sua crisi - essenzialmente lo scoppio della bolla immobiliare - è più grave. Se avesse ancora la propria moneta, dovrebbe svalutarla del 30% per riportare a galla la sua economia. Avendo l’euro, non può farlo perchè la Germania e la BCE non voglione deprezzare l’euro. Le banche spagnole più esposte al crollo immobiliare (la Spagna ha oggi 800 mila appartamenti di troppo) si fanno prestare i soldi dalla BCE, almeno 49,4 miliardi di euro.
Lo fanno con un trucco: emettono obbligazioni - che il pubblico non comprerebbe - al solo scopo di consegnarle alla BCE per ottenerne liquidità. In questo modo, di fatto, le banche ispaniche si fanno sostenere dai contribuenti di tutta Europa, specialmente tedeschi, per restare a galla - con un metodo surrettizio e forse illegale. E allora perchè non può fare altrettanto la Grecia, che dovrebbe svalutare del 40%? Magari lo farà, visto il precedente spagnolo: e lo faranno l’Italia e l’Irlanda e l’Islanda. Ma la Germania in piena contrazione, avrà voglia di pagare surrettiziamente col denaro dei suoi contribuenti, il salvataggio di metà dei Paesi europei?
Sarebbe increscioso scoprire che, con questi guai in vista - nè più nè meno che il pericolo di spaccatura della moneta unica europea - la BCE trova il modo di spendere altri miliardi di tutti noi per comprare i BOT di un’America in rovina, che per di più ci vuole rifilare nella NATO anche la Georgia, e con ciò spingerci in rotta di collisione con la Russia.
------------------------------------------------------------------------------
1) Ilaina Jonas, «Home foreclosure filings up 55 percent in July», Reuters, 14 agosto 2008.
2) «Ticking time bomb», Economist, 14 agosto.
3) Ellen Brown, «Wag the dog: how to conceal massive economic collapse», GlobarlResearch, 14 agosto.
4) «Wag the dog» è un noto modo di dire americano: «muovi il cane» (sottinteso: anzichè la coda), per indicare la creazione di una falsa apparenza.
5) Ambrose Evans-Pritchard, «ECB slammed as Europe crumbles», Telegraph, 15 agosto 2008.

 

Fonte - Effedieffe.

 

 

 

 

 

 

Giappone - Recessione in vista

Wednesday, 13 August - di WSI - di by phastidio
______________________________________________

L’economia giapponese si è contratta nel primo trimestre, portando il paese in prossimità della prima recessione in sei anni, a causa soprattutto del calo dell’export e della decelerazione della spesa dei consumatori. Il pil si è ridotto del 2,4 per cento annualizzato nel trimestre aprile-giugno, dopo l’espansione del 3,2 per cento del primo trimestre. In particolare, l’export è diminuito del massimo dalla recessione del 2001-2002, sottraendo al Giappone il motore di crescita che ha sinora guidato la più lunga espansione del Dopoguerra, mentre gli elevati costi dell’energia hanno frenato i consumi domestici. La scorsa settimana Toyota ha riportato il maggior calo degli utili in cinque anni, mentre Japan Airlines ha comunicato un taglio dei salari per contrastare i crescenti costi. Anche per la Bank of Japan si pone il dilemma di politica monetaria che assilla le banche centrali di gran parte del pianeta: crescita in indebolimento ma inflazione in accelerazione.
Nel secondo trimestre il pil è calato dello 0,6 per cento trimestrale, peraltro in linea con le stime di consenso. Il Giappone è il terzo membro del G7 a sperimentare una contrazione congiunturale del pil quest’anno, dopo Canada e Italia. L’export è diminuito del 2,3 per cento, primo calo in tre anni, mentre l’import è calato del 2,8 per cento. La spesa dei consumatori, che conta per circa la metà dell’economia giapponese, è diminuita dello 0,5 per cento trimestrale. Il sentiment delle famiglie ha toccato in luglio il minimo storico di tutti i tempi, dopo che l’inflazione ha superato la crescita salariale. I bonus aziendali estivi delle maggiori compagnie giapponesi sono diminuiti per la prima volta dal 2002.
La domanda domestica, che include spesa dei consumatori ed investimento aziendale, incide per lo 0,4 per cento della contrazione trimestrale del pil. L’investimento aziendale è diminuito dello 0,2 per cento, meno della flessione dello 0,6 per cento che gli analisti si attendevano. La scorsa settimana Toyota, la più grande azienda giapponese, ha ridotto del 3,5 per cento le proprie stime di vendita per l’anno che termina a marzo 2009. Da giugno, Toyota ha eliminato 800 posti di lavoro presso la propria sussidiaria che realizza i SUV e le Lexus Sedan destinate al mercato statunitense. Japan Airlines ha invece annunciato la scorsa settimana una riduzione delle retribuzioni del 5 per cento, per compensare l’aumento dei prezzi dei carburanti.
Anche l’investimento immobiliare residenziale ha contribuito alla flessione del pil, con un calo del 3,4 per cento, a fronte di attese per una crescita dell’1,4 per cento, a seguito della debolezza nelle vendite di nuovi condomini causata da prezzi in aumento e restrizione degli standard creditizi da parte delle banche. Malgrado un quadro d’insieme non particolarmente brillante, molti analisti si attendono un rallentamento congiunturale meno severo che in passato, essenzialmente perché le aziende hanno ripagato i propri debiti, ridotto gli organici e razionalizzato l’investimento in attrezzature ed impianti. Anche le prospettive per l’andamento degli investimenti e le condizioni del mercato del lavoro appaiono migliori rispetto alla fine della precedente espansione, nel 2001. Secondo la Development Bank of Japan, infatti, le aziende sono attese aumentare i propri investimenti del 4,1 per cento nell’anno che terminerà il 31 marzo prossimo: se questo dato è peggiore rispetto al più 7,7 per cento dello scorso anno, è comunque di gran lunga migliore del calo del 10 per cento registrato durante la recessione del 2001. E riguardo il mercato del lavoro, il quoziente impieghi-richiedenti è ancora prossimo al suo massimo degli ultimi sedici anni, con un valore che a giugno era pari a 0,91 che indica che vi è un impiego disponibile per ogni lavoratore richiedente. Sette anni fa vi erano due richiedenti per ogni impiego disponibile.
Ad oggi, quindi, si può concludere che l’economia giapponese sta decelerando ma non collassando.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Crisi mondiale: é stupido curare il malato grave con un'aspirina

20 Agosto 2008 23:53 LUGANO - di Corriere del Ticino

________________________________________

La cosiddetta crisi dei mutui ipotecari subprime comincia ad intaccare anche l’economia reale. Tra le prime vittime è l’economia europea, che è stata indebolita non solo dalla crisi bancaria, ma anche dalla forza dell’euro e dall’impennata del prezzo del petrolio e delle altre materie prime. Infatti, nel secondo trimestre di quest’anno il Pil di Eurolandia si è contratto dello 0,2% rispetto ai primi tre mesi del 2008.
È la prima contrazione economica dalla creazione della moneta unica europea nel 1999 e la prima volta dalla recessione del 1992/93 che l’attività economica è diminuita nei 15 paesi che usano l’euro. Anche se l’economia europea è pur sempre cresciuta dell’1,5% rispetto al secondo trimestre dell’anno scorso, il termine «recessione» ritorna prepontentemente al centro del dibattito politico ed economico.
Le difficoltà dell’economia europea ravvivano le paure di una recessione globale. Infatti anche da un’altra economia, quella giapponese, che avrebbe dovuto dimostrarsi in grado di resistere meglio alla crisi del credito arrivano segnali preoccupanti. Nel secondo trimestre il Pil nipponico si è contratto dello 0,6%. La stessa strada è stata imboccata da Canada ed Australia e soprattutto dagli Stati Uniti, dove l’esaurirsi degli stimoli fiscali di Bush farà piombare (come prevede anche UBS) l’economia americana in recessione nel secondo semestre di quest’anno. La brusca frenata delle economie occidentali inciderà anche sulle prospettive del nostro paese.
I primi segnali cominciano ad emergere. La fiducia dei consumatori svizzeri è diminuita a livelli non più toccati dai tempi della stagnazione dell’inizio di questo decennio. Gli ordinativi provenienti dall’estero dell’industria delle macchine (un quinto dell’export elvetico) sono diminuiti e già nel mese di giugno le esportazioni di questo settore saranno inferiori rispetto a quelle dell’anno scorso. È quindi molto probabile che nei prossimi mesi vi sarà anche un forte rallentamento della crescita elvetica.
In questo quadro poco roseo l’unica incertezza riguarda la capacità di tenuta delle economie dei grandi paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia, ecc.). Se anch’esse dovessero soccombere alle pressioni recessive dei paesi di vecchia industrializzazione, avremmo una pericolosa recessione globale. Il forte calo dei prezzi delle materie prime delle ultime settimane sembrerebbe confortare questa previsione. Invece è molto probabile che questi paesi continueranno a crescere, poiché il calo dei prezzi del petrolio e dei prodotti agricoli calmiererà l’inflazione e permetterà il varo di politiche fiscali di rilancio dell’economia.
Al centro della crisi finanziaria e ora anche economica sono i paesi di vecchia industrializzazione e soprattutto gli Stati Uniti, poiché la brusca frenata della crescita si accompagna alla crisi del mercato immobiliare e del sistema bancario e quindi ad una contrazione dell’erogazione dei crediti che riduce sensibilmente l’influenza della politica monetaria. E infatti dalla lettura di quanto sta succedendo negli Stati Uniti si può trarre la conclusione che per uscire da questa crisi non saranno sufficienti le tradizionali manovre di politica economica, ossia la combinazione di riduzione del costo del denaro con pacchetti fiscali tesi a ridare fiato ai consumatori.
Queste misure permettono unicamente di guadagnare tempo, ma sono inadeguate rispetto ai problemi che stanno frenando l’economia. Queste politiche mirano a ricreare le condizioni che hanno provocato questa crisi: spingere le famiglie americane a spendere aumentando il loro livello di indebitamento, ritenuto da tutti già eccessivo. Paradossalmente, si sta ripetendo esattamente quanto fece la Federal Reserve di Alan Greenspan all’inizio di questo decennio dopo il crollo delle borse, sebbene quella politica monetaria sia ritenuta da alcuni la responsabile della situazione di oggi.
Invece per affrontare una crisi, come l’attuale, determinata da un eccesso di credito erogato dal sistema finanziario e per converso da un eccesso di debito delle famiglie, occorre riorientare completamente il mix della politica economica. I consumi delle famiglie non dovrebbero essere sostenuti da un ulteriore aumento del loro indebitamento, ma da un incremento dei loro redditi attuato attraverso un’adeguata politica fiscale. La crescita dovrebbe essere trainata da grandi investimenti pubblici nelle infrastrutture. Il sistema finanziario dovrebbe essere risanato dalle radici. Oggi non vi è consenso per il varo di queste politiche, ma nel prossimo futuro la gravità della crisi le riporterà in auge.
 
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

  Venerdì 15 agosto 2008   Martedì 19 agosto 2008   Mercoledì 20 agosto 2008  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....

 

 

 

 

  La crisi economica potrebbe favorire Obama

20 Agosto 2008 23:23 CINCINNATI - di Andrea Hopkins

________________________________________

I prezzi della benzina negli Stati Uniti possono essere leggermente diminuiti, ma è difficile prevedere che prima delle elezioni presidenziali di novembre si attenuino tra gli elettori le preoccupazioni sul futuro dell'economia. E questo potrebbe pregiudicare le possibilità per i repubblicani di restare in corsa per la Casa Bianca.
I dati appena pubblicati, che mostrano un'impennata dell'inflazione e un rallentamento nelle costruzioni, con l'indice che misura l'avvio di nuovi cantieri al punto più basso da 17 anni, hanno alimentato i timori, e secondo gli analisti ci sono pochi dubbi che il susseguirsi di cattive notizie possa alimentare negli elettori una voglia di cambiamento. Secondo Michael Walden, economista della Carolina State University, questa situazione da' al candidato democratico Barack Obama un grande vantaggio sul repubblicano John McCain.
"Fino a quando l'economia continuerà a peggiorare, Obama sarà favorito perchè gli elettori vedranno in lui l'uomo del cambiamento" dice Walden. Una crisi economica non è mai un vantaggio per i partiti in carica. Dopo sette anni di presidenza Bush, gli elettori sono scontenti dello stato dell'economia statunitense, e stanchi di prezzi alti, disoccupazione in aumento e crisi immobiliare e creditizia. "Gli elettori continuano a ripetere con forza che l'economia è il punto chiave di queste elezioni", spiega Maurice Carroll, direttore dell'istituto di sondaggi della Quinnipiac University. Secondo un sondaggio Quinnipac su scala nazionale, per il 52% dei potenziali elettori il tema più importante è proprio quello economico, che supera di gran lunga la percentuale (16%) di chi è preoccupato soprattutto della guerra in Iraq.
Ma non è chiaro quale candidato venga percepito come il più adatto a gestire la situazione economica. I sondaggi mostrano risultati contrastanti. Il sondaggio Reuters/Zogby mostra come alla domanda su quale candidato sarebbe più adatto a gestire la politica economica del Paese, il 49% abbia indicato McCain e il 40% Obama. Il sondaggio Quinnipac invece riporta risultati opposti. Che un'economia barcollante avrebbe costituito un punto di debolezza per McCain - un senatore dell'Arizona che è stato prigioniero in Vietnam e ha ammesso la sua scarsa esperienza in campo economico - era fatto atteso. Ma nell'ultimo mese McCain ha attaccato Obama sui rincari energetici, e i sondaggi hanno mostrato che una grande maggioranza degli elettori sostengono la sua richiesta di aumentare le trivellazioni in mare aperto per far fronte all'aumento del prezzo della benzina, vicino ai 4 dollari al gallone. Obama si è opposto a ulteriori trivellazioni, ma recentemente ha detto di essere favorevole a un limitato aumento dell'estrazione come parte di un programma energetico più ampio.

SCENARI FUTURI Secondo Brian Darling, analista alla conservatrice Heritage Foundation, la richiesta di un incremento della produzione di petrolio negli Usa sta facendo guadagnare voti a McCain. "Se guardiamo ai sondaggi, si vede come McCain rimanga fermo nelle sue posizioni anche in una congiuntura economica molto sfavorevole", dice Darling. "Se McCain riesce a convincere gli elettori che terrà bassa la pressione fiscale e aumenterà la produzione domestica di greggio, questo potrebbe avere la meglio sulle critiche ai repubblicani per politiche economiche sbagliate".
Darling ammette comunque che molto potrebbe dipendere dagli sviluppi economici da qui a novembre, quando anche gli elettori indecisi sceglieranno il proprio candidato. "Nuovi fallimenti bancari e un peggioramento della crisi immobliare potrebbero aiutare Obama. I repubblicani, a torto o a ragione, saranno criticati per ogni problema economico". Mentre Obama, che sarebbe il primo presidente afroamericano negli Usa, ha conquistato alcuni elettori e opinionisti politici in patria e all'estero, analisti e sondaggisti sostengono che probabilmente le elezioni saranno molto combattute.
E mentre gli economisti discutono il contenuto dei programmi economici dei due candidati, l'elettore medio potrebbe decidere guardando al portafoglio e alle preoccupazioni economiche più che a qualsiasi tema specifico. "E' una tendenza consolidata. Le persone capiscono che l'economia durante la presidenza Bush è stata debole, almeno nel suo secondo mandato, e questo sicuramente danneggia McCain in quanto candidato repubblicano e da' a Obama un vantaggio significativo perchè lui può sostenere che non continuerà sulla strada di Bush", dice Alexander Lamis, docente di scienze politiche alla Case Western University in Ohio.
Secondo Walden, una diminuzione dei prezzi della benzina potrebbe aiutare McCain se gli elettori ne trarranno un po' di sollievo per il proprio budget familiare, e se saranno quindi meno desiderosi di quel cambiamento che Obama rappresenta. Ma, sempre secondo l'analista, sul fronte dell'occupazione le cose non potranno che peggiorare da qui a novembre. "Credo che i prezzi della benzina continueranno a scendere fino al giorno delle elezioni e anche oltre, e questo avrà un effetto psicologico positivo sugli elettori. Ma non avrà più peso delle criticità nel mercato del lavoro. Non credo assolutamente che l'elettore medio pensi che il peggio sia passato".
 
 

Fonte - Ruters

 

 

 

 

 

 

CHI E' L'ECONOMISTA INDIANO CHE DENUNCIA L'EGOISMO AMERICANO

21 Agosto 2008 13:39 MILANO - di Stefano Feltri
______________________________________________

Per fortuna Jagdish Bhagwati resiste. L’economista indiano trapiantato alla Columbia University, che da anni predica i benefici del libero commercio, non si arrende. Il decano dei liberisti continua a spiegare che ridurre le barriere doganali e aprirsi alla globalizzazione è una scelta che comporta alcuni costi nel breve periodo, ma poi tutti ci guadagnano. Però il clima è cambiato e ora Bhagwati si trova costretto a usare argomenti di sinistra, abbandonando i toni da destra liberale del passato. In un sorprendente articolo pubblicato oggi dal Financial Times, dal titolo "The selfish hegemon must offer a New Deal on trade", Bhagwati denuncia la deriva egoistica dell’America. Per proteggere due milioni di agricoltori, gli Stati Uniti hanno chiesto a India e paesi in via di sviluppo sacrifici inaccettabili, determinando il fallimento del negoziato di luglio della Wto.
"Ancora una volta gli Stati Uniti sono un gigante spaventato", scrive l’economista della Columbia, proprio come quando la concorrenza Giapponese terrorizzava le industrie americane negli anni ottanta e i deputati fracassavano i walkman Toshiba sulle scale del Congresso. E quando l’America si spaventa, per usare l’espressione dello storico dell’economia Charles Kindleberger, smette di essere un "egemone altruista" e diventa un "egemone egoista", che si nasconde dietro la richiesta del rispetto dei diritti dei lavoratori in Cina e in India solo per proteggere le proprie imprese inefficienti.
Ma in un’economia sempre più competitiva, dominata "dal vantaggio comparato caleidoscopico", cioè disperso e frammentato in giro per il globo, la strategia cinica dell’egemone egoista non può durare a lungo. Perché il protezionismo può rivelarsi molto costoso, soprattutto se impedisce a un paese di confrontarsi con la concorrenza globale e spreca risorse sempre più scarse per salvare imprenditori (soprattutto agricoli) che non sono più competitivi.
Peccato che Barack Obama, il candidato democratico, parli di una "nuova epoca" ma che si annuncia più protezionista di quella attuale, mentre John McCain, che pure è per cultura un sostenitore del libero commercio, non ha abbastanza competenza in materia per mettere l’economia al centro della sua campagna elettorale, e per ora non offre risposte convincenti.
Bhagwati, sempre più solo, e la scuola di economisti indiani-americani che a lui si ispira continueranno a far sentire la propria voce, ma l’impressione è che in questa fase siano destinati a restare inascoltati. 
 

Fonte - Il Foglio
 

 

 

 

 

  USA-RUSSIA: verso una nuova guerra fredda

22 Agosto 2008 04:29 ROMA - di Sandro Viola

________________________________________

Dopo l´America, che l´altro ieri aveva siglato con i polacchi l´accordo per l´installazione d´un sistema antimissilistico a ridosso dei confini russi, è Mosca, adesso, a far capire che la crisi scaturita dalla guerra nel Caucaso è soltanto agli inizi.
Il Cremlino ha infatti deciso di sospendere qualsiasi forma di cooperazione militare con la Nato. Non siamo ancora all´uscita dal Consiglio Nato-Russia, ma si tratta comunque d´un passo molto significativo. Soprattutto perché nei capitoli della cooperazione militare era compreso il passaggio attraverso la Russia di "materiali non letali" (quindi approvvigionamenti, attrezzature sanitarie) diretti in Afghanistan.
Un segno, dunque, che le reazioni occidentali di queste due settimane alla condotta dell´Armata Rossa nel Caucaso non avevano né intimidito né preoccupato il regime russo.
Presa nel complesso, la risposta dell´Alleanza Atlantica al travolgente contrattacco dei russi in Georgia (la principale responsabile, questo non va dimenticato, della guerra d´agosto) era stata abbastanza cauta. Alla riunione dei ministri degli Esteri della Nato, martedì scorso, le porte erano state lasciate aperte ad una ripresa di rapporti "normali" con Mosca, alla sola condizione d´un totale ritiro delle truppe russe sulle posizioni da cui s´erano mosse il 7 agosto. Del resto, che altro poteva essere deciso nella riunione della Nato?
La situazione s´è già fatta abbastanza convulsa, e nessuno intendeva aggravarla giungendo ad una drastica rottura del dialogo con la Russia, membro permanente del Consiglio di sicurezza dell´Onu, partner del G8 e del Quartetto che media nel conflitto israelo-palestinese, massimo esportatore di idrocarburi al mondo, e inoltre in possesso del più vasto armamento nucleare dopo quello degli Stati Uniti.
Certo: l´irruenza con cui l´amministrazione Bush ha voluto concludere l´accordo sui missili anti-missili in Polonia, può aver spinto Putin a reagire con un gesto drastico, clamoroso, come la fine d´ogni cooperazione con la Nato. Ma è vero anche che l´atteggiamento possibilista, prudente, degli europei che contano (Germania, Francia, Italia, Spagna) poteva bastare ai russi per attendere senza troppo agitarsi la fine della bufera post-Georgia.
Non è stato così. E ora bisogna tentare di capire come stiano guardando alla crisi, come ne stiano valutando gli sviluppi, gli uomini del Cremlino. Se alla prima buona occasione decideranno di rinfoderare il linguaggio e i gesti di sfida adoperati in questi ultimi giorni: o se invece la cautela degli alleati dell´America non verrà interpretata come timore dello scontro, "appeasement", un incoraggiamento a nuove dimostrazioni di forza. Come farebbe pensare al momento la fine della cooperazione militare con la Nato.
Il tentativo di cogliere cosa passi per la mente a Putin e ai suoi non è facile, dato che il regime consolidatosi a Mosca in questi anni (la sua natura e composizione, le sue motivazioni) è così anomalo da risultare quasi sempre imprevedibile. In Russia governa una consorteria di ex agenti dei servizi segreti: uomini d´una stessa generazione e formazione, la vera "élite" - per studi, orgoglio del ruolo, patriottismo - dell´ultima Urss. E questo gruppo nutre oggi la fierezza d´aver tratto il proprio Paese dal baratro in cui era caduto.
Esattamente dieci anni fa, infatti, la Russia di Eltsin aveva dichiarato bancarotta. Il rublo ridotto a carta straccia, la sospensione dei pagamenti del debito estero, i risparmi di decine di milioni di russi andati in fumo. Nessun rispetto sul piano internazionale, il crimine dilagante, lo Stato a pezzi.

Poi, nel 2000, Putin era asceso al potere con i suoi accoliti ex Kgb. E la Russia è oggi, otto anni dopo, un´altra Russia. Lo Stato rimesso in piedi, i forzieri della Banca centrale che scoppiano di riserve valutarie, l´economia in ripresa, e attorno al regime un consenso massiccio che la guerra in Georgia, fomentando il nazionalismo e anti-americanismo dei russi, ha ancora aumentato.
Al vertice moscovita circolano quindi una grande sicurezza, un´autostima, diciamo anche un´euforia. La percezione del gruppo che fa da base al regime, la Kooperativnost uscita dai servizi segreti dell´Urss, è che sulla scena internazionale "l´aritmetica del potere" è oggi dalla sua parte.
Poco importano le critiche che giungono dall´esterno per le indecenti farse elettorali russe, per il fatto che tutti i personaggi di rilievo siano insieme uomini di governo e amministratori della ricchezza energetica del Paese (con automatiche e proficue ricadute sulla loro ricchezza personale), o per la presenza d´una specie di partito unico che rende il Parlamento completamente prono ai voleri del Capo.
Il regime di Vladimir Putin ha il vantaggio di non dover rispondere a nessuno. Non ad un´opposizione politica e ad un´opinione pubblica all´interno, né ad alleati degni del nome all´esterno.
Può così appoggiare all´Onu il Sudan sulla questione Darfur, i generali birmani e lo Zimbabwe di Mugabe, rifiutare gli osservatori internazionali nei giorni delle elezioni, sciogliere a manganellate le sparute discese in piazza degli oppositori, tenere sotto stretto controllo i maggiori mezzi d´informazione, sospendere al primo stormir di fronde le forniture energetiche ai paesi ex Urss.
In questo, gli errori o provocazioni dell´America di Bush non c´entrano. E c´entrano solo relativamente le ricchezze piovute dall´aumento dei prezzi di petrolio e gas, cresciuti di sei volte negli anni di Putin. I modi con cui dal 2005-2006 la Russia contrasta, ostacola, ostruisce ogni strada percorsa dagli Stati Uniti, scaturiscono infatti dalla viscere del regime. Dal suo bisogno di rivincita per il crollo della Russia sovietica («la più grande tragedia del XX secolo», dice Putin), dai complessi d´inferiorità e frustrazioni sofferti lungo tutti gli anni Novanta dinanzi alla vittoria americana nella Guerra fredda, dal suo nazionalismo di nuovo fervente dopo i successi ottenuti da quando è al potere.
È dunque un gruppo dirigente insieme risentito e baldanzoso che gestirà a Mosca la crisi in atto. Le tensioni ormai molto forti con gli Stati Uniti, la semi-rottura con la Nato, una possibile discrepanza delle posizioni tra l´Unione europea e Washington, l´esacerbarsi dei rapporti con i vicini ex Urss dopo la guerra in Georgia. Quella che per alcuni versi sembra già una nuova Guerra fredda, nella quale la condotta del regime russo, almeno per ora, è tutto meno che prevedibile.
Solo l´economia, l´economia globalizzata, rende la situazione meno infiammabile di com´era ai tempi della vera Guerra fredda. I rapporti tra monopoli e industrie russi col mondo industriale e finanziario dell´Occidente sono oggi così intensi (e da ambedue le parti praticamente irrinunciabili), che è difficile pensare ad una loro rottura. L´Occidente vive una crisi economica molto seria, forse non passeggera. E la Russia aspira a modernizzarsi per abolire finalmente le sue tante sacche di miseria, e non essere - invece che una nazione potente - soltanto un petro-Stato che conta i barili di petrolio da vendere sul mercato.
 
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Mercoledì 27 agosto 2008   Venerdì 29 agosto 2008   Sabato 30 agosto 2008  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....

 

 

 

  Killing me softly

24 Agosto 2008 23:00 ROMA - di Eugenio Benetazzo

________________________________________

 
I suv americani stanno letteralmente uccidendo dolcemente i loro proprietari ormai non più in grado di sostenere finanziariamente sia il pagamento delle rate dei light leasing quanto il costo del pieno di benzina (gasoline). Tanto per fare un esempio pratico, un gallone di benzina (3,8 litri) costa adesso 4 $, che per l'Homer Simpson di turno è un prezzo fuori dal mondo: considerate infatti che durante la crisi petrolifera di fine anni settanta il massimo prezzo pagato fu di $3,5! Fino a tre anni fa il costo si aggirava a $1,50 al gallone. Per dare un ulteriore elemento di paragone, il resto del mondo paga un gallone dai $2 della Cina agli oltre $8 in Europa!
Negli States lo scenario automobilistico si sta rendendo insostenibile, considerate che un americano medio, viste le ampie dimensioni dei distretti urbani, percorre normalmente più di 100 km al giorno per recarsi al lavoro, fare la spesa al jet market e fermarsi per un cheese burger da Mc Donald. I giornali di annunci economici di seconda mano sono invasi da offerte di vendita a prezzi regalati di questi bestioni della strada: ma nonostante il prezzo regalato, non se li fila comunque nessuno ! Persino le concessionarie di auto nuove propongono sconti anche del 40 % purchè qualche folle sprovveduto se li porti via. Sembrano invece paradossali per il tipico stile di vita americano le richieste di acquisto e prenotazione delle cosidette compact car, le utilitarie europee e giapponesi dalle dimensioni contenute, ma dai costi di gestione paradisiaci a confronto.
Per la prima volta la mentalità "super size" dello yankee obeso ovvero tutto esageratamente molto grande sembra subire una pesante sconfitta, che come perdente clamoroso identifica proprio la grande major automobilistica americana: la General Motors, il cui logo GM è stato recentemente ribattezzato come acronimo di Gigante Morente. La General Motors è stata sino a qualche anno fa la più grande azienda automobilistica del pianeta ed anche la prima corporation per fatturato prodotto: nata come holding negli anni trenta dalla fusione per incorporazione di quattro marchi storici dell'industria automobilistica americana (Buick, Chevrolet, Oldsmobile e Pontiac), ha cavalcato come leader di mercato per decenni le scene del panorama automobilistico planetario imponendo i suoi oltraggiosi veicoli ovunque, sino a quando non si è scontrata con la lean production di Toyota (attualmente il più grande costruttore automobilistico del mondo). Lo scontro è stato fatale, per non dire mortale, infatti senza esagerazioni possiamo dire che General Motors è ormai avviata ad una lenta ed inesorabile morte industriale e finanziaria.
I fondamentali sull'azienda di Detroit hanno raggiunto proporzioni allarmanti: crollo delle vendite oltre il 30 %, quattro trimestri consecutivi con ingenti perdite, solo l'ultimo con oltre 15 miliardi di dollari, le agenzie di rating hanno emesso un pesante downgrade sul titolo al limite ormai della spazzatura, non si placano le voci di possibile fallimento del gruppo per insolvenza finanziaria, il titolo azionario GM ormai in caduta libera a 10$ per azioni (il minimo degli ultimi cinquant'anni). Il famoso suv Hummer dai consumi sconsiderati è uno dei marchi di punta del gruppo americano che ha fatto dell'abbondanza delle forme e dei consumi sfrenati la sua strategia di mercato per distinguersi dagli altri produttori. Una scelta che a distanza di tempo adesso più che mirare alla distinzione stia lentamente portando all'estinzione.
Il ruolo ed il peso della GM negli USA è superiore a quello della Fiat per il nostro paese, se l'azienda di Detroit dovesse incorrere in un default finanziario (ormai sempre più prossimo ed inesorabile) le conseguenza per l'economia statunitense sarebbero pari ad uno shock finanziario con effetti domino su decine di grandi corporations, e tutto questo in piena crisi subprime e nel pieno di una depressione economica. Sarà curioso a questo punto conoscere che tipo di intervento adotteranno le autorità di governo statunitensi per impedire anche a questo bubbone finanziario di implodere. In ogni caso tutti gli interventi di salvataggio recentemente effettuati dallo Zio Sam avranno presto ripercussioni sulle tasche dei contribuenti americani e sulla quantità e qualità dei servizi erogati dalle agenzie federali. Per quanto ossigeno continui a dare ad un malato terminale per tenerlo in vita, sai perfettamente che prima o poi dovrà soccombere fisicamente. 
 

Fonte - www.eugeniobenetazzo.com


 

 

 

  L'economia mondiale scende dalla Limousine

25 Agosto 2008 00:13 MILANO - di La Repubblica

________________________________________

Questo sarà l´autunno delle cattive notizie. La prima è che non ci sarà la ripresa (e nemmeno la ripresina) sulla quale molti contavano. Anzi, è probabile che le cose vadano peggio di quanto sono andate fino a oggi. E questo per una serie di ragioni molto semplici. Il consumatore americano (che rappresenta il 20 per cento del Pil mondiale contro il 3 per cento del consumatore cinese, come spiega Alessandro Fugnoli) sta per affrontare la sua stagione più dura.
La crisi dei mutui subprime non è affatto finita. E in autunno dovrebbero andare in vendita le case sequestrate dalle banche perché i mutui non sono stati pagati. Questo significa che i prezzi delle case in America scenderanno ancora. E questo, come in un perverso gioco di domino, significa che per moltissimi americani ci saranno problemi perché il valore delle loro casa scenderà ancora. E quindi problemi con le banche, con i finanziamenti e con il livello di vita.
Insomma, tutto congiura perché il consumatore americano non abbia tanta voglia di correre a consumare. Più probabile che si chiuda in casa (se riuscirà a salvarla), a guardare la tv, con una birra in una mano e un sacchetto di patatine nell´altra.
All´economia mondiale, cioè, rischia di venire a mancare uno dei suoi protagonisti principali. E il consumatore cinese (che dovrebbe arrivare in soccorso), finita la festa delle Olimpiadi, ha anche lui un po´ l´aria di uno che si ritira a tirare il fiato. Per fortuna sembra che il governo cinese sia pronto a intervenire con un po´ di soldi (30-40 miliardi di dollari) per aiutarlo a essere un po´ più spendaccione e a sostenere quindi l´economia (e altri aiuti sono previsti, sembra, per la Borsa).
Ma la cattiva notizia che riguarda il consumatore americano non sarà l´unica dell´autunno in arrivo. E´ sempre più evidente, ad esempio, che assisteremo a una rapida discesa degli utili delle aziende quotate. Finora hanno tenuto, ma nel terzo trimestre dell´anno dovranno cedere. Con l´America che sta combattendo per non finire in recessione e l´Europa che probabilmente c´è già (e la Cina in rallentamento post- olimpico), mantenere gli utili di una volta richiederebbe un intervento diretto degli dei dell´Olimpo (che però forse sono in ferie, da secoli).
Ma se gli utili aziendali vanno giù, anche i listini sono destinati a cedere. E questo significa altre perdite per i consumatori-risparmiatori americani. E un nuovo stimolo a starsene chiusi in casa davanti alla tv. E´ prevedibile, in questa situazione, che cresca la pressione dei governi sulle banche centrali perché diano una mano. E poiché l´inflazione è tendenzialmente in discesa, questa mano arriverà. Ma non prima di Natale perché tanto la Federal Reserve quanto al Banca centrale europea vorranno vedere, prima, dei numeri che certifichino l´effettiva discesa dell´inflazione.

Non solo: molto probabilmente sarà una mano piccola, non risolutiva. Le banche centrali, infatti, si vanno convincendo che tassi di interesse troppo bassi non sono fondamentali per il buon andamento dell´economia, mentre hanno il potere di scatenare le bolle (tipo subprime), che poi scoppiano creando grandi guasti. A questo proposito c´è anche chi sostiene che la stagione del denaro a buon mercato forse si è chiusa per sempre. Il precedente capo della Federal Reserve, Greenspan, se ne servì per superare con successo almeno due momenti difficili (esplosione della new economy e attentato alle Twin Towers), ma proprio in questi giorni si vede quanto è alto il prezzo da pagare, con tutta la finanza mondiale nel caos a causa delle troppe (e insensate) speculazioni, in gran parte rese possibili proprio dalla disponibilità di montagne di denaro a costo quasi zero.
L´autunno, insomma, sarà duro e segnerà l´inizio di un periodo di riflessione. L´avvio di una stagione diversa dell´economia mondiale: meno scintillante, più seria, e anche più grigia. Secondo alcuni esperti, comunque, il tempo non mancherà. Si comincia a capire, infatti, che quasi tutte le banche (per un verso o per l´altro) hanno i bilanci inquinati da titoli speculativi (finanza derivata di vario tipo). E sistemare questi bilanci non sarà un lavoro di settimane o di mesi, ma di anni.
In questa crisi, come accadde invece in quella del ´29, non vedremo finanzieri e banchieri lanciarsi dai grattacieli di New York e nemmeno le file dei disoccupati per avere un piatto di minestra, ma sarà una faccenda lunga e segnata da un andamento dell´economia a scartamento ridotto. Si scende dalle limousine, insomma, e si prende il tram. E questo per anni. Fino a quando gli istituti di credito avranno messo a posto i loro conti e fino a quando le banche centrali avranno organizzato su basi diverse, e più ragionevoli, la finanza mondiale. Dopo, si potrà ripartire, ma si andrà comunque più piano, attenti a dove si mettono i piedi e con molto entusiasmo in meno. Si ripartirà, ma sarà un mondo meno colorato, con meno champagne e meno fuochi di artificio. Sarà meglio di quello da cui stiamo uscendo.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  E' la fine del boom delle commodity ?

26 Agosto 2008 04:24 NEW YORK - di *Tom Stevenson

*Tom Stevenson, e' Head of Corporale Writing di Fidelity Investments International

________________________________________

E’ curioso come cambiano le nostre aspettative sul prezzo del petrolio. Se qualcuno avesse affermato un anno fa che per fare un pieno di benzina ci sarebbero voluti circa 1,15 dollari al litro, avremmo avuto un sussulto.
Dato che siamo anche arrivati a pagare oltre 1,20 dollari al litro, l’ultima lieve flessione fa sì che vediamo il petrolio quasi a buon mercato. Quasi. Considerato che la maggior parte del prezzo di un litro di petrolio nel Regno Unito deriva da tasse, il costo visibile attenua i meccanismi che sono alla base del sottostante prezzo del greggio, che è crollato di circa un quinto dal picco che aveva toccato il mese scorso quando era arrivato a 145 dollari al barile.
Cosa è successo dunque, e cosa può comportare tale andamento per gli investimenti? Quando il prezzo del petrolio è sceso al di sotto dei 120 dollari al barile durante la scorsa settimana, toccando il punto più basso da tre mesi, molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Le grandi società petrolifere hanno applaudito (silenziosamente) i prezzi del greggio, ma per tutti gli altri, in un mondo come il nostro dipendente dal petrolio, i prezzi alle stelle dell’energia sono un incubo da scongiurare.
Il costo crescente sostenuto per viaggiare o per riscaldare le nostre case, senza considerare l’impatto sul prezzo degli alimenti e altri costi, è effettivamente un aumento di spesa. In un contesto caratterizzato da redditi stagnanti, la spesa per i consumi subisce una battuta d’arresto, le società vedono i loro costi salire alle stelle e le banche centrali non riescono a sostenere la crescita economica attraverso i tassi di interesse.
Il rallentamento della crescita economia è certamente una delle ragioni del ribasso del prezzo del petrolio. La contraddizione insita in un lento susseguirsi di notizie economiche non certo rassicuranti e di un contemporaneo prezzo del greggio alle stelle è finalmente apparsa chiara al mercato. In America, dove tasse a livelli bassi comportano un rialzo del prezzo del petrolio e il conseguente aumento del costo del gas, si è verificato un evidente calo della domanda. E a margine, questo è il più importante fattore per il prezzo di compensazione della materia prima più importante del mondo. Ma il declino della domanda non è certo l’unica ragione. Bisogna considerare anche l’aumento dell’offerta. La quantità di petrolio fornito dai paesi dell’Opec è aumentata se consideriamo che i 32,4 milioni di barili al giorno dello scorso giugno sono 1,8 milioni in più rispetto a un anno fa, e per la prima volta in assoluto la International Energy Agency ha smesso di sollecitare l’aumento della produzione ai cartelli dei produttori di greggio. L’Arabia Saudita, il maggiore fornitore di petrolio al mondo, sta estraendo greggio come mai accaduto dal 1984. Nel mercato del petrolio, il meccanismo che ne determina il prezzo non riflette esattamente la domanda e l’offerta. Un terzo elemento è l’influenza degli investitori, che si sono mossi pesantemente all’interno del mercato delle commodity in questi anni. HSBC stima che negli ultimi tre anni 200 miliardi di dollari sono stati riversati nei fondi specializzati in materie prime, poiché gli investitori istituzionali hanno cercato di diversificare i loro portafogli rispetto all’azionario e all’obbligazionario, cercando inoltre di preservare i capitali contro la discesa del dollaro.
Mentre questa strategia può sembrare una diversificazione prudente quando i prezzi delle commodity stanno salendo, è meno saggia in un mercato in ribasso. L’unica ragione per investire nelle materie prime come il petrolio è la convinzione che il prezzo continuerà a salire. Non c’è nessun motivo di tenerle in portafoglio in un mercato in ribasso e le vendite massicce rendono i prezzi più volatili rispetto ad altre asset class.
La fine del boom delle commodity?
La domanda chiave che molti investitori si stanno ponendo è se l’ultimo ribasso ha segnato la fine della bolla delle commodity o se, invece, è solo una ricaduta in una traiettoria rialzista di lungo-periodo, o super-ciclo come viene definito da alcuni. Su questo, non c’è affatto un consenso unanime.
La teoria rialzista per il petrolio è ben nota. A differenza degli anni ’70, quando gli squilibri nell’offerta sono stati la causa di due tremendi shock, le regioni fondamentali dell’aumento dei prezzi sono la crescente domanda proveniente dai paesi emergenti dell’Asia, il calo delle riserve facilmente estraibili e il fatto che il petrolio rimanente si trova in paesi politicamente instabili.
Per la prima volta in assoluto la domanda di petrolio dei paesi in via di sviluppo ha superato quella degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa e con tassi di crescita dei mercati emergenti molto al di sopra di quelli che si registrano in occidente, è facile che questa tendenza non cambi.
La corsa del prezzo del petrolio registrata negli ultimi tre anni è stata tale che ribassi ulteriori non possono essere esclusi. HSBC ha messo a raffronto l’aumento esponenziale registrato dall’indice Nasdaq dal 1997 al 2000 e, sorprendentemente, le due traiettorie risultano molto simili. Il grafico di seguito mostra il Nasdaq spinto in avanti di 100 mesi, così che è possibile fare un raffronto con il più recente rialzo del prezzo del petrolio. I titoli tecnologici sono certamente molto diversi dal petrolio, ma l’andamento delle due bolle e dei successivi crolli è spesso molto simile. Certo, nessuno può promettere che il prezzo del petrolio continuerà a seguire il declino del Nasdaq, che, non è mostrato nel grafico, ma ha spiegato molto della corsa fino al 2000. Ci sono infatti buone ragioni per cui non dovrebbe accadere. La motivazione che vede un prezzo del petrolio ancora alto è più fondata di quella che vede un prezzo dei titoli tecnologici costantemente ai massimi.
Nel breve termine, comunque, gli investitori sono passati da una visione rialzista a una ribassista per quanto riguarda i titoli energetici. Sull’azionario, l’impatto della discesa del prezzo del greggio si è riflesso in un passaggio dalle commodity ai titoli finanziari e di consumo. Questo è esattamente ciò che ci si aspetterebbe. Un rallentamento della crescita indebolisce l’ipotesi rialzista riguardo i titoli energetici e le materie prime, mentre l’affievolirsi delle preoccupazioni relative all’inflazione allontana la pressione dai tassi d’interesse e fa sì che le banche in pesanti difficoltà e i retailers appaiano venduti massiciamente.
Prevedere il timing di questi cambiamenti è pressoché impossibile, e assumere che continuino è una strategia rischiosa. La recente debolezza del prezzo del petrolio non scalfisce in alcun modo la visione di lungo periodo che vede un super-ciclo del petrolio. A meno che non ci allontaniamo dalla dipendenza dal petrolio e dai suoi derivati, questa flessione subirà verosimilmente un’inversione di tendenza a un certo punto. Pianificare i propri investimenti sulla base di prezzi dell’energia costantemente elevati sembrerebbe sensato.
 
 

 

Fonte - Fidelity Investments International