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INDICE ARTICOLI

 

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Tassi USA

Il rialzo dei tassi gela i consumi USA

Macro USA

Economia USA: ritorno alla realtà

Materie Prime - Petrolio

Allarme petrolio come nel settanta

Borse e Materie Prime - Petrolio

Broker alla guerra del petrolio

Finanza italiana

Il tonfo Fiat l'effetto domino

Risparmio Gestito

Obbligazioni: conviene l'auto in panne

Risparmio Gestito

Banche: la guerra dei giganti

 

ANSA  +++  I principali listini perdono in media l'1,5% dopo una partenza da brivido  +++ ANSA

 

I principali listini perdono in media l'1,5%

(ANSA) - MILANO, 18 Aprile

Lunedi' nero per le principali Borse europee. I listini continentali hanno visto andare in fumo una capitalizzazione di 109 mld di euro. Tutti i principali listini hanno registrato perdite medie intorno al punto e mezzo dopo un'apertura da brivido.

Fonte Ansa

 

GR1 RAI - 18 APR ore 19:17     MP3 (52 KB)

Il punto di vista di Studio CFA 

Nelle  Previsioni 2005 e in Studio CFA News del 28 Febbraio 2005 avevamo scritto che le Principali Borse mondiali sarebbero salite fino a circa metà Marzo 2005. Nonostante gli eventi degli ultimi giorni sembrano darci ragione, raccomandiamo a tutti la massima cautela e serenità nell'affrontare questo momento di mercato e aggiungiamo, che la nostra previsione non è ancora del tutto confermata

 

 

 

 

  Il rialzo dei tassi gela i consumi USA

Nonostante i molti sforzi fatti per tenerla su, venerdì scorso la Borsa di New York è crollata su se stessa. E sorte analoga hanno avuto le Borse europee. All´origine di questi scivoloni...

17 Aprile 2005 - 04:33 Milano (di Giuseppe Turani)

 

Nonostante i molti sforzi fatti per tenerla su, venerdì scorso la Borsa di New York è crollata su se stessa. E sorte analoga hanno avuto le Borse europee. All´origine di questi scivoloni abbastanza impressionanti ci sono alcune cattive notizie arrivate dal mondo dell´hi-tech (dove le imprese faticano a ottenere risultati incoraggianti per gli investitori), ma soprattutto c´è un dato statistico, relativo ai consumi americani, che forse dirà poco al grande pubblico, ma che invece è cruciale, fondamentale per gli specialisti.

La scorsa settimana, quando il dato sui consumi americani è uscito, e era un brutto dato, i mercati si sono spaventati, molti operatori vi hanno visto l´inizio della recessione e quindi sono scappati dal listino, vendendo quello che avevano in mano.

Ma le cose stanno veramente così? Probabilmente no. Per capirci qualcosa bisogna fare alcune premesse. I dati relativi ai consumatori americani sono molto importanti per due ragioni: intanto perché i consumi, negli Stati Uniti, sono il 70% del Prodotto interno lordo, sono insomma il 70% dell´economia. Inoltre, sono anni che la congiuntura americana (e quindi del mondo) è sostenuta dagli acquisti dei consumatori di quel paese. Ovvio che un rallentamento nel ritmo di acquisti negli Usa generi spavento e panico.

Ma vediamo i dati. A marzo i consumi americani sono saliti appena dello 0,3% contro attese (degli esperti) per una crescita dello 0,8. E già qui c´è una prima delusione. Ma se da questo dato si tolgono le auto (si tratta di un mercato molto volatile), il materiale da costruzione (idem) e i carburanti (dove le variazioni di prezzo possono falsare il dato), se si va insomma al dato "core" dei consumi, si vede che a marzo sono scesi dello 0,1% rispetto a febbraio. Quindi c´è stato uno stop nella lunghissima corsa dei consumatori americani.

Ma non è finita. A questo punto gli economisti hanno preso in mano i dati hanno scoperto quanto segue. Nel terzo trimestre del 2004 i consumi americani erano cresciuti (dato annualizzato) alla velocità del 5,2%. Nel quarto trimestre (sempre del 2004) la crescita era già scesa al 4,2. Nel primo trimestre del 2005 la crescita (sempre annualizzata) è stata solo del 3%. Si vede benissimo, da questa piccola serie di dati, che il consumatore americano sta frenando i suoi acquisti e in maniera abbastanza robusta. Nel primo trimestre del 2005 in pratica i consumi sono cresciuti quasi il 50% in meno rispetto alla velocità con cui aumentavano sei mesi prima.

Sulla base di questi dati, gli economisti (con qualche differenza fra di loro, come è naturale) stimano che l´economia americana nel 2005 presenterà questo profilo. Crescita del 3,2% nel primo trimestre, del 3% nel secondo e poi di poco superiore al 2 nel terzo e nel quarto trimestre. Nella seconda parte dell´anno, cioè, l´economia americana crescerà a una velocità pari a meno della metà di quella dello scorso anno. Grande frenata. A che cosa è dovuta?

Nessun mistero. Non c´è, secondo me, alcuna recessione in vista. Sta semplicemente accadendo quello che la Federal Reserve voleva. E cioè far rallentare l´economia. Da mesi continua a aumentare il costo del denaro e i consumatori, come si vede dai dati citati, hanno capito la lezione: e stanno riducendo rapidamente la velocità con cui corrono a fare acquisti. E ancora di più lo faranno nei prossimi mesi.

Tutto questo che cosa comporta, visto che i consumatori americani (con il loro spaventoso indebitamento per fare acquisti) sono quelli che hanno tenuto in piedi la congiuntura? Due cose:

1 - Nei prossimi mesi arriveranno molti altri dati che segnaleranno un rallentamento dei consumi. E questo farà pensare a una recessione e quindi renderà nervose le Borse, che sono capaci di grandi scatti isterici. Insomma, Borse agitate, con violenti su e giù. Quindi per chi non ha nervi più che saldi è consigliabile andare a pescare con gli amici invece di trafficare intorno al listino. In realtà non è in arrivo (almeno per ora) alcuna recessione: l´economia americana sta solo passando da una crescita folle del 4,5% a una del 3 (che è quella che le compete e che le consentirà di sistemare un po´ i suoi conti con l´estero).

2 - E´ un fatto, però, che nella seconda parte dell´anno l´Europa (e l´Italia) avranno a che fare con un´economia americana che andrà a una velocità dimezzata rispetto a quella che aveva ancora poche settimane fa. E quindi non potrà certo essere l´economia americana a trascinare quella europea. Anzi, il rallentamento americano avrà effetti depressivi sulla nostra economia. E quindi, a meno di un miracolo, il secondo semestre, da questa parte dell´Atlantico, non sarà di ripresa, ma piatto o addirittura in calo.

Ma può accadere un miracolo? Dovrebbe crescere la domanda interna: i consumatori europei, cioè, dovrebbero mettersi a comprare con più vigore. Vigore che per ora non si è visto. Quindi il secondo semestre, qui in Europa, potrebbe essere anche peggio del primo

Fonte La Repubblica

 

 

 

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FED: i tassi saliranno ma senza accelerazioni

La Banca Centrale Usa ha confermato il termine 'measured' con cui intende procedere sulla via delle strette creditizie. Ma nel Fomc c'e' disaccordo.

12 Aprile 2005 - 21:40 New York (Ansa)

La Federal Reserve continua a monitorare l'andamento dell'inflazione riconoscendo che il rischio di una crescita dei prezzi al consumo è leggermente aumentato. E' quanto emerge dai verbali completi dell'ultima riunione del Fomc del 22 marzo scorso.

Dal documento emerge anche che si è avuto un intenso dibattito sul mantenimento del termine "misurato" con cui finora la Fed ha definito il suo orientamento di graduale rialzo dei tassi.

Secondo alcuni membri del Fomc, infatti, tale espressione risulterebbe "limitativa". E sebbene queste preoccupazioni non siano nuove - stando a quanto sottolineato dagli stessi rappresentanti del Comitato - "ora diventano più pressanti in quanto si ritiene che sono aumentate le probabilità che il Comitato possa avere necessità di accelerare il ritmo" della stretta monetaria.(ANSA).

Fonte Ansa

 

 

 

DEFICIT USA: +61% Mld $ a Febbraio 2005

A febbraio il deficit commerciale Usa e' aumentato a $61 miliardi. Il consensus prevedeva $59 mld.

12 Aprile 2005 - 14:30 New York (Ansa)

Nel mese di febbraio il deficit della bilancia commerciale USA e’ aumentato del 4.3% rispetto al mese precedente attestandosi alla quota record di $61 miliardi. Il dato e’ stato comunicato dal Dipartimento del Commercio.

Il deficit si e’ rivelato maggiore delle stime degli analisti che erano per un lieve aumento a $59 miliardi.

Le importazioni hanno segnato un incremento dell’1.6%, mentre le esportazioni sono rimaste invariate.

Il deficit Usa nei confronti della Cina si e’ allargato a $13.9 miliardi, cifra nettamente superiore rispetto a quella dello stesso mese dello scorso anno di $8.3 miliardi.

Nei primi due mesi dell’anno, le importazioni dall’industria tessile cinese sono in rialzo di circa il 62% rispetto allo stesso periodo del 2004.

 

GR1 RAI - 12 APR ore 19:20

   

MP3 (46 KB)

      Fonte Ansa

 

 

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Borsa: New York pesante, cede su timori di stretta tassi

23 Aprile 2005  - 23:20 New York (Ansa)

Dow Jones e Nasdaq mettono asegno pesanti perdite toccando nuovi minimi dell'anno sulla sciadei timori di una prossima stretta dei tassi da parte dellaFederal Reserve, a causa di una inflazione in rialzo a marzo,ben oltre le previsioni. Così il Dow Jones cede l'1,14% a 10.012,36 punti, mentreanche Nasdaq (-0,96% a 1913,76 punti) e Standard & Poor's 500 (-1,33% a 1.137,50 punti) segnano pesanti perdite.

L'indice dei prezzi generali al consumo registra a marzo unprogresso su base mensile dello 0,6% ovvero la più alta daottobre, ma soprattutto a preoccupare è il dato relativo altasso 'core', quello cioé depurato della voce alimentari eenergia, in crescita dello 0,4%, sui livello più alti da circatre anni. Le buone trimestrali presentate da alcune società hanno solorischiarato parzialmente il panorama della Borsa Usa, mentre ilcomparto tecnologico si giova, oltre che dei risultati di Intel(+0,13% a 22,66 dollari) e soprattutto di Yahoo (+4,31% a 34,65dollari), ugualmente sopra le attese. Bene anche Google, inrialzo del 3,5%, a 198,1 dollari.

Guardando all'andamento degli altri titoli, Caterpillar saledel 3,64% a 88,04 dollari, mentre si segnala il tonfo del 25,07%a 8,01 dollari, registrato dal gruppo di componenti per le tlcAvaya. La società ha ridotto l'outlook sui profitti 2005. Bene Ford (+0,65% a 9,34 dollari), nonostante utili in decisocalo; GM continua la sua discesa a 25,82 dollari (-1,03%) dopola perdita record di 1,1 miliardi del primo trimestre.

Giornata-no anche per il comparto finanziario, al trainodello scenario di tassi più alti che vanno a scapito delleattività di finanziamento. Bank of America cede l'1,56% a 44,23dollari e Morgan Stanley il 2,98% a 50,19 dollari, che ha anchecomunicato il proseguire dell'emorragia di impiegati seguitaalle contestazioni rivolte al numero uno Philip Purcell; aicinque manager dimissionati nei giorni scorsi si sono uniti oggialtri otto addetti al trading presso investitori istituzionali. Giù anche JP Morgan Chase (-0,54% a 34,76 dollari),malgrado abbia comunicato - escludendo i costi del takeover diBank One ed un patteggiamento legale - utili superiori alleattese degli analisti.

Fonte ANSA

 

 

 

 

 

 

  Economia USA: ritorno alla realtà

Lo scossone in borsa, finora di dimensioni molto ridotte, sembra aver tolto quel velo di ottimismo, non suffragato dai dati reali, propagandato da autorità politiche e monetarie, dalla stampa e dagli analisti finanziari. Meglio cosi'.

20 Aprile 2005 - 03:04 Lugano (di Alfonso Tuor*)

 

Sembra agli sgoccioli il periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari, che aveva tra l’altro fatto sì che si fosse ridotta ai minimi storici per un lungo periodo di tempo la volatilità dei mercati azionari (ossia la misura delle variazioni degli indici). È quanto sembra indicare la correzione delle borse registrata di recente.

In pratica, questo scossone, invero finora di dimensioni molto ridotte, sembra aver tolto quel velo di ottimismo, non suffragato dai dati reali, propagandato da autorità politiche e monetarie, dalla stampa e dagli analisti finanziari. E infatti è «sorprendente» notare come siano svanite nel giro di pochi giorni le certezze sulla forza della crescita statunitense e le preoccupazioni di una resurrezione dell’inflazione e come addirittura i timori sulle conseguenze dell’aumento del prezzo del petrolio siano state repentinamente sostituite dalla paura che l’attuale ribasso del greggio rappresenti un’ulteriore conferma del forte rallentamento dell’economia mondiale.

E questo repentino mutamento d’umore è testimoniato dai mercati dei capitali, dove, e soprattutto negli Stati Uniti, i tassi a lungo termine hanno ripreso a scendere dopo un significativo rialzo, che alcuni prevedevano dovesse continuare a causa del diffondersi di aspettative di inflazione. C’è quindi da domandarsi se stiamo passando da un eccesso di ottimismo ad un eccesso di pessimismo. Molto probabilmente la risposta corretta è che stiamo assistendo ad un ritorno alla realtà.

O, se si vuole, ad una specie di «risveglio» che permette di osservare con freddezza le reali condizioni di salute dell’economia americana. Si teme che le famiglie americane, appesantite da un indebitamento senza precedenti, stiano riducendo i loro consumi, che finora hanno trainato l’intera economia mondiale. Si teme inoltre che il ridimensionamento dei consumi delle famiglie non venga compensato da un aumento degli investimenti aziendali.

In proposito, il campanello d’allarme è stato suonato dai deludenti risultati di IBM e di altre società che hanno risentito di una contrazione degli ordinativi. Si teme anche che un rallentamento della crescita americana non possa essere evitato da misure di politica monetaria né da misure fiscali, visto il crescente indebitamento dello stato federale; e neppure da un maggiore dinamismo di Europa e Giappone, le cui economie invece stanno già da tempo vistosamente rallentando.

Insomma, l’economia mondiale sta assistendo alla perdita di forza del motore statunitense senza poter intravvedere altre economie e altri paesi in grado di fungere da traino e con una situazione internazionale caratterizzata da squilibri insostenibili nel tempo, come quello rappresentato dal disavanzo estero degli Stati Uniti.

Quello che sta cominciando a delinearsi con sempre maggiore chiarezza è che siamo ancora nel bel mezzo del ciclo apertosi nel 2000 con il crollo delle borse, con l’emergere di forti sovracapacità produttive e con l’indebolimento della domanda dovuta alle ripercussioni sui livelli salariali e occupazionali dei paesi industrializzati della crescente apertura dei mercati.

Quindi, il boom che ha fatto sì che il 2004 fosse un anno di grande crescita dell’economia mondiale (la maggiore degli ultimi 25 anni) si basava sugli eccezionali tassi di crescita dei paesi emergenti e sull’espansione statunitense, che era però «drogata» da politiche monetarie e fiscali insostenibili nel tempo. Ora sembra avviato un lento ritorno alla realtà che inevitabilmente sarà chiamato a rimettere in discussione anche i principi su cui si è retta la politica economica degli ultimi anni.

Fonte - Il Corriere del Ticino

 

 

 

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   Borse USA: scattano le condizioni di ipervenduto

Dopo il brutto scrollone delle ultime sedute, a Wall Street le condizioni di oversold finalmente si sono fatte sentire. Per cui molti titoli sono stati in grado di mettere a segno recuperi dei prezzi. Ma bastera' per scongiurare altri ribassi?

19 Aprile 2005 - 17:47 New York (Ralph Acampora*)

*Ralph Acampora e' il Managing Director, Global Equity Research di Prudential Securities a New York

A Wall Street le condizioni di oversold (ipervenduto) finalmente si sono fatte sentire, per cui molti titoli hanno messo a segno recuperi dei prezzi. I dati sui fondamentali del mercato (breadth) erano lunedi' sera leggermente positivi. Il rendimento dei Treasuries a 10 anni sembra si voglia avvicinare verso un target al ribasso di breve termine di quota 4.10%.

Il dollaro continua a essere in una fase di stallo, per via della resistenza di breve termine dell'inizio di febbraio posta a quota 85.46. Per quanto riguarda l'oro, il supporto di breve termine di $423 mantiene il metallo giallo agli attuali livelli.

Il greggio comincia a consolidare nella fascia bassa dei 50 dollari al barile. Serve pero' di piu' per negare il target al ribasso rappresentato dal livello 48.50/49.00.

COMMENTO

Il mercato finalmente ha risposto favorevolmente alle condizioni di ipervenduto. Il recente estremo sell off che ha creato tanti trend verso un ribasso accelerato, adesso ha messo le basi per un energetico rimbalzo di breve periodo. La domanda piu' importante che abbiamo pero' e' questa: "Riuscira' il rally a negare, dagli attuali livelli, il danno compiuto sul mercato, e saranno in grado i piu' importanti indici di borsa di sorpassare le piu' visibili area di offerta viste in precedenza"?

Siccome non crediamo che tutto il danno compiuto sara' effettivamente riparato, questo rally adesso ha secondo me un obiettivo in due stadi: primo, i trader agggressivi dovrebbero aprire posizioni lunghe in anticipazione di un rimbalzo potenzialmente rapido; e secondo, gli investitori dovrebbero approffitare di ogni rafforzamento dei prezzi per alleggerire le posizioni che recentemente hanno sofferto un danno tecnico di medio e lungo termine (cioe' titoli che hanno rotto il trend al rialzo di due anni e/o sfondato al ribasso rispetto a top significativi).

 

Fonte - Prudential Securities  

.............. GR1 RAI - 21 APR ore 22:00 MP3 (52 KB)

 

 

 

 

 

 

  Allarme petrolio come nel settanta

L’Agenzia Internazionale dell’Energia sostiene che occorre ridurre la domanda. Con possibili misure di restrizioni alla circolazione di auto, mediante la limitazione dell’uso dei trasporti privati, solo nei paesi ricchi. Eppure...

05 Aprile 2005  - 15:59 Milano

 

L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha lanciato un messaggio che evoca la crisi del petrolio degli anni Settanta. Il barile ha toccato a New York a 58 dollari – un rincaro del 65 per cento rispetto allo scorso anno. E le previsioni sono pessimistiche perché questo alto prezzo non frena né i consumi degli Stati Uniti, né quella dei grandi paesi asiatici, Cina ed India in testa.

L’Agenzia perciò sostiene che occorre ridurre la domanda ed enuncia possibili misure di restrizioni alla circolazione di auto, mediante la limitazione dell’uso dei trasporti privati, che dovrebbero essere applicate dai paesi ricchi. Per quelli in via di sviluppo, invece, essa presenta la raccomandazione, rivolta soprattutto agli stati asiatici, di cessare di sovvenzionare il prezzo del petrolio al consumo. Infatti molti di questi paesi, per motivi sociali, praticano prezzi politici dell’energia, addossando all’erario la differenza fra il costo e il prezzo al consumo.

I sussidi con l’aumento del prezzo del barile sono diventati sempre più onerosi per le loro finanze pubbliche; ma Cina, Indonesia e Malesia hanno aumentato il prezzo della benzina e del gasolio per i consumatori fra il 6 e il 30 per cento, meno della metà dell’aumento del greggio. Il costo delle sovvenzioni evita la restrizione, a volte dolorosa, dei consumi energetici delle famiglie, ma riduce la disponibilità della finanze pubbliche di mezzi per gli altri interventi sociali, mentre non limita la domanda di petrolio, il cui aumento per la metà dipende dall’Asia.

E’ difficile che i governi asiatici si decidano a modificare le proprie politiche, ma il razionamento del traffico negli anni Settanta, con le targhe alterne e le domeniche a piedi non servì a risolvere i problemi della crisi energetica, risolti poi dal mercato. Il prezzo alto infatti stimolò un aumento dell’offerta, mediante l’esplorazione di nuovi pozzi e nuovi gasdotti, indusse gli europei (ma non gli americani) all’uso di motori più efficienti e sviluppò risorse energetiche alternative, come quella nucleare. Ciò indusse i produttori di greggio a moderare i prezzi, per timore di perdere quote del mercato energetico globale. E’ questo il principale segnale che attualmente manca.

Fonte - Il Foglio

 

 

 

 

GR1 RAI - 01 APR ore 22:00     MP3 (55 KB
GR1 RAI - 04 APR ore 22:00     MP3 (70 KB)
GR1 RAI - 05 APR ore 19:15     MP3 (47 KB)

 

Petrolio: scorte in calo dopo dieci settimane

Nella settimana conclusasi il 15 aprile le scorte di greggio sono calate di 1.8 mln di barili. Il dato sorprende gli analisti.

20 Aprile 2005  - 17:30 Milano (Ansa)

Le scorte settimanali di greggio negli Usa hanno registrato la prima flessione da dieci settimane, portando il petrolio a rialzare la testa a New York sino a 53 dollari barile, per poi peraltro leggermente ripiegare. Secondo i dati diffusi dal Dipartimento dell' Energia Usa, infatti, le scorte di greggio sono scese di 1,8 milioni di barili nella settimana conclusa il 15 aprile scorso.

Gli analisti si attendevano invece un aumento di 1,4 milioni di barili. Anche le scorte di benzina sono risultate in calo, perdendo 1,5 milioni di barili, contro le attese di -275.000 degli analisti.

Sui mercati internazionali è tornato dunque ad affacciarsi il timore di un' offerta insufficiente rispetto alla forte domanda globale, tanto più che oggi la Cina ha riportato ancora una volta un ritmo vertiginoso di crescita, attestatasi al +9,5% nel primo trimestre.

Fonte Ansa

 

 

 

 

 

 

  Broker alla guerra del petrolio

Stimare i prezzi è una lotteria. Goldman Sachs indica valori oltre 100 dollari. Merrill Lynch e Jp Morgan pronosticano una retromarcia a breve con rischio bolla. Per l’Fmi barile stabile a 52 dollari nel 2005.

08 Aprile 2005  - 01:34 Milano (di Luca Testoni)

 

Il petrolio è alle stelle e le previsioni sui prezzi delle grandi banche d’affari si trasformano in una lotteria che ne fa precipitare la credibilità. La scorsa settimana Goldman Sachs ha stupito il mercato alzando dell’80% le previsioni sul picco massimo raggiungibile dal barile. La stima sul super-spike price (la punta massima) è arrivata all’incredibile quota di 105 dollari il barile.

Del tutto opposta la valutazione della rivale Merrill Lynch. David Bowers, strategist europeo della banca d’affari ha fatto un parallelo tra la bolla tecnologica del 2000 e l’attuale livello dei prezzi delle commodity. Qualcosa di più di un campanello d’allarme: «Mentre tutti parlano di petrolio a 100 dollari - commenta ironicamente Bower - occorre non perdere di vista la possibilità di una rapida retromarcia dei consumi Usa e potremmo rivedere il barile a 35 dollari».

Insomma, la bolla potrebbe scoppiare. John Normand, capo degli strategist di Jp Morgan, condivide la posizione di Merrill: «Dopo il secondo trimestre 2005 - ha spiegato ieri - i prezzi del petrolio (e dei metalli) scenderanno dai record». Complici il rallentamento della Cina e il rafforzamento del dollaro. Per contro il Fondo monetario - pur escludendo punte a 100 dollari - ritiene che la media dei prezzi nel 2005 si attesterà a 52,23 dollari al barile.

Chi avrà ragione? Difficile dire, perché dietro le quinte (e rigorosamente off the record), gli analisti confessano: «Fare previsioni sul petrolio oggi significa sparare nel mucchio. E ognuno lo fa secondo le proprie convenienze». Con la rischiosa conseguenza di un azzeramento di credibilità delle stime.

Vittorio Mincato, amministratore delegato dell’Eni, dettò la strada lo scorso autunno quando, dopo aver sbagliato le previsioni, decise di arrendersi: «Il prezzo del barile? Serve la sfera di cristallo». Intanto la corsa del greggio fa bene ai conti dell’Eni in proporzione maggiore rispetto ai competitor, e ha portato il titolo al nuovo massimo storico (ieri 20,80 euro, con un guadagno del 2,51%). Segno che il mercato crede che il barile non scenderà tanto presto.

Segnali in questo senso sono emersi anche ieri. L’export russo, che in generale è rallentato per problemi di distribuzione, in marzo è cresciuto dell’11% verso la Cina. Washington , invece, comincia a preparare gli americani a un’estate in cui pagheranno la benzina come non l’hanno mai pagata (2,28 dollari il gallone). Mentre l’Opec negozia con la Ue per creare un tavolo comune di gestione del mercato, di cui i signori del greggio perdono progressivamente il controllo.

Intanto, «le posizioni in acquisto sui futures al Nymex - spiega Roberto Zagatti, di Borsafuture.com - sono coperti solo al 42% da small traders». Il che significa che «gli speculatori sono poco presenti e che l’euforia deve ancora arrivare». Il prezzo del future a settembre batte quello dei mesi precedenti. Nella lotteria del greggio, i più scommettono sull’autunno.  

Finanza & Mercati

 

 

 

  Il tonfo Fiat l'effetto domino

Si sta disegnando la nuova mappa dei poteri economici. Intanto il Cavaliere ha già cominciato a riposizionarsi: una volta perso il governo, Berlusconi può preparare l’ingresso in Telecom. Piccoli Jaki crescono: o no?

21 Aprile 2005 00:36 Roma (di Stefano Cingolani)

Assalto alla Fiat con un vero e proprio panic selling in Borsa. Scalata alla Rcs. Bordate del contropatto in Bnl. Attacchi e contrattacchi in Antonveneta con Bpl oltre il 26% mentre Abn sale sopra il 20%. Chi dubita che la finanza sia una guerra condotta con altri mezzi, viene smentito da quel che accade a piazza Affari e dintorni (spesso più nei dintorni). Già, ma cosa accade? Non c'è un'unica strategia dietro le guerre in corso sul piccolo mercato italiano. O no? Leggendo le cronache, alcuni analisti amanti di grandi scenari sostengono che è in corso un assalto di outsiders (come Caltagirone) e new comers (come Ricucci) alla cittadella dell'establishment, approfittando di una serie di debolezze (l'azionariato Rcs e la crisi Fiat) o di dissidi interni (tra Geronzi e Fazio).

In conseguenza di tutto ciò, si assiste a un riequilibrio geoeconomico con lo spostamento dell'asse settentrionale da ovest a est e il tentativo di Roma di uscire dalla sua lunga fase di emarginazione, coincisa con la fine delle Partecipazioni statali. Si potrebbe dire che l'Italia è di nuovo afflitta dalla sindrome descritta da Francesco Guicciardini. I signorotti locali litigano, chiedono aiuto all'estero, gli eserciti stranieri varcano in forza le Alpi, un papa cerca di riunire gli italiani al grido di «fuori i barbari», ma la lega santa fallisce perché gli alleati tornano a scontrarsi su interessi in conflitto.

In queste analisi c'è, senza dubbio, della verità. Ma perché tutto sembra accelerarsi e scatenarsi proprio adesso? Pura coincidenza o qualche fattore “esterno” fa da catalizzatore? Di fattori, in realtà, ce ne sono almeno due: la parabola politica di Silvio Berlusconi e la parabola economica degli Agnelli. E scusate se è poco. E' attorno a questi soli calanti che si accendono bagliori rossastri. Ma con una differenza di fondo: all'eclisse politica del cavaliere potrà seguire un'espansione del suo potere finanziario, per il club degli Agnelli, invece, sarà molto più difficile salvare quel ruolo chiave che ancor oggi mantengono.

Berlusconi ha già cominciato a riposizionarsi con la vendita del pacchetto Mediaset che ha fatto scendere la quota di Fininvest al 34%. Lo ha fatto, dicono gli analisti, per molti motivi: sistemare i figli di entrambi i matrimoni, approfittare della quotazione borsistica (ha venduto al massimo, se solo avesse atteso un paio di giorni avrebbe perso un bel po' di quattrini), mettere al sicuro la sua azienda da vendette politiche se vince la sinistra e prepararsi una polizza per il futuro.

Con due miliardi liquidi in cassa si possono fare molte cose, si possono muovere passi consistenti nella diversificazione di Fininvest. Oggi è una finanziaria che ha in portafoglio come asset principali Mediaset, Mondadori e Medusa distribuzioni, quindi molto concentrata sui media che resteranno il core business, ma non più il business pressoché esclusivo. Su come Berlusconi impiegherà il suo tesoro, in Borsa si favoleggia molto. Ma l'opinione più diffusa è che guardi a Telecom Italia. Come capo del governo non può farlo, apriti cielo, ma come capo dell'opposizione chi glielo potrà impedire? Tanto meno se lascerà la politica sullo sfondo.

Comprerà anche una quota sostanziosa nel Corriere della sera? Nell'incontro con Paolo Mieli, Berlusconi ha giurato che resta fuori dall'assalto a fortezza Bastiani. Con la scalata a Rcs, non c'entra nulla. Nessuno può giurare che non c'entrino nulla uomini a lui vicini. Per esempio Salvatore Ligresti. Il costruttore milanese è già nel capitale con Fondiaria, la sua compagnia di assicurazioni. Ha atteso a lungo prima di avere un posto a tavola, e ha fatto sedere la figlia Jonella. Ma non gli basta, vuole entrare in plancia di comando.

In borsa si sta agitando molto Stefano Ricucci che avrebbe raggranellato tra il 7,5 e l'8 per cento. Giura di muoversi per proprio conto. Se no per conto di chi? Si era guardato a Francesco Gaetano Caltagirone, con il quale l'immobiliarista è legato nel contropatto di Bnl. Ma il costruttore romano ha detto di non aver comprato né venduto azioni Rcs negli ultimi 12 mesi e si tiene congelato il suo 2% fino alla fine di quest'anno.

La battaglia di (via) Solferino dipende dall'altro grande tramonto, quello degli Agnelli. A settembre, condivideranno con le banche la proprietà del gruppo Fiat, cioè il grosso del loro investimento. Al quale si sono dimostrati legati, ma non fino al punto di gettare tutti i loro quattrini in una fornace che li trasforma in fumo. Con i colpi subiti in borsa, il titolo è sceso ai minimi di 4,39 euro.

I fondi fuggono. La famiglia dovrà muoversi, forse prima del previsto e l'erede designato dall'Avvocato, John Jacob Elkann detto Jaki, deciderà cosa fare da grande. Non siamo in grado di dire se sopravviverà un marchio Fiat nell'auto e se l'Italia continuerà a essere un produttore significativo. Non ci siamo mai spinti a decretare una fine prematura, né abbiamo mai sottovalutato la crisi del gruppo. Ma gli Agnelli sembrano avviarsi verso lo stesso sentiero imboccato da altre grandi famiglie del capitalismo colpite dalla sindrome dei Buddenbrook.

In questa prospettiva, dovranno scegliere che cosa tenere delle loro partecipazioni e soprattutto di quelle definite “sensibili”: Mediobanca, Rcs, Stampa. Sulle quali le banche, una volta diventate azioniste Fiat, eserciteranno una influenza importante. Con strategie, in realtà, diverse. Intesa e Capitalia, ad esempio, sono in Rcs e vogliono contare, possibilmente di più. Unicredito è fuori, ma in compenso si sta giocando la sua partita dentro Mediobanca, in competizione con Capitalia. Un tourbillon che sta eccitando gli animal spirits (quei pochi ancora rimasti a piazza Affari e dintorni). E proprio per contendersi l'eredità degli Agnelli, stanno affilando i coltelli finanzieri più o meno d'assalto, banchieri e vecchi e nuovi, amici e nemici di Berlusconi. E i tanti Rastignac che fioriscono in ogni fine impero.

Dunque, fra un anno, con Prodi a palazzo Chigi, alcuni vedono Berlusconi trasformarsi nell'uomo più ricco e potente d'Italia, colui attraverso il quale passeranno tutte le partite decisive. La Fininvest sarà la nuova Ifi e il Cavaliere il nuovo Avvocato: sarà lui a pranzare con i potenti del mondo, invitato fisso alla Casa Bianca (almeno finché resta Bush), punto di riferimento per la diplomazia italiana (bon gré mal gré, anche se alla Farnesina ci sarà un ulivista), perno per l'equilibrio proprietario nell'unico colosso economico rimasto, cioè Telecom che ha ormai sostituito la Fiat come campione nazionale.

Accanto al nuovo impero del Cavaliere, ci saranno le banche. Alle tre grandi attuali (Intesa, Unicredito, Sanpaolo), si aggiungerà una quarta banca nazionale: Capitalia. Se lo scontro su Antoveneta si concluderà con la vittoria di Gianpiero Fiorani (convinto di poter raggiungere qualcosa in più del 51%), gli olandesi usciranno e vorranno avere un ruolo maggiore nella banca romana. Fazio, che tanto ha concesso alla Popolare di Lodi, non potrà più esercitare la sua moral suasion contro Abn. Né potrà fermare il Bilbao in Bnl. I più «mercatisti» immaginano che di qui a un anno partirà anche la fusione tra due delle maggiori. Un attento osservatore, il quale per anni ha avuto un ruolo politico di primo piano, è pronto a scommettere che dopo questa battaglia nulla sarà più come prima nel sistema bancario italiano.

Tra gli uomini nuovi (relativamente), avrà un ruolo importante Caltagirone. Innanzitutto perché possiede due miliardi cash da mettere sul tappeto, e poi perché gode di ottimi sostegni trasversali dal centro cattolico alla sinistra di governo (eccellenti i rapporti con le amministrazioni di Roma e di Napoli). Potrà sperare di diventare il Bouygues italiano. Al grande costruttore francese, l'appoggio di Chirac e la non ostilità di Mitterrand ha fruttato la principale catena televisiva privatizzata.

Oltre che un ruolo guida nei grandi lavori e nelle infrastrutture pubbliche. Caltagirone vuole crescere nei giornali, lo ha detto e ripetuto. Ha bussato al Corriere e non gli hanno aperto, ha bussato alla Stampa con 400 milioni in mano e gli hanno detto no grazie. Al Gazzettino gli fanno vedere i sorci verdi. Ma è solido e tenace. In questo nuovo riassetto dei grandi poteri, che ruolo avrà la Confindustria ? Montezemolo le ha assegnato una funzione federatrice: mettere insieme un mondo imprenditoriale frammentato e lacerato da interessi e visioni in conflitto.

Come punto di partenza per un patto dei produttori (ma per carità guai a chiamarlo così) del secondo millennio. La crisi strutturale dell'industria e la pessima congiuntura, rendono debole questa prospettiva. Il «fare squadra», allora, dipende dalla possibilità di innovare il sistema contrattuale, uno scatto di reni alla Lama-Agnelli (ma senza scala mobile, per carità). Molto dipende da come andrà a finire la vicenda Fiat auto, una zavorra che pesa come piombo sulle ali di Montezemolo. Ma più in là i nostri amanti di scenari finanziari, non osano spingersi.

Fonte Il Riformista

 

 

 

 

L'auto finisce in banca (anche in USA)

General Motors, l’azienda che doveva salvare la Fiat , scivola tra i debiti. Il taglio delle spese di investimento nei nuovi modelli, per destinare le somme alla maggiore spesa sanitaria, rende assolutamente precario il futuro del colosso.

20 Aprile 2005  - 14:15 Milano

La General Motors , la casa americana che doveva salvare la Fiat , ha presentato un bilancio del primo trimestre in profondo rosso. La perdita di 1,1 miliardi di dollari contrasta con la previsione di Rick Wagoner secondo cui si sarebbe raggiunto il pareggio o quasi pareggio. C’è pure un’analogia con la Fiat che fa tanto pensare: il rosso deriva tutto dal settore auto, che ha perso nel trimestre 1,98 miliardi (in pratica due miliardi). E la quota maggiore del risultato negativo nel settore è sul mercato domestico, dove tocca 1,56 miliardi. Un risultato così brutto non s’era verificato dal 1992, in cui la grande casa sfiorò il fallimento.

Ora non si sa che cosa accadrà di Gm, che mantiene ancora il primato di essere la maggiore del mondo, in numero di veicoli prodotti, ma non sembra in grado di venderli a un prezzo remunerativo. I costi sono resi estremamente elevati dall’eccesso di capacità produttiva non utilizzata. E le politiche per forzare le vendite di modelli considerati troppo vecchi possono essere attuate solo con sconti sui prezzi; altrimenti la gente continuerà a comprare marche come la Toyota. Ma gli sconti generano perdite.

Per uscire dal dilemma, Gm avrebbe bisogno di nuovi modelli. Ma da poco ha sospeso il lancio della vettura Zeta, perché non è in grado di sostenere i costi dell’operazione. Il fatto è che Wagoner, mentre dovrebbe dedicarsi ai modelli già approntati e bisognosi di lancio, deve anche occuparsi degli elevati e crescenti costi per l’assistenza sanitaria al personale. Il sindacato è, su questo, irremovibile. Ma il taglio delle spese di investimento nelle nuove auto, per destinare le somme alla maggiore spesa sanitaria, rende precario il futuro di Gm.

Alcuni analisti scrivono che la Gm non può pensare di trasformarsi da fabbrica di auto, in grande azienda sanitaria. Il problema finanziario si complica, in quanto, accanto alle spese crescenti per la sanità e al fabbisogno per i nuovi modelli, vi è anche quello per il ripiano delle perdite. Il rating di Gm è già al limite. Rasenta quello dei titoli spazzatura. Il problema è sempre meno di Wagoner e sempre più delle banche creditrici. L’auto, anche negli Usa, finisce in banca.

Il Foglio

 

 

 

 

 

 

  Obbligazioni: conviene l'auto in panne

I prezzi sono quasi sempre sotto la pari e i rendimenti lordi, a scadenza, viaggiano su vette del 9-10%, anche per tragitti non molto lunghi. GM 2009 paga il 9%, Fiat 2010 il 9,51%. Ma attenzione, perche' il rischio e' che...

27 Aprile 2005 - 04:42 Milano (di Davide Angelini)

 

I motori non rombano, i prezzi crollano. E i rendimenti s’impennano. Sono stati proprio i guai delle case automoblistiche americane ed europee, finite sotto i riflettori in questi giorni, a riaprire definitivamente i giochi nel mondo dei corporate bond. In meno di due mesi le distanze di rendimento (spread) tra i super affidabili governativi e i titoli societari a tripla B (quelli con affidabilità appena sufficiente) sono tornate ai livelli di ottobre 2003.

I prezzi sono quasi sempre sotto la pari e i rendimenti lordi, a scadenza, su vette del 9-10%, anche per tragitti non molto lunghi. GM 2009 paga il 9%, Fiat 2010 il 9,51%.

La veloce marcia di riavvicinamento - oggi vanificata da nuove paure - era stata spinta da un clima ben noto, dove il forte calo dei rendimenti aveva convinto un numero crescente di investitori a ricercare strumenti che assicurassero una maggiore redditività. Anche a costo di rischiare di più.

E oggi quei rischi si affacciano alla finestra. Il continuo movimento dei prezzi verso l'alto è ormai un ricordo: gli scambi di obbligazioni societarie avvengono a quotazioni cedenti. E la marcia indietro è stata innestata, appunto, dai prestiti delle case automobilistiche. Il loro ingente indebitamento complessivo, le scarse prospettive di miglioramento dell'attività, le indicazioni di bilanci tutt'altro che brillanti hanno indotto, da un lato, le agenzie di rating a declassare il merito di credito di importanti emittenti, e dall'altro gli investitori a cedere sul mercato i titoli in portafoglio, evitando nel frattempo di acquistarne di nuovi, pur in presenza di rendimenti assai elevati.

La liquidità orfana è finita, ancora una volta, su investimenti a tripla o doppia A. Insomma in questa fredda primavera (per la stagione e per i mercati) si rivede il fly to quality , lo spostamento brusco verso strumenti che offrano sicurezza, anche se pagano rendimenti molto bassi. Nei giorni scorsi, non a caso, alcune emissioni corporate sulla rampa di lancio sono state bloccate. In attesa di tempi migliori. Che fare, ora? Davvero bisogna diffidare di tutto e comprare solo titoli governativi? E chi finanzierà le società, se i loro prestiti obbligazionari verranno snobbati ancora a lungo? Se si è detentori di titoli automobilistici, ma anche di altre emissioni societarie, occorre valutare quale sia il peso che questi strumenti occupano all’interno del portafoglio.

Se la loro presenza non supera il 5% non bisogna preoccuparsi eccessivamente. Andando indietro con il pensiero, non è difficile ricordare che i prestiti delle società telefoniche hanno subito qualche anno fa tracolli ben superiori a quelli attuali dei costruttori d'automobili. Ma a queste disfatte fecero seguito riprese delle quotazioni, incoraggiate dalle ristrutturazioni che hanno interessato gran parte delle società. E che hanno consentito alle agenzie di rating di riportare verso l'alto il grado d'affidabilità.

Se invece i titoli automobilistici e i corporate rappresentano il 10 -15% del portafoglio, è meglio valutare la propria capacità di assorbire ulteriori, possibili cali dei prezzi di mercato. Chi è convinto di veleggiare in una burrasca temporanea, come dovrebbe essere, può mantenere invariata la posizione e, in qualche caso, incrementarla marginalmente se i rendimenti dovessero raggiungere il 13-15% lordo. Se invece si è pessimisti e spaventati, forse sarebbe meglio ridurre la loro quota, o, addirittura, azzerarla. Sapendo che questo porterà a cospicue perdite in conto capitale.

La situazione più favorevole, in questa fase, è per chi comincia da zero, dovendo definire oggi una composizione del portafoglio. A questi investitori non tocca fare i conti con le perdite in conto capitale, ma valutare bond che hanno perso quota (e quindi costano poco) e che sono costretti ad offrire rendimenti di tutto rispetto. Sempre sopra il 6%, come abbiamo visto, eccezion fatta per Volkswagen che, dotata di una A-, può permettersi di stare sotto il 5%, anche per la scadenza 2013.

Chi compra oggi e non vuole rischiare molto può orientarsi al fatidico 5%. Che può diventare un 15%, se appunto, non manca il fegato. A favore di questa scelta, gli elevati rendimenti che offrono già ora questi strumenti e che, in tempi ravvicinati, potrebbero aumentare ulteriormente. Consapevoli che si dovrà ballare ancora a lunga con le difficoltà di un settore ancora nel tunnel.  

Fonte Corriere della Sera

 

 

 

 

sabato  02  aprile  2005   venerdì  08  aprile  2005   giovedì  21  aprile  2005
   
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  Banche: la guerra dei giganti

Le Opa degli spagnoli su Bnl e degli olandesi su Antonveneta sono figlie di un riposizionamento globale della finanza. Dove, tra Usa ed Europa, i colossi fanno a gara per crescere. Per non essere conquistati.

28 Aprile 2005  - 14:00 Milano (di Mario Deaglio)

 

Sarà la tedesca Deutsche Bank, la svizzera Ubs o la statunitense Bank of America ad acquistare una quota importante della National Bank of China? Difficile dirlo, dal momento che il governo di Pechino, proprietario di questo gigantesco istituto di credito cinese, sta trattando con tutte queste banche la possibile vendita di quote azionarie prima del lancio della società in Borsa; in ogni caso, per la comunità finanziaria le operazioni di questo tipo, transculturali prima ancora che transcontinentali, segnano l’inizio di una nuova era.

È in atto, infatti, un riposizionamento globale della finanza di cui le grandi ondate di fusioni bancarie che scuotono Europa e America costituiscono l’aspetto più visibile. Le leggi della banca, a differenza di quelle della fisica, impongono che, per continuare a stare a galla, gli istituti di credito diventino più «pesanti», ossia dispongano di maggior capitale; è probabile, quindi, che molte banche, che oggi a noi sembrano grandi, in futuro siano considerate soltanto medie e siano in ogni caso condannate a fondersi con altri istituti di credito nel tentativo di raggiungere una massa critica sufficiente per stare sul grande mercato del mondo.

Negli Stati Uniti, il numero delle banche si è quasi dimezzato in vent’anni, in Italia in un decennio è cambiato completamente il panorama bancario, dal Canada all’India, dalla Gran Bretagna al Giappone grandi fusioni bancarie sono state realizzate recentemente oppure sono allo studio. I tentativi del gruppo spagnolo Bbva e dell’olandese Abn Amro, di prendere il controllo di Bnl e di Antonveneta non sono affatto casi isolati bensì il riflesso di un grande cambiamento mondiale.

Le banche sono costrette al cambiamento dalla logica dei costi e ricavi in un mercato finanziario sempre più concorrenziale. Nell’era dell’elettronica, una parte crescente dei costi dell’attività bancaria è rappresentata da spese fisse di natura informatica con operazioni in gran parte automatiche. Siccome il costo informatico diretto di un cliente in più è praticamente nullo, l’aumento del numero dei clienti consente di «spalmare» queste spese riducendo il costo unitario delle operazioni; inversamente, solo banche con molti milioni di clienti possono investire miliardi di euro in servizi sempre più sofisticati.

L’effetto dell’elettronica sulle dimensioni delle banche non si ferma qui: ha reso istantanee le operazioni bancarie in ogni parte del mondo, acuendo la competizione e riducendo i margini degli operatori. Siccome si guadagna meno su ciascuna operazione, un elevato livello di profitti si raggiunge solo con un gran numero di operazioni: solamente chi è in grado effettuare milioni di operazioni riesce veramente a soddisfare le aspettative di profitto degli azionisti e del mercato in generale. E se non si soddisfano queste aspettative, si finisce immediatamente nei guai.

Il mondo è quindi destinato a diventare il campo di battaglia sul quale si affrontano pochi giganteschi gruppi bancari? Non corriamo troppo. Sulla strada di un simile futuro ci sono almeno due grandi ostacoli. Il primo è connesso alla natura dell’attività bancaria: al di là delle spese fisse dell’informatica, tale attività prevede anche la conoscenza minuta della clientela, specie al momento della concessione di credito, il che può essere collegato più facilmente a dimensioni medie o medio-piccole. Alcuni casi recenti, come quelli di Parmalat e Cirio, mostrano chiaramente che grandi banche possono sbagliare grandemente; le piccole banche, dal canto loro, se la cavano spesso con minore informatica (grazie all’acquisto di servizi da banche più grandi) e minori sofferenze.

Il secondo ostacolo è di natura politica: non bisogna soccombere all’illusione che, in un mercato globale, le istituzioni nazionali non contino più o rimangano indifferenti alle grandi trasformazioni economiche che li riguardano.

Cacciatori e prede. La Banca d’Italia ha individuato nell’«italianità» delle banche uno degli elementi di identità del sistema economico italiano e fa quanto è in suo potere per conservarla; la stessa cosa, in maniera più o meno evidente, fanno tutti gli altri Paesi (i sistemi bancari francese e tedesco sono largamente chiusi agli investimenti esteri), mentre tutti sono contenti se le «loro» banche si espandono all’estero.

E non pensiamo che la privatizzazione e la comparsa sul mercato globale delle banche cinesi possano lasciare inalterato il mondo finanziario: comporterà probabilmente l’ascesa di Shanghai che si affiancherà a Hong Kong come centro finanziario di portata mondiale, così come occorre prepararsi all’ascesa dell’indiana Bombay e della brasiliana San Paolo.

Di fronte a queste prospettive, è facile provare un leggero senso di vertigine. Dobbiamo abituarci a considerare non solo che l’Europa non è più il centro del mondo finanziario; ma forse non lo è quasi più nemmeno l’America. Parafrasando un vecchio proverbio africano, è difficile dire quale banca sarà una «preda» e quale sarà una «cacciatrice»; tutte, però, dovranno mettersi a correre.

 

Fonte Wall Street Italia.com