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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Valute

L'€uro sarà la valuta guida

Credit Crunch

UBS: per l'immobiliare USA una crisi drammatica

Macro USA & mondo

L'ultima PUT di Greenspan

Macro USA & mondo

Locomotive fuori servizio

Credit Crunch

Capitalismo fasullo, Banche salvate dallo Stato

Guru - Previsioni e Sentiment

Borsa & Mercati: altri 5 anni di sofferenza

Guru - Previsioni e Sentiment

Borsa & Mercati: balle é il momento di comprare

   

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Vai alla 2° parte della Rassegna

 

 

  Martedì 01 aprile 2008   Mercoledì 02 aprile 2008   Mercoledì 02 aprile 2008  
       
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L'€uro sarà la valuta guida

01 Aprile 2008 NEW YORK - di Jeffrey Frankel

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The International Economy ha rivolto una domanda ad alcuni esperti: tra dieci anni, quale sarà la grande moneta globale? La mia risposta è che potrebbe essere l’euro. Contrariamente a ipotesi popolari negli anni 90, yen e marco non hanno avuto la possibilità di sfidare il dollaro quale moneta di riferimento: le economie interne erano più piccole di quella Usa e i loro mercati finanziari meno sviluppati e liquidi di quello di New York. L’euro, invece, è uno sfidante credibile: Eurolandia è grande pressappoco come gli Stati Uniti e l’euro ha dimostrato di essere una migliore riserva di valore del dollaro.
A dire il vero, i rapporti di forza tra le valute internazionali cambiano molto lentamente. Sebbene gli Stati Uniti abbiano superato il Regno Unito per dimensioni dell’economia nel 1872, per esportazioni nel 1915 e come creditore netto nel 1917, il dollaro non ha sorpassato la sterlina quale moneta internazionale numero uno fino al 1945. È perciò necessario tener conto degli sfasamenti. Nel 2005 quando con Menzie Chinn abbiamo utilizzato dati storici sulle riserve di valuta straniera delle banche centrali per stimarne i determinanti, anche i nostri scenari più pessimisti non indicavano un sorpasso dell'euro sul dollaro fino al 2022: allora non avremmo potuto dire che il dollaro sarebbe stato detronizzato "entro dieci anni".
Ma il dollaro ha continuato a perdere terreno e noi abbiamo aggiornato le nostre stime. In particolare, per riconoscere che Londra sta usurpando il ruolo di Francoforte quale capitale finanziaria dell’euro. E ciò nonostante il fatto che il Regno Unito resta fuori dall’Unione monetaria. Le nostre stime ci dicono ora che il punto di svolta potrebbe arrivare entro l’orizzonte dei dieci anni: l’euro potrebbe sorpassare il dollaro già nel 2015.

Perché tutto ciò è importante? In parte, per ragioni economiche: gli Stati Uniti perderebbero l’esorbitante privilegio di poter finanziare facilmente i loro deficit internazionali. Ma ci sono anche alcune possibili implicazioni geopolitiche.
In passato, i deficit degli Stati Uniti si sono potuti governare perché gli alleati erano pronti a pagare un prezzo per sostenere la leadership mondiale americana: giustamente, l’hanno considerata nel loro interesse. Negli anni Sessanta, la Germania è stata disponibile a compensare le spese per le truppe americane di stanza nel paese per salvare gli Usa da un deficit di bilancia dei pagamenti.
Purtroppo, nel 2001, proprio quando i deficit gemelli degli Stati Uniti sono riemersi, in gran parte del mondo, gli Usa hanno perso la simpatia popolare e il sostegno politico: agli occhi di molti la nazione egemone ha perso i diritti di legittimità. In netto contrasto con le rilevazioni condotte all’inizio del secolo, i sondaggi internazionali indicano ora che gli Stati Uniti sono visti in una luce sfavorevole nella maggior parte dei paesi. La prossima volta che gli Stati Uniti chiederanno alle altre banche centrali di salvare il dollaro, troveranno la stessa disponibilità che hanno trovato in Europa negli anni Sessanta o in Giappone alla fine degli anni Ottanta, dopo l’accordo del Louvre? Temo di no.
Il declino della sterlina nel corso della prima metà del Ventesimo secolo rientrava in una trama più ampia, che ha visto il Regno Unito perdere via via il suo predominio economico, le colonie, la forza militare e altri simboli di egemonia internazionale. E proprio mentre qualcuno si chiede se gli Stati Uniti non abbiano già intrapreso un percorso di "eccesso di imperialismo" che li porterebbe a ripercorrere le orme dell’impero britannico sulla strada di deficit di bilancio sempre più grandi e di avventure militari eccessivamente ambiziose nel mondo islamico, la sorte della sterlina è forse un utile avvertimento. La crisi di Suez del 1956 è spesso ricordata come il momento in cui la Gran Bretagna fu costretta dalle pressioni americane ad abbandonare quel che restava dei suoi progetti imperiali. Ma andrebbe anche ricordata l’importanza che ebbe un attacco alla sterlina simultaneo alla decisione del presidente Eisenhower di soccorrere la moneta in difficoltà attraverso un intervento dell’Fmi solo a patto che gli inglesi ritirassero le truppe dall’Egitto.

 

Fonte - www.lavoce.info

 

 

 

 

 

CAMBI: ROACH (MORGAN ST.), IL DOLLARO RESTERA' ANCORA DEBOLE

04 Aprile 2008 13:01 CERNOBBIO (COMO) - di Ansa
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Di fronte alla forte debolezza manifestata negli ultimi sei anni e, in particolare, negli ultimi otto mesi, il dollaro potrà vivere un periodo di ripresa, nel prossimo futuro, prima di tornare a calare e mantenersi sostanzialmente debole. A sostenerlo è l'economista e presidente di Morgan Stanley Asia, Stephen Roach.
"Il dollaro - ha osservato nel corso di una conferenza stampa a margine del workshop Ambrosetti - è debole e in discesa da sei anni, tuttavia esistono due elementi che lo possono sostenere. Il primo è che la debolezza economica degli Stati Uniti sia diffusa, il secondo è che in fase di recessione i risparmi delle famiglie america tornino a crescere" facendo diminuire il disavanzo e, quindi, facendo diminuire "la pressione" sul biglietto verde. "Non sono mai stato un sostenitore del dollaro forte - ha proseguito Roach - ma devo ammettere che negli ultimi otto mesi" ha raggiunto livelli estremamente bassi. Guardando al prossimo futuro, ha concluso, "é probabile che la tendenza si inverta" quanto meno per un breve periodo: "penso che il dollaro si riprenderà e poi tornerà a calare".
Guardando alla situazione economica internazionale, Roach ha poi aggiunto che "non sono abbastanza intelligente da poter prevedere se il peggio della crisi è stato superato. Se anche fosse - ha aggiunto - ci sono ancora effetti collaterali che sentiremo nel prossimo futuro". In particolare, ha sottineato indicando cinque punti, "lo scoppio della bolla del credito e immobiliare degli Stati Uniti la quale, conseguentemente, avrà i suoi effetti anche in Asia e in Europa".
Poi, ha proseguito, "il ciclo globale in calo" farà sentire i suoi effetti "negativi" sul settore finanziario e del credito e, ancora, "la frenata nella crescita globale" si farà sentire anche sulla "richiesta di commodities" che subirà "un indebolimento". In ultima istanza, gli effetti collaterali, secondo Roach, si faranno sentire anche sul fronte politico poiché "la risposta della politica sarà quella di una crescita del protezionismo in particolare di una nuova ondata protezionistica negli Stati Uniti.
 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

UBS: per l'immobiliare USA una crisi drammatica

02 Aprile 2008 LUGANO - di Alfonso Tuor

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Siamo al terzo ma molto probabilmente non all’ultimo atto della disastrosa avventura di UBS nel mondo dei finanziamenti al mercato immobiliare americano, che per il momento comporta perdite complessive per 37 miliardi di franchi, un nuovo aumento di capitale di 15 miliardi di franchi e le dimissioni di Marcel Ospel, ossia dell’uomo che era di fatto diventato la bandiera dell’istituto nato dalla fusione tra SBS e la vecchia UBS. Le misure annunciate rischiano comunque di non essere sufficienti per mettere la parola fine alle tribolazioni della maggiore banca svizzera. Ma procediamo con ordine.

Le svalutazioni e le perdite di circa 19 miliardi su titoli collegati con il mercato immobiliare americano e su crediti strutturati sono impressionanti, tanto più che si aggiungono ai 18 miliardi di perdite già denunciate l’anno scorso. Se si considera che UBS chiuderà il primo trimestre con una perdita netta attorno ai 12 miliardi, si possono trarre due conclusioni. In primo luogo, anche il bilancio dell’intero 2008 si chiuderà nelle cifre rosse; in secondo luogo il rosso del primo trimestre intacca pesantemente i mezzi propri della banca, che non a caso ha dovuto contemporaneamente annunciare un aumento di capitale di 15 miliardi, la cui urgenza è confermata dal fatto che è già stato interamente sottoscritto da quattro banche (JP Morgan, Morgan Stanley, BNP Paribas e Goldman Sachs). In parole povere, UBS si è trovata nella condizione di non poter aspettare i tempi «relativamente lunghi» della ricapitalizzazione sul mercato e di dovere garantire immediatamente la disponibilità di questi capitali. Ciò è stato fatto dalle quattro banche menzionate, che naturalmente non partecipano gratuitamente all’operazione.

Questo è il secondo aumento di capitale: il primo, di circa 13 miliardi, era avvenuto l’anno scorso con la sottoscrizione di obbligazioni convertibili obbligatoriamente da parte di un fondo statale di Singapore e da parte di un anonimo investitore arabo. Quindi vi è un’ulteriore diluzione di capitale per gli azionisti UBS, che hanno già visto l’azione scendere sotto i 30 franchi.
Ieri non è stata comunque posta la parola fine a questa vicenda. Il costo complessivo dell’avventura in terra americana, già a tutt’oggi molto elevato, rischia alla fine di risultare ancora più salato. I motivi sono numerosi: ci limitiamo ai più evidenti. Innanzitutto l’esposizione di UBS nei confronti dei titoli legati al mercato immobiliare americano è stata ridotta, ma non azzerata. La stessa banca ha sottolineato che l’esposizione collegata ai mutui subprime è diminuita da 27 miliardi di dollari a 15 miliardi e quella relativa ai mutui Alt-A (quelli a tasso fisso per un periodo iniziale) è stata ridotta da 26 miliardi a 16 miliardi. La banca ha inoltre annunciato che creerà un’unità speciale (una specie di «bad bank»), dove verranno collocati questi titoli con l’obiettivo di ridurre progressivamente l’esposizione dell’istituto.
Le perdite dovute ai titoli collegati con il mercato immobiliare americano sono tuttavia solo una parte delle posizioni a rischio. UBS, come le altre banche attive nell’investment banking, non ha scommesso solo sulla cartolarizzazione dei mutui ipotecari, ma è esposta in numerosi altri campi che oggi la crisi finanziaria ha reso estremamente rischiosi, come le linee di credito agli Hedge Funds, i prodotti strutturati, le assicurazioni sui crediti, i crediti ponte alle operazioni di Private Equity, ecc.

L’esposizione sul mercato immobiliare americano è quindi solo una parte, e probabilmente non la più importante, del complesso delle posizioni a rischio. E’ dunque prevedibile che se non ritornerà la calma sui mercati e soprattutto se non verrà superata questa grave crisi finanziaria, da UBS, come dagli altri istituti, proverranno altre sgradite sorprese. E’ dunque di difficile comprensione il rimbalzo registrato ieri dal titolo in borsa. Probabilmente è da leggere come un segnale di sollievo per avere scampato pericoli ancora maggiori.

Questa vicenda ha comunque prodotto anche danni che non possono essere contabilizzati. Il marchio UBS ha indubbiamente subito un pesante danno di immagine sia in Svizzera sia all’estero. Ma forse c’è di più. Le traversie dell’istituto leader a livello mondiale nel settore della gestione patrimoniale hanno molto probabilmente intaccato anche l’immagine di sicurezza dell’intera piazza finanziaria svizzera. Non sorprende che di fronte ad un bilancio così negativo, Marcel Ospel abbia dovuto rassegnare le dimissioni. Sorprende invece che alla guida di un istituto in difficoltà venga proposto un uomo, Peter Kurer, che ha diretto il dipartimento legale e di compliance. Forse è il segno dei tempi. Dopo le spericolate avventure degli «uomini di mercato», occorrono oggi legali in grado di confrontarsi con regole nuove e soprattutto con autorità di sorveglianze destinate ad essere molto più severe. E’ un ulteriore segno che questa crisi è destinata a sancire la fine degli eccessi del sistema finanziario e soprattutto della nuova ingegneria finanziaria.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

  Mercoledì 09 aprile 2008   Mercoledì 09 aprile 2008   Giovedì 10 aprile 2008  
       
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BERNANKE: LA RECESSIONE IN AMERICA E' POSSIBILE

02 Aprile 2008 15:33 NEW YORK - di Ansa
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Intervenuto al Joint Economic Committee, il capo della Fed, Ben Bernanke, ha fornito un aggiornamento sulle condizioni economiche e sulle prospettive per i prossimi mesi, affermando che la Fed continuera' a vigilare perche' ha imparato "la lezione degli anni '30, quelli della Grande Depressione''.
Il capo della Banca Centrale Usa ha evidenziato come i mercati finanziari continuino a rimanere sotto un considerevole stress, un fattore che potrebbe contribuire ad un rallentamento della crescita del Pil, senza escludere la possibilita’ di una contrazione durante il primo semestre. E nei prossimi trimestri gli Usa subiranno un'ulteriore contrazione del settore delle costruzioni.
Il rischio al ribasso e’ ancora presente, la recessione e’ "possibile" ha affermato Bernanke. L’inflazione, come piu’ volte sottolineato, dovrebbe comunque diminuire nei prossimi mesi.
Riguardo al sistema finanziario, Bernanke ha affermato che la Federal Reserve sara’ piu’ vigile sulla regolamentazione, nel tentativo di evitare un nuovo caso come quello di Bear Stearns. Lo scorso 13 marzo, la nota banca d’investimento di New York aveva comunicato alla Fed il possibile ingresso nel processo di amministrazione controllata (Chapter 11) a causa di un forte deterioramento delle posizioni di liquidita’.

Il presidente Fed ha detto di non attendersi che si ripeta una crisi delle istituzioni finanziarie come quella che ha colpito Bear Stearns. Lo sforzo della Fed in questo momento - ha aggiunto - e' volto a spingere banche e istituzioni finanziarie a rafforzare la propria capitalizzazione. "Il mercato è troppo fragile ora per far fallire Bear Stearns", ha aggiunto Bernanke intervenendo ancora sul salvataggio della banca d'affari americana. L'azione condotta "é servita a preservare il sistema" ha sottolineato il presidente della Fed. A chi gli chiedeva se la Fed potrebbe di nuovo intervenire per supportare qualche altra banca o istituzione finanziaria, Bernanke ha detto di non poter rispondere. Sul caso Bear Stearns, inoltre, Bernanke ha precisato che il rischio che si è assunta nell'operazione è molto inferiore ai 29 miliardi, la cifra che la Fed presterà a Jp Morgan per facilitare la buona riuscita dell'operazione.
"Abbiamo ancora munizioni monetarie". Così Bernanke ha risposto al congresso sulla politica monetaria condotta dalla Fed, che ha ridotto in modo deciso i tassi di interesse per aiutare l'economia a far fronte alla crisi. "Abbiamo dato un importante contributo - ha affermato riferendosi al taglio dei tassi di interesse -. Abbiamo ancora munizioni monetarie". Bernanke sembra così aprire la porta a un nuovo possibile taglio dei tassi.

Con le sue dichiarazioni al Congresso, Bernanke ha riconosciuto per la prima volta che gli Usa rischiano la recessione. "A questo punto appare probabile che il prodotto interno lordo non crescerà molto, sempre che cresca, e potrebbe anche contrarsi leggermente nella prima metà del 2008", ha detto il presidente della Fed. Anche se la Fed si aspetta che l'economia torni al suo tasso di crescita di lungo termine nel 2009, "alla luce delle recenti turbolenze nei mercati - ha aggiunto Bernanke - l'incertezza che grava su questa previsione è piuttosto alta, e i rischi continuano ad essere al ribasso". Bernanke ha poi detto di attendersi un tasso di disoccupazione "un po' più alto", spiegando che l'inflazione é 'una preoccupazione'', anche che ci si attende una moderazione. La Fed ha ridotto i tassi drasticamente a partire da settembre.
Stiamo facendo del nostro meglio per determinare il miglior livello dei tassi di interesse per promuovere la stabilità dei prezzi e dei mercati, ha aggiunto il presidente della Fed. "Lavoriamo per stabilizzare l'economia e il sistema finanziario. Il mercato immobiliare resta un'area critica che ha conseguenze sia sull'economia reale sia sul sistema finanziario". Nel corso del suo intervento, Bernanke ha precisato che "un aumento delle tasse nel breve termine potrebbe far crescere le preoccupazioni per l'economia, visto che ridurrebbe il reddito a disposizione e, di conseguenza, i consumi".

Sul coordinamento delle banche centrali per fronteggiare la crisi dei mercati finanziari, Bernanke ha detto: "La visione della Bce su un rafforzamento della propria capitalizzazione da parte di banche e istituzioni è in linea con quella della Fed", definendo "molto incoraggiante" l'aumento di capitale di Ubs. Bernanke ha comunque evidenziato che Ubs è una banca svizzera e, di conseguenza, è di competenza delle autorità svizzere. Bernanke non ha escluso un pressing della Fed per spingere le banche a rafforzare il proprio capitale. "Il nostro sistema bancario - ha aggiunto - è più aperto di quello del Giappone degli anni '90''.
 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

L'ultima PUT di Greenspan

03 Aprile 2008 ST. LOUIS - di Alex Citanna e Michele Boldrin

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L'ultima "put" di Greenspan la stanno onorando Bernanke, Paulson ed il Congresso. Essa consisterà, forse già consiste, nell'inflazione e nella svalutazione del dollaro. Mentre il suo presunto obiettivo è quello di stabilizzare i mercati finanziari fornendo ad essi liquidità, per il momento sembra servire soprattutto al salvataggio di coloro che per 15 anni hanno generato profitti fasulli con giochetti finanziari; giochetti che ora sembrano essersi rotti. Se le attuali politiche verranno mantenute ancora per molto, il risultato sarà quanto descritto sopra oppure una stagnazione prolungata, o entrambe le cose; non vi è realistica alternativa.
Non dovrebbe essere necessario sintetizzare i fatti; ma lo faremo lo stesso. Durante gli ultimi sette mesi la Federal Reserve Bank degli Stati Uniti ha spinto il Federal Funds rate (FFr) a valori reali negativi. Ora offre alle banche d'investimento americane di scambiare i loro titoli dal valore incerto per titolo del Tesoro; allo stesso tempo ha anche mediato l'acquisizione di una banca da parte di un altra. Lo "stimolo federale", approvato da entrambi i partiti e dall'amministrazione Bush, è in corso: ai contribuenti americani vengono spediti assegni di importi variabili, per un valore totale di circa l'1% del PIL.
Ci chiediamo: questo pacchetto di interventi è sensato, data la natura della crisi? Apparentemente, lo è: la maggior parte dei commentatori applaude queste scelte. I pochi critici sono per la maggior parte commentatori da sempre ostili al mercato, alla concorrenza, al capitalismo ed alla globalizzazione a cui attribuiscono tutti i mali, dalle crisi finanziarie alla diarrea. Tra gli esperti, il consenso unanime è che queste scelte siano corrette. Proviamo a dissentire. Oggi illustriamo le ragioni del nostro disaccordo; la prossima volta discutiamo di politiche alternative.
Ci sono tre componenti delle politiche adottate: lo stimolo fiscale, il taglio dei tassi d'interesse e lo swap di titoli.

 

Stimolo fiscale -  

Sta ricevendo scarsa attenzione: la maggior parte dei commentatori sconta la sua natura elettorale. Peccato, perché, fino ad ora, l'incentivo fiscale è il braccio più costoso della strategia di intervento. Aumentare il reddito disponibile del 90% delle famiglie americane di un 1,5% non farà alcuna differenza sulla crisi delle ipoteche, ma aumentare il debito pubblico di un altro punto di PIL segnala che la strategia di affrontare i problemi finanziari accumulando nuovo debito non è stata ancora abbandonata.
Nessuno - con l'eccezione di Paul Krugman: GWB e PK sono per una volta dallo stesso lato - sostiene che la recessione è dovuta ad un improvviso calo della domanda aggregata. Al contrario, la crisi è dovuta a un prolungato eccesso di domanda di alloggi, alimentato da una straordinaria quantità di credito messo a disposizione a basso prezzo dalla Fed. Tale eccesso di domanda ha spinto i prezzi delle abitazioni al di sopra del livello che una frazione sostanziale delle famiglie americane può permettersi, dato il reddito attuale e quello previsto. In altre parole, la crisi è dovuta ad una "inflazione localizzata" causata dalla combinazione di credito a go-go della Fed ed innovazioni finanziarie del settore bancario. Poiché i prezzi nominali di un certo numero di attività finanziarie e reali sono completamente slegati dai loro rendimenti futuri - e poiché il reddito nominale è troppo basso per fornire le risorse necessarie a servire il debito con cui tali beni sono stati acquistati - qualcosa deve cedere. O il valore nominale di tali beni diminuisce - attraverso una deflazione dei prezzi dei titoli e delle case - o il reddito nominale cresce molto rapidamente - attraverso un'inflazione generalizzata.
Lo sgonfiamento della bolla immobiliare sta provocando un forte rallentamento della crescita economica reale. Questo accade perché la realizzazione che i prezzi avevano superato il livello che gli acquirenti potevano permettersi ha avuto luogo dopo che la produzione delle case era già stata completata o, almeno, iniziata. Le risorse reali così investite sono quindi state sprecate: essi hanno prodotto merci che la gente non vuole o non può permettersi.
Di conseguenza, i proprietari di tali risorse ricevono pagamenti molto più bassi di quanto previsto. Da questo la recessione: le attività devono essere svalutate e le risorse (fattori di produzione) devono dirigersi verso beni che le famiglie e le imprese vogliono, e che possono permettersi. Anche supponendo che l'aumento del potere d'acquisto suppostamente prodotto dallo stimolo fiscale non venga spazzato via da un aumento dei prezzi della stessa proporzione, non è certo aumentando la domanda aggregata per hamburger, scarpe, o biglietti d'aereo di circa l'1% che la riallocazione delle risorse sopra descritta sarà meno dolorosa. Più importante: lo stimolo fiscale non può fare nulla per ridurre l'impatto finanziario della crisi immobiliare.
Questa è dovuta al fatto che una parte delle famiglie americane non possono permettersi l'acquisto delle case che volevano. Per una famiglia inadempiente su un mutuo ipotecario di $ 200K-500K, $1000 in contanti una tantum non farà alcuna differenza. Conclusione: lo stimolo fiscale non è in grado di alleviare la crisi finanziaria, né la recessione, ma solo far crescere un po' il debito pubblico.

 

Taglio dei tassi di interesse -  

Dai tempi di Greenspan, la moda è quella di misurare l'utilità di tali interventi con i successivi movimenti nel mercato azionario. Assicurazioni in senso contrario lasciano il tempo che trovano: questo è oramai diventato il criterio con cui i mercati finanziari, e in generale gli agenti economici, interpretano e valutano le azioni della Fed. Poiché Ben Bernanke ha anche scritto articoli che tentano di misurare tale impatto, questo punto di vista è stato rafforzato da azioni come quella del 22 gennaio 2008.
Gli agenti economici oramai pensano che la Fed dovrebbe muovere i tassi di interesse per evitare che il mercato azionario cada. Non esiste alcun buon motivo economico per credere che questo sia possibile, né il mandato del sistema della Federal Reserve è quello di far crescere gli indici di Borsa. La BCE, saggiamente a nostro avviso, sta sostanzialmente ignorando i mercati azionari: la stabilità dei prezzi è il suo obiettivo, non le plusvalenze di borsa. In ogni caso, se dovessimo giudicare il successo della politica della Fed da questo parametro, il verdetto sarebbe bruttino. Nel corso degli ultimi sei mesi la Fed ha tagliato i tassi sei volte, due delle quali potrebbero essere ragionevolmente considerate "sorprese". I corsi borsistici sono di circa il 15% inferiori a quelli di sei mesi fa e non hanno intenzione di recuperare in un prossimo futuro. Fino ad ora, l'unico effetto che questi tagli sembrano aver avuto è quello di aumentare la volatilità: relativamente grandi balzi il giorno dell'intervento, o in quello successivo, seguiti da ancora più grandi cadute subito dopo. La credenza che la Fed possa influenzare le quotazioni di borsa attraverso i tassi a breve - e che li possa influenzare in modo non effimero - poggia sull'idea che i movimenti dei tassi a breve termine siano in grado di influenzare la percezione (per quanto tempo?) o la realtà del rischio aggregato. Questa è un'ipotesi ardita, che va ben oltre il consueto "trade-off output-inflazione" e per la quale non vi è praticamente alcun sostegno teoricamente coerente, per non parlare di prove empiriche. Come una durevole riduzione del rischio complessivo possa essere creata dal taglio di 300 punti base, ci sfugge. A meno che, ovviamente, non si sia disposti a ritenere che le bolle 1997-2000 e 2002-2006 - con l'accompagnamento di chiacchiere accademiche [citazioni omesse, per compassione] su "riduzione del rischio globale", "grande moderazione" e "crescita permanente del valore dei titoli" - siano le buone cose che la politica di credito facile ci ha portato. In sostanza, e contrariamente all'opinione dominante, abbiamo la sfacciataggine di credere che questa non sia la spiegazione delle recenti scelte di Bernanke.
Un obiettivo più realistico può essere quello di fermare la crescita dei tassi d'interesse ipotecari causata dalla politica post-2004. Tale crescita è generalmente considerata come l’ago che ha fatto scoppiare la bolla creata dalla politica di FFrs persistentemente bassi che la Fed aveva precedentemente attuato, durante il periodo 2001-2004. Dato che questo non è il momento giusto per discutere nei dettagli quel che ha provocato cosa (un giorno o l’altro dovrà esserlo, però) lasciamo questo problema da parte e consideriamo solo quale può essere il grado di successo nel raggiungimento di questo obiettivo.
Un argomento ragionevole è il seguente: un aumento del FFr aumenta i tassi di mercato sia a breve che a lungo termine. Siccome una quota considerevole di ipoteche è finanziata a tassi variabili, tassi cioé che vengono fissati di nuovo dopo poco tempo sulla base dei tassi correnti a breve termine, questo aumento del FFr sta provocando l'aumento dei tassi di default di cui siamo tutti vittime. Come possiamo fermare l'emorragia che stanno causando mutuatari morosi? Far crescere il reddito reale dei mutuatari del 10-15% è impossibile, per cui cerchiamo invece di ridurre gli importi che devono pagare. Se si abbassa abbastanza il FFr, i tassi ipotecari (in particolare, quelli sugli ARMs) dovrebbero anche andare giù, quindi alleviare la crisi del mercato ipotecario. Giusto? Forse, ma non necessariamente.
Primo, la fissazione dei tassi variabili non avviene in tempo continuo, ma solo a intervalli di tempo fissi che, a volte, sono lunghi uno o due anni. Quindi, per almeno un anno dopo il taglio del FFr, nessun sollievo arriverebbe per i mutuatari dal tasso di interesse: quelli che sono stati inadempienti durante l'estate del 2007 lo sono ancora, e quelli i cui tassi ipotecari sono stati cambiati nel corso degli ultimi sei mesi saranno di fronte agli stessi tassi elevati. Inoltre, i tassi di mercato su cui gli ARMs si basano non rispondono necessariamente uno-a-uno ai movimenti del FFr (anche quando si tratta di tassi nominali a breve termine l’aggiustamento del tasso della Fed NON è affatto onnipotente).
Ultimamente non lo fanno molto. Sono scesi, ma non tanto quanto l'FFr. In altre parole, mentre la riduzione del FFr può in teoria sembrare una fonte di sollievo per i mutuatari morosi, è chiaro che quantitativamente l’effetto non è molto significativo. Il Libor o il tasso a 1 anno a maturità costante del US Treasury sono diminuiti, ma il credit spread su ciascuno di essi è aumentato di circa la stessa misura, migliorando così la situazione solo lievemente e certamente non in un futuro immediato. Infine, cosa più importante, i tassi ipotecari sono ora allo stesso livello cui erano un anno fa (talvolta superiore), e quindi non c’è possibilità di ottenere vantaggiose offerte di ri-finanziamento grazie alla riduzione del FFr della Fed. Il rifinanziamento a un tasso inferiore o il passaggio dal rischioso ARMs a meno rischiosi mutui a tasso fisso sarebbero soluzioni auspicabili e naturali per la maggior parte dei mutuatari morosi, ma sembrano irragiungibili, per il momento.
In sintesi, mentre in teoria questo canale potrebbe avere un impatto positivo sulle cause della crisi finanziaria, in pratica il suo impatto è molto limitato: non fa danni, ma fornisce ben poco aiuto. Ancora più importante: forse non è troppo poco (il tasso della Fed è 300 punti base più basso, dopo tutto), ma certo che arriva troppo tardi. La qual osservazione porta alla domanda da 100 trilioni di dollari : che diavolo era la giustificazione economica dietro l’altalena selvaggia dei tassi d’interesse del 2001-2006?
C'è una terza motivazione per il taglio FFr: la curva di Phillips, l'idea che con un po' d'inflazione cresce l'output, il sogno che non muore mai. Poiché, tra macroeconomisti e teorici monetari, questa è diventata più una questione di fede che di discussione razionale, vi è ben poco da dire. Dal nostro punto di vista l'esperienza del 2000-2001 e quella attuale (per non parlare del 1991) mostrano che la Fed non ha alcuna capacità pratica d'evitare una recessione abbassando i tassi a breve: quali che siano le forze che la causano, quando il termometro segnala la sua presenza la recessione è già in corso.
Modelli basati sul presupposto dei prezzi rigidi (ingrediente indispensabile per sostenere che una riduzione del tasso di sconto possa evitare una recessione) continuano a fallire la prova quantitativa: nessuno è stato, neanche remotamente, in grado di produrre stime dei parametri d'uno qualsiasi di questi modelli che implichino un qualche effetto benefico della politica monetaria. La rigidità necessaria per rendere il trade-off empiricamente rilevante è dell'ordine di 2 o 3 anni: ogni consumatore americano (o europeo, o cinese, o messicano), di fronte a prezzi che se non cambiano settimanalmente lo fanno giornalmente, troverebbe ridicola una tale ipotesi. Ciononostante, la maggior parte dei macroeconomisti, soprattutto coloro che lavorano presso la Federal Reserve statunitense, prendono tale ipotesi molto sul serio: devono essere troppo occupati a scrivere modelli con rigidità di prezzo per permettersi il tempo di fare shopping.
Il paradosso di una professione che, a fronte di una recessione dovuta al calo troppo rapido dei prezzi delle case in seguito alla rottura di una bolla generata da un eccessivo abbassamento dei tassi nominali a breve, sostiene che i prezzi rigidi sono la causa della recessione e che quest'ultima sarà curata riducendo i tassi nominali a breve termine!

Riassumendo: visibili successi? Apparentemente nessuno. Per quanto possiamo vedere, l'unica cosa che la politica della Fed ha raggiunto fino ad ora è quella di spaventare l'opinione pubblica. Forse, gli effetti benefici della politica di riduzione dei tassi saranno visibili in futuro. Forse, se la Fed non avesse abbassato i tassi di interesse così tanto e così rapidamente, le cose sarebbero già peggio. Questo è vero, forse. Ma si deve osservare che la BCE non ha seguito la politica della Fed ed in Europa le cose non vanno così diversamente dagli Stati Uniti. Gli indici di borsa oscillano su e giù nel mezzo di una generale tendenza negativa, ma sono meno in basso rispetto agli Stati Uniti; alcuni paesi, Spagna e Italia quasi certamente, vanno verso una recessione, ma la prima è andata crescendo per 14 anni consecutivi, mentre la seconda sta diventando Argentina, quindi non conta. Questo non significa dire che le cose in Europa vanno bene, ma semplicemente che 300 punti base di tagli non hanno fatto una differenza apparente per l'economia reale. Forse è giunto il momento di guardare da qualche altra parte.

 

L'asset swap -

Nessuno sembra sostenere che TSLF e PDCF siano stati istituiti per alleviare la recessione. Essi esistono, ci viene detto, per salvare il sistema bancario evitando una crisi sistemica, l'"effetto domino", il crollo dell'economia americana, e quindi del mondo. Davvero? Anzitutto: il valore totale dei titoli del Tesoro degli Stati Uniti nelle mani della Fed era, all'inizio della crisi, 3/4 di un trilione di dollari, ma ora è un po' meno. Alla loro apertura, le due strutture hanno (max) $ 400 miliardi di titoli del Tesoro disponibili; in pratica ne hanno circa $200 miliardi. Al 23 marzo, il valore nominale dei Credit Default Swaps sul mercato aveva superato i $ 40 trilioni; JP Morgan e Citi insieme ne detengono più di 10 trilioni. Quindi, se le parole "effetto domino" o "crisi sistemica" intendono descrivere eventi come "il mercato dei CDS si scioglie" perché "la fiducia dei banchieri" crolla, allora TSLF e PDCF equivalgono a tentare di salvare New Orleans da Katrina dicendo alla gente di aprire l'ombrello. Se solo Citi diventa incapace di servire il suo portafoglio di CDS, l'intera struttura di asset swap verrà spazzata via. In altre parole, SE i teorici dell'"effetto domino" parlano sul serio, ALLORA meglio che si preparino per una nazionalizzazione del sistema bancario degli Stati Uniti. D'altro lato, SE "prevenire l'effetto domino" è solo un altro nome per "mantenere a galla gli amici di Wall Street", senza che i cittadini lo capiscano, ALLORA TSLF e PDCF vanno benissimo.
Si argomenta anche: l'"effetto domino" funziona incrementalmente; crolla prima una banca piccola e poi vengono giù le grandi di conseguenza. Il controfattuale è evidente: SE non fosse stato noto che la Fed avrebbe organizzato l'acquisto di BSC da parte di JP Morgan (con il salvataggio di tutti i creditori di BSC), ALLORA la crisi sistemica sarebbe avvenuta. Nessuno può contraddire tale controfattuale, e quindi non ci proveremo. Prendiamo atto, però, che mentre la crisi di BSC era in corso non vi è stato alcun sintomo di panico tra i depositanti. La Fed ha mediato un buon affare per una banca con la motivazione di evitare il crollo di un altra. La banca "crollata" è valutata attualmente a circa $ 1,5 miliardi, mentre l'entità che l'ha acquisita ha guadagnato circa il 20% in valore di mercato.
Perché una banca centrale debba immischiarsi in questo tipo di affari ci sfugge completamente, quindi lasciamo perdere e torniamo ai controfattuali. Ci sono state, è vero, notizie preoccupanti su Lehman e Goldman Sachs come le prossime candidate al fallimento. Tuttavia, un paio di giorni dopo entrambe le banche hanno generato un (temporaneo) rally bancario rivelando risultati migliori del previsto.

Chiediamo: cosa previene le altre banche dal fare lo stesso? Questa sembra essere un'altra domanda, se non da 100 trilioni di dollari almeno da 10 trilioni: la crisi ha ormai più di un anno di età ; perché Fed ed SEC sembrano ancora incapaci di produrre regolamentazione che forzi la rivelazione di informazioni affidabili? Se sono la "paura", la "mancanza di fiducia" e l'"informazione asimmetrica" generalizzata (le persone normali dicono "bugie" o "trucchi"), ad impedire il buon funzionamento dei mercati, non dovremmo aver iniziato un anno (o più) fa ad affrontare QUESTI problemi? Apparentemente, quando l'informazione viene credibilmente rivelata i mercati recuperano fiducia ed i problemi di liquidità si attenuano anche senza alcun intervento salvifico da parte della Fed; questo succede pure se l'informazione rivelata è negativa.
Abbiamo capito che non è di moda parlare di "rischio morale" in questi giorni; il rischio morale è solo un concetto teorico che la gente pratica toglie di mezzo ogni qual volta la situazione diventa difficile. Un argomento molto pratico (sostenuto, insieme con l'intera Wall Street, anche da Lawrence Summers), è che la stabilità del sistema finanziario è più importante, in circostanze drammatiche come queste, di un pregiudizio tutto sommato ideologico quale il rischio morale. Gli italiani ben ricordano Craxi che, mentre aspirava una percentuale del PIL nel suo conto corrente ed in quelli dei suoi amici, sentenziava primum vivere, deinde philosophari ... Di fronte ad esperti di tale calibro, tutto ciò che possiamo fare è inchinarci.
Tuttavia, teniamo a sottolineare che, ciò che è avvenuto dal 2002 in poi e ci ha messo in questo pasticcio, è esattamente quello che l'argomento teorico "rischio morale" avrebbe previsto come conseguenza delle politiche adottate. Il rischio morale, in altre parole, non è solo un argomento teorico: è anche una triste realtà della vita aziendale, in particolare intorno a Wall Street. Deve esistere un punto nel tempo in cui decidere di pagare il prezzo e lasciare che le aziende gestite da persone incompetenti, o semplicemente fraudolente, falliscano al fine di stabilire un minimo di reputazione ed evitare comportamenti fraudolenti futuri. Apparentemente, per gli USA tale punto nel tempo non è ancora arrivato, quindi tiriamo avanti.

 

L'attività di swap è giustificata se si ritiene che i titoli che ora preoccupano le grandi banche possano avere più valore in un futuro prossimo. Chiamiamo questa ipotesi "Scenario 1" e diciamo che, in questo caso, è solo un problema di liquidità: gli investimenti sono buoni o quasi, ma non vi è contante nel breve periodo a causa di uno shock che non era previsto; pertanto i buoni investimenti devono essere mantenuti in vita dalla Fed, che agisce in qualità di FDIC delle banche d'investimento. [Per i bene addestrati: pensate a Diamond e Dybvig JPE-1983 su grande scala. Kiyotaki e Moore, invece, non funziona, per una varietà di ragioni che saremo lieti di discutere se i commenti lo richiedono.] Noi non riteniamo che questo sia lo scenario più probabile. Perché? Evidente: se fossero buoni investimenti, perchè i titolari di ipoteche in sofferenza ed i loro finanziatori non provano a ricontrattare i termini del prestito? Ricontrattare NON è vietato, quindi perché le due parti non trovano, caso per caso, un modo per dividersi i futuri guadagni? Ad ogni modo, facciamo finta che lo Scenario 1 sia coerente e probabile. L'altra possibilità (la chiamano Scenario 2), è che stiamo tutti collettivamente sognando: anche nei mesi a venire i cosiddetti titoli saranno ancora dei quasi inutili pezzi di carta. O, almeno, molti di loro lo saranno ancora. Consideriamo ora le implicazioni d'ognuno dei due scenari.

Nello Scenario 1, si rinvia sine die la verifica (e la calibrazione al mercato) di perdite che oscillano per alcuni attorno al trilione di dollari (Goldman Sachs stima a 500 miliardi le perdite per soli mutui), sperando che, alla fine, diventino minori. In realtà la Fed sta scommettedo di poter "creare" Scenario 1, invece di prenderlo come dato. La caduta può essere evitata se il mercato si convince che questi titoli valgono di più: dobbiamo ripristinare la "fiducia". In altre parole, Scenario 1 ha un senso se e solo se siamo disposti a credere che la Fed è in possesso di poteri di previsione e valutazione superiori, che le permettono di vedere guadagni futuri dove l'insieme dei partecipanti ai mercati finanziari non li vedono. È possibile?
In astratto questo è possibile. È probabile? Storia e teoria economica suggeriscono che non lo è, nondimeno assumiamo che lo sia. Si suppone, dunque, che la Fed ORA sia in grado di valutare i prezzi delle case e dei titoli meglio dei mercati finanziari. Dovremmo quindi spiegare il motivo per cui la Fed non è stata in grado di fare lo stesso nel PASSATO, o non sarà in grado di farlo fra 2 anni. Detto altrimenti: se crediamo che lo Scenario 1 sia ciò che rende l'asset swap una buona idea, dobbiamo essere capaci di spiegare il motivo per cui la Fed ne abbia indovinate ben poche nel corso degli ultimi dodici anni. Per quale motivo non abbiamo delegato alla Fed la fissazione dei prezzi delle attività finanziarie, durante gli ultimi anni?
Paradossi? Certo, paradossali implicazioni del voler credere nello Scenario 1. Il passato, però, è passato: sotto lo Scenario 1, che cosa ci impedisce di concludere che, in futuro, il nuovo compito della Fed consisterà nel prevedere i prezzi dei titoli e nel decidere quali istituzioni finanziarie li devono detenere, e quali no? Ancora una volta si giunge alla medesima conclusione: SE ciò che la Fed sta facendo è sensato ALLORA si potrebbe anche prendere in considerazione la nazionalizzazione dell'intero settore finanziario, delegandone alla Fed l'esecuzione.

Lo Scenario 2, tuttavia, é il Giappone nel 1990, anziché il suo contrario : la Fed interviene adesso per evitare a queste banche di riconoscere almeno in parte le perdite che oggi ci sono e che non potranno mai andare via. In altre parole, la Fed interviene esclusivamente per spingere verso il futuro il giorno della resa dei conti, esattamente nello stesso modo in cui la banca centrale e il governo del Giappone hanno fatto dopo il 1990. Commentatori occidentali, economisti, banchieri, e anche funzionari di governo, tutti hanno molto criticato la scelta di allora, e hanno ripetutamente invitato la banca centrale e il governo giapponesi a smettere di agire in quel modo, proprio nello stesso modo in cui la Fed e il governo degli Stati Uniti stanno agendo oggi.
Abbiamo tutti sottolineato allora come queste azioni dessero come risultato il congelamento dei capitali, il rallentamento della crescita del credito, mantenendo vive imprese che sono morte, e dando vita ad una gigantesca "trappola della liquidità", mentre le banche sono state tenute a galla nutrendole più e più di nuovo credito, credito che non hanno mai investito o utilizzato produttivamente. Sono semplicemente rimaste sedute sulle loro riserve, non facendo nulla e rinviando una morte che sarebbe comunque arrivata. Nel frattempo, l'attività economica ha subito un rallentamento e una drammatica stagnazione che è durata quasi un decennio.
Come finiranno le cose nello Scenario 2? Lentamente, col salvataggio di diverse banche, il che costerà a tutti noi un sacco di soldi, nel corso di un lungo intasamento del mercato del credito, che condurrà a una lunga stagnazione. Credete che la trappola di liquidità creata artificialmente e che ha paralizzato per molti anni il Giappone non accadrà negli Stati Uniti? Ripensatoci: a quanto pare è già qui, ci racconta il FT.

Questi sono gli unici scenari in cui la politica di swapping di attivi andati a male per buoni titoli di tesoreria è sensata, per così dire. Al momento, gli unici pronti a credere allo Scenario 1 sono i banchieri di Wall Street, la Fed, e, forse, altre banche centrali. Per convincere tutti gli altri che i pezzi di carta sono effettivamente oro, evitando di intasare il credito creando l’effetto Giappone, qualcosa di più deve essere fatto che non semplicemente "convincere". E questo è ciò che la Fed sta facendo: il trasferimento di attivi a se stessa per sviare il rischio di controparte.
Il che implica l'acquisto a prezzi fittizi dei pezzi di carta. Il che implica la modifica del prezzo del denaro e dei titoli del Treasury, attraverso la modifica della loro offerta. Il che significa, alla fin fine, l’addebito dei 600-1000 miliardi di dollari di perdite del mercato immobiliare sul conto del contribuente, sia direttamente, sia indirettamente. La conclusione è evidente: non vi è alcun cambiamento «new school» di aspettative, ma un cambiamento «old school» nella domanda e offerta di beni e denaro, e tutti NOI dobbiamo essere pronti a pagarne il prezzo: deprezzamento del dollaro, inflazione e probabilmente una stagnazione o recessione più lunga. Il costo di queste manovre inflazionistiche lo stiamo già pagando attraverso deprezzamento del dollaro e caro-prezzo delle merci (oro, petrolio, rame, etc.), che si traducono in termini di inflazione (crescita del CPI). Per la lunga stagnazione dovremo attendere più a lungo, ed è a nostro avviso evitabile se il "modello Giappone" non finisce per imporsi come la scelta dominante.
Non sappiamo voi, ma noi preferiamo l’aggiustamento dei prezzi relativi che passa per la riduzione del valore delle abitazioni (e di quei benedetti pezzi di carta) subito, piuttosto che aumentare il prezzo di tutto il resto e subire una perdita di crescita economica per il prossimo quinquennio.

 

Fonte - noiseFromAmeriKa.org

 

 

 

  Venerdì 11 aprile 2008   Giovedì 17 aprile 2008   Domenica 20 aprile 2008  
       
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Locomotive fuori servizio

07 Aprile 2008 MILANO - di Giuseppe Turani

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Nei primi tre mesi dell´anno gli Stati Uniti hanno bruciato 230 mila posti di lavoro. Rispetto al totale del mercato del lavoro americano non si tratta di una grossa cifra. Ma, nonostante questo, il dato solleva preoccupazioni per almeno tre buone ragioni. La prima è che la perdita di posti di lavoro (cioè di buste paga, cioè di consumi) va avanti ormai da tre mesi, senza interruzioni. La perdita degli ultimi 80 mila posti (mese di marzo) ha fatto salire il tasso di disoccupazione americano sopra il 5 per cento, e questo è comunque un segnale di allarme. Infine, c´è il fatto che la perdita di posti di lavoro viene sempre "dopo" l´inizio del rallentamento produttivo, non prima. Conclusione: la crisi in America va avanti almeno da tre mesi.

A questo primo dato, di cronaca per così dire, si aggiungono le previsioni del Fondo monetario internazionale. Previsioni talmente nere che persino Bruxelles e il governatore della Banca d´Italia Draghi hanno protestato per la loro eccessiva severità. C´è da sperare, naturalmente, che il Fondo si sbagli (è già successo molte altre volte), ma, in ogni caso, su quelle previsioni si può ragionare e si può arrivare alla conclusione che non tutto è perduto e che si può sperare che il sole torni a splendere sull´economia di questo pianeta.
Che cosa dice infatti il Fondo? Spiega che nel 2008, che è un anno nero (petrolio e materie prime alle stelle, crisi del credito a seguito della vicenda subprime) l´economia mondiale crescerà comunque del 3,7 per cento. E questo con un´America praticamente ferma (0,5-0,6 per cento di crescita, secondo l´Fmi) e un´Europa che non arriva nemmeno all´1,5 per cento di aumento del Pil. Di fatto, la grande locomotiva americana è bloccata in officina per riparazioni e quella europea non brilla certo per la sua velocità. Nonostante questo, l´economia del pianeta crescerà del 3,7 per cento (invece del 4,1 previsto precedentemente). Insomma, si rallenta, ma continua a esserci vita sulla Terra. E questo significa almeno due cose molto importanti.
La prima è che di fronte al momentaneo "fuori servizio" delle due più tradizionali locomotive "occidentali" qualche anno fa il mondo avrebbe subìto nel suo complesso una battuta di arresto. Oggi, invece, sia pure dovendo convivere con la crisi dell´America e con il parziale rallentamento dell´Europa, intorno a noi abbiamo un´economia che cresce. Non è una differenza da poco e forse qualcuno vorrà ripensare ai "danni" della globalizzazione. In questo caso è un bene che altre aree del mondo abbiano trovato la via dello sviluppo. La seconda considerazione, che discende direttamente da quella appena vista, è che le aziende vitali e competitive troveranno comunque clienti, in un mondo che cresce quasi del 4 per cento. Non saranno qui dietro l´angolo, ma ci saranno.
E´ per questo che le previsioni del Fondo monetario per quanto riguarda l´Italia (di fatto vista a crescita zero per due anni) sono quasi certamente un errore vistoso. Disponiamo infatti di una task force di aziende (alcune migliaia) molto competitive e anche ben introdotte sui mercati asiatici. E´ molto probabile che, alla fine, il nostro paese faccia meglio di quanto dice oggi il Fondo monetario.

Infine, va segnalato che non si può escludere una ripresa in tempi abbastanza rapidi. Altri ricercatori (non quelli dell´Fmi) sostengono, ad esempio, uno scenario molto diverso. A partire da giugno, spiegano, negli Stati Uniti scatteranno i sostegni fiscali decisi dall´amministrazione federale. Nel frattempo la tempesta monetaria e di sfiducia prodotta dalla crisi dei subprime potrebbe essere superata (grazie all´intervento della Federal Reserve). E quindi già da giugno l´economia americana potrebbe dare importanti segni di risveglio. Non solo: se così fosse, nel 2009, invece di un altro anno di crisi profonda, potremmo avere un ritorno degli Stati Uniti ai loro abituali tassi di crescita (2-3 per cento). E a quel punto anche la situazione europea (e italiana) cambierebbe di segno. C´è una versione più moderata di questo scenario. Ed è la versione nella quale l´America non torna alla piena operatività nel 2009, ma solo nel 2010. Insomma, ci vuole più tempo, ma nella sostanza non cambia molto: quello che conta è che alla fine torni il sole sugli affari dell´economia.

Nessuno oggi può dire quale di queste ipotesi sia quella corretta. Gli elementi di incertezza sono troppo numerosi (dalle "code" dell´affare subprime al prezzo delle materie prime). Tutto quello che si può dire oggi è quello che si diceva all´inizio: anche prendendo per buono lo scenario del Fondo monetario (troppo negativo) si deve constatare che non siamo di fronte all´arresto del pianeta o a un suo blocco drammatico, ma a un serio rallentamento in alcune parti, accompagnate da una straordinaria vivacità in altre (quelle asiatiche e non solo). Con la prospettiva che in 12 o 24 mesi anche Europa e America tornino a funzionare, se non a pieno regime, con un po´ più di smalto di oggi. Dietro l´angolo, insomma, potrebbe esserci qualche buona sorpresa. E il Fondo monetario dovrà rivedere le sue cupe previsioni.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

Crisi: IN AMERICA STUDIANO IL MODELLO SVEDESE

08 Aprile 2008 NEW YORK - di Massimo Gaggi
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Nel reagire alla crisi finanziaria, la Federal Reserve ha cercato di evitare gli errori commessi 15 anni fa dal governo e dalle autorità monetarie di Tokio che fecero precipitare il Giappone in una stagnazione durata un decennio. I banchieri centrali di Washington hanno, però, esaminato anche un'altra crisi del credito — quella della Svezia all'inizio degli anni '90 — per vedere se qualcuno degli strumenti messi in campo allora dalle autorità di Stoccolma può tornare utile anche nell'America del 2008.

La crisi esplosa in Svezia nel 1990 è sorprendentemente simile a quelle degli Usa di oggi: enorme sviluppo del credito negli anni '80 con le banche che allargavano la loro attività a prodotti che non capivano fino in fondo e autorità di controllo poco preparate ad affrontare la nuova situazione. Raddoppio dei valori immobiliari favorito dalla grande liquidità disponibile. Scoppio della bolla e crisi delle banche piene di titoli obbligazionari il cui mercato era improvvisamente svanito.
Quando, nel '92, due grandi banche, esaurite le riserve, si accingevano a dichiarare bancarotta, governo e banca centrale intervennero garantendo col denaro pubblico l'attività degli istituti. Ma gli azionisti persero tutto. Fu creata un'agenzia — la Bank Support Authority — per dirigere il processo di risanamento del sistema bancario che, nel momento peggiore della crisi, fu controllato per il 22% direttamente dallo Stato. L'intervento funzionò: dopo una recessione pesante ma abbastanza breve, nel '94 l'economia riprese a crescere a ritmi superiori al 4% mentre le banche tornarono tutte al mercato. Ma il conto fu salato: tutta l'operazione costò al contribuente una cifra pari al 6% del Pil. Come se l'America di oggi fosse chiamata a pagare 850 miliardi di dollari per la crisi delle sue banche.
Ricetta svedese, dunque, impensabile per l'America? Probabilmente sì, ma più per la diversità della struttura del sistema finanziaria e per le enormi dimensioni dell'economia che per il costo della terapia.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

Capitalismo fasullo, Banche salvate dallo Stato

09 Aprile 2008 LUGANO - di Alfonso Tuor

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La crisi del sistema finanziario sembra essere entrata in un periodo di calma dovuto essenzialmente alla consapevolezza che il salvataggio della banca di investimento americana Bear Stearns significa che le autorità monetarie e politiche non permetteranno il fallimento di nessun istituto bancario. Questo giudizio è confortato dal rialzo dei titoli bancari e dalla riduzione del prezzo da pagare per assicurare i prestiti alle banche.
Tutto ciò non ha comunque ridotto il costo del rifinanziamento sui mercati e soprattutto non ha scalfito la ritrosia delle banche a prestarsi capitali l’un l’altra. Infatti nonostante le banche centrali continuino ad immettere liquidità non è diminuito di molto il differenziale dei tassi a breve rispetto ai tassi base.
L’allentamento temporaneo della tensione non vuole assolutamente dire che la crisi è superata, ma semplicemente che siamo entrati in una fase di bonaccia, rafforzata dell’aspettativa che la riunione del G7, che si terrà questa fine settimana, spiani definitivamente la strada a una ricapitalizzazione del sistema bancario occidentale con soldi della collettività.
Addirittura alcuni ipotizzano di assegnare questo compito al Fondo Monetario Internazionale e lo stesso FMI sembra felice di ritrovare un suo ruolo dopo essersi trovato senza lavoro per il miglioramento delle condizioni finanziarie di molti paesi in via di sviluppo e soprattutto dopo che anche alcuni paesi ancora bisognosi di aiuto non vogliono più sentire parlare di FMI, poiché i suoi piani di salvataggio si sono spesso rivelati piani di distruzione delle economie che si intendeva aiutare.
Che il sistema bancario necessiti di una ricapitalizzazione è fuori dubbio. Il motivo è molto semplice: le banche sono a corto di capitali e quindi non hanno mezzi propri a sufficienza per ammortizzare ulteriori perdite. A conferma di questa tesi si può usare l’esempio di UBS.
La maggiore banca svizzera ha finora denunciato perdite e rettifiche di valore per 37 miliardi di franchi e due aumenti di capitali per un totale di 28 miliardi di franchi. Le «procedure di urgenza» usate dimostrano che questi passi non erano solo necessari, ma addirittura indispensabili. Infatti nel primo caso si è ricorsi ad un fondo statale di Singapore e ad un anonimo investitore con l’emissione di obbligazioni convertibili obbligatoriamente per circa 13 miliardi di franchi. Nel secondo caso si sta procedendo ad un aumento di capitale di 15 miliardi di franchi immediatamente garantito da un sindacato formato da quattro grandi banche (sarebbe interessante conoscere quanto pagherà UBS per questa garanzia).

La situazione non è diversa per le banche americane che, come UBS, hanno usato i mezzi propri e si sono indebitate (o meglio hanno usato la leva) per fare grandi scommesse sui mercati. E le cifre cominciano ad emergere. Stando al «Wall Street Journal», i livelli di indebitamento di banche come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Merrill Lynch equivalgono a 30 volte i mezzi propri. Per meglio far capire cosa ciò significhi, il quotidiano americano scrive «è come se un’azienda o una famiglia fosse proprietaria solo del 3% di una casa e il restante 97% fosse coperto da crediti ipotecari». La realtà è ancora più grave, poiché i soldi presi a prestito venivano e vengono investiti in operazioni finanziarie ad alto rischio. Insomma queste banche di investimento sono in realtà dei grandi Hedge Funds.
Il più importante aiuto è l’implicita garanzia, confermata dal salvataggio della Bear Stearns, che nessuna banca fallirà. Ma c’è di più. Vi è lo stravolgimento di tutte le regole di finanziamento del sistema bancario da parte delle banche centrali, con l’accettazione come pegno di qualsiasi tipo di titolo. Infatti con le continue iniezioni di liquidità si è di fatto «nazionalizzato» questo mercato, trasferendo nei conti delle banche centrali gran parte dei titoli a rischio (nel caso degli Stati Uniti 300 miliardi di dollari di titoli da dicembre ad oggi).
Inoltre, agenzie parastatali come Freddie Mac e Fannie Mae, così come le Federal Home Loan Banks, sono state lanciate a garantire o a comprare titoli legati al mercato immobiliare americano per un totale di altri 300 miliardi di dollari. Queste operazioni, da un canto hanno alleggerito e di molto la pressione sul sistema bancario americano e hanno finora permesso di evitare altri crack bancari, dall’altro sono architettate in modo tale da non apparire per quello che in realtà sono, cioé un intervento dello Stato che si addossa i cattivi rischi delle banche.
Ma tutto ciò non basta e quindi si ipotizza l’intervento dell’FMI, anche perché si è perfettamente consapevoli che la recessione è destinata a far aumentare la quantità dei crediti inesigibili e quindi a peggiorare le condizioni del sistema bancario. Ma questa è musica delle prossime settimane. Oggi è importante comprendere che è in corso una grande operazione di sussidiamento pubblico al sistema finanziario e che addirittura se ne sta preparando un’altra di dimensioni ancora maggiori.
Nonostante i tentativi di cammuffare questi aiuti statali ai signori dei bonus e delle buonuscite milionarie, la continuazione della crisi impedirà di raggiungere lo scopo di salvaguardare i meccanismi della nuova ingegneria finanziaria, che è quel gioco infernale fatto di miliardi e miliardi di debiti che è la causa prima dell’attuale crisi.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

  Mercoledì 23 aprile 2008   Martedì 29 aprile 2008   Mercoledì 30 aprile 2008  
       
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I gestori guardano oltre la crisi

11/04/2008 Milano - di Sara Silano
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E’ ancora presto per parlare di un maggior ottimismo, ma i gestori interpellati da Morningstar nel consueto sondaggio mensile, cominciano a guardare oltre la crisi creditizia che ha colpito i mercati a partire dall’agosto scorso. Soprattutto, stanno spostando l’attenzione sul quadro macro, che si presenta in chiaroscuro. Il Fondo monetario ha abbassato le stime sulla crescita mondiale al 3,7% per il 2008, ma la revisione del Prodotto interno lordo, soprattutto di alcuni Stati, è parsa eccessiva.

Caro-vita ed euro forte pesano sull’Europa

Nell’ultimo mese i gestori hanno ribadito le preoccupazioni sulla crescita in Eurolandia, già manifestate in passato. La divisa comunitaria ha toccato nuovi massimi contro il dollaro, oltre quota 1,59, per poi ripiegare dopo le parole del presidente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, che ha menzionato i rischi di contrazione dell’economia, pur ribadendo le preoccupazioni per un aumento dell’inflazione. Di fronte a questa situazione, secondo alcuni fund manager, la Bce dovrà cambiare rotta e tagliare, nella seconda parte dell’anno, i tassi di interesse ora fermi al 4%.

Gran parte degli intervistati teme, inoltre, una riduzione degli utili, ma non manca chi spera nella stagione di dividendi per ridare fiato ai mercati. Rispetto a marzo, il numero di pessimisti è rimasto sostanzialmente invariato (30%), mentre sono leggermente aumentati gli ottimisti (34,8%).

Usa tra recessione e crisi finanziaria

Sugli Stati Uniti le opinioni dei gestori sono divergenti. Secondo alcuni (26%), Wall Street continuerà a scendere perché sia la crisi creditizia sia la recessione dureranno a lungo. Secondo altri, la Fed e il Governo a stelle e strisce hanno adottato interventi monetari e fiscali veloci ed efficaci, che aiuteranno ad evitare il peggio.

Il processo di ri-capitalizzazione delle banche e ripulitura dei bilanci, tuttavia, non è finito. Inoltre, la crescita rimarrà debole nel resto dell’anno e nel 2009 ed è tutto da stimare il costo che avranno le politiche a sostegno della congiuntura in termini di inflazione e debito pubblico. Il 43,5% dei gestori, comunque, prevede un rialzo della Borsa americana nei prossimi sei mesi, nella convinzione che la fase più buia sia passata e che le valutazioni siano attraenti.

Il Giappone non sarà voce fuori dal coro

La percentuale di gestori che prevede un rialzo della Borsa di Tokyo si equivale a quella di chi stima una discesa (34,8%). Il listino è molto sensibile ai dati sull’economia americana, essendo il principale mercato di sbocco delle merci nipponiche. Le preoccupazioni per la recessione negli Stati Uniti si sommano ai problemi cronici interni, alla forza dello yen e agli elevati prezzi delle materie prime. Tutti questi fattori deprimono gli utili e gli investimenti aziendali, ma, secondo alcuni fund manager, la crisi economica sarà meno accentuata rispetto all’America. L’area rimane interessante in un’ottica di medio-lungo periodo ma non di breve.

La Bce non potrà ignorare la crisi

Nella riunione del 10 aprile, la Banca centrale europea ha deciso di lasciare invariati i tassi di interesse al 4%, per contrastare un’inflazione che rimarrà “significativamente” sopra il 2% nei prossimi mesi. Tuttavia, dicono i gestori, l’istituto guidato da Jean Claude Trichet non potrà ignorare il rallentamento dell’economia e sarà costretta ad allentare la politica monetaria. In ogni caso, suggeriscono di privilegiare le scadenze brevi delle obbligazioni, che sono meno sensibili all’inflazione.

Un altro tema al centro dell’attenzione è l’allargamento degli spread (differenziali) dei titoli governativi di alcuni Paesi dell’area Euro rispetto al Bund tedesco che è utilizzato come benchmark di riferimento. “E’ probabile una riduzione degli spread una volta finita la crisi di liquidità”, sostiene Cristiano Busnardo, amministratore delegato di SG Asset Management Italia Sim. “Ma è improbabile che si ritorni ai livelli pre-crisi poiché questi erano frutto di un contesto caratterizzato da eccessiva liquidità”.

Fed verso la fine dei tagli

La maggior parte dei gestori preferisce i titoli governativi europei a quelli statunitensi, perché pensano che la fase di ribasso dei tassi stia volgendo al termine e che il mercato sconti uno scenario peggiore rispetto a quello reale. La metà degli intervistati prevede un calo dei prezzi Oltreoceano contro il 32% che stima una diminuzione nel Vecchio continente. A un cambio di direzione da parte della Federal Reserve potrebbe contribuire l’aumento dell’inflazione dovuto all’incremento dei prezzi dell’energia e dei beni alimentari.

Dollaro, aumentano i consensi

Nell’ultimo mese è balzata in alto la percentuale di gestori che stimano un riscatto del dollaro nei confronti dell’euro, passando dal 47,6 al 57%. Anche se, avvertono, la ripresa sarà graduale perché l’economia americana è in una fase recessiva. Un importante punto di svolta è considerato il momento in cui la Bce comincerà a tagliare i tassi. Agli attuali livelli, seppur timidamente, i fund manager ritengono opportuno non essere completamente scarichi di dollari.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 1 e l’8 aprile, 23 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, American Express, Anima Sgr, Axa Im, Banca Profilo, Bnp Paribas Am, Caam, Clariden Leu, Dws Investments, East Capital, Euromobiliare Sgr, Eurizon Capital, Fideuram asset management, Henderson Global Investors, Ing Im, Investitori, Julius Baer, Mps Am,, Pioneer Im, Sella gestioni, Sgam Italia Sim, Total Return Sgr. 

 

Fonte - Morningstar

 

 

 

 

Borsa & Mercati: altri 5 anni di sofferenza

30 Aprile 2008 NEW YORK - di M.T.C.

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La crisi sarà lunga, almeno cinque anni, e profonda. Per difendersi, e anche guadagnare, bisogna scommettere sul ribasso degli indici azionari e rifugiarsi nell'oro. Lo raccomanda David Tice, gestore del Prudent bear fund, un fondo Orso quotato al Nasdaq (BEARX) che usa future e opzioni per approfittare del calo delle quotazioni. Dall'11 ottobre 2007 — massimo storico dell'indice Dow Jones — la sua performance è stata del 10% contro il -10% dello stesso Djia. Dal suo ufficio a Dallas, Texas, Tice spiega la sua strategia.

Allora il peggio deve ancora venire? «Certo. Wall Street è scesa poco finora: solo il 6% da inizio 2008 e il 7% nell'ultimo anno. Troppo poco per la più grande catastrofe nella storia del mercato creditizio».

L'attuale crisi è peggiore delle precedenti, per esempio di quella del '98 (default dei bond russi e collasso dell'hedge fund Ltcm) o del 2000-2001, sboom della Bolla di Internet? «Non c'è dubbio. Questa volta è un intero sistema, quello della finanza strutturata, ad essere crollato. Il mercato ha perso la fiducia in importanti business come l'assicurazione dei bond, basti vedere il crollo del leader di questo settore, Mbia. In generale tutti gli affari e i titoli basati sui mutui immobiliari sono a rischio».


La fiducia è un fattore psicologico: quanto pesa sull'economia reale? «È un indicatore importante. L'indice della fiducia dei consumatori americani è al minimo degli ultimi 18 anni, perché il loro benessere dipende molto dal valore delle case: il prezzo mediano di una casa in California è crollato da 600 a 400 mila dollari, e questo significa che i proprietari non potranno più rifinanziarsi, come hanno fatto negli ultimi dieci anni per migliaia di miliardi di dollari. Il rifinanziamento è un meccanismo per cui, aumentando il prezzo della tua casa, tu la metti in pegno per avere in prestito soldi che usi per altre spese, e lo puoi fare più volte, fino a quando le quotazioni immobiliari salgono. Ora il gioco si è rotto e i consumatori freneranno gli acquisti di automobili, computer, televisori, di tutti i beni non indispensabili».

Ma molte multinazionali Usa hanno appena dichiarato profitti ottimi per il primo trimestre 2008, come Ibm, Google, McDonald's. Non è una smentita delle previsioni più nere? «Ibm ha una buona parte del fatturato all'estero; Google ha un business unico; McDonald's sta andando bene perché gli americani invece di mangiare costose bistecche risparmiano con gli hamburger. In realtà circa un terzo delle 500 aziende dell'indice S&P che hanno finora pubblicato i risultati del primo trimestre hanno deluso le aspettative degli analisti, è un tasso di sorprese negative molto alto».

Le esportazioni, facilitate dal dollaro debole, potranno aiutare i profitti non solo di Ibm ma anche delle altre società più presenti all'estero, o no? «Forse l'export americano andrà bene ancora per qualche mese. Ma questa crisi è un fenomeno globale. Lo ha appena denunciato il Fondo monetario internazionale. Ci sono bolle immobiliari anche in Irlanda, Spagna e altri Paesi. La Borsa cinese è scesa del 45% dai massimi di pochi mesi fa. Quindi anche la domanda mondiale rallenterà».

E l'arrivo a casa degli americani degli assegni dello «stimolo economico», previsto per maggio, non avrà effetti positivi? «Quando la Casa Bianca e il Congresso hanno varato quel provvedimento, lo scorso gennaio, il petrolio costava 88 dollari, ora è vicino a quota 120: il rincaro si è mangiato una bella fetta dei 110 miliardi di dollari circa che dovrebbero finire nelle tasche dei consumatori».

Non si salva alcun settore o titolo di Wall Street? «Con il Bear fund stiamo scommettendo al ribasso su parecchi titoli e indici, in particolare dei settori della finanza, della tecnologia e dei consumi non di base. L'unico comparto su cui siamo positivi è quello delle compagnie minerarie aurifere».

Ma non c'è anche una bolla dell'oro, con i prezzi così alti? «Forse c'è qualche sacca di speculazione su alcune materie prime. Ma con il governatore della Banca centrale Usa Bernanke soprannominato Elicottero-Ben per la sua prontezza nel salvare tutti, mentre la fiducia del mercato verso il sistema finanziario è ai minimi, l'oro è il miglior rifugio».

Quanto durerà questa crisi? «A lungo, almeno cinque anni».

 

Fonte - M.T.C.

 

 

 

 

 

tassi usa: LA FED LI ABBASSA DELLO 0.25%

30 Aprile 2008 20:15 NEW YORK - di WSI
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La Banca Centrale americana ha abbassato il tasso sui fed funds di 25 punti base al 2.00%. Si tratta del settimo taglio consecutivo. Rivisto al ribasso dello 0.25% anche il tasso di sconto, al 2.25%. Due voti contrari.
Il Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Federal Reserve, ha tagliato il costo del denaro degli Stati Uniti di ¼ di punto percentuale, cioe' 0.25%. Il target sui fed funds scende dunque al 2.00%. Si tratta del settimo taglio consecutivo che segue quello dello 0.75% di meta’ marzo che aveva portato i tassi a breve al 2.25% .
In un'operazione collegata, il Comitato dei Governatori (Board of Governors) ha anche approvato all'unanimita' un abbassamento di 25 punti base del tasso di sconto al 2.25%.
 

Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di abbassare il target sui fed funds di 25 punti base al 2.00%.

Le ultime informazioni indicano che l’attivita’ economica resta debole. La spesa delle famiglie e delle aziende e’ rallentata e le condizioni del mercato del lavoro si sono indebolite ulteriormente. I mercati finanziairi restano sotto un considerevole stress, le peggiorate condizioni del credito e l’ulteriore contrazione del mercato immobiliare continueranno a pesare con molte probabilita’ sulla crescita economica nei prossimi trimestri

Sebbe le ultime letture sull’inflazione "core" sono in qualche modo migliorate, i prezzi energetici e di altre commodities sono aumentati, e alcuni indicatori sulle aspettative inflazionistiche sono cresciuti negli ultimi mesi. Il Comitato si attende una moderazione dell’inflazione nei prossimi trimestri, in risposta ad un livellamento dei prezzi dell’energia e di altre commodities ed un allentamento delle pressioni sull’utilizzazione delle risorse. Detto cio’, l’incertezza sull’outlook inflazionistico resta elevata. Sara’ necessario continuare a monitorare attentamente gli sviluppi dell’inflazione.

Le azioni di politica monetaria condotte fino ad oggi, in combinazione con le misure in atto per garantire la liquidita’ sul mercato, dovrebbero promuovere una crescita moderata nel tempo e mitigare i rischi per l’attivita’ economica. Il Comitato continuera' a monitorare gli sviluppi economici e finanziari ed agira' come necessario per promuovere una crescita economica sostenibile e la stabilita' dei prezzi.


A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin; Sandra Pianalto; Gary H. Stern; e Kevin M. Warsh. A votare contro sono stati Richard W. Fisher e Charles I. Plosser che avrebbero preferito non cambiare il target sui fed funds in questo incontro.

In un'operazione collegata, il Comitato dei Governatori (Board of Governors) ha approvato all'unanimita' un abbassamento di 25 punti base del tasso di sconto al 2.25%. Nel prendere questa decisione, il Comitato ha approvato le richieste formulate dai Comitati dei Direttori (Boards of Directors) della Federal Reserve Bank di New York, Cleveland, Atlanta e San Francisco.

Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di tagliare il tasso interbancario al 2.00%:

The Federal Open Market Committee decided today to lower its target for the federal funds rate 25 basis points to 2 percent.

Recent information indicates that economic activity remains weak. Household and business spending has been subdued and labor markets have softened further. Financial markets remain under considerable stress, and tight credit conditions and the deepening housing contraction are likely to weigh on economic growth over the next few quarters.

Although readings on core inflation have improved somewhat, energy and other commodity prices have increased, and some indicators of inflation expectations have risen in recent months. The Committee expects inflation to moderate in coming quarters, reflecting a projected leveling-out of energy and other commodity prices and an easing of pressures on resource utilization. Still, uncertainty about the inflation outlook remains high. It will be necessary to continue to monitor inflation developments carefully.

The substantial easing of monetary policy to date, combined with ongoing measures to foster market liquidity, should help to promote moderate growth over time and to mitigate risks to economic activity. The Committee will continue to monitor economic and financial developments and will act as needed to promote sustainable economic growth and price stability.

Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin; Sandra Pianalto; Gary H. Stern; and Kevin M. Warsh. Voting against were Richard W. Fisher and Charles I. Plosser, who preferred no change in the target for the federal funds rate at this meeting.

In a related action, the Board of Governors unanimously approved a 25-basis-point decrease in the discount rate to 2-1/4 percent. In taking this action, the Board approved the requests submitted by the Boards of Directors of the Federal Reserve Banks of New York, Cleveland, Atlanta, and San Francisco.

 

Fonte - Wallstreetitalia.com

 

 

 

 

Borsa & Mercati: balle é il momento di comprare

30 Aprile 2008 MILANO - di Massimiliano Malandra

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Non tutti considerano Wall Street terra bruciata o un cumulo di macerie che sovrasta i subprime. «Io sto comprando, e il Dow Jones mi convince di più: tutte blue chip sicure e meno volatili». Parola di Victor Sperandeo, speculatore di professione fin dal lontano 1968.

«Trader Vic», così soprannominato, praticava il day-trading quando non esistevano ancora i computer «e i grafici - ricorda - si compilavano a matita su carta millimetrata». Ma aveva già le idee chiare. Poco più che ventenne, era il maggior intermediario al mondo di opzioni fuori Borsa. Sono passati molti anni, ma il pallino degli investimenti è rimasto. «Il mio portafoglio è investito al 50% sul Dow e al 20% su S&P500. Poi non trascuro la tecnologia del Nasdaq, dove ci ho messo il rimanente 30 per cento».


B&F lo ha incontrato in occasione della presentazione, organizzata da Hsbc, del nuovo indice S&P Cti dedicato alle commodity, su cui la banca inglese ha strutturato un proprio fondo.

Mr. Sperandeo, ci sono comparti specifici da privilegiare in questo momento? Non mi reputo un grande analista, quindi in generale compro l’intero indice, non i singoli settori. In questo modo mi assumo il rischio sistematico dell’investimento in titoli azionari, ma almeno evito quello specifico fornito dai singoli comparti.

A parte Wall Street cosa pensa dell’azionario europeo? Ci sono tre indici che mi sembrano più interessanti di altri, il Cac francese, il Ftse inglese e l’Ibex spagnolo. Anche il Dax mi piace, ma per entrare su questo mercato aspetterei un segnale preciso.

Un segnale tecnico? No, una mossa del «tedesco» Jean-Claude Trichet.

Ma se è francese... Lo so, ma visto l’atteggiamento che ha in tema di tassi e inflazione direi che è molto più tedesco della Bundesbank. Un dollaro sotto 1,60 nei confronti dell’euro è insostenibile nell’Eurozona e minaccia di mandare in stallo l’economia. E così Trichet prima o poi, ma io credo abbastanza a breve, sarà costretto ad abbassare i tassi di interesse. A quel punto anche il Dax tornerà interessante: la Germania ha il maggior export al mondo e non potrà che trarre beneficio da un riallineamento verso il basso dell’euro.

Cosa pensa, invece, di quanto sta facendo la Fed? Negli Stati Uniti è un anno elettorale, non va dimenticato. E quindi tutto quello che si vuole lo si chiede alla politica e in genere lo si ottiene senza particolari problemi (???). Bernanke, da parte sua, non ha lesinato. La politica del denaro facile della Federal reserve sta comunque ottenendo i propri effetti. E i primi risultati si vedono proprio a Wall Street. Certo, l’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’obbligazionario: con questi tassi e la liquidità che la Fed ha immesso nel sistema, preferisco tenermi ben lontano da Treasury e T-Bond.

La recessione a suo giudizio, sarà breve o prolungata? Propendo per un periodo breve. Motivo per cui le commodity rimangono un asset class assolutamente da tenere. Il petrolio lo vedo già a 135 dollari al barile. Più in generale rimango convinto che anche sui metalli preziosi e industriali, sia in atto un bull market di lungo periodo. E che le prese di profitto recenti, che giudico semplici correzioni, siano interessanti occasioni per accumulare.

Per quali motivi è così bullish? L’abbondante liquidità immessa nel sistema e l’inflazione in crescita sono un cocktail ideale per le materie di base. E l’offerta stagnante, combinata a una domanda crescente, gettano solo altra benzina sul fuoco, per restare in tema.

 

 

Fonte - Borsa&Finanza