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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Veltroni: "Disponibili alle riforme"

Lo Tsunami italiano

Casini: "Abbiamo retto la botta Verso un'opposizione costruttiva"

Quel che di Silvio nessuno capisce

Boselli lascia la guida dei Socialisti: "Veltroni ha regalato il paese a Silvio"

Cavaliere ci stupisca (se può)

Berlusconi: "Governerò per 5 anni"

L'eterno ritorno del Cavaliere

Addio al Parlamento: da Bertinotti alla Santanchè, la carica dei "silurati"

La (seconda) giornata nera di Veltroni

   

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  Lunedì 14 aprile 2008   Martedì 15 aprile 2008   Martedì 15 aprile 2008  
       
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Veltroni: "Disponibili alle riforme"

14 Aprile 2008 18,34 ROMA - di La Stampa on line
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Il leader del Pd ammette sconfitta: «Faremo opposizione responsabile».

Raccontano che perfino uno navigato come Massimo D’Alema, davanti a quei primi exit poll, non abbia nascosto l’entusiasmo. Insieme a Walter Veltroni, chiusi nella stanza di Dario Franceschini al loft, ha accarezzato, come tutto lo stato maggiore del Pd, l’ebbrezza dell’impossibile che diventa realtà. Poi nel corso del pomeriggio, man mano che la stanza di Franceschini diventava sempre più affollata di big del Pd, quell’iniziale euforia si è spenta a poco a poco.

La delusione c’è stata, ma senza diventare eccessiva perchè, spiegano dal loft, il Partito democratico non ha deluso, è andato bene e ha guadagnato al Senato almeno 6-7 punti in più rispetto a due anni fa e comunque si attesta «sui 34-35%», come spiega Veltroni ai giornalisti quando, attorno alle 20, si è presentato in sala stampa con tutto lo stato maggiore del Pd attorno a lui. Una "foto di gruppo" che per qualcuno nel partito è già il segno di un aggiustamento della corsa, finora solitaria, del leader del Pd. «Certo, ora, bisognerà rinforzare la squadra. Pensare a una gestione più collegiale», viene spiegato. Il momento per gli assestamenti interni però parte da domani mattina.

Oggi c’è il racconto di un lungo pomeriggio iniziato con una speranza inconfessabile e finito con Veltroni che arriva in sala stampa a dichiarare la sconfitta. Un gesto, questo del leader del Pd, che come spiega il fido Ermete Realacci rappresenta una rottura con vecchi schemi. «Quando mai un leader si è presentato ai giornalisti alle 20 di sera a dichiarare la sconfitta e a raccontare di aver telefonato all’avversario per complimentarsi? Cose da Paese normale che da noi non si erano mai viste fino ad oggi», osserva Realacci.Una telefonata, quella a Silvio Berlusconi, che si inserisce nel solco del dialogo tra maggioranza e opposizione su cui tanto ha insistito Veltroni in questi mesi. Ed è proprio questo uno dei primissimi messaggi che il segretario del Pd invia al futuro premier, che nemmeno oggi ha nominato per nome ma semplicemente «il leader del Popolo delle liberta».

Riforme istituzionali, insieme, da subito. «Sono e restano la nostra stella polare», scandisce Veltroni augurandosi che il governo Berlusconi sappia muoversi nel rispetto delle istituzioni, quello stesso evocato dal segretario del Pd nella lettera inviata al Cavaliere e che appare minato dal grande successo della Lega. Per Veltroni il successo della Lega pone un’ipoteca pesante sul governo Berlusconi, perchè «se c’è un dato chiaro è che il Pdl si riduce e la Lega si rafforza», sottolinea il leader del Pd, che evidenzia come ci sia stato un riequilibrio nelle forze della destra che ha favorito il partito di Umberto Bossi. Un assestamento che da una parte rende il Carroccio determinante e dall’altra esaspera le diversità insite nella coalizione di destra. «È una maggioranza che non so quanto potrà durare», profetizza Veltroni. Il leader del Partito democratico nel suo incontro con i giornalisti non fa parola invece della clamorosa sconfitta della Sinistra-L’Arcobaleno che allo stato è fuori dal Parlamento.

Veltroni evidenzia soltanto come la scelta del Pd di andare solo abbia determinato un terremoto nel panorama politico italiano. «Una sconfitta di queste dimensioni non ce l’aspettavamo davvero», dice Antonello Soro parlando della Sinistra- L’Arcobaleno. E Realacci conferma che la sorpresa sui dati della Sinistra è stata generale nel Pd. «Un pò dei loro voti sono andati a noi ma credo che la Sinistra abbia scontato soprattutto l’astensione dei delusi», è l’opinione di Realacci. Dunque in Parlamento, se le cose andranno così, non ci sarà nessuno seduto a sinistra del Partito democratico che, come dice lo storico dirigente Alfredo Reiclin, «resta l’unica forza riformista in Parlamento». Una forza che Veltroni ha assicurato di guidare fino a portarla al governo del Paese. «Da adesso, da qui in avanti lavoreremo per costruire le condizioni perchè l’Italia possa avere una guida riformista al governo. E sarà da qui in avanti il nostro impegno, il nostro lavoro, ciò a cui dedicheremo -dice Veltroni congedandosi dai cronisti- tutte le nostre forze e tutte le nostre energie».
 

 

 

Casini: "Abbiamo retto la botta Verso un'opposizione costruttiva"

14 Aprile 2008 19,32 ROMA - di La Stampa on line
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Il leader dell'Udc riesce a sorridere: «Risultato tutto sommato positivo»

L’unione di centro ha ottenuto «un risultato tutto sommato positivo». Il voto utile verso il Pd e il Pdl «evidentemente c’è stato» ma «siamo gli unici ad aver retto la botta». Lo ha detto il candidato premier dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, commentando i risultati delle elezioni. «Voglio ringraziare gli italiani e le italiane che ci hanno sostenuto in questa battaglia difficile - ha aggiunto Casini - non siamo degli ingenui e il fatto che il nostro partito superi il 6% è una grande soddisfazione. In una condizione praticamente impossibile siamo gli unici ad aver retto la botta». A chi gli ha domandato se nel Paese si profilasse una sorta di bipartitismo, Casini ha risposto: «Ci sono diversi milioni di elettori che hanno scelto noi e Di Pietro. Parlerei piuttosto di una sorta di sistema tedesco che si è generato senza avere una legge elettorale alla tedesca».

Giovanardi: metà degli elettori sono passati con noi
«La scommessa comune era il Ppe lanciato da Berlusconi e possiamo dire che i moderati italiani hanno raccolto quella sfida e stanno con noi». Lo afferma Carlo Giovanardi appena giunto all’Auditorium della tecnica, stato maggiore del Pdl, dove in queste ore sta crescendo un clima di felicità per l’esito elettorale. «Più di metà dell’Udc - commenta Giovanardi - è venuto con noi. Ora - prosegue - il dialogo con loro sarà difficile ma non da parte nostra. Per noi le porte sono aperte ma da quella parte già emergono due anime conflittuali tra loro: non c’è solo Casini ma anche Pezzotta, De Mita e Tabacci che fanno dell’antiberlusconismo la loro bandiera».

 

 

ELEZIONI: Boselli lascia la guida dei Socialisti: "Veltroni ha regalato il paese a Silvio"

14 Aprile 2008 20,42 ROMA - di La Stampa on line
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Psi sotto l'1 per cento, il segretario: «E' la più grande sconfitta dal 1948»

Per la prima volta dal 1948, il partito socialista non siederà nell’emiciclo del Parlamento italiano. Con meno dell’1% infatti le urne 2008 non consegnano neanche un seggio agli eredi di Turati. Per il segretario Enrico Boselli, che puntava a riannodare i fili della diaspora socialista post Tangentopoli, è una sconfitta da cui non si possono prendere le distanze: «Non credo che sarò ancora io a guidare il Partito socialista», dice infatti non appena i dati iniziano ad assumere un profilo certo.

Prima dell’estate, presumibilmente, si tireranno le fila in un congresso. Era un appuntamento annunciato: si sarebbe dovuto tenere in primavera, se non ci fossero state le elezioni, per parlare della nuova casa socialista, di come costruirla; ora certo avrà tutto un altro sapore: di fronte a quella platea, infatti, il numero uno dei socialisti si presenterà dimissionario. Una scelta di prassi, si sottolinea, e che sarebbe corretto prendessero tutti i leader delle forze che non hanno vinto la battaglia con Berlusconi. Veltroni compreso.

L’accusa al segretario del Pd è univoca: ha prosciugato la sinistra, dicono all’unisono Valdo Spini e Gianni De Michelis. Peccato che, non mancano di sottolineare, il pressing per il voto utile non sia stato altrettanto efficace nei confronti del «centro e sulla destra». Forse, aggiunge Spini, «una coalizione più ampia avrebbe dato maggiormente l’impressione di voler correre per la vittoria».

La decisione di correre da soli continua a sembrare inspiegabile a Emma Bonino: «Non ho capito la loro scelta che mi sembrava, fin dall’inizio, di testimonianza, non la so leggere. Ma ai socialisti - è il messaggio dell’ex alleata - voglio dire di non "sbracare", di non deprimersi».

 

 

Berlusconi: "Governerò per 5 anni"

14 Aprile 2008 22,10 ROMA - di La Stampa on line
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Il Cavaliere: una grande responsabilità E Maroni: «Non è un voto di protesta»

Si riparte dal 2006. Silvio Berlusconi è pronto a riprendere il cammino interrotto da elezioni «irregolari» e portare a compimento il suo progetto di «ammodernamento del Paese». Il leader del Pdl rompe il silenzio solo in serata, quando lo spoglio è già molto avanti e si escludono sorprese. Il Cavaliere si collega telefonicamente con Porta a porta per ringraziare «commosso» tutti gli italiani che gli hanno accordato ancora una volta fiducia. E per lanciare messaggi concilianti a ex alleati, come l’Udc di Pier Ferdinando Casini, e avversari, come il Pd di Walter Veltroni.

Solo domani Berlusconi rientrerà a Roma. Oggi ha fatto la spola tra la residenza di Arcore e la villa di Macherio, dividendosi tra famiglia e collaboratori. A metà pomeriggio, il Cavaliere ha visitato l’università del pensiero liberale, la scuola di alta formazione voluta da Berlusconi e che dovrebbe aprire i battenti dopo l’estate. A risultati ormai sicuri, una folla di sostenitori si è riunita davanti a villa San Martino per festeggiare. Berlusconi, invece, festeggerà con i suoi collaboratori di vecchia data. A cena ad Arcore, tra gli altri, Fedele Confalonieri, Marcello Dell’Utri, Adriano Galliani, Giulio Andreani. Un appuntamento al quale si aggiungerà anche il leader della Lega, Umberto Bossi.

Dopo una giornata senza dichiarazioni, Berlusconi irrompe telefonicamente nel salotto di Bruno Vespa. «Sento una grande responsabilità perchè quelli che abbiamo davanti saranno mesi e anni difficili che richiederanno una prova di governo di straordinaria forza e capacità riformatrice. Lavorerò con grande impegno -promette Berlusconi- mettendo a frutto la mia esperienza per i proissimi 5 anni, che saranno decisivi per l’ammodernamento del paese». Il Cavaliere non si mostra sorpreso del risultato. «Avevo sondaggi che fotografano bene la realtà», spiega. E guarda avanti: per formare il governo «non ci vorrà molto tempo», perchè «ho già tutto in testa».

Ma questa volta la situazione economica è critica, quindi servono uomini di esperienza che conoscono i problemi del paese. Gli alleati sono d’accordo? «A quanto mi risulta sì», taglia corto Berlusconi. Il cavaliere si rivolge a Walter Veltroni, del quale ha apprezzato il fair play per aver ammesso la sconfitta. Quella con il leader del Pd, «è stata una telefonata che aveva annunciato e si è conclusa con poche parole, con un augurio di buon lavoro che -ammette Berlusconi- ho gradito». E rilancia il dialogo con l’opposizione: «Noi -spiega il leader del Pdl- siamo sempre stati aperti nei confronti dell’opposizione per lavorare assieme e ad accettare il loro voto, là dove i nostri provvedimenti anche loro li vedessero nell’interesse del paese». «Quindi -garantisce- non cambieremo assolutamente nulla di questo nostro atteggiamento che è stato sempre aperto e dialogante».

Berlusconi non affonda il colpo nemmeno con Casini, che a sua volta si è detto pronto a mettere da parte le polemiche da campagna elettorale e ha promesso una opposizione costruttiva. «Noi -avverte Berlusconi- andremo d’accordo con tutti coloro che vorranno lavorare con noi per il bene del paese». Berlusconi traccia già le linee guida di un futuro governo. «Ci impegneremo subito per risolvere l’emergenza rifiuti e il problema Alitalia», ribadisce. E poi, «aiuti alle famiglie, agli anziani, ai giovani e alle imprese, come abbiamo promesso in campagna elettorale» e «provvederemo con urgenza alla riapertura dei cantieri delle grandi opere e del piano casa, per dare una casa ai giovani che ancora non ce l’hanno, a partire dalle città capoluogo». «Da subito -insiste ancora Berlusconi- metteremo mano al lungo e duro lavoro necessario per la digitalizzazione e riorganizzazione della Pubblica amministrazione e per la riduzione dell’evasione fiscale».

Il risultato della Lega, che ha sfiorato il 6 per cento, fa esplodere l'entusiasmo del leader Bossi: «La gente non ci ha dato il voto per andare a governare con la sinistra. Abbiamo vinto noi e governiamo noi. Ci aspettavamo questo risultato. Vedevamo le persone nelle piazze, l’impressione era che la gente ci voleva bene e così è stato». Dice Maroni: «Con Berlusconi ci basta realizzare il programma. La Lega è un partito che ha un grande progetto di riforma dello stato in senso federale. Abbiamo sottoscritto un programma che parla sia di federalismo, sia delle cose da fare per il Sud. Quello per noi è il vangelo e ci impegneremo a realizzarlo. Il resto sono chiacchiere di chi non ha digerito la sconfitta». Maroni ha poi chiesto di «farla finita con la storia che quello per la Lega è un voto di protesta. Siamo un grande partito che rappresenta l’area più sviluppata del Paese».

 

 

Addio al Parlamento: da Bertinotti alla Santanchè, la carica dei "silurati"

14 Aprile 2008 23,22 ROMA - di La Stampa on line
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E' stato uno uno "tsunami" elettorale quello che si è abbattuto sul Parlamento che esce dal voto. Sono tanti i leader e le personalità che, dopo aver segnato questi ultimi due anni di legislatura, si ritrovano senza un seggio in Parlamento. Su tutti il veterano Fausto Bertinotti, che dopo aver guidato Montecitorio è stato tagliato fuori due volte: come leader della Sinistra Arcobaleno e come segretario del Prc.

L’operazione ghigliottina, condotta dalla soglia di sbarramento, ha fatto cadere le teste di tutti e quattro i leader dei partiti della sinistra che avevano dato vita alla sinistra Arcobaleno. Anzi tre, visto che Oliviero Diliberto, segretario del Pdci aveva già deciso di lasciare il suo seggio ad un operaio della Tyssenkrupp, Ciro Argentino, che però, dato l’esito elettorale, non approderàa Montecitorio, rendendo nullo il sacrificio di Diliberto. Restano fuori anche il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio e Fabio Mussi, il "capo" della Sinistra Democratica. "Silurati" anche Enrico Boselli, leader e candidato-premier del Partito Socialista, e Franco Grillini, presidente onorario dell’Arcigay.

Seggi preclusi anche per il "trio" della Destra: Daniela Santanchè, Francesco Storace e Teodoro Buontempo. Non varcheranno i portoni del Parlamento (almeno per questa sedicesima legislatura) neanche gli antagonisti del Pd, Willer Bordon e Roberto Manzione che avevano dato vita all’Unione Democratica dei consumatori. Stop alle goliardate e alle provocazioni di Francesco Caruso: il no global che aveva fatto il suo esordio alla Camera "traghettato" dal Prc questa volta è rimasto al palo insieme alla pattuglia della Sinistra Arcobaleno. Stesso destino per Luxuria, la prima transgender in Parlamento che proprio per il suo "status" era stata presa di mira dall’azzurra Elisabetta Gardini che voleva imporre alla collega l’utilizzo della toilette destinata agli uomini.

 

 

 

 

  Martedì 15 aprile 2008   Martedì 15 aprile 2008   Martedì 15 aprile 2008  
       
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Lo Tsunami italiano

16 Aprile 2008 14:20 LUGANO - di Piero Ostellino

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È stato uno tsunami. Che ha travolto tutto. Partiti, uomini politici, giornali, giornalisti, sondaggisti. Domenica, Eugenio Scalfari aveva scritto su «Repubblica» che non bisognava votare Berlusconi perché è (sarebbe) «un imbroglione», «un venditore». Come dire che non lo si doveva votare perché ha pochi capelli. Una ulteriore manifestazione della profondità di pensiero del Fondatore di un giornale dove non sai mai se al titolo corrisponderà poi l’articolo che c’è scritto sotto. Nelle stesse ore, milioni di italiani votavano il Cav.
Ma, domenica prossima, Scalfari, invece di ritirarsi in convento, scriverà la sua predica settimanale come se nulla fosse successo. Il «grande maestro del pensiero» – che in tutta la sua lunga vita non ne ha mai imbroccata una – tale rimarrà nella considerazione dei suoi lettori perché, in Italia, è sufficiente dirsi liberal (senza la «e» finale perché, come dicono a Torino, fa fino) e far scendere dall’alto di una supposta superiorità morale antropologica (?) quattro luoghi comuni contro gli Usa, il capitalismo, Berlusconi, la sinistra riformista che riformista non diventa mai, per passare alla storia. Mah.


Qualche giorno prima, sul Corriere della Sera, il mio amato maestro e amico Giovanni Sartori aveva scritto un articolo di fondo per invitare al voto «disgiunto» (uno per il Senato, a un candidato, l’altro per la Camera, a un altro candidato) e provocare così il «pareggio» (almeno al Senato) fra i due e andare alla Grande coalizione. Spazzata via anche questa trovata «tecnico-politica» dallo tsunami Berlusconi.

Ha vinto il Cav. e stravinto Bossi. E adesso già si dice a sinistra – a titolo di consolazione, dopo la disastrosa coalizione prodiana – che la Lega sarà una spina nel fianco di Berlusconi, una scheggia estremista e incontrollabile. Vero? Verosimile? No, né vero – la Lega è stato l’alleato più fedele del Cav. durante i cinque anni del suo governo – né verosimile, non si vede perché dovrebbe smettere di esserlo e, soprattutto, perché non dovrebbe essere, invece, un fattore propulsivo della politica del centrodestra e della sua (timida) vocazione riformista ancora tutta da dimostrare. In realtà, la Lega è, da tempo, un partito di governo quanto gli altri e, soprattutto, la prova provata dell’indignazione del contribuente del Nord-Italia per gli sprechi di Roma e nel Sud-Italia. Non lo dico solo io, ma anche Luca Ricolfi nel suo ultimo libro («Ostaggi dello Stato», ed. Guerini e Associati) col sostegno delle cifre. Ora, la Lega vuole arrivare al Federalismo fiscale, e lo ha fatto mettere nel programma di governo. Per Federalismo fiscale si intende – dice Bossi – che almeno parte delle entrate fiscali di ciascuna Regione rimangano dove sono state prodotte e non finiscano in un calderone gestito, male, da, come dice la Lega con linguaggio non propriamente British, «Roma Ladrona». Ma, se si depura il linguaggio, il risultato è lo stesso raggiunto scientificamente da Ricolfi: uno spreco di risorse di 80 miliardi l’anno, di 20 sui 40 che costa lo Stato sociale.

È scomparsa la «Sinistra Arcobaleno», che raccoglieva Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, i Verdi e qualche altra sigla tardo-comunista. Non ci sono più i comunisti nel Parlamento italiano. Un male? Un bene? Mah, non saprei dire. In ogni caso, in democrazia, se il popolo non vota un partito non è né bene né male. Semplicemente, vuole dire che non ci si identifica e non gli conferisce perciò un mandato di rappresentanza parlamentare. Punto.

In termini storici, a 19 anni dalla caduta del Muro di Berlino, a 17 dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, dopo anni che anche la Cina è diventata capitalista, una parte degli italiani si è accorta che il Comunismo non c’è più, è morto, sepolto sotto le macerie del Muro, che la socializzazione dei mezzi di produzione, la dittatura del proletariato, il marxismo-leninismo sono finiti nella pattumiera della Storia come avrebbe detto la stessa buonanima di Karl Marx. Ma se la sinistra alternativa è morta, anche quella riformista – per dirla con Woody Allen – non sta bene.

W Veltroni, cui pure va il merito di aver favorito il ricambio del sistema politico candidando se stesso e il Partito democratico alla guida del Paese senza la zavorra della sinistra alternativa, non ha sfondato nell’elettorato moderato, soprattutto al Nord. La frattura fra le tre Italie, quella produttiva delle regioni settentrionali, quella delle cooperative delle regioni centrali controllate dai post-comunisti, e, infine, quella assistita delle regioni meridionali. Troppo genericamente «buonista» la campagna elettorale di Veltroni, troppo leggero il personaggio rispetto al peso massimo Berlusconi. L’uno, Veltroni, a predicare «volemose bene» e a promettere soldi a tutti come Babbo Natale; l’altro, il Cav., a parlare finalmente (!) da statista responsabile, senza promettere troppo, ma esponendo un programma di cose da fare che, se realizzato, cambierebbero almeno in parte il Paese.

È la seconda volta che gli italiani offrono a Berlusconi la grande occasione storica di fare quella «rivoluzione liberale» che finora ha promesso e non realizzato. Non è un’impresa facile. Ma una terza occasione non ci sarà. Per farla, questa benedetta rivoluzione, bisognerebbe riformare l’Italia fin dalle sue fondamenta, dalla stessa Costituzione (Parte Prima) che è l’ibrido frutto del compromesso di 60 anni fa fra le «due Resistenze», quella democratica (cattolica, socialista, liberale, azionista, repubblicana) e quella totalitaria (comunista), che si erano battute contro il fascismo. L’una, quella democratica, per portare l’Italia nell’Occidente democratico-liberale; l’altra, quella totalitaria, per farne un satellite dell’Unione Sovietica.

Berlusconi ha ora l’occasione storica di dire che il lungo dopo-guerra è finito, che quel compromesso – figlio della Resistenza «al singolare», unica e unitaria – non regge più nel mondo in cui viviamo. Bisognerebbe smantellare una società ereditata dal corporativismo fascista sulla quale si sono innestati elementi istituzionali di stampo comunista. Un pasticciaccio che paralizza il Paese.

Bisognerebbe fare, innanzi tutto, una rivoluzione culturale contro i luoghi comuni, il politicamente corretto, i miti della Resistenza al singolare, della solidarietà (imposta per legge costituzionale), in una parola, contro la cultura catto-comunista che ha dominato nella scuola, nell’editoria, nei giornali, nell’università, in Parlamento per 60 anni, facendo danni disastrosi. Ce la farà il Cav.? Le intenzioni sono buone. Chi vivrà vedrà. Senza dimenticare che di buone intenzioni, in Italia, è lastricata la strada del declino del Paese.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

QUEL CHE DI SILVIO NESSUNO CAPISCE

16 Aprile 2008 15:43 MILANO - di Filippo Facci
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La maggioranza degli osservatori seguita a scrutare Silvio Berlusconi come se la sua immagine palese ne contenesse anche una occulta, qualcosa che sfugge loro costantemente e che li sfida a decifrarlo, una profondità nascosta alla superficie: è per questo che sfugge loro, infine, anche la superficie, sfugge la semplice assonanza di questo leader con il popolo italiano (il popolo, sì) e presto con i libri di Storia.

Di fronte alle sue vittorie, ogni volta, gli osservatori tendono a oscillare tra incredulità e rassegnazione: è incredula, per quanto desueta, la tendenza a cercare retroscena extra-democratici che rispondano a plagiature mediatiche e corruzioni delle coscienze, quando non addirittura corruzioni e basta; è invece rassegnata, ma ancora prevalente tra gli intellettuali, la tendenza ad ascrivere la predilezione degli elettori per Berlusconi all’inguaribile cialtroneria del popolo italiano: sentenza inappellabile e ogni volta speranzosamente appellata. Se Berlusconi viene eletto, in altre parole, o c’è un inganno o gli italiani sono stupidi.

Entrambe le tendenze, piccolo problema, sono ancora ben presenti nel modernizzato e pur depurato Partito democratico. Senza fare stucchevoli esempi, potremmo parlare di tendenza Furio Colombo nel primo caso e di tendenza Scalfari nel secondo. Liquidando il primo caso come una paranoia residuale, è la seconda tendenza a interessarci di più. Le analisi di questi giorni, infatti, partono dal principio che il popolo sia quello che sia (provinciale, clericale, padronale, incolto), sicché a Berlusconi viene riconosciuta una genialità soprattutto tecnica nel saperlo intercettare: il Cavaliere è un venditore e il popolo è un target. In un sol colpo ha destrutturato due partiti e ha saputo erigersi a cavallo tra politica e antipolitica; di fronte alla crisi ha saputo sedurre le debolezze popolari mischiando una visione ottimistica nel futuro (come nel ’94) alle conoscenze e competenze che frattanto ha maturato. Questo, quando va bene, dicono i giornali, al di là della millesima analisi sulla semplificazione del quadro politico.

Ma manca qualcosa, per certi versi tutto. Ne ha fatto leggero cenno, ieri, il direttore di Europa Stefano Menichini: «Il rapporto fra Berlusconi e l’Italia, a questo punto, assume effettivamente una dimensione storica», occorre «tornare pazientemente a rivolgersi all’altra Italia, a quell’Italia, certo non popolata da mascalzoni, evasori fiscali o creduloni, che ancora stavolta non s’è fidata del centrosinistra».

Ne aveva parlato anche Paolo Mieli in un’intervista rilasciata a marzo: «Berlusconi ha fondato un centrodestra che resisterà anche quando lui non ci sarà più. Se dovesse vincere le elezioni per la terza volta, lo spazio a lui dedicato nei libri di storia non sarà limitato alle formulette che usiamo oggi. Ci vorrà una riflessione profonda su quest’uomo che ha segnato nel bene e nel male la storia recente di questo Paese: il male è stato ampiamente dibattuto, ma il bene merita di essere anch’esso esaminato».

Ecco: che questo «bene» possa contemplare anche quella larga parte di Italia che ha votato Berlusconi, e che magari in altre circostanze potrebbe votare altrimenti, è la rivoluzionaria ovvietà che non riesce a farsi largo nel ceto intellettuale. Non è chiaro che il sodalizio ormai storico e pluriennale tra Berlusconi e gli italiani non è dato solo dalla somma delle capacità tecniche e persuasive del primo sui secondi, ma dal fatto che gli italiani, dopo quindici anni, si fidano evidentemente di lui, gli credono, talvolta lo amano, e lo amano, incredibile a dirsi, per quello che è, per quello che fa, per una sua spiccata antropologia che viene enfatizzata come suo punto debole ed è invece parte inscindibile del personaggio irripetibile che è.

Nella storia, e pur nell’era della televisione, non è ancora esistito un leader che abbia conquistato un popolo spingendolo a leggere il proprio programma. Nel sostegno incondizionato che un popolo sa dare a un leader c’è qualcosa che persino a noi, classe informata, talvolta sfugge, ma alla gente, l’orribile gente, no.

 

Fonte - Il Giornale

 

 

 

 

Cavaliere ci stupisca (se può)

16 Aprile 2008 15:23 MILANO - di Guido Gentili

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Un voto chiaro e una vittoria netta sono i requisiti primi ed essenziali della governabilità. Sotto questo profilo, Silvio Berlusconi ha chiesto e ottenuto il massimo: la risposta degli italiani e l'entità del successo del Pdl e della Lega tagliano la strada a ogni considerazione volta a depotenziare il risultato politico uscito dalle urne.

Berlusconi, dunque, può accingersi a governare sapendo che ha tutti i numeri per farlo. Ma non solo. Il prossimo premier ha di fronte a sé l'occasione, storica, per modernizzare il Paese trascinandolo fuori dalle secche di una crisi profonda (le cui origini sono lontane nel tempo e datano ben prima dell'ultimo Governo Prodi e dello stesso secondo Governo Berlusconi del 2001) che l'hanno infiacchito e sfilacciato.

La scommessa, dato anche il difficilissimo contesto internazionale attuale, non consiste nel riportare la nave-Italia su una linea di galleggiamento. No, la sfida consiste piuttosto nel riprendere una corsa interrotta da troppo tempo mobilitando tutte le energie utili e avendo ben chiaro che la sesta economia del mondo è già scivolata al 20° posto, in termini di Pil pro capite, ha il secondo debito pubblico peggiore del pianeta ed è il fanalino di coda per crescita del Pil negli ultimi anni tra i trenta Paesi più industrializzati.

In questo senso, portando in qualche modo a compimento una "rivoluzione" scattata nel 1994, subito congelata e non completata nel quinquennio 2001-2006, Berlusconi potrebbe, anzi dovrebbe, stupire tutti. Chiarendo subito agli italiani cosa va fatto oggi e cosa domani o dopodomani, e calibrando l'attuazione del programma in relazione all'obiettivo fondamentale, di svolta radicale e non episodica, per un Paese affamato di futuro e con i motori inceppati.

Sono state confermate alcune delle misure annunciate e attese. La prima riunione del Consiglio dei ministri si terrà a Napoli, per dare il segno che l'emergenza rifiuti è un'assoluta priorità nazionale; si procederà subito all'abolizione definitiva dell'Ici sulla prima casa; saranno detassati gli straordinari e i premi per la produttività; ci sarà il bonus-bebè di 1000 mille euro. Misure che indicano una direzione di marcia nel solco degli impegni presi con gli elettori ma che sarebbe sbagliato scambiare per la svolta capace di tirarci fuori dalle secche.

È evidente che non si può fare tutto e subito, ed è un fatto che lo stesso programma di Pdl e Lega sia stato scritto sulla scia di un apprezzabile realismo di fondo, lo stesso che ha contraddistinto il ministro in pectore dell'Economia Giulio Tremonti nell'analisi sulla crisi finanziaria americana. Per questo la scansione precisa degli impegni e, se necessario, anche la rinuncia o il rinvio (dichiarati) a qualche promessa fatta in vista delle elezioni potrebbero servire ad alzare, e non abbassare, il tiro della scommessa riformista che attende Berlusconi.

I fuochi della fase finale della campagna elettorale sono alle spalle. Tra un mese avremo un Governo nel pieno delle funzioni. L'agenda politica è colma di lodevoli impegni, a partire dal confronto aperto con l'opposizione sui temi istituzionali importanti come riduzione dei parlamentari, poteri del premier, superamento del bicameralismo perfetto, avvio del federalismo fiscale - processo inevitabile - sul quale la Lega ha piantato la sua bandiera.

D'altra parte l'economia è ferma, l'inflazione rialza la testa, la pressione fiscale su famiglie e imprese è troppo elevata, il potere d'acquisto di pensioni e salari è eroso, la produttività del sistema è bassa, molte infrastrutture sono di fatto bloccate. La recessione degli Usa e l'Europa non ci faranno sconti e, semmai, restringeranno il perimetro delle scelte di politica economica. Per ripartire e insieme cominciare la svolta vera, una buona dose di pragmatismo è la ricetta d'attacco. E se pragmatismo significa prospettare, in piena trasparenza, anche misure dure, impopolari (come i veri tagli alla spesa pubblica in attesa da anni), ma nel tempo capaci di riaccendere stabilmente la fiducia interna ed esterna (quella degli investitori internazionali) allora ben venga un piano d'azione in tutti i sensi asciutto.

Berlusconi ha ricevuto dagli elettori un mandato pieno. Ha alle spalle una maggioranza solida e davanti un'opposizione, quella di Pd e Udc, che può sfidare sul terreno delle riforme. Può insistere sul completamento della legge Biagi, aprendo una volta per tutte la pagina degli ammortizzatori sociali: come potrebbe il Pd di Veltroni e Ichino non rispondere positivamente? Può procedere senza indugio alle liberalizzazioni più utili e scomode politicamente, a cominciare dai servizi pubblici locali. Può tagliare le Province, come da programma. Può cancellare in pochissimo tempo quell'odioso gravame improprio (14 miliardi di euro l'anno) che a titolo di adempimenti burocratici pesa su 4,4 milioni di piccole e medie imprese. Può ordinare una veloce due diligence sulla finanza pubblica e, accertata l'esistenza di un eventuale extragettito da 4 o più miliardi, decidere di non spenderlo tutto e subito.

Insomma non mancano i modi per stupire. Sui terreni dell'istruzione, della formazione, delle tecnologie e conoscenze informatiche, l'Italia viaggia sotto la soglia della civiltà moderna. In area Ocse siamo secondi solo alla Turchia con il 10,9% dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni che non vanno a scuola né lavorano. Merito, competenza e responsabilità sono oggetti spesso sconosciuti. Resta irrisolto, al fondo, il nodo del sistema pensionistico. Nei campi dell'energia abbiamo collezionato ritardi paurosi. La cultura del risultato, pilastro dell'agglomerato sociale (piccole imprese, lavoratori autonomi e professionisti) che al Nord sono l'asse portante di Pdl e Lega, è estranea, fatte le debite eccezioni, alla pubblica amministrazione.

Sì, sono materie difficili da prendere di petto, e politicamente i risultati arrivano nel tempo. Per questo le vere carte riformiste vanno calate subito, a inizio legislatura. Dopo, come sempre è accaduto, non ci sarà l'occasione di farlo.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Martedì 15 aprile 2008   Martedì 15 aprile 2008   Martedì 15 aprile 2008  
       
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L´ETERNO RITORNO DEL CAVALIERE

16 Aprile 2008 03:37 ROMA - di Ezio Mauro
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Questa Italia del 2008 ha infine deciso di scegliere Silvio Berlusconi e la sua destra. È una vittoria elettorale che peserà a lungo sul Paese e sui suoi equilibri, non soltanto per i dati più evidenti, come il distacco di nove punti dall´avversario e la soglia di sicurezza raggiunta alla Camera e soprattutto al Senato grazie anche al concorso decisivo della Lega. C´è qualcosa di più. Sopravanzato nell´innovazione per la prima volta dall´inizio della sua avventura pubblica, il Cavaliere si è trovato di fronte ad una forte novità politica come il Pd nell´altra metà del campo, capace di chiudere la storia troppo lunga del post-comunismo italiano e di posizionare una sinistra riformista al centro del gioco politico: ristrutturandolo attorno ad un partito a vocazione maggioritaria deciso a parlare a tutto il Paese, dopo essersi separato per la prima volta dalla sinistra radicale. Berlusconi ha inseguito l´avversario, ha inventato su due piedi una costruzione politica uguale e contraria – il Pdl – per impedire che il Pd diventasse il primo partito, si è liberato dei cespugli di destra e di centro, e con questa reincarnazione ha riordinato a sé l´area di centrodestra, riconquistando per la terza volta il Paese.

È questo eterno ritorno la scala su cui va misurato il fenomeno Berlusconi. La vittoria di oggi infatti va letta non tanto come il risultato di una campagna elettorale in do minore ma come il sigillo di un´epoca, cominciata quindici anni fa.

Il Cavaliere l´ha aperta con la sua "discesa in campo", le televisioni, la calza sulla telecamera, il doppiopetto, la riesumazione decisiva di Fini dal sepolcro postfascista, ma anche un linguaggio di rottura, un´ostile difesa di se stesso dalla giustizia della Repubblica, la fondazione di una "destra reale" che il Paese non aveva mai conosciuto, frequentando a quelle latitudini soltanto fascismo o doroteismo.

Quindici anni dopo lo stesso linguaggio che ci è sembrato stanco per tutta la campagna elettorale, lo stesso corpo del leader offerto come simulacro immutabile e salvifico della destra, la stessa retorica politica incentrata sul demiurgo hanno invece convinto ancora e nuovamente gli italiani, siglando il quindicennio. In mezzo, ci sono tre Presidenti della Repubblica, cinque Premier, due sconfitte e due vittorie per il Cavaliere, dunque un´intera stagione politica, che va sotto il nome in codice di Seconda Repubblica. Sopravvissuto a tutto, governi avversi e accuse di reati infamanti cancellati da un Parlamento trasformato in scudo servente e privato, partner internazionali che intanto hanno regnato e si sono ritirati, un conflitto d´interessi così perfetto da passare intatto attraverso le ere politiche, Berlusconi suggella il quindicennio con se stesso, unica vera misura dell´impresa, cifra suprema della destra, identificazione definitiva tra un leader e il destino della nazione, secondo la ricetta del più moderno populismo.

Cos´è questa capacità di mordere nel profondo del Paese, e di tenerlo in pugno? In un´Italia che non ha mai nemmeno rivelato a se stessa la sua anima di destra, ombreggiandola sotto l´ambigua complessità democristiana, il Cavaliere ha creato un senso comune ribelle e d´ordine, rivoluzionario e conservatore, di rottura esterna e di garanzia interna, che lui muove e agita a seconda delle fasi e delle convenienze, in totale libertà: perché non deve rispondere ad una vera opinione pubblica nel partito (che non ha mai avuto un congresso dal 1994) e nel Paese, bastandogli un´adesione, un applauso, una vibrazione di consenso, come succede quando la politica si celebra in evento, i cittadini diventano spettatori e i leader si trasformano in moderni idoli, per usare la definizione di Bauman. Idoli tagliati a misura della nuova domanda che non crede più in forme di azione collettiva efficace, idoli "che non indicano la via, ma si offrono come esempi".

Sta qui – e lo dico indicando l´assoluta novità del fenomeno – il fondamento del risorgente populismo berlusconiano, un populismo della modernità, che supera la cattiva prova di governo del quinquennio di destra a Palazzo Chigi, l´età avanzata, l´usura ripetitiva, la fatica del linguaggio ("sceverando", "mondialmente", "gerarchicizzare"), il gigantismo delle promesse, le ossessioni private trasformate in priorità della Repubblica, come il perenne regolamento di conti con la magistratura. E´ un fenomeno che può allargarsi all´Europa, perché in tempi di globalizzazione e di disincanto civico può dare l´illusione di una semplificazione dei problemi, tagliando con la spada del leader i nodi che la politica si esercita con fatica a sciogliere. Ecco perché il populismo può fare da cornice coerente alle paure di cui la Lega è imprenditrice al Nord, rassicurando nella delega carismatica al leader lo spaesamento del Paese minuto, e il suo spavento popolare per ciò che non riesce a dominare.

Così, l´Italia del voto sembra più alla ricerca di rassicurazione che di cambiamento. Ecco perché ha sottovalutato la portata dell´operazione veltroniana di rottura con la sinistra radicale, una scelta che ha dato identità e credibilità al riformismo del Partito Democratico, posizionandolo nell´area della sinistra di governo europea, e che ha ristrutturato in una sola mossa l´intero quadro politico e parlamentare. Ma la novità del Pd non è passata, anzi si è fermata e di fronte ai gravi problemi della parte più debole del Paese è sembrata "politicista". Eppure la semplificazione del gioco politico, con la riduzione drastica del numero dei partiti è in realtà la prima vera riforma della nuova legislatura, e corrisponde a un sentimento diffuso dei cittadini.

Il risultato è un sistema incentrato su due grandi partiti che si contendono la guida del governo, che replicano nel nuovo secolo la coppia destra-sinistra secondo una nuova declinazione, ma restano alternativi. La vera sorpresa, nella scomparsa dal Parlamento di tutte le forze politiche sopravvissute al crollo della Prima Repubblica, è la sconfitta senza appello della sinistra radicale guidata da Bertinotti, che non entra alle Camere: probabilmente perché i cittadini ritengono i partiti dell´Arcobaleno responsabili del gioco di veti, attacchi, critiche e riserve che ha paralizzato e affogato nel dissenso il governo Prodi, e anche perché i militanti e i simpatizzanti non hanno creduto che l´accrocco della lista fosse davvero l´embrione di un nuovo partito-movimento, bensì un espediente puramente elettorale.

Alcuni destini personali dei leader sembravano marciare dritti, da tempo, verso questo esito, sconnessi dalla pubblica opinione. La mancata presenza in Parlamento non solo di una tradizione, ma di una rete di valori, interessi, critiche, opposizioni presenti nel Paese e nella sua storia, indebolisce comunque il discorso pubblico italiano, atrofizza la rappresentanza, riduce il concetto stesso di sinistra. E crea, naturalmente, una responsabilità in più per il Partito Democratico, che deve re-imparare a declinare quel concetto, deve farsi carico di un´attenzione sociale e culturale più che politica, per non lasciare allo sbando e senza voce le domande più radicali del Paese. Ciò non muta affatto l´identità del Pd, che la leadership di Veltroni ha posizionato nel luogo politico più utile a intercettare consensi dal centro e da sinistra. Quei consensi sono arrivati in misura inferiore alle attese: ma bisogna tener conto dell´abisso di impopolarità che il Pd ha dovuto colmare prima di poter incominciare a competere, un giudizio negativo sulla coalizione che ha divorato il governo Prodi nelle sue lotte intestine.

Veltroni doveva insieme – in questa prima volta – reggere quell´eredità e discostarsene, marcando il nuovo. Il risultato è la sconfitta, ma con una forza riformista del 33 per cento una quota mai raggiunta in passato (anche se bisogna ricordarsi che la sinistra così parla solo a un terzo del Paese) e un partito nuovo che ha retto il varo nella tempesta di una campagna elettorale troppo ravvicinata alla sua nascita. C´è lo strumento adatto ad una partita che il Paese non ha mai conosciuto, la sfida riformista per il cambiamento. Sarebbe un delitto se il cannibalismo tipico della sinistra si esercitasse adesso contro quello strumento e la sua leadership, ricominciando da zero un´altra volta, per procedere di fallimento in fallimento.

Il riformismo, naturalmente, chiede comportamenti conformi anche dall´opposizione, impedisce a chi ne avesse la tentazione di giocare col tanto peggio tanto meglio. D´altra parte la nettezza del successo di Berlusconi ha tolto di mezzo quel miraggio del pareggio che covavano da mesi molti che affollano la periferia della sinistra, pronti ad offrirsi da genio pontiere di un´intesa organica di governo tra Berlusconi e Veltroni. La questione è chiara, come abbiamo provato a dire prima del voto. Chi ha vinto governa. La responsabilità, anzi il concorso di responsabilità è possibile e doveroso nell´ambito del Parlamento, alla luce del sole, dove si devono discutere con urgenza le necessarie riforme istituzionali. Su queste riforme, sulle regole, il Pd può mettere in campo e alla prova la sua cultura di governo anche dai banchi doverosi dell´opposizione.

In questa distinzione netta, che lascia alla destra il compito esclusivo di governare, ci saranno occasioni di confronto e anche di concordanza, senza scandalo alcuno, perché senza confusione. La speranza, d´altra parte, è che Berlusconi – giunto alla sua terza prova e liberato dal terrore di rendere conto alla giustizia repubblicana – possa sentire l´ambizione di governare davvero, scoprendo l´interesse generale dopo l´abuso di interessi privatissimi. Se questo accadrà, sarà un bene per il Paese, che non ha più né tempo né occasioni da perdere. Quanto a "Repubblica", ha già fatto l´esperienza della destra, giocando la sua parte, e senza mai inseguire il ruolo di giornale di opposizione, perché non è un partito. Preferiamo semplicemente essere un giornale: con una certa idea dell´Italia, diversa da quella oggi dominante, un´idea certo di minoranza, e che tuttavia secondo noi merita di essere custodita e preservata.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

  Martedì 15 aprile 2008   Sabato 19 aprile 2008   Martedì 29 aprile 2008  
       
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La (seconda) giornata nera di Veltroni

29 Aprile 2008 15:23 ROMA - di La Stampa

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ROMA -Per Walter Veltroni è stata un'altra giornata difficile. All'insegna della tensione e di un risultato elettorale che potrebbe avere influenza anche sugli assetti interni al Partito democratico. In mattinata l'incontro con i vertici del suo partito, per fare il punto della situazione e preparare la nuova stagione parlamentare, che debutta ufficialmente martedì; nel pomeriggio l'incontro con i neoeletti del Pd. Poi l'attesa dei risultati. Infine, l'amara constatazione che la poltrona da lui stesso lasciata due mesi fa per assumere la guida del Pd è stata persa e occupata da quello stesso avversario che lui non aveva avuto particolari problemi a battere nel 2006. Quindi, ancora una volta, come due settimane fa, la necessità di rivolgersi alla stampa per ammettere pubblicamente una sconfitta che lui stesso ha definito «molto grave, molto pesante», un insuccesso «che io non posso non sentire con particolare acutezza e amarezza personale e politica».

IL «CAMINETTO» E I CAPIGRUPPO - Nell'incontro del mattino, alla riunione del cosidetto «caminetto» (a cui hanno partecipato anche Marini, D'Alema, Bersani, Rosy Bindi, Gentiloni, Enrico Letta, Fassino, Bettini, Soro e la Finocchiaro) Veltroni aveva dettato la linea per il nuovo impegno che attende il Pd dai banchi dell'opposizione. E sulla scelta dei due capigruppo aveva espresso l'auspicio di una riconferma di Antonello Soro e di Anna Finocchiaro, rimettendosi però anche alla decisione dei neoparlamentari.

L'ATTESA AL LOFT - Nel pomeriggio Veltroni, dopo avere incontrato i neoeletti del Pd, si è riunito con i suoi fedelissimi al Loft, il quartier generale del partito, in attesa dei risultati. La leggera euforia data dal risultato incoraggiante di Zingaretti, il primo ad essere trapelato dalle urne (lo spoglio delle Provinciali avviene prima, per questioni gerarchiche, rispetto a quello delle Comunali) è durata poco: è stato sufficiente che arrivassero i dati delle prime venti sezioni scrutinate per il Campidoglio, che davano Rutelli già indietro di quattro punti, per capire che sarebbe stata difficile. E a mano a mano che lo scrutinio procedeva (e con i dati che le organizzatissime sezioni ex ds facevano affluire al Loft prima ancora che il cervellone del ministero li elaborasse e diffondesse) i timori diventavano amare certezze. Fino alle 19 nessuno dalla sede del Pd ha voluto commentare. Poi, dopo i primi commenti dei diretti interessati, Alemanno e Rutelli, è stato lo stesso Veltroni, senza aspettare oltre, a far arrivare alla stampa, con una nota, la voce ufficiale del Pd. La sua.

RESA DEI CONTI? - Resta ora da vedere se la sconfitta avrà ripercussioni politiche. Il Riformista, il quotidiano diretto dall'ex senatore della Margherita Antonio Polito e considerato vicino alla corrente veltroniana, con un editoriale non firmato (e quindi attribuibile allo stesso Polito) nell'edizione di lunedì mattina, quando ancora i risultati nessuno li poteva immaginare, aveva preso di mira l'ex sindaco chiedendosi se «sarà in grado di tenere botta» di fronte ad una sconfitta. Non solo: «Qualcuno - si leggeva tra l'altro nell'editoriale - gli dovrà pur dire di scendere dal pero e tornare tra i mortali». Facile ipotizzare ulteriori affondi nelle prossime ore.

«WALTER NON SI TOCCA» - In difesa di Veltroni si è però subito schierato Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, sostenitore ante-litteram del Pd. Che parla di «microcatastrofe romana», ma che mette le mani avanti: «Non si metta in discussione nè il Pd, nè il suo segretario, nè altro». «Soltanto »qualche insano di mente - ha detto Cacciari rispondendo ad un giornalista , potrebbe chiedere le dimissioni di Veltroni. Non so cosa poteva fare Veltroni di diverso».
 
 

 

Fonte - La Stampa