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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Crisi creditizia & Macroeconomia

Crisi Mondiale: volete un ottimista? Eccolo

Macroeconomia & Banche Centrali

Speriamo che l'irresponsabile BCE stavolta ...

Crisi creditizia

Il gorgo americano

Macro USA

Una notte lunga 3 anni, dice il super-gufo

Crisi creditizia & Macroeconomia

Crisi, la lobby oligarchica di cui non dobbiamo fidarci

Crisi creditizia

La crisi peggiora, non si riesce a turare le falle

Macro USA e Deflazione

Soldi regalati. Così Bernanke scuote l'America

Macro USA e Deflazione

Recessione USA: la bomba atomica di Bernanke

Crisi creditizia & Macroeconomia

Il fallimento di coloro che fanno previsioni ...

Macroeconomia & Banche Centrali

BCE - che complesso di inferiorità nei confronti ...

   
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ANSA   +++   01 Dicembre 2008 22:00 NEW YORK - WALL STREET TRACOLLA E TORNA ALLA REALTA', SELL FURIOSI SU S&P500 -9.00%   +++   02 Dicembre 2008 09:28 MILANO - Borsa: Asia crolla su effetto Wall Street   +++   04 Dicembre 2008 14:30 NEW YORK - USA: DISOCCUPAZIONE, SUSSIDI AL TOP DAL 1982   +++   05 Dicembre 2008 19:51 MILANO - Borsa: Venerdi' Nero, Europa brucia 180 miliardi  ++  WALL ST: RIALZO STREPITOSO CON ECONOMIA IN GINOCCHIO   +++   ANSA
 
  Martedì 02 Dicembre 2008   Martedì 02 Dicembre 2008   Martedì 02 Dicembre 2008  
       
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IL FALO' DELLE BANALITA'

01 Dicembre 2008 01:45 NEW YORK - di Eugenio Benetazzo
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Le emittenti nazionali fanno ormai a gara ad organizzare nei loro palinsesti la tal puntata di turno incentrata sulla crisi finanziaria del 2008, invitando uno stuolo di politici e pseudo giornalisti finanziari improvvisati economisti che fino a qualche mese fa se ne uscivano con sparate del tipo "tanto l'economia europea è sana e la crisi dei mutui più di tanto non cagionerà danno al nostro sistema bancario". Opinionisti degni di un titolo di laurea honoris causa rilasciato dall'Università per Barbieri di Paperopoli.
Adesso sono diventati tutti catastrofisti e terroristi finanziari, alla faccia del falso ottimismo e garantismo che si sciorinava nei dibattiti pubblici sino a qualche semestre fa. Una fenomenale opera di banalizzazione e volgare semplificazione di quanto sta accadendo che non consente di spiegare in modo esaustivo a livello socioeconomico e macroeconomico l'attuale scenario di mercato.
Mi piace in particolar modo come vengono dipinti e rappresentati i mutui subprime (che tra l'altro esistono da decenni) ovvero come mutui erogati agli homeless che girano con le buste ed i carrelli della spesa rubati a qualche jet market. Niente di più fuorviante: quando in realtà rappresentano mutui erogati a soggetti che hanno un credit score (punteggio di merito creditizio) inferiore a 670 punti (su una scala valori che va da 500 a 850), in seguito a tardivi o mancati pagamenti su prestiti precedentemente concessi o impegni di pagamento verso utenze di servizi primari (bollette della luce, gas e telefono).
Dai subprime si devono distinguere i mutui "nodocs" ovvero "no documents" quelli concessi a soggetti privi di un lavoro a tempo indeterminato e senza mezzi patrimoniali propri, mutui che erano sin dall'inizio destinati ad essere titolarizzati (faccio notare che questa tipologia di mutui ipotecari li hanno erogati anche in Italia ai cosiddetti precari, i nuovi morti di fame in giacca e cravatta).
Sappiate comunque che oltre il 25% della popolazione americana rientra nella categoria di affidamento subprime, mentre il restante 75% si divide nelle altre due fasce: i soggetti prime e midprime. Tuttavia l'apoteosi di questo falò di banalità propinatoci dai media nazionali l'abbiamo con le spiegazioni sull'origine della crisi (secondo loro passeggera) riconducibili ad una semplice argomentazione: le banche americane che hanno prima concesso mutui a tutti e successivamente hanno cartolarizzato all'inverosimile.
Niente di più fuorviante! L'attuale scenario che stiamo vivendo non rappresenta infatti una crisi generale del sistema finanziario quanto piuttosto una fase terminale che scaturisce dalla convergenza delle conseguenze economiche e sociali causate dal WTO.
L'Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization), nata dalle ceneri del GATT (un sistema multilaterale di accordi internazionali per favorire il commercio mondiale voluti dagli USA nel 1947 per controllare e dominare l'economia di tutto il pianeta) ha uno scopo principe ovvero promuovere la globalizzazione di tutti i mercati, tanto finanziari quanto alimentari. Un mercato globalizzato presuppone l'abbattimento di tutte le barriere commerciali (dazi e restrizioni doganali) unito all'abolizione dei sussidi all'agricoltura assieme alla libera circolazione dei capitali.
Proprio il WTO ha reso conveniente e possibile le tanto famigerate delocalizzazioni produttive che hanno rappresentato sia per gli USA quanto per l'Unione Europea un'autentica emorragia di posti di lavoro e capitali a favore di paesi come la Cina e l'India che adesso vengono considerate le due fabbriche del pianeta. Le grandi corporations industriali, sfruttando le economie di scala attraverso i ridicoli costi di manodopera di questi paesi, hanno potuto in questo modo aumentare a dismisura i loro profitti a parità di output produttivo, il quale poteva venire assorbito solo dai mercati occidentali statunitensi ed europei.
A fronte di questo diabolico arricchimento di pochi si è contrapposto un drammatico depauperamento in Occidente a causa della polverizzazione dei posti di lavoro ed a causa della concorrenza spietata di prodotti e beni di consumo importati che spazzano via per convenienza economica sul prezzo quelli autoctoni.
La trasformazione del tessuto sociale ed imprenditoriale tanto negli USA quanto in Europa, che adesso devono convivere con il mostro che hanno creato ovvero un esercito di impiegati ed operai senza alcuna prospettiva lavorativa ed una occupazione a singhiozzo, ha lentamente impoverito il paese creando nuove sacche di povertà e disagio sociale a ritmo costante.
Solo con il ricorso al debito questi zombie globalizzati hanno potuto continuare a consumare come prima, fino a quando non si è raggiunta la saturazione finanziaria. Nessuno ha fatto ancora notare come in questi ultimi anni tutto è stato venduto a rate, dalle abitazioni alle vacanze alle isole tropicali, causa estinzione della capacità di risparmio, soprattutto nelle giovani generazioni. Il peggioramento dello scenario planetario porterà ad un consistente ridimensionamento dei fatturati delle imprese a cui faranno seguito un crollo del gettito fiscale ed un aumento vertiginoso della disoccupazione.
Le borse in questi termini ci possono aiutare a leggere il futuro: si comportano letteralmente come un termometro che misura la temperatura dello stato febbrile, i loro continui crolli rappresentano un sensibile ridimensionamento delle proiezioni degli utili attesi in futuro e quindi della capacità di fare profitto per le aziende nei prossimi anni. Dalla contrazione del credito bancario concesso alle imprese passando per il crollo del mercato dei consumi, le aspettative future sono tutt'altro che confortanti.
Per comprendere la gravità di quanto stiamo vivendo vi voglio ricordare che durante la Grande Depressione degli anni Trenta oltre il 60% della popolazione mondiale era impiegata nel settore primario (agricoltura) e le donne non avevano una presenza consistente nel mondo del lavoro visto che la società era organizzata attorno al modello della famiglia patriarcale.
Oggi l'1% del pianeta mantiene il restante 99% sul piano alimentare, mentre la società è caratterizzata da una spiccata presenza della donna nel mondo lavorativo a cui si deve affiancare il modello di famiglia mononucleare che ha sostituito quella patriarcale. Se in futuro dovessimo descrivere all'interno di un libro quest'epoca infelice e la sua futura evoluzione, adesso ci troveremmo a leggere la prefazione.

 

Fonte - www.eugeniobenetazzo.com.

 

 

 

 

 

 

  Crisi Mondiale: - volete un ottimista? Eccolo

01 Dicembre 2008 02:26 NEW YORK - di Riccardo Fiorito

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Come tutti sanno, la bolla di cristallo non c'è l'ha nessuno, men che meno quelli che scrivono su nFA. Però, dato che tutti si chiedono quale sia realmente la situazione e se moriremo tutti di fame l'anno prossimo, io ci provo a buttar lì due mezze previsioni basate sulle previsioni degli altri e su un po' di buon senso economico. Niente di sofisticato, semplicemente un po' di macroeconomia fuori moda ed una, per noi ovvia ma per altri no, conclusione sul da farsi.
Gli ultimi dati sul terzo trimestre del 2008 e le previsioni più recenti da parte dei vari organismi internazionali (IMF, OECD, Commissione Europea) concordano nell’indicare rischi generalizzati di recessione per il 2009. Queste previsioni, che in genere includono un aggravamento della situazione nel quarto trimestre del 2008, suggeriscono per i vari paesi contrazioni del livello di attività intorno ai 4 trimestri di durata: ciò costituisce senza dubbio un motivo di preoccupazione. La preoccupazione potrebbe però trasformarsi in un motivo di sollievo - trattandosi di contrazioni abbastanza modeste e non troppo prolungate - SE l’economia mondiale si riprendesse nella seconda parte del 2009.
Gli Stati Uniti dovrebbero avere – come l’Italia e la Germania - una contrazione vicina ma forse inferiore allo 1% annuo, un dato che dovrebbe aggravarsi per l’Inghilterra e ridursi per la EU nel suo insieme. Nel 2010 si ipotizza, infine, una ripresa generale ma è chiaro che questo orizzonte è più difficile da prevedere sulla base dei dati attuali.
Limitandoci, quindi, alla fine dell’anno ed al ciclo ipotizzato per il 2009, ciò che conta è che tali previsioni siano assai meno catastrofiche di quanto ipotizzato da commentatori/agitatori che hanno più volte richiamato la crisi del ’29, generando esagerazioni e timori che sono essi stessi un fattore di instabilità. Il fatto nuovo - ma anche risaputo - è che per la prima volta tutte e tre le aree fondamentali dell’economia mondiale (Stati Uniti, Europa, Asia) affrontano nello stesso tempo una crisi che è stata innescata da fattori finanziari che sembrano essere però in graduale fase di assorbimento. Data la scala e l’estensione dello shock, questi fattori appaiono di fatto meno dannosi per l’economia reale di quanto temuto o previsto da vari osservatori.

Anche senza essere esperti della grande depressione (io non lo sono), la novità della rapida trasmissione della crisi finanziaria tra aree diverse non sembra giustificare paragoni storicamente sensati tra allora ed oggi: l’economia degli Stati Uniti dovrebbe crescere quest’anno intorno allo 1.5% per rallentare come abbiamo visto nel 2009. Quale che sia la fondatezza di tali previsioni, la crescita USA nel 2008 è circa uguale al potenziale dell’economia europea. Naturalmente, il tasso di crescita degli USA riflette solo la prima parte dell’anno che è stata migliore di quanto previsto, tra l’altro, nel rapporto Oecd di Giugno: il terzo trimestre del 2008 è andato male sopratutto a causa della contrazione dei consumi durevoli, anche se meno di quanto previsto da molti analisti.
In altre parole: sebbene vi sia una pletora di indicatori negativi per il settore manifatturiero (che però pesa assai poco, oramai, nell’economia USA) negli organismi internazionali sembra prevalere l’idea che la recessione USA dovrebbe essere debellata nella seconda parte del 2009. Forse si sbagliano, ma i numeri sono quelli.
Questa interpretazione mi convince perché il maggiore canale di trasmissione della débacle finanziaria è stato il deprezzamento della ricchezza delle famiglie, soprattutto per la parte legata alla casa: la percentuale di famiglie che possiede azioni e le cui azioni non sono relegate in un fondo pensione è non superiore ad 1/3, probabilmente vicina ad 1/4. La contrazione dei consumi è stata elevata ma - a fronte dello shock subito - sembra confermare la nozione che l’elasticità del consumo alla ricchezza sia abbastanza bassa, altrimenti gli effetti sui consumi e poi sul pil sarebbero più gravi di quanto emerge dall’anno in corso, anche scontando un peggioramento nel quarto trimestre.
Il mio relativo ottimismo sta, dunque, non solo nei dati che sono negativi ma non disperati ma è confortato - tra le altre cose - da un intervento alla Georgetown University di Donald Kohn della Fed e da un paper della Fed di Minneapolis di Chari, Christiano e Kehoe su alcune stranezze nei dati finanziari. E’, infine, confortato anche dalla mia convinzione che la contrazione della ricchezza delle famiglie dovrebbe stimolare l’offerta di lavoro, compensando in tutto o in parte gli effetti negativi sul consumo. E’ anche vero, però, che in mancanza di ulteriori stimoli sulla domanda, l’incremento dell’offerta di lavoro potrebbe tradursi almeno in parte in un aumento della disoccupazione che dovrebbe essere però di natura temporanea e, dunque, compatibile con il profilo ciclico generalmente previsto per il 2009.
Considerando sia il ruolo degli stabilizzatori automatici che il basso costo del capitale, del lavoro e del petrolio, come anche le possibili iniezioni temporanee di spesa pubblica, mi sembra plausibile ipotizzare una ripresa dell’economia americana nella seconda parte del 2009 anche senza affidarsi al graduale aggiustamento delle difficoltà finanziarie che è implicito nelle previsioni citate.
Quanto ciò sia dovuto al miglioramento delle politiche economiche dagli anni ‘30 ad oggi od anche alla migliore conoscenza dei cicli economici è difficile da stabilire ma penso che entrambi i fattori – compresa la loro interazione - un peso l’abbiano avuto nel riconoscere i rischi di una recessione sincronizzata e la necessità di farvi fronte con il coordinamento, per quanto imperfetto e tardivo, delle politiche che è implicito nel passaggio dal G-8 al G-20 di questi giorni.

 

Fonte - www.noiseFromAmeriKa.org  

 

 

 

 

  Speriamo che l'irresponsabile BCE stavolta giochi bene

01 Dicembre 2008 00:27 MILANO - di Giuseppe Turani

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Giovedì a Francoforte si deciderà non il destino dell´Europa (ci vuole altro), ma si vedrà se abbiamo una Banca centrale che è qui per aiutare a risolvere i problemi oppure se essa stessa fa parte del problema (come molti sospettano da tempo). Giovedì infatti la Bce tiene la sua riunione mensile dedicata all´esame della situazione e all´eventuale taglio (o aumento) dei tassi di interesse ufficiali.
Le previsioni non sono buone. E la cosa paradossale è che, sempre giovedì, ma 45 minuti prima, si riunirà anche la Boe (la Banca d´Inghilterra, la "Vecchia Signora") e si sa già che taglierà il costo del denaro dall´attuale 3 per cento al 2 per cento, con una sforbiciata secca di 100 basis point. La Bce, invece, si trova oggi al 3,25 per cento e un po´ tutti gli esperti dicono che si limiterà a tagliare 50 basis point, portando il costo del denaro al 2,75 per cento.
Ed è proprio su questo punto che sorgono gli interrogativi più pesanti. Fino a non molto tempo fa la Bce giustificava l´alto costo del denaro in Europa con la necessità di contrastare l´inflazione. Ma oggi di inflazione non se ne vede proprio in giro. Anzi, purtroppo siamo alle prese con il gemello cattivo dell´inflazione, e cioè la deflazione. E´ un fenomeno che ha colpito non solo noi, ma un po´ tutti. Insieme alla recessione.
Ebbene, le altre banche centrali hanno afferrato l´aria che tira e hanno già preso gli opportuni provvedimenti o si apprestano a farlo. La Boe, che aveva tagliato di recente e in un sol colpo 150 basis point, adesso si appresta a ridurre il costo del denaro ancora di 100 basis point. La Federal Reserve (in America la crisi è probabilmente più grave) è già scesa all´1 per cento (e alle banche in difficoltà fornisce il denaro allo 0,30 per cento), ma dicono che non è ancora arrivata in fondo. Prima della fine dell´anno potrebbe tagliare altri 50 basis point, portandosi a un tasso ufficiale dello 0,50 per cento (ma c´è chi sostiene che la Fed potrebbe anche arrivare allo zero per cento tondo).
Insomma, un po´ tutti hanno capito che di fronte a quello che sta succedendo nell´economia non c´è molto da scherzare. Oggi, con la deflazione in campo e la recessione che, nella migliore delle ipotesi, durerà per tutto il 2009, l´unico modo per limitare i danni è quello di non essere troppo avari e severi con il denaro. In sostanza, oggi quello che deve fare una buona banca centrale è, di fatto, regalare il denaro a chi lo vuole, e sperare che siano in tanti a volerlo e a far girare le ruote dell´economia.
Per battere la deflazione (prezzi che crollano perché i consumatori non consumano più e i produttori non producono più, con il rischio reale che la recessione si trasformi in depressione) c´è un solo modo conosciuto: inflazionare tutto quello che è inflazionabile. Spargere denaro a piene mani. E questo è appunto quello che sta facendo la Federal Reserve americana e che si appresta a fare anche l´inglese Boe. In Europa, invece, la Bce sembra non aver ancora afferrato che la situazione è cambiata e che da un pericolo inflazione siamo passati a un pericolo deflazione. E quindi procede a piccoli passi.
Sembra che il suo obiettivo sia quello di arrivare a un costo del denaro del 2 per cento. Ma a piccoli passi, cioè scendendo di 50 basis point alla volta. Poiché siamo al 3,25 per cento, ci vorranno almeno tre-quattro mesi per raggiungere la mitica soglia del 2 per cento (dove l´Inghilterra arriverà giovedì mentre l´America è già ben oltre). Quattro mesi di tempo persi del tutto inutilmente.
E infatti più di un analista sostiene che la Bce, in queste condizioni, dovrebbe mandare un segnale forte al mondo dell´economia tagliando almeno di 75 basis point e non di 50. Ma si può tranquillamente aggiungere che se la Bce facesse un taglio addirittura doppio (150 basis point), portandosi subito, giovedì, un poco sotto la soglia del 2 per cento, questo avrebbe l´effetto di una sferzata sulla congiuntura. E non si vede quali danni ne potrebbero derivare.
Insomma, questo è esattamente il momento di muoversi con coraggio. Basta guardarsi intorno per rendersene conto. E la Bce, purtroppo, è l´unico soggetto in Europa che ha ancora un´arma in mano (il taglio del costo del denaro). L´altro soggetto che potrebbe intervenire (i governi) ha in realtà le mani legate. A causa dei propri bilanci, non esattamente floridi, i governi europei non possono fare una politica fiscale espansiva (restituendo soldi ai cittadini) e nemmeno possono mandare assegni troppo vistosi a casa delle famiglie (come hanno fatto in America).
In conclusione, l´Europa è in crisi come gli altri, ma si trova come imbalsamata da un costo del denaro ormai elevatissimo e fuori dal mondo (oggi è più di tre volte quello americano) e da governi con poche risorse, e che quindi non possono contrastare efficacemente la deflazione e la recessione. Piaccia o non piaccia oggi spetta proprio alla Banca centrale europea (ai Signori di Francoforte) prendere il coraggio a due mani e gettare sulla bilancia della crisi il peso di un taglio super del costo del denaro. Questo si aspettano i mercati e l´economia e questo suggerisce il buonsenso. Ma quasi certamente resteranno tutti delusi.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Venerdì 05 Dicembre 2008   Sabato 06 Dicembre 2008   Sabato 06 Dicembre 2008  
       
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Le banche centrali indossano il camice bianco

04/12/2008 14.56 - di Sara Silano
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Il sistema finanziario è malato. Finora i tentativi per rianimarlo hanno evitato il collasso, ma non sono riusciti a guarirlo. Le Banche centrali hanno unito le forze lo scorso ottobre tagliando di concerto i tassi di interesse in tredici Paesi. Nell’ultima settimana sono state di nuovo protagoniste, in modi e tempi diversi, per evitare che la crisi intacchi seriamente l’economia, facendo precipitare il mondo nella deflazione, termine che indica una riduzione generale dei prezzi dovuta a un calo della spesa dei consumatori e delle aziende. Con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di minori ricavi, perdita di posti di lavoro e diminuzione dei redditi.

Fed disposta a tutto
Il rapporto tra il sistema finanziario e gli istituti centrali è diventato analogo a quello del paziente con il medico, anche se spesso il sollievo è momentaneo. Così nei giorni scorsi i mercati sono rimbalzati dopo che la Federal Reserve ha ammesso di essere disponibile a prendere misure “non convenzionali” e molto espansive, con l’obiettivo far arrivare nelle casse delle banche molto denaro a basso costo per finanziare investimenti e consumi.

Come spiega Maurizio Novelli, global strategist di Zest asset management, la Fed sta tentando di sostituire le banche d’investimento nell’intermediazione del credito, ma queste ultime hanno smesso di prestare soldi all’economia reale (aziende e consumatori) per un ammontare di gran lunga superiore (cinque o seimila miliardi di dollari) a quanto può coprire l’istituto guidato da Ben Bernanke. Ed è per questo motivo ci vorrà del tempo per uscire dal credit crunch. Lo shock è forte perché la crescita dell’ultimo ventennio si è basata proprio sull’abbondanza di liquidità, resa possibile dalle cartolarizzazioni (oggi tanto vituperate) e dalla leva finanziaria che ha permesso alle banche di espandere le attività detenute in bilancio. Si può essere più o meno critici verso questo sistema, ma è un dato di fatto che il suo mancato funzionamento rischia di soffocare l’economia.

Bce, ancora tagli
Il travaso della crisi dalla finanza all’economia ha scosso la Banca centrale europea (Bce), che fino a qualche mese fa sembrava inamovibile nella sua posizione di lotta all’inflazione, indifferente agli umori del mercato finanziario. Con il taglio dei tassi, l’istituto guidato da Jean Claude Trichet intende evitare che la situazione economica si aggravi, dopo due trimestri di crescita negativa che fanno già parlare di recessione. L’inflazione, invece, spaventa meno: a novembre il tasso tendenziale (calcolato come variazione rispetto allo stesso mese dell’anno scorso) si è attestato al 2,1%, in linea quindi con gli obiettivi di stabilità dei prezzi di medio termine.

Ora c’è anche la Cina
Rispetto alle crisi passate, quella attuale ha visto emergere come protagonista, un’altra banca centrale, quella cinese. L’istituto ha praticato il più aggressivo taglio dei tassi degli ultimi undici anni per dare ossigeno all’economia. Inoltre ha deciso di abbassare i livelli di riserva delle banche, con l’obiettivo di ridurre il costo del credito. Tramontata l’ipotesi di decoupling, ossia la capacità di Pechino di resistere al rallentamento statunitense, oggi il Paese si trova a fare i conti con esportazioni in calo, nonostante la stagione natalizia sia alle porte. In Estremo oriente, anche la Banca del Giappone ha varato misure eccezionali per ristabilire il regolare funzionamento del mercato monetario (una manovra sui tassi è poco praticabile dato che sono già a un livello bassissimo, 0,3%).

Mercati obbligazionari pronti per la cura
In un report Morgan Stanley, prevede che i tagli di tassi e le politiche monetarie espansive proseguiranno nei prossimi mesi e qualche timido segnale di miglioramento della situazione comincia a vedersi. Ma è ancora presto per dire che la crisi è superata. Intanto i mercati obbligazionari hanno reagito con un rally dei prezzi e il conseguente calo dei rendimenti, soprattutto sulle obbligazioni a lungo termine (il Treasury americano è sceso sotto il 3% ai minimi storici).
Secondo gli analisti, la prospettiva di ulteriori tagli dei tassi o, comunque, di bassi saggi di riferimento per molto tempo, lascia poco spazio di apprezzamento alle obbligazioni a breve scadenza. Nello stesso tempo i rischi sono superiori alle opportunità sui titoli a lunga scadenza, soprattutto negli Stati Uniti, dove il deficit pubblico toccherà il 7% nel 2009. E l’Italia, che è il terzo Paese con il debito statale più alto del mondo, non è in una situazione migliore, tanto che il differenziale tra il Btp e il Bund decennale tedesco (preso come riferimento per l’Europa), è elevato e il costo per la protezione dal rischio di default (credit default swap) è ai massimi storici.

 

Fonte - www.Morningstar.it

 

 

 

Stati Uniti - Forte distruzione di occupazione

Friday, 5 December, 2008 at 15:36 - di Macromonitor
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I datori di lavoro statunitensi in novembre hanno eliminato posti di lavoro al passo più rapido da 34 anni, mentre il tasso di disoccupazione è balzato al massimo dal 1993. Il numero di impieghi nel settore non agricolo si è ridotto di 533.000 unità, maggior perdita mensile da dicembre 1974, dopo il calo di 320.000 posti in ottobre, rivisto in peggioramento dalla stima iniziale di 240.000 posti eliminati. Il tasso di disoccupazione è salito al 6,7 per cento. Le stime di consenso ipotizzavano una distruzione di 335.000 impieghi ed un tasso di disoccupazione del 6,8 per cento. Il numero di occupati è atteso in ulteriore contrazione il prossimo anno, per effetto dell’aggravarsi della crisi di credito. Il presidente-eletto, Barack Obama, ha annunciato la scorsa settimana un piano per “salvare” (formulazione piuttosto ambigua e di misurazione problematica) o creare 2,5 milioni di impieghi nei prossimi due anni. I primi commenti degli analisti parlano di un mercato del lavoro in novembre che si è “ribaltato”.
Le revisioni per il mese di settembre ed ottobre hanno aumentato le perdite di occupazione di 199.000 posti. L’undicesimo calo mensile consecutivo nel numero di occupati porta il numero di impieghi persi nel 2008 a 1,91 milioni, ma il dato più drammatico è che solo negli ultimi tre mesi sono stati cancellati 1,25 milioni di posti. Gli impieghi di fabbrica si riducono di 85.000 unità, contro una stima di 100.000. Il ritorno al lavoro dei tecnici di Boeing dopo lo sciopero ha contribuito a contenere la perdita di occupazione. Il calo di impieghi nella manifattura include 13.100 posti cancellati nel settore auto e parti di ricambio. La crisi dell’immobiliare continua a colpire pesantemente l’occupazione nel settore delle costruzioni, che perde altri 82.00o posti dopo i 64.000 cancellati in ottobre. L’occupazione nel settore finanziario è diminuita di 32.000 unità, dopo la perdita di 31.000 posti del mese precedente.
Il settore dei servizi, che include banche, assicurazioni, ristoranti e dettaglianti ha sottratto ben 370.000 posti, dopo i 153.000 persi in ottobre. In dettaglio, il settore dei servizi alle imprese, categoria che include i lavoratori temporanei, ha eliminato 136.000 impieghi, mentre gli occupati nel commercio al dettaglio sono calati di altre 91.300 unità, dopo i 62.200 posti persi in ottobre. Il settore dell’istruzione e dei servizi sanitari ha creato 52.000 nuovi impieghi netti, mentre il settore pubblico ha creato 7.000 nuovi posti.
La scomposizione del dato di disoccupazione mostra che l’incremento è totalmente da ascrivere al gruppo di quanti hanno perso il lavoro: questa componente, infatti, passa dal 3,7 al 3,9 per cento del dato totale. Inoltre, il tasso di partecipazione alla forza-lavoro scende dal 66,1 al 65,8 per cento, ed il tasso di occupazione cala dal 61,8 al 61,4 per cento. Di rilevo (negativo) il fatto che il numero di persone non nella forza-lavoro (componente che potrebbe essere riferita a quanti escono dalle liste di disoccupazione e/o hanno smesso di cercare attivamente lavoro) aumenta di ben 700.000 unità.
La settimana lavorativa media si è accorciata a 33,5 ore, il minimo dall’inizio delle rilevazioni di questa serie storica, nel 1964, da 33,6 di ottobre. Il numero di ore medie settimanali dei lavoratori di produzione è diminuito da 40,5 a 40,3, mentre le ore straordinarie sono diminuite a 3,3 ore da 3,5 ore. I salari orari medi sono aumentati dello 0,4 per cento mensile e del 3,7 per cento annuale. Questi dati sono migliori delle stime di consenso, poste rispettivamente a più 0,2 e più 3,4 per cento. In questo contesto, “migliore” va inteso nel senso che con un’inflazione in rapido calo, i salari reali sono tornati positivi.
Su base trimestrale, la perdita di posti di lavoro è all’incirca equivalente a quanto registrato durante la recessione del 1974-75, ma corretto per la crescita della popolazione è uguale alla recessione 1981-82. Il forte peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro si riscontra anche dal totale delle ore lavorate, in calo dello 0,9 per cento mensile e del 6,1 per cento su base trimestrale annualizzata. Il dato sull’occupazione mette pressione al ribasso alla stima di una contrazione del 4 per cento del Pil nel quarto trimestre, ma per avere riscoontri più precisi occorrerà attendere il dato sulla bilancia commerciale, la prossima settimana.
Riguardo i riflessi di tale dato sulle decisioni della Fed, la probabilità di un taglio dei Fed Funds a zero nel meeting del 16 dicembre è destinata ad aumentare.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Il gorgo americano

08 Dicembre 2008 00:12 TORINO - di Mario Deaglio

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Negli Stati Uniti non si vedono ancora file di disoccupati in coda per la minestra, come negli Anni Trenta, ma le statistiche sono senza pietà e lasciano poche illusioni: quasi due milioni di posti di lavoro sono stati perduti nei primi undici mesi dell’anno, oltre mezzo milione dei quali, in un impressionante crescendo, si sono polverizzati nello scorso mese di novembre. Il periodico rapporto della Fed, la banca centrale americana, mostra una crisi che si estende a velocità mai vista, che tocca tutti i comparti dell’economia americana e la cui virulenza non promette affatto di diminuire nei prossimi mesi. Non a caso, il presidente eletto, Barack Obama, ha dichiarato che la situazione è destinata a peggiorare. Per gli Stati Uniti, nel breve periodo, c’è ben poco da fare. Vissuti per quasi due decenni in una cultura che aveva rimosso l’idea stessa di crisi, gli americani risultano tecnicamente e psicologicamente impreparati a subirne una.
Non esiste alcun bottone magico da schiacciare, alcuna misura semplice perché gli Stati Uniti possano uscire in tempi brevi da questa pesantissima situazione; la riduzione del costo del denaro ha frenato temporaneamente la spinta depressiva ma, nell’attuale situazione, non crea alcuna spinta positiva; gli interventi di salvataggio finanziario ingessano il malato ma non bastano a rimetterlo in piedi.
A questo punto è indispensabile che gli europei si domandino se sono necessariamente costretti a essere risucchiati nel gorgo della caduta americana. Molti pensano di sì: in Germania, la Bundesbank, prevede per il 2009 le peggiori condizioni economiche da 16 anni; il pessimismo è molto profondo in Gran Bretagna, la Spagna combatte a fatica contro una violenta crisi edilizia. E tuttavia la «variante europea» della crisi è nettamente meno virulenta di quella americana e potrebbe risolversi con una caduta produttiva più ridotta e più breve.
Che cosa rende l’Europa meno vulnerabile dell’America? Il risparmio delle famiglie. Le famiglie americane sono state abituate da due generazioni a spendere oggi i soldi che presumono di incassare domani; per anni i consumi delle famiglie americane sono stati alimentati dai guadagni di Borsa, ora la riduzione dei consumi è determinata anche dalle perdite del listino; le loro carte di credito non hanno più credito residuo, i conti in banca sono quasi sempre in rosso. Non si può quindi far conto su un sussulto della voglia di consumare che non sarebbe accompagnata, sempre nel breve periodo, da alcuno strumento finanziario per soddisfarla.
L’Europa non è così. Quando spendono, o, viceversa, decidono di non spendere, gli europei - con l’eccezione degli inglesi - spendono o non spendono soldi propri. Per questo in Europa una molla importante per la tenuta dell’economia è in mano ai risparmiatori-consumatori che, per parafrasare un detto di Einaudi, sono dotati di memoria di elefante (che li ha portati subito a ricordare gli Anni Trenta) cuore di coniglio (che li induce a non prendere alcun rischio) e gambe di lepre (che li hanno fatti scappare dai supermercati come dai mercati finanziari). Ma sono anche dotati di un conto in banca quasi sempre in nero anziché in rosso.
Questa situazione, così diversa da quella americana, raggiunge la sua massima peculiarità in Italia, come si ricava dal 42° Rapporto Annuale del Censis, reso noto ieri, più della metà delle famiglie italiane non ha veri problemi finanziari. Il Rapporto ritrae un paese impaurito più che indebitato, capace di tenuta «trasversale», sul quale una modesta ridistribuzione a favore delle fasce di reddito più basso potrebbe sostenere i consumi più che in altri paesi. Non si tratta, naturalmente, di «consumare per consumare» ma di non rinunciare a consumi abituali per paure irrazionali, oggi molto diffuse; si può così costituire uno «zoccolo duro» di tenuta nei prossimi mesi sul quale provare a costruire una ripresa, magari con nuovi prodotti più a buon mercato e - per dirla con Giuseppe De Rita, che del Censis è da anni l’animatore - più «frugali», più adatti allo spirito dei tempi. Occorrerebbe aggiungere che proprio questa situazione di emergenza può rappresentare l’occasione perché si formi un consenso sociale attorno a molte delle riforme da troppo tempo tenute nel cassetto.
In questa terribile tempesta dell’economia mondiale, insomma, rischiano assai di più i paesi simili a moderni velieri costruiti per le regate che una chiatta, pesante, assai lenta ma molto stabile come è l’economia italiana. Non basta però che la barca italiana corra meno rischi e che derivi un vantaggio dall’essere vecchia. Occorre che questo vantaggio venga sfruttato; se è vera l’analisi di De Rita, i consumi natalizi faranno registrare soltanto una flessione relativamente modesta e il momento della verità verrà dopo Natale quando milioni di famiglie, e l’élite politica che le governa, dovranno prendere decisioni che vanno dai bilanci famigliari ai bilanci pubblici. Se in Europa e in Italia prevarranno i «cuori di coniglio», se tutti giocheranno a un «taglia, taglia» indiscriminato, seguiremo l’America nel baratro di una crisi incerta e di lunghezza indeterminata. Quanto più saremo, a tutti i livelli, razionali e responsabili, tanto meno lunga e dura risulterà la crisi.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

  Una notte lunga 3 anni, dice il super-gufo

08 Dicembre 2008 00:57 NEW YORK - di Nouriel Roubini

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I mercati finanziari di tutto il mondo hanno attraversato nel 2008 la loro peggiore crisi dalla Grande depressione degli anni Trenta. Sono falliti importanti istituti finanziari, altri sono stati svenduti o sono sopravvissuti solo grazie a piani di salvataggio di considerevoli dimensioni.
I mercati globali azionari hanno ceduto di più del 50 per cento; gli spread sui tassi d´interesse sono saliti alle stelle; è emersa una grave crisi della liquidità e del credito e molti paesi a economia emergente si sono rivolti barcollando al Fondo Monetario Internazionale in cerca di aiuto. Che cosa ci riserva quindi il 2009? Il peggio è alle spalle o è ancora davanti a noi? Per rispondere a queste domande, dobbiamo comprendere che ciò che è attualmente in corso è un circolo vizioso di contrazione economica e di condizioni finanziarie in continuo peggioramento.
Quel che è certo è che gli Stati Uniti vivranno la loro peggiore recessione da decenni: una contrazione profonda e prolungata che si protrarrà per almeno 24 mesi oltre la fine del 2009. Inoltre, la contrazione si estenderà all´insieme dell´economia globale. La recessione coinvolgerà l´Eurozona, la Gran Bretagna, l´Europa Continentale, il Canada, il Giappone e le altre economie avanzate. Sussiste anche il rischio di un atterraggio violento per le economie dei paesi con mercati emergenti, conseguentemente al graduale trasmettersi a queste zone degli shock finanziari e reali tramite i rapporti commerciali, finanziari e valutari.

Nella prima parte del 2008, nelle economie avanzate, la recessione aveva suscitato il timore di una stagflazione analoga a quella degli anni Settanta (inflazione abbinata a una stagnazione economica). Dato, tuttavia, che la domanda aggregata sta scendendo più dell´offerta aggregata, l´indebolimento dei mercati dei beni, dove si saranno ristretti anche i margini per una correzione al rialzo dei prezzi da parte dei produttori,  comporterà un´inflazione più bassa.
Per lo stesso meccanismo, l´aumento della disoccupazione avrà un effetto di contenimento del costo del lavoro e della crescita dei salari.
Questi fattori, combinati con prezzi delle materie prime in drastica caduta, produrranno, nelle economie avanzate, un allentamento dell´inflazione che potrà avvicinarsi a un livello dell´1 per cento, il che solleverà il timore di una deflazione piuttosto che di una stagflazione.
La deflazione è pericolosa perché porta alla trappola della liquidità: dato che i tassi interbancari nominali a breve non possono scendere sotto lo zero, la politica monetaria diventa inefficace. La flessione dei prezzi riflette un costo reale del capitale alto e un aumento dell´entità reale del debito nominale che a loro volta causano una riduzione dei consumi e degli investimenti, generando un circolo vizioso nel quale i redditi e l´occupazione si contraggono sempre di più, aggravando la caduta della domanda e dei prezzi.
Poiché la politica monetaria tradizionale diventa inefficace, si tende a insistere nell´utilizzo di politiche non ortodosse: operazioni di salvataggio a favore di investitori, di istituti finanziari e di debitori; iniezioni massicce di liquidità alle banche affinché rendano più disponibile il credito e azioni ancora più radicali per abbassare i tassi d´interesse delle obbligazioni di Stato a lungo termine e per ridurre lo spread tra i tassi delle obbligazioni societarie e quelle del debito di Stato.
L´attuale crisi globale è stata innescata dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense, bolla che tuttavia non l´ha originata. Gli eccessi del credito negli Stati Uniti hanno coinvolto il settore dei mutui per gli immobili residenziali e per quelli commerciali, l´indebitamento con carte di credito, per l´acquisto dell´auto e per finanziare gli studi. L´eccesso ha pervaso anche il settore dei prodotti cartolarizzati, dove questi debiti sono stati trasformati in derivati tossici; quello dei finanziamenti alle amministrazioni locali; quello dei finanziamenti destinati agli acquisti speculativi di attività produttive con una leva alta ? mai conclusisi; quello delle obbligazioni societarie che ora subiranno perdite massicce nello scontare il repentino aumento dei fallimenti e, infine, quello del pericoloso e non regolamentato mercato degli strumenti finanziari per "assicurarsi" contro l´incapacità delle aziende di onerare i debiti.
In aggiunta, queste patologie non sono rimaste confinate agli Stati Uniti: in molti altri paesi si è assistito al gonfiarsi di una bolla immobiliare, alimentata da un eccesso di credito a condizioni stracciate che non rifletteva i rischi sottostanti. Contemporaneamente cresceva anche la bolla delle materie prime, quella degli acquisti speculativi di attività produttive e quella degli hedge fund. Difatti, ciò cui stiamo assistendo oggi è lo smantellamento del sistema bancario "ombra", vale a dire, dell´insieme degli istituti finanziari non-bancari che si comportavano come banche, concedendo prestiti a breve termine e con mezzi liquidi, avvalendosi di una leva alta e investendo a lungo termine in attività illiquide.
Il risultato di tutto ciò è oggi lo sgonfiarsi violento della più grande bolla del patrimonio e del credito, con perdite per inesigibilità del credito che potrebbero avvicinarsi alla spaventosa cifra di 2.000 miliardi di dollari. Di conseguenza, a meno che i governi non ricapitalizzino rapidamente gli istituti finanziari, la stretta creditizia si acuirà in ragione del fatto che il ritmo dell´acquisizione delle perdite supera quello della ricapitalizzazione, costringendo le banche a restringere il credito.
I prezzi dei titoli azionari e di altri investimenti rischiosi sono crollati drasticamente dalle punte del 2007, ma anche così sussistono ancora i rischi di ribassi notevoli. Attorno alla possibilità che la caduta dei prezzi di molti dei beni più rischiosi su cui si è investito, tra cui i titoli azionari, sia stata tale da suggerire che si stia consolidando un pavimento e che ad esso possa seguire una rapida ripresa del mercato azionario, si sta formando tra gli analisti un consenso.
Il peggio, però, deve ancora venire. Dato che gli analisti si illudono ancora che la contrazione economica possa essere leggera e di breve durata, nei prossimi mesi, le notizie macroeconomiche e le relazioni sui profitti e sugli utili peggiori delle attese in tutto il mondo, aggraveranno la spinta al ribasso delle quotazioni degli investimenti più rischiosi.
Anche se il rischio di un crollo totale sistemico è stato ridotto dalle misure prese dal G7 e da altre economie per sostenere i propri sistemi finanziari, il sistema presenta ancora delle vulnerabilità. La stretta creditizia si acuirà. Determinato dalla necessità degli hedge fund e di altri istituti di investimento che operano con una leva alta di vendere le attività finanziarie in mercati a corto di liquidità e in sofferenza ? vendite che a loro volta determineranno una ulteriore caduta dei prezzi e altri fallimenti di istituti finanziari ? andrà avanti il processo di reintegro dei depositi richiesti per i margini di garanzia. Qualche economia dei paesi emergenti potrà essere colpita in pieno da una crisi finanziaria.
Il 2009 sarà quindi un anno doloroso di recessione globale e di ulteriori sofferenze, perdite e fallimenti. Solo delle azioni politiche aggressive coordinate ed efficaci da parte dei paesi ad economia avanzata e da quelli ad economia emergente possono garantire una ripresa dell´economia globale nel 2010, evitando in questo modo che si entri in un periodo ancor più lungo di stagnazione economica.

Nouriel Roubini è professore di economia presso la Stern School of Business della New York University e presidente della società di consulenza economica e finanziaria Rge Monitor (www.rgemonitor.com)
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

  Martedì 09 Dicembre 2008   Sabato 13 Dicembre 2008   Domenica 15 Dicembre 2008  
       
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  Crisi, la lobby oligarchica di cui non dobbiamo fidarci

08 Dicembre 2008 01:13 LUGANO - di Alfonso Tuor

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L’economia statunitense a novembre ha perso 533.000 posti di lavoro, si tratta del maggior calo in un mese dal dicembre 1974 (602.000). Il tasso di disoccupazione è passato dal 6,5% al 6,7%, il più elevato dal 1993. Lo ha comunicato il Dipartimento del lavoro statunitense. La perdita di 533.000 posizioni lavorative è nettamente superiore alle stime degli economisti che avevano preventivato la perdita di 335.000 unità. È stato inoltre rivisto in peggio il dato di ottobre con una perdita di occupati salita di 80.000 unità a 320.000 unità.
Nemmeno i più pessimisti avrebbero potuto prevedere la rapidità e l’ampiezza dell’attuale recessione. Le notizie, che si succedono a ritmo incalzante, assomigliano sempre più ad un «bollettino di guerra». L’ultima in ordine di tempo giunge dagli Stati Uniti: nel solo mese di novembre sono stati persi 533mila posti di lavoro. Dall’inizio dell’anno, ossia nell’arco di 11 mesi, ne sono andati in fumo 1.91 milioni. La situazione in Europa non è migliore, come dimostrano i tagli dei tassi di interesse annunciati giovedì scorso dalla Banca centrale europea e dalla Banca d’Inghilterra e da quella di Svezia. Gli interventi di banche centrali e governi, che si sono susseguiti negli ultimi mesi, non producono risultati significativi e oggi il mondo è sull’orlo di una nuova Grande Depressione.
Per evitare di cadere in una spirale deflazionistica, gli Stati Uniti hanno chiaramente scelto di usare tutti i mezzi a loro disposizione. Ancora ieri il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, non ha escluso che la banca centrale, che oramai è diventata una banca onnipresente, possa stampare dollari a ritmi ancora più sostenuti e mettersi ad acquistare i titoli del debito pubblico americano. La scelta americana è comprensibile: per gli Stati Uniti la caduta dei prezzi avrebbe conseguenze devastanti.
Infatti il debito accumulato da famiglie, imprese, Stato federale e dallo stesso Paese crescerebbe rispetto a redditi in calo e ad entrate fiscali in forte diminuzione. Il rischio di una caduta del valore del dollaro e dell’inflazione (o anche dell’iperinflazione), come oramai viene ripetutamente scritto, appare accettabile, poiché la tendenza all’aumento dei prezzi possiede la «virtù» taumaturgica di erodere lo stock del debito.
L’Europa segue per il momento la politica della Germania di Angela Merkel e della Bancacentrale europea, che invitano a non bruciare tutte le cartucce. Questa linea è sempre più avversata da Francia e Gran Bretagna, che invocano invece una politica monetaria più aggressiva e pacchetti fiscali di rilancio dell’economia più consistenti. La posizione tedesca e quella della Bce hanno una loro legittimità.
Innanzitutto, non è certo che pacchetti fiscali di rilancio dell’economia producano gli effetti desiderati. I modesti risultati dei numerosi piani di rilancio varati negli ultimi venti anni dal Giappone rafforzano questi dubbi. Inoltre, la maggior parte dei Paesi europei (l’Italia è un’eccezione) dispongono di ottimi leggi sociali, che dovrebbero limitare l’impatto – pur molto doloroso – della crisi soprattutto per i ceti meno favoriti.
In secondo luogo, ed è il punto più importante, i deficit pubblici sono destinati ad aumentare per il calo delle entrate fiscali e l’aumento delle spese sociali. Dato che molti Paesi europei (come l’Italia, la Grecia e il Portogallo) hanno già consistenti debiti pubblici, il varo di dispendiosi pacchetti fiscali di rilancio farebbe esplodere i loro disavanzi pubblici e soprattutto incrinerebbe la credibilità dei titoli obbligazionari grazie ai quali gli Stati si finanziano. Vi sono già alcuni segnali.
Se la sfiducia dei risparmiatori dovesse intaccare anche i titoli statali, le conseguenze sarebbero enormi. Per i Paesi di Eurolandia si prospetterebbe un conflitto tra Paesi risparmiatori (Germania, Olanda, ecc.) e quelli più indebitati, che metterebbe in pericolo anche la stessa Unione monetaria. Per i Paesi non appartenenti all’area euro, come la Gran Bretagna, si metterebbe in discussione lo stesso valore della moneta. Il governo tedesco teme che interventi avventati non producano risultati apprezzabili, ma solo una gravissima crisi monetaria. Dato che il mercato dei capitali è la nuova linea del fronte di questa crisi, per Berlino l’imperativo categorico è che la credibilità dei titoli pubblici non venga incrinata.
Queste considerazioni assumono maggiore forza, ed è il secondo punto, per la consapevolezza che la riduzione dei tassi della Bce permetterà la diminuzione dei tassi ipotecari, dando fiato alle famiglie del Vecchio Continente, ma non si tradurrà in una diminuzione del costo del denaro per le imprese. Infatti per le piccole e medie imprese l’accesso al credito bancario rimane molto arduo e per le grandi imprese il finanziamento tramite l’emissione di obbligazioni societarie è possibile solo a tassi proibitivi.
Il risultato è evidente: l’aumento del costo del denaro crea una miscela esplosiva per società che già devono fare i conti con una contrazione delle vendite. In queste condizioni, rischia di non essere sbagliata la decisione di conservare delle cartucce per evitare che vada in fumo il bagaglio di competenze accumulato nel corso dei decenni dall’industria europea, che rappresenta la vera ricchezza del Vecchio Continente.
In terzo luogo, le famiglie e le imprese europee non sono indebitate come quelle americane. Anzi, in Europa, sebbene negli ultimi anni sia diminuito, vi è ancora un consistente tasso di risparmio. Quindi intaccare i risparmi sarebbe pericoloso sia economicamente sia politicamente. Tutto ciò induce a sostenere che la posizione del governo tedesco e della Banca centrale europea abbia solide motivazioni, non tenute in sufficiente considerazione da coloro che le criticano e che invocano interventi più incisivi.
Tra questi ultimi spiccano alcuni esponenti del mondo finanziario anglosassone e i grandi giornali europei che a loro fanno riferimento. Costoro sono riusciti negli ultimi mesi a convincere il mondo che salvare il settore bancario equivarrebbe a salvare l’economia. In queste operazioni di salvataggio sono state bruciate centinaia di miliardi senza che gli Stati chiedessero nemmeno il cambiamento dei manager che avevano provocato il disastro. Ora costoro, consapevoli che questi salvataggi non hanno turato le voragini nascoste nei bilanci delle banche che dirigono, sembrano spingere per allentare ogni argine alla spesa pubblica per poter ancora giustificare altri aiuti statali. Occorre che Governi e Parlamenti europei riflettano attentamente prima di seguire questi consigli e occorre che tutti si ricordino che questa gravissima crisi non è il frutto di un destino cinico e baro, ma di un’oligarchia finanziaria che ha retto le sorti del mondo negli ultimi anni.
 

 

 

  La crisi peggiora, non si riesce a turare le falle

15 Dicembre 2008 00:30 LUGANO - di Alfonso Tuor

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Siamo prossimi ad una nuova fase di dirompente attività della crisi finanziaria. L’avvio di questa nuova eruzione vulcanica è dato dall’inimmaginabile rapidità e profondità della contrazione dell’economia mondiale, che ha investito in pieno anche Paesi ad alta crescita, come India e Cina, e dalla crisi del mercato dei capitali.
Quest’ultima verrà ulteriormente acuita dalla decisione del Senato americano di negare gli aiuti alle tre case automobilistiche di Detroit, che però verranno temporaneamente salvate grazie all’intervento del Tesoro. L’accelerazione dei tempi della crisi induce a ritenere che non saranno più rinviabili scelte dolorose che intaccheranno la vita di tutti noi.
La nuova miscela esplosiva di questa crisi è data dalla combinazione di una rapida e forte contrazione delle vendite delle imprese industriali e dei ricavi delle società attive nel settore dei servizi, da una parte, e dell’insostenibile aumento del costo del credito o in alcuni casi della completa chiusura dell’accesso al credito di molte società.
Questa miscela, che è una peculiarità dello scoppio di qualsiasi bolla del credito, fa sì che imprese ritenute fino a poco tempo fa sane e quindi immuni da eccessivi pericoli vengano risucchiate nel vortice della crisi. Un esempio serve a chiarire questo processo: la tedesca Daimler, che risente del crollo delle vendite di automobili, ha potuto raccogliere lo scorso primo dicembre 1 miliardo di euro per tre anni solo emettendo obbligazioni con rendimenti di 600 punti base superiori al tasso Libor, ossia ha dovuto pagare 20 volte quello che pagava nel 2005.
Questa esplosione dei costi di finanziamento non riguarda solo le case automobilistiche ed è dovuta non solo alla crescente avversione al rischio degli investitori, ma anche alle garanzie statali offerte dagli Stati europei sulle obbligazioni emesse dalle banche. Questa grave distorsione dei meccanismi di funzionamento del mercato dei capitali ha conseguenze gravissime: sul mercato dei capitali le banche, anche sull’orlo della bancarotta, hanno costi di rifinanziamento inferiori alle imprese industriali.
Un esempio può essere utile per chiarire questo punto: giovedì 4 dicembre il colosso bancario americano Citigroup, recentemente salvato da Washington e che usufruisce della garanzia statale, ha potuto raccogliere 3,75 miliardi di dollari per tre anni grazie all’emissione di obbligazioni valutate dalle società di rating con la tripla A (che sta ad indicare titoli emessi da società giudicate a minore rischio di fallimento) offrendo un rendimento inferiore al 3%.
Gli interventi statali delle ultime settimane determinano un duplice paradosso: gli aiuti alle banche non solo non hanno riaperto l’accesso delle imprese al credito e hanno contribuito a rendere più elevato il costo del finanziamento delle società industriali sul mercato dei capitali, ma stanno anche cominciando ad erodere la credibilità degli stessi titoli con cui gli Stati si finanziano.
Questo fenomeno si manifesta finora soprattutto in modo indiretto attraverso il tasso di cambio, che colpisce in particolare i Paesi indebitati con l’estero. L’esempio sotto gli occhi di tutti è la caduta del tasso di cambio della lira sterlina, che è dovuto alla crescente sfiducia sul fatto che lo Stato britannico sia in grado di attirare i capitali esteri necessari per finanziare un deficit pubblico esploso a causa degli enormi costi del salvataggio del sistema bancario inglese, del pacchetto di misure di rilancio dell’economia e della contrazione delle entrate fiscali.
In Europa i primi segnali di sfiducia nei titoli di Stato si manifestano anche in modo diretto attraverso l’aumento del differenziale dei rendimenti tra le obbligazioni dello Stato tedesco e quelle di Paesi come Grecia, Portogallo ed Italia. E proprio il timore di una crisi di fiducia nei confronti dei titoli di Stato dei Paesi con debiti pubblici considerevoli ha giustamente spinto il governo tedesco a contrastare le proposte di grandi pacchetti di rilancio economico perorate da Francia e Gran Bretagna.
Tutto ciò fa prevedere che le scelte dolorose non siano più rinviabili. I governi saranno presto costretti a prendere atto che è fallito il tentativo di salvare il sistema bancario. Gli interventi non sono riusciti a ricreare un clima di fiducia (le stesse banche continuano a non prestarsi i soldi tra loro), i buchi nascosti nelle pieghe dei bilanci delle grandi banche continuano ad allargarsi e sono destinati ad aumentare ancor più a causa della crescita delle insolvenze dovuta alla recessione.
Inoltre, nonostante i capitali e le garanzie statali, le banche stanno stringendo l’accesso al credito da parte di imprese e famiglie, e la crisi, che all’inizio era limitata al mercato interbancario, si è estesa investendo il mercato monetario, i finanziamenti a breve delle imprese e ora anche il mercato dei capitali. Si deve purtroppo constatare il fallimento delle misure finora adottate ed evitare che si distrugga la vera ricchezza di tutti i Paesi, ossia il loro tessuto industriale.
Gli Stati Uniti, che continuano ad essere l’epicentro della crisi, hanno implicitamente già riconosciuto il fallimento delle azioni finora intraprese e hanno deciso di correre il rischio del crollo del dollaro e dell’iperinflazione, stampando in grande quantità dollari per cercare di turare le falle che continuano ad aprirsi.
Questa scelta appare logica e forse anche attraente per un Paese fortemente indebitato, che teme la deflazione come un disastro dal quale non riuscirebbe più a risollevarsi. L’inflazione invece ha il potere di ridurre lo stock del debito di famiglie, imprese, Stato e Paese e quindi anche di risanare il sistema bancario statunitense.
Il sogno dei banchieri americani è proprio un grande incendio inflazionistico che bruci la carta straccia prodotta negli ultimi anni. Il sentiero imboccato dagli Stati Uniti, che oggi sembra in discesa, diventerà però una salita particolarmente ripida non appena asiatici ed arabi si dimostreranno riluttanti a finanziare le enormi spese americane. Il segnale d’allarme verrà quindi dato dal calo del dollaro.
I Paesi europei, invece, che possono vantare conti con l’estero equilibrati e buoni tassi di risparmio delle famiglie, non dovrebbero seguire la politica americana, ma quella indicata dal governo tedesco. Berlino dice sostanzialmente che la crisi sarà lunga e non bisogna bruciare subito tutte le cartucce, anche perché non è certo che i piani di rilancio producano risultati significativi.
Inoltre, sempre secondo il governo tedesco, bisogna difendere la credibilità dei titoli con cui gli Stati si finanziano, evitando di trasformare questa crisi in una devastante crisi monetaria. Questa prudenza appare condivisibile anche perché nessuno sa se c’è e quale sia la ricetta per uscire dal disastro provocato dall’oligarchia finanziaria di Wall Street e da coloro che in tutto il mondo ne hanno imitato le gesta.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

 

DRAMMATICO SIMBOLO DI UNA PRESIDENZA: BUSH PRESO A SCARPE IN FACCIA

15 Dicembre 2008 00:18 BAGDAD (IRAQ) - di Corriere della Sera
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Fuori programma a Bagdad per George W. Bush. Durante la conferenza stampa congiunta con il premier iracheno Nuri al Maliki nella sua residenza un giornalista iracheno ha lanciato le scarpe contro il presidente Usa che è riuscito a schivarle.
L'uomo, portato via dalle forze di sicurezza, era seduto in terza fila e mentre i due leader si stringevano le mani davanti alle telecamere, si è alzato in piedi gridando rivolto a Bush «questo è il tuo bacio d'addio, cane» e lanciando subito dopo una scarpa dopo l'altra verso il presidente Usa.
SCHIVATE - Bush si è chinato per evitare la prima scarpa mentre la seconda l'ha evitata per un pelo. Il presidente ha tentato di sdrammatizzare l'accaduto ironizzando: «L'unica cosa che posso dirvi che si trattava di scarpe taglia 10 (una 42 in Italia, ndr)». Nella cultura islamica l'insulto «cane» con cui Bush è stato apostrofato dal giornalista è considerato uno tra i più pesanti perché quello che in occidente è considerato il miglior amico dell'uomo dai musulmani è visto come un animale impuro. Allo stesso modo essere colpito dalla suole delle scarpe è un altro affronto. Quando il 9 aprile del 2003 le truppe Usa entrarono a Baghdad abbattendo una grande statua di Saddam Hussein molti tra gli iracheni presenti si scagliarono sull'effigie del rais colpendola con le scarpe per sfregio.
CHI È -Il giornalista iracheno è stato individuato come Muntazer al-Zaidi del canale tv «Al-Baghdadia», di proprietà irachena ma diffuso dal Cairo. Altri giornalisti iracheni presenti nella sala si sono alzati in piedi per scusarsi con Bush che ha ringraziato minimizzando: «Vi ringrazio... ma in realtà non ho capito cosa volesse quel tizio».
LA GUERRA NON È ANCORA FINITA - L'incidente dopo che il presidente aveva affermato, parlando davanti ai giornalisti che «la guerra in Iraq non è ancora finita». Scambiando alcune battute con la stampa al suo seguito dopo avere incontrato il premier iracheno Nuri al-Maliki, Bush ha aggiunto: «C'è ancora lavoro da fare», prima di precisare che l'accordo di sicurezza firmato tra Usa ed Iraq, garantisce al paese mediorientale «una solida base, per oggi e per il futuro». L'accordo, che prevede la fine di una presenza militare americana di ampio respiro entro il 2011, è stato raggiunto nei giorni scorsi
LA VISITA - Era stata una visita a sorpresa. Come sempre è avvenuto, per ovvie ragioni di sicurezza. Ma la sicurezza non è mai troppa. Il presidente americano George W. Bush è giunto domenica in Iraq, ha precisato la Casa Bianca, per incontrare i leader iracheni, ringraziare le truppe e per celebrare il nuovo accordo sulla sicurezza raggiunto con il governo iracheno.
La visita arriva all'indomani del via libera nel Parlamento iracheno dell'intesa siglata con gli Usa, che prevede il ritiro di tutte le truppe statunitensi entro la fine del 2011. Si tratta della quarta visita di Bush dall'invasione americana del paese nel 2003.
GLI INCONTRI - Sebbene l'Iraq sia ormai scivolato nell'ordine di priorità delle preoccupazioni statunitensi, surclassato dalla recessione che ha colpito l'economia Usa, i sondaggi mostrano che per la maggior parte degli americani la guerra è stata un errore. Dopo quasi 6 anni dall'inizio di un conflitto che è costato la vita a più di 4.200 militari Usa e e a decine di migliaia di iracheni, in Iraq rimangono ancora 140.00 soldati statunitensi. Il segretario alla Difesa, Robert Gates, giunto a Baghdad sabato, anche lui senza preavviso, ha comunque assicurato passando in rassegna le truppe «che le forze statunitensi nel Paese sono entrate nell'ultima tappa dell'impegno preso da Washington in Iraq».
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

Fed porterà tassi vicino a zero, pensa a misure non tradizionali

15 Dicembre 2008 13:56 - di REUTERS
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WASHINGTON (Reuters) - Federal Reserve dovrebbe tagliare domani i tassi di interesse Usa, avvicinandoli allo zero, ma quello che realmente avrà importanza saranno le osservazioni dell'istituto centrale su eventuali misure 'non convenzionali' da utilizzare contro la recessione. Gli economisti prevedono una dichiarazione chiara da parte della banca centrale su un dispiego aggressivo di "manovre quantitative di allentamento", per mettere al riparo l'economia da una forte contrazione, ma si dovrà probabilmente attendere per conoscere i dettagli di tali misure. La dichiarazione, secondo gli economisti, accompagnerà la decisione di un taglio del target per i tassi overnight di almeno mezzo punto percentuale che porterebbe i tassi sui fondi federali allo 0,5%, ai minimi della serie ufficiale iniziata nel luglio del 1954.

Il taglio dovrebbe essere annunciato domani al termine di un incontro di due giorni, prolungato rispetto all'originale durata di un giorno proprio per permettere lo studio di passi inusuali finalizzati a ridare fiato all'economia in crisi. "Da adesso in poi la politica monetaria, nel tentativo di stimolare l'economia, dovrà basarsi su strumenti non tradizionali, che non rientrano esclusivamente nei cambiamenti dei tassi di interesse", ha commentato l'ex governatore della Fed Lyle Gramley. "Si dovrà certamente ammettere che in futuro andranno utilizzati in maniera aggressiva metodi non tradizionali per aiutare l'economia". Dal fallimento a settembre della banca d'investimenti Lehman Brothers, il crollo dell'immobiliare Usa ha scatenato il panico nel mercato del credito, colpendo l'intera economia. Molti economisti prevedono la riduzione dell'attività economica americana di almeno un annualizzato 6% nel quarto trimestre, mentre balza il livello di disoccupazione. E' stato lo stesso presidente della Fed Ben Bernanke a prevedere, in un discorso a inizio mese, l'utilizzo di misure quantitative di allentamento, le stesse che la banca del Giappone he messo in atto per porre fine a dieci anni di stagnazione deflazionistica negli anni '90, iniettando liquidità nel sistema bancario.

Bernanke ha sottolineato che Federal Reserve utilizzerà tutti i mezzi a sua disposizione per proteggere l'economia. Sullo sfondo di rendimenti dei titoli di Stato già molto bassi ed elevati costi nel finanziamento al settore privato legati al timore delle banche nel concedere prestiti, gli analisti sono del parere che la banca centrale potrebbe intervenire sui mutui privati per far scendere i costi dei prestiti garantiti da immobili. Acquistando titoli garantiti da mutui la banca centrale potrebbe favorire il ridursi del differenziale di rendimento tra i tassi sulle obbligazioni e quelli sui titoli di Stato, consentendo alle banche di concedere finanziamenti a tassi meno elevati. Tassi inferiori sui mutui dovrebbero rilanciare la domanda di immobili frenandone la discesa dei prezzi e limitando così le massicce perdite nei bilanci bancari che hanno innescato la crisi globale del credito. "Il mio consiglio alla Fed si riassume in un'unica parola; 'spread'. Fortunatamente non cerdo Bernanke abbia bisogno di un consiglio simile perché lo capisce" osserva Alan Blinder, ex vice Fed e docente di economia a Princeton. La banca centrale Usa ha già avviato un orientamento monetario espansivo di un genere simile a quello quantitativo, iniettando oltre 1.000 miliardi di dollari di nuovi fondi sul mercato interbancario in modo da prevenirne il congelamento. Simili misure di liquidità vengono tradizionalmente "sterilizzate" al fine di non accrescere l'offerta di moneta con ricadute sull'inflazione.

Federal Reserve ha però abbandonato simili misure nel tentativo di ridurre i costi dei finanziamenti al settore privato, rimasti finora elevati nonostante ripetuti e aggressivi tagli dei tassi ufficiali. I timori di inflazione sono inoltre stati sostituiti da quelli di un'eccessiva caduta dei prezzi che porti addirittura a deflazione, come è successo all'economia nipponica negli anni '90. "L'obiettivo chiave è quello di acquistare asset che possano muovere gli spread: la politica monetaria ha lo scopo di ridurre i costi di finanziamento per consumatori e imprese" osserva Dean Maki, uno dei due economisti capo per gli Usa di Barclays Capital. "Non riteniamo che il miglior utilizzo del bilancio Fed sia un'ulteriore riduzione del tasso privo di rischio" aggiunge. Per tasso 'risk-free' si intende quello sui titoli di Stato dal momento che Washington, che può far stampare dollari attraverso Federal Reserve, non potrebbe per questo risultare insolvente sul debito in valuta Usa. Sul sito www.reuters.it altre notizie Reuters in italiano
 

Fonte - Reuters

 

 

TASSI USA: TARGET FED FUNDS DA 0.0% A 0.25%

16 Dicembre 2008 20:21 NEW YORK - di WSI
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Una mossa clamorosa, non era mai accaduto prima: la Federal Reserve abbassa i tassi americani drasticamente, lasciando il target dei fed funds in un range compreso tra 0.00% e 0.25%, rispetto al precedente 1.0%.
Una mossa clamorosa, non era mai accaduto prima: la Federal Reserve abbassa i tassi americani drasticamente, lasciando il target dei fed funds in un range compreso tra 0.00% e 0.25%, rispetto al precedente 1.0%.
Il taglio, il nono consecutivo nella serie di ribassi iniziata nell'ottobre 2007, ha un’entita’ minima pari allo 0.75%. La decisione segue il taglio di mezzo punto percentuale deciso nel meeting di fine ottobre. Abbassato dello 0.75% anche il tasso di sconto allo 0.50%.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di fissare il target sui fed funds in un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%.
Dall’ultimo meeting del Comitato, le condizioni del mercato del lavoro si sono deteriorate, e gli ultimi dati disponibili indicano che la spesa al consumo, gli investimenti aziendali e la produzione industriale sono diminuiti. I mercati finanziari restano sotto pressione e le condizioni del mercato del credito restano difficili. Nel complesso, l’outlook sull’attivita’ economica si e’ indebolito ulteriormente.
Nel frattempo, le pressioni inflazionistiche si sono ridotte considerevolmente. Alla luce del calo dei prezzi energetici e di altre commodities e delle deboli prospettive per l’attivita’ economica, il Comitato si aspetta un’ulteriore moderazione dell’inflazione nei prossimi trimestri.
La Federal Reserve fara’ uso di tutti gli strumenti disponibili per promuovere il ripristino di una crescita economica sostenibile e garantire la stabilita’ dei prezzi. In particolare, il Comitato anticipa che le deboli condizioni economiche garantiranno probabilmente bassi livelli del costo del denaro per ancora diverso tempo.
L’obiettivo della politica adottata dal Comitato in futuro sara’ quello di supportare il funzionamento dei mercati finanziari e stimolare l’economia attraverso operazioni a mercato aperto ed altre misure che sostengano il bilancio della Fed ad un elevato livello. Come annunciato in precedenza, nei prossimi trimestri la Federal Reserve acquistera’ larghe quantita’ di debito ed MBS (Mortgage Debt Securities) per fornire supporto ai mercati dei mutui ed immobiliare, e rimarra’ pronta ad espandere l’acquisto di tali strumenti. Il Comitato sta inoltre valutando i potenziali benefici legati all’acquisto di Treasury di lungo termine. Agli inizi del prossimo anno la Federal Reserve implementera’ il programma di Term Asset-Backed Securities Loan Facility per facilitare l’estensione del credito alle famiglie e alle aziende. La Federal Reserve continuera’ a considerare diversi modi nell’utilizzo del proprio bilancio per supportare ulteriormente i mercati del credito e l’attivita’ economica.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Christine M. Cumming; Elizabeth A. Duke; Richard W. Fisher; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H. Stern; e Kevin M. Warsh.
In un’azione collegata, Il Consiglio dei Governatori ha approvato all’unanimita’ l’abbassamento di 75 punti base del tasso di sconto allo 0.50%. In tale azione, il Consiglio ha approvato le richieste presentate da Board of Directors delle Federal Reserve Bank di New York, Cleveland, Richmond, Atlanta, Minneapolis e San Francisco.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di ridurre il tasso interbancario in un range di 0.0%-0.25%:
The Federal Open Market Committee decided today to establish a target range for the federal funds rate of 0 to 1/4 percent.
Since the Committee's last meeting, labor market conditions have deteriorated, and the available data indicate that consumer spending, business investment, and industrial production have declined. Financial markets remain quite strained and credit conditions tight. Overall, the outlook for economic activity has weakened further.
Meanwhile, inflationary pressures have diminished appreciably. In light of the declines in the prices of energy and other commodities and the weaker prospects for economic activity, the Committee expects inflation to moderate further in coming quarters.
The Federal Reserve will employ all available tools to promote the resumption of sustainable economic growth and to preserve price stability. In particular, the Committee anticipates that weak economic conditions are likely to warrant exceptionally low levels of the federal funds rate for some time.
The focus of the Committee's policy going forward will be to support the functioning of financial markets and stimulate the economy through open market operations and other measures that sustain the size of the Federal Reserve's balance sheet at a high level. As previously announced, over the next few quarters the Federal Reserve will purchase large quantities of agency debt and mortgage-backed securities to provide support to the mortgage and housing markets, and it stands ready to expand its purchases of agency debt and mortgage-backed securities as conditions warrant. The Committee is also evaluating the potential benefits of purchasing longer-term Treasury securities. Early next year, the Federal Reserve will also implement the Term Asset-Backed Securities Loan Facility to facilitate the extension of credit to households and small businesses. The Federal Reserve will continue to consider ways of using its balance sheet to further support credit markets and economic activity.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; Christine M. Cumming; Elizabeth A. Duke; Richard W. Fisher; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H. Stern; and Kevin M. Warsh.
In a related action, the Board of Governors unanimously approved a 75-basis-point decrease in the discount rate to 1/2 percent. In taking this action, the Board approved the requests submitted by the Boards of Directors of the Federal Reserve Banks of New York, Cleveland, Richmond, Atlanta, Minneapolis, and San Francisco. The Board also established interest rates on required and excess reserve balances of 1/4 percent.

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

FED: CONTINUA A FARE GLI STESSI ERRORI DI SEMPRE

17 Dicembre 2008 02:28 NEW YORK - di WSI
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Inutile che la borsa festeggi con grandi rialzi la decisione della Fed. Non ha alcun senso. L'amara realta' invece, e' che la situazione economica americana e mondiale e' grave, anzi gravissima. Siamo tutti nei guai piu' neri. E il trasformare gli Stati Uniti in Giappone, non aiuta affatto.
Lo straordinario passo della Federal Reserve, che ieri ha abbassato i tassi Usa a breve ad un record minimo storico assoluto, praticamente a ZERO, non ha precedenti. Non si era mai visto nulla del genere, ne' in questa generazione ne' in altre, nemmeno durante la fase di ricostruzione seguita alle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. E nemmeno ai tempi della Grande Depressione.
Di fatto, l'attuale scenario puo' essere simbolizzato figurativamente in un detto popolare americano: "Quando tutto quel che hai e' un martello, ogni cosa somiglia a un chiodo". Il che tradotto significa: con una recessione pesante, con tassi addirittura negativi rispetto all'inflazione, proprio per l'eccesso di creazione di credito causata - dal 2001 in poi - dalla Federal Reserve di Alan Greenspan, la soluzione della Federal Reserve di Ben Bernanke e'... "ancora piu' credito"? Aiuto! Cos'altro ci puo' aspettare adesso?
Intanto i problemi sistemici sul mercato monetario, come dice Goldman Sachs, si intensificheranno invece di diminuire. Ad un tasso dello 0%, sara' dura per i fondi monetari sia coprire i costi, sia dare un qualsiasi rendimento "positivo" agli investitori. Il che equivale a incoraggiare la fuga da questi fondi.
Senza contare che si prepara lo scoppio fragoroso di un'altra bolla ormai gia' formata, quella dei prezzi dei titoli del Tesoro americano, giunti a livelli pericolosi (senza contare il parallelo affossamento del dollaro). Inoltre, se avete conservato ancora un minimo di buon senso, basta guardare il grafico qui sopra: c'e' da aver paura. Altro che "elicottero Bernanke" dell'iconografia finanziaria popolare.
Ma per capire davvero per quali motivi Bernanke e Paulson stanno difendendo SOLO gli interessi della solita lobby di potere e non quelli della gente comune, dei cittadini e dei proprietari di case, bisogna che sappiate qualcosa in piu'. Che finora nessuno vi aveva mai detto.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  Soldi regalati. Così Bernanke scuote l'America

17 Dicembre 2008 14:23 NEW YORK - di Massimo Gaggi

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«Hanno sparato tutti i proiettili del loro cannone in una volta sola», commenta Alan Blinder, economista democratico, compagno di accademia di Ben Bernanke a Princeton ed ex membro del Consiglio dei governatori della Banca centrale statunitense.
Sono trascorsi pochi momenti dopo la decisione della Federal Reserve di chiudere il 2008, l’"anno orribile" della finanza Usa, con una raffica di misure senza precedenti: riduzione di tre quarti di punto (dall’1 allo 0,25 per cento, con un margine di flessibilità fino a zero) del tasso-base ("federal funds") applicato ai finanziamenti a breve scadenza della Fed alle banche; spostamento dell’attenzione dalla politica dei tassi (che ha, ormai, un’efficacia limitata) al cosiddetto "quantitative easing", cioè un fortissimo aumento della liquidità trasmessa al sistema economico basato sull’allargamento della base monetaria ottenuto stampando moneta e su massicci acquisiti di titoli a lungo termine del Tesoro e di obbligazioni basate su pacchetti di mutui-casa per cercare di ridare fiato al settore immobiliare; uso di un ventaglio sempre più ampio di strumenti innovativi per far affluire prestiti a breve al sistema bancario.
Mai, nemmeno in tempo di guerra, la Fed aveva portato i suoi tassi praticamente a zero: un costo del denaro ormai ampiamente negativo, se teniamo conto dell’inflazione. Mai aveva adottato simultaneamente tante misure così impegnative per il suo bilancio. Del resto il momento è di assoluta emergenza e gli strumenti tradizionali della politica monetaria sono ormai praticamente arrivati a fine corsa, come ha fatto notare ieri anche Barack Obama, senza aver dato i risultati attesi.

Non resta, quindi, che passare alle "cure da cavallo": denaro praticamente "regalato"; Fed che in pochi mesi ha triplicato le dimensioni del suo bilancio per cercare di sostenere l’economia e che si si è praticamente sostituita alle banche ordinarie, semiparalizzate dalla grave crisi finanziaria. Una banca centrale che, da creditore di "ultima istanza", diventa il creditore di prima e unica istanza e che accetta di essere pagato dagli istituti del mercato coi titoli "tossici" che hanno accumulato in portafoglio, rappresenta un’assoluta anomalìa, un evento senza precedenti nella storia delle istituzioni monetarie.
Ma, come detto, questi sono tempi senza precedenti e la Fed ha deciso di rischiare il tutto per tutto: inondare il mercato di denaro a basso costo in genere è il modo giusto per provocare una fiammata inflazionista, ma stavolta il pericolo è quello opposto, la deflazione e quindi, almeno nel breve periodo, Bernanke ritiene che questo intervento sia giustificato.
Certo, esponendosi in modo così estremo la Fed mette in pericolo la sua stessa stabilità e favorisce lo sviluppo di un’altra bolla, quella del debito pubblico del Tesoro. Ma, anche qui, i banchieri centrali americani ritengono di non avere più alternative. E infatti, nonostante, le divergenze che erano emerse nei mesi scorsi su alcune scelte di fondo dell’Istituto, ieri i governatori del Fomc, il comitato che guida la politica monetaria Usa, ieri hanno votato all’unanimità le misure draconiane adottate dopo un "conclave" durato due giorni.
La Fed ha addirittura messo nero su bianco che, davanti all’indebolimento dell’economia e alla prospettiva di una recessione prolungata, i "governatori" intendono perseguire a lungo l’attuale politica di sostanzia le azzeramento del costo del denaro per il sistema bancario.
Ben Bernanke, che da economista ha lungamente studiato gli errori commessi dalle autorità monetarie Usa all’epoca della "Grande Depressione" e che una decina d’anni fa consigliò di curare la lunga stagnazione giapponese con una ricetta analoga a quella che sta applicando oggi negli Usa, sta praticamente applicando una logica espansiva "rooseveltiana" alla politica monetaria, in attesa del nuovo "New Deal" di Obama che si insedierà alla Casa Bianca solo alla fine di gennaio. I maligni sostegno che, col suo attivismo, Bernanke stia cercano di guadagnare credito col nuovo presidente, visibilmente deluso dai scarsi risultati fin qui ottenuti dalla cura della Fed e del Tesoro di Henry Paulson.
Ma è un sospetto ingeneroso, visto che l’ex professore di Princeton ha dedicato gran parte della sua vita accademica a studiare le conseguenze negative dello scarso attivismo delle autorità monetarie Usa nella crisi degli anni ’30 del secolo scorso. Seguire la rotta opposta è, quindi, per lui un obbligo. Il problema è quello di stabilire fino a che punto spingersi per non mettere a repentaglio la stessa Fed.
Per ora Bernanke è alle prese con soggetti privati che, impauriti dalla crisi, neutralizzano la spinta dei poteri pubblici in direzione di una riattivazione del credito. Per questo è costretto a spingersi sempre più in là: a immettere più moneta per compensare la riduzione della velocità di circolazione di quella esistente. Un equilibrio delicato che diventerà esplosivo quando sui mercati tornerà un buon livello di fiducia.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

  Mercoledì 17 Dicembre 2008   Mercoledì 17 Dicembre 2008   Domenica 28 Dicembre 2008  
       
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  Recessione USA: la bomba atomica di Bernanke

17 Dicembre 2008 14:51 PECHINO - di Federico Rampini

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Audace, avventurosa, o disperata. La Federal Reserve ha tagliato i tassi d´interesse a un livello senza precedenti nella storia americana. È una svolta, l´inizio di una nuova fase nella guerra di resistenza combattuta dall´autorità monetaria Usa contro questa crisi.
Nel centro del capitalismo globale si apre l´era del "denaro allo zero per cento". È un territorio inesplorato. L´euforia iniziale di Wall Street segnala la speranza che la banca centrale americana abbia tirato fuori l´arsenale nucleare, che Ben Bernanke sia disposto a tutto pur di impedire una Grande Depressione. Ma quali segnali profondi riceve tutto il resto dell´economia da questo gesto? Secondo l´ultimo sondaggio Gallup il 70% degli americani è convinto di essere già in una depressione. Per loro la mossa estrema della Fed potrebbe suonare come una conferma, e quindi incitare a comportamenti ancora più prudenti.
S´intuisce una nota di panico anche nelle stanze di comando delle banche centrali. Ormai sono crollati i miti sulla loro onnipotenza. Anche nella decisione di ieri in realtà la Fed si è mossa a rimorchio dei mercati. Già da diversi giorni nelle aste dei Treasury Bonds (i Bot americani) era accaduto l´inverosimile: la domanda di quei titoli sicuri da parte degli investitori era impazzita, fino a fare calare i tassi di alcune emissioni sotto lo zero. La corsa verso il titolo pubblico - a questo punto più sicuro di un conto corrente o di un libretto postale - aveva portato a questo paradosso: masse di capitalisti privati e gestori di fondi sono disposti a pagare un interesse al Tesoro Usa pur di prestargli del denaro. E´ il mondo alla rovescia, il salto dall´altra parte dello specchio.
Se alcuni Bot americani danno un rendimento negativo, un interesse passivo, i tassi ufficiali si adeguano. E´ la presa d´atto che siamo in piena deflazione, una malattia che in Occidente nessun contemporaneo ha sperimentato in età adulta. Il mondo normale, quello in cui siamo vissuti dalla seconda guerra mondiale in poi, è un luogo dove i prezzi aumentano di anno in anno. Chi presta i propri risparmi - a una banca, allo Stato - deve tutelarsi dal fatto che il tempo è inflazione e svaluta il denaro, quindi occorre ricevere un interesse adeguato.
Ma se improvvisamente i prezzi scendono - come stanno scendendo in America - il ragionamento si rovescia. La liquidità guadagna valore col passare del tempo, anche se frutta tasso zero. Un tasso negativo può essere il prezzo da pagare per chi te la custodisce al sicuro, come si paga un affitto per usare una cassetta di sicurezza in una banca.
Il rendimento zero però riguarda i tassi ufficiali della banca centrale americana. Non significa affatto che siano precipitati i tassi sui mutui immobiliari, sulle carte di credito, sui prestiti alle imprese. Le banche commerciali il denaro se lo fanno ancora pagare; addirittura lo razionano. Qui sta una contraddizione che attanaglia la Fed. La cinghia di trasmissione della politica monetaria si è rotta.
Anche se l´autorità centrale presta capitali a costo zero, gli intermediari bancari non "passano il favore" al resto dell´economia. Perciò Bernanke è costretto ad aggiungere all´arma del tasso zero altre azioni eterodosse:
la Fed va sul mercato a comprare titoli scadentissimi, emessi dalle società di finanziamento immobiliare, perché la sua generosità arrivi alle famiglie sotto forma di mutui a buon mercato. Neppure questa politica però dà risultati certi nell´immediato.
Si rischia di scivolare dentro la "trappola della liquidità" che Keynes studiò nella crisi degli anni Trenta: anche regalando i soldi alle banche o alle famiglie, quei fondi vengono accaparrati e messi in riserva, tale è la paura sistemica. Una immagine hollywoodiana descrive il caso-limite in cui la Fed manda a sorvolare l´America degli elicotteri che lanciano pacchi di banconote su tutto il territorio nazionale. Ormai la realtà si avvicina a quello: dal mese di settembre la banca centrale di Washington ha stampato mille miliardi di dollari di nuova moneta. Senza effetti di ripresa. I consumi, la produzione industriale, le costruzioni di case, tutto continua a scendere.
Se i leader dell´Occidente fossero meno convinti di essere l´ombelico del mondo, da mesi starebbero studiando il caso dell´unico grande paese sviluppato ad avere conosciuto la deflazione dopo la seconda guerra mondiale. Il Giappone ne è stato prigioniero negli anni Novanta. La sua banca centrale provò rimedi molto simili a quelli ora sperimentati dalla Fed. Per sei anni Tokyo ebbe tassi negativi, senza successo.
E´ come la politica degli sconti favolosi che le catene degli ipermercati americani stanno offrendo ai clienti. Non c´è saldo che tenga quando il consumatore non vuole spendere, per ragioni profonde che nulla hanno a che vedere col livello dei prezzi: per esempio se si è convinto di dover ridurre in modo durevole il livello dei suoi debiti.
L´azzardo di ieri della Fed non è condiviso da tutti. Il mondo è spaccato in due. Da una parte c´è chi vede la Grande Depressione alle porte, e dunque ritiene che si debba abbandonare ogni cautela. Altri, Germania in testa, osservano con orrore l´escalation incontrollata dei debiti, foriera di future iperinflazioni.
Ma se il resto del mondo si dissocia dalla terapia americana, questo accelera la sfiducia nel dollaro che riprende a cadere, aprendo possibili scenari di guerre protezioniste. Un autorevole consigliere economico di Obama ha osservato che ormai non si tratta di «evitare un altro 1929» perché quella sfida è già stata persa con la distruzione di ricchezza finanziaria del 2008. Ora si tratta di capire come evitare il 1930, il 1931, il 1932, il 1933.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

Bear Stearns, un salvataggio superfluo?

Wednesday, 17 December, 2008 at 11:06 - di John Christian Falkenberg
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Il New York Times si chiede il motivo della disparità di trattamento fra Lehman e Bear Stearns, implicando che le autorità avrebbero dovuto salvare anche Lehman. Ci si dovrebbe chiedere, invece, perché non abbia lasciato fare per una volta al mercato anche nel caso di Bear Stearns.
La Fed ha concesso finanziamenti e garanzie per 28 miliardi di dollari a J.P.Morgan pur di salvare Bear Stearns, ma ha rifiutato di farlo per salvare Lehman, che era in trattative per vendersi a Barclays. Eppure, dagli ultimi documenti emerge come subito dopo il fallimento abbia concesso liquidità per 138 miliardi, seppure a brevissimo termine, ad una delle sussidiarie di Lehman.
Si noti che il prestito a brevissimo termine a Lehman, prima o dopo il fallimento, è molto più vicino alla mission “originale” della Federal Reserve che il finanziamento da 28 miliardi al veicolo in cui sono confluiti gli asset tossici di Bear Stearns. La giustificazione addotta per entrambi i prestiti è la medesima: evitare che l’insolvenza di una banca d’affari attivissima nella compravendita di derivati scatenasse una reazione a catena che destabilizzasse il sistema bancario americano.
Il motivo addotto può essere valido o meno, ma un risultato è chiaro: la Fed sta perdendo miliardi sul deal di Bear Stearns, mentre il contribuente non ha perso un dollaro su Lehman, il cui fallimento ha creato problemi persino maggiori di Bear Stearns, ma che non ha avuto certo l’effetto devastante che si temeva. Le procedure per smontare e liquidare ordinatamente le attività di intermediazione in derivati hanno retto alla prova, anche se ovviamente la lezione ha evidenziato la necessità di una ulteriore evoluzione.
Il mercato, insomma, ha dimostrato di poter sopportare fallimenti anche giganteschi e di aver evoluto meccanismi, sicuramente molto migliorabili, per gestire la liquidazione di uno degli intermediari principali, confutando la necessità delle condizioni di favore concesse a J.P.Morgan. Il dubbio, quindi, non dovrebbe essere sul motivo per cui Lehman non è stata aiutata, ma sul motivo per cui la Fed abbia gettato soldi e reputazione nell’inutile salvataggio di Bear Stearns.
 

 

 

Sempre più vicini alle porte di Tannhauser

Thursday, 18 December, 2008 at 17:18 - di John Christian Falkenberg
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Il grande critico dei salvataggi bancari Willem Buiter è convinto che le Banche Centrali abbiano un metodo drastico, ma radicale per risolvere il maggiore problema del sistema dei pagamenti, l’unico di cui si dovrebbero veramente preoccupare: l’assenza di liquidità nel mercato del prestito interbancario e l’elevato livello del tasso Libor a 3 mesi, il benchmark per tale mercato. Buitler vorrebbe che le Banche centrali diventassero, di fatto, dealer sul mercato e fornitori diretti di liquidità sino a scadenze trimestrali.

La proposta è quella di prestare direttamente, senza garanzie, ad uno spread fisso sopra l’OIS, Overnight Interest Rate Swap, per banche con rating AA ed A; in contemporanea, la banca centrale accetterebbe anche depositi ad uno spread inferiore o negativo, in modo da stabilire un benchmark anche per le operazioni di segno opposto. La BCE e la Fed, al momento, cercano di influenzare il mercato monetario ed interbancario tramite la manipolazione dei tassi per operazioni della durata tipica di due settimane al massimo, lasciando il resto all’interazione di mercato.
Si tratta di una misura estrema, che va ben oltre la proposta di garantire le transazioni sul mercato ed aumenterebbe enormemente i rischi per gli istituti di emissione. D’altro canto, tempi disperati richiedono misure disperate e le banche centrali hanno già chiarito in più di una occasoine quanto siano pronte di fatto a statalizzare l’intero settore bancario: la foglia di fico si fa sempre più tenue.

 

 

 

Autointossicazione o modello da imitare?

Friday, 19 December, 2008 at 9:00 - di phastidio
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La divisione banca d’investimento del Credit Suisse Group ha scoperto un nuovo modo per ridurre il rischio di perdite derivanti da circa 5 miliardi di dollari di proprie obbligazioni e prestiti: usarli per pagare i bonus di fine anno dei dipendenti. La banca userà le cartolarizzazioni su immobili commerciali ed i leveraged loans, alcuni tra i titoli accusati di aver causato la peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione, per finanziare i compensi dei dirigenti. La nuova policy si applica solo ai managing directors ed ai directors, le due prime linee gerarchiche della banca. La platea interessata all’iniziativa è stimata nell’ordine di alcune migliaia di dipendenti. Secondo il Chief Executive Officer della banca, Brady Dougan, e della divisione banca d’investimento, Paul Calello, questa iniziativa rappresenterà un punto d’equilibrio tra gli interessi di dipendenti, azionisti e regolatori, ed aiuterà la banca a posizionarsi correttamente per il 2009. I titoli verranno posti in un apposito veicolo d’investimento, di cui i dipendenti interessati all’erogazione riceveranno titoli. In caso gli attivi conferiti al veicolo dovessero subire svalutazioni e perdite, i bonus verranno quindi colpiti per primi.
A inizio dicembre Credit Suisse ha comunicato che eliminerà 5300 impieghi e cancellerà i bonus per i dirigenti, dopo aver contabilizzato perdite per circa 3 miliardi di franchi svizzeri in ottobre e novembre, che portano il totale dall’inizio della crisi all’equivalente di 800 miliardi di dollari. A differenza di Ubs, la sua rivale di maggiori dimensioni, Credit Suisse non ha richiesto sostegno governativo. Anche gli investitori esterni potranno partecipare al veicolo speciale, che sarà dotato di leva finanziaria per spingerne il rendimento, in quella che appare l’unica caratteristica “tradizionale” della struttura del fondo. La banca sarà ripagata per prima. I titoli conferiti al veicolo (già svalutati mediamente del 65 per cento rispetto al loro valore originario) resteranno sul bilancio di Credit Suisse, e saranno detenuti presso la divisione di fund management del gruppo. La struttura del veicolo implica che ogni guadagno (o perdita) sui titoli si traduca in una riduzione (aumento) di pari entità della passività della banca verso i dipendenti. Questi ultimi riceveranno delle cedole semestrali indicizzate al Libor più 2,5 punti percentuali. Il valore finale del veicolo sarà determinato durante i prossimi otto anni, alla scadenza (o all’insolvenza) di cartolarizzazioni e prestiti.
I pagamenti in denaro che rappresentano una parte del bonus potranno in futuro essere erogati ai partecipanti, ma saranno condizionati alla performance degli attivi del veicolo d’investimento. La banca si attende di iniziare i primi pagamenti dopo cinque anni, e si accinge anche a modificare l’erogazione della parte in contanti dei bonus. Nel nuovo regime, la banca avrà il diritto di recuperare parte del bonus pagato in contanti a managing directors e directors nei due anni successivi alla erogazione, in caso di dimissioni del dipendente.
Il meccanismo progettato da Credit Suisse ha tutta l’aria di una revocatoria fallimentare ma è un primo, interessante tentativo di legare i compensi dei top manager alla redditività di lungo periodo ed al rischio reputazionale della banca, riducendo drasticamente gli incentivi alla massimizzazione degli utili di breve periodo. Forse i vertici delle banche americane dovrebbero organizzare dei periodi di studio in Svizzera.

 

Fonte - Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Il fallimento di coloro che fanno previsioni economiche

23 Dicembre 2008 02:30 NEW YORK - di Giuseppe Turani

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Secondo lo scenario Bloomberg Consensus tanto in America quanto in Europa il trimestre più duro dovrebbe essere l´ultimo del 2008, quello cioè che finirà il 31 dicembre. Ma c'e' da crederci, dopo i clamorosi sbagli di quest'anno?
Per il mondo delle previsioni economiche questa non è stata una buona annata. Mai sono stati collezionati così tanti errori in uno spazio di tempo così ridotto. Basterà dire che ancora sei mesi fa gli esperti e i più grandi centri di ricerca si interrogavano sulla possibilità che il prezzo del petrolio arrivasse a 200 dollari al barile piuttosto che a 180. Oggi, invece, siamo poco sopra i 30 dollari e, di nuovo, fra gli stessi esperti circola l´idea che si potrebbe scendere fino a dieci dollari al barile. E le navi piene di petrolio stazionano all´esterno dei porti di destinazione e non scaricano (prendono tempo) nella speranza che nel giro di qualche giorno il greggio possa salire almeno di qualche dollaro.
Però la gente ha bisogno di avere un´idea su dove può andare il mondo e quindi, nonostante i recenti, clamorosi, insuccessi, ecco che si torna a fare previsioni. Una delle più aggiornate è quella di Bloomberg Consensus, per la quale sono stati interrogati decine e decine di esperti. Lo scenario che esce da queste previsioni (America e Europa) è molto sconfortante. Ma va detto che si tratta anche, in un certo senso, dello scenario migliore oggi possibile (al punto che molti non vi crederanno). In sostanza, questo scenario ha un senso solo se tutto va bene e se nessuno (sulle due sponde dell´Atlantico) fa una mossa sbagliata.
Ci si aspetta, ad esempio, che il 20 gennaio Barack Obama vada alla cerimonia del suo insediamento come presidente degli Stati Uniti con già in tasca i decreti (da emanare nel pomeriggio) per il rilancio dell´economia americana. E si parla di mille miliardi di dollari di investimenti. Molti lavori pubblici, perché sono quelli che fanno più effetto, vengono meglio in televisione e si pagano poco alla volta (mano a mano che i cantieri vanno avanti). Ma anche, si dice, un maxi-piano di super- autostrade informatiche (e tecnologia in generale) per dare all´America una nuova scossa tecnologica dopo quella che segnò l´inizio dell´era Clinton.
Lo scenario Bloomberg parte dalla premessa che tutto questo accadrà. E quindi si esclude che Obama possa passare due mesi a discutere con i suoi consiglieri e il Congresso su che cosa mettere nel piano di rilancio. Ma anche in questo caso (tutti fanno quello che devono fare e nessuno sbaglia) ne viene fuori il ritratto di un 2009 duro e difficile. La ripresa, secondo questa previsione, dovrebbe partire nel terzo trimestre dell´anno prossimo, quindi in autunno, su entrambe le sponde dell´Atlantico. Solo che l´America avrà una partenza più sportiva e bruciante. Nel terzo trimestre, infatti, l´aumento del suo Pil dovrebbe essere dell´1 per cento sul trimestre precedente (dato annualizzato). Dopo di che l´economia dovrebbe prendere progressivamente forza e la crisi, a quel punto, potrà essere considerata veramente superata.
La stessa cosa succederà (secondo queste previsioni, che in realtà sono solo uno scenario del genere "quello che vorremmo che accadesse") su questa sponda dell´Atlantico, in Europa. Solo che nell´area euro la ripresa sarà visibile solo con microscopi molto potenti: sul trimestre precedente, infatti, a fine 2009 la crescita dell´area euro sarà solo dello 0,3 per cento. Ma questo è un dato annualizzato: per avere quello effettivo, bisogna dividerlo per quattro. E quindi la crescita effettiva europea sarà inferiore allo 0,1 per cento. Un soffio, praticamente una brezza avvertibile solo da chi abita ai piani alti. In compenso l´Europa pagherà il prezzo più alto in termini sociali. Come "danno collaterale" a fine 2009 si ritroverà infatti con una disoccupazione complessiva superiore all´8 per cento (8,35, per la precisione). L´America andrà un po´ meglio, nonostante le preoccupazioni di questi giorni: solo il 7,90 per cento di disoccupazione contro il 6,70 per cento di adesso.
Forse a questo diverso andamento (minore crescita e più disoccupati) non risulterà estraneo il comportamento delle due banche centrali. Negli Stati Uniti si pensa che il costo del denaro sarà uguale a zero per tutto l´anno prossimo. In Europa, invece, non si scenderà mai al di sotto dell´1,75 per cento. Insomma, su questa sponda dell´Atlantico trovare dei soldi "per fare delle cose" costerà molto di più che non in America. E infatti se ne faranno meno (e quindi ci sarà, in proporzione, più gente senza lavoro e senza busta paga).
Lo scenario Bloomberg Consensus contiene una sola consolazione: tanto in America quanto in Europa il trimestre più duro dovrebbe essere l´ultimo del 2008, quello cioè che finirà il 31 dicembre. Poi andrà ancora male (fino al terzo trimestre 2009), ma in termini meno pesanti. Come si vede non c´è da stare allegri. Ma, ripeto, questo che ho appena illustrato è lo scenario migliore che può capitarci. Qualunque sbaglio, qualunque "buco" sommerso nel mondo bancario, qualunque scelta sbagliata nei tempi di intervento potrebbe portarci molto più in giù. Magari con una crescita che nel 2009 non si fa vedere affatto e con una disoccupazione che in Europa vola oltre il 10 per cento.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

  BCE, che complesso di inferiorità nei confronti della FED

23 Dicembre 2008 04:12 MILANO - di Mario Seminerio

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Nei giorni scorsi è circolata la notizia di un approccio della Federal Reserve presso il Congresso, per valutare la possibilità (ad oggi preclusa dalla legge) che la banca centrale statunitense possa emettere propri titoli di debito fruttiferi. Secondo gli analisti, questa eventualità avrebbe soprattutto l’obiettivo di modificare la composizione delle passività della banca centrale, ad evitare che, quando la ripresa economica si manifesterà, possa verificarsi una devastante fiammata inflazionistica.
Pare singolare discutere di inflazione proprio nelle settimane in cui va formandosi un preoccupato consenso sul rischio di deflazione. Ma la natura e le implicazioni di questa crisi epocale portano con sé anche rischi molto eterogenei e potenziali rovesciamenti di scenario. Per valutare la mossa della Fed occorre comprendere che, storicamente, le riserve detenute dalle banche statunitensi presso la banca centrale sono ammontate ad una cifra compresa tra i 5 e i 10 miliardi di dollari. Oggi, sono pari a 650 miliardi e la recente decisione di Bernanke di procedere ad acquisti a titolo definitivo di mutui ipotecari e cartolarizzazioni aggiungerà non meno di altri 800 miliardi di dollari al totale.
Al momento della ripresa, la Fed dovrà "prosciugare" questa montagna di riserve bancarie, per evitare che si trasformino in una bomba inflazionistica. Per fare ciò, è possibile che Bernanke ed i suoi collaboratori pensino ad emettere titoli fruttiferi di debito, che produrrebbero l’effetto di ricomporre il passivo della Fed. Naturalmente, queste sono considerazioni (per ora) teoriche. Pensare che la Fed, eventualmente dotata di autorizzazione ad emettere proprio debito fruttifero, possa rapidamente prosciugare 1500 miliardi di dollari di riserve in eccesso che essa ha creato per combattere la stretta creditizia, rischia di essere irrealistico. Soprattutto perché si tratterebbe di debito aggiuntivo a quello del Tesoro statunitense, e gli investitori internazionali (soprattutto la Cina) potrebbero non volere o potere sottoscrivere questa montagna di carta.
Ma ci sono altre situazioni di forte rischio potenziale, tutte in qualche modo interconnesse dall’attuale situazione dei mercati. Una di esse è rappresentata dai rendimenti sui titoli di stato statunitensi. Nei giorni scorsi l’asta del T-Bill (l’equivalente del nostro Bot) ha fatto segnare un rendimento di aggiudicazione lievemente negativo. In altri termini, gli investitori hanno pagato il Tesoro statunitense per poterne comprare il debito, ritenuto un porto sicuro nella tempesta finanziaria. Ma è tutta la curva dei rendimenti a trovarsi su valori eccezionalmente bassi, ormai del tutto simili a quelli che caratterizzano da oltre vent’anni i titoli di stato giapponesi.
Possiamo affermare che sui Treasury bond è in atto una bolla? Per molti aspetti si. E che accadrà quando sui mercati tornerà la fiducia? Che gli investitori si libereranno rapidamente di titoli di stato che rendono pressoché nulla, alla ricerca di opportunità di investimento più remunerative. In quel momento la Fed si troverà di fronte al dilemma se lasciare schizzare al rialzo i rendimenti di mercato o frenarne l’ascesa, pur senza combattere la tendenza di fondo. In questo secondo caso Bernanke dovrà necessariamente iniettare nuova liquidità nel sistema, monetizzando il debito, e ciò metterà pressione all’inflazione.
Nel primo caso, invece, il violento calo dei prezzi dei titoli di stato, venduti a mani basse dagli investitori, causerebbe la fuga degli stranieri (si pensi allo stock di titoli americani detenuto dalla sola Cina), ed un violento deprezzamento del dollaro. Come si può cogliere da questo abbozzo di scenario evolutivo, la lungamente agognata ripresa rischia di portare con sé turbolenze altrettanto gravi di quelle con cui ci confrontiamo in questo momento di recessione profonda.

Ma anche dall’altro lato dell’Atlantico, alla sede della Banca Centrale Europea, si cerca di gestire problematiche altrettanto complesse. Da alcuni giorni circola l’indiscrezione di un intervento formale dell’istituto di emissione di Francoforte per sbloccare definitivamente il mercato interbancario. La Bce è da sempre criticata per la lentezza con cui sta riducendo il costo del denaro.
Critiche non sempre fondate, sia perché basate sul confronto con l’azione della Fed, che si svolge entro una differente cornice istituzionale, sia perché i fondamentali dell’economia dell’Area Euro sono diversi rispetto a quelli statunitensi. I recenti tagli dei tassi ufficiali d’interesse sono riusciti a pilotare al ribasso anche l’interbancario, ma il movimento appare ancora piuttosto vischioso. Le banche restano timorose a prestarsi fondi oltre scadenze molto brevi, e ciò malgrado la rete di garanzie pubbliche messe in atto dai governi nazionali, spesso in modo scarsamente coordinato.
La apparente "lentezza" con cui la Bce ha tagliato i tassi deriva, oltre che dai motivi sopra indicati, anche dal fatto che, nell’attuale contesto, la politica monetaria non si trasmette completamente ed immediatamente al sistema creditizio, e da lì all’economia reale. Abbassare i tassi verso lo zero come fatto dalla Fed, in assenza di un sistema interbancario e creditizio funzionante equivarrebbe a sprecare munizioni e raggiungere rapidamente, in caso di aggravamento della crisi, la condizione di "trappola della liquidità" in cui si trovano oggi gli Stati Uniti.
Per questo motivo la Bce starebbe pensando di creare una sorta di cassa di compensazione e garanzia per il credito interbancario, ed un gruppo di studio è stato a tal fine istituito presso la Bundesbank. L’obiettivo della Bce è manifestamente quello di evitare che le misure prese per garantire i prestiti interbancari siano di tipo nazionale, perché questo causerebbe una segmentazione del mercato monetario che sarebbe fonte di distorsioni, dirottando gli scambi sui paesi che offrono le maggiori garanzie.
In alternativa alla clearing house, la Bce potrebbe ridurre il tasso che paga alle banche che depositano presso di essa sulla scadenza overnight. Oggi quel tasso (pari a 50 centesimi sotto il tasso-chiave di rifinanziamento) è del 2 per cento, inferiore a quello che si potrebbe ottenere sull’interbancario per pari scadenza, ma le banche continuano a preferire la sicurezza assoluta. Ridurre quel tasso potrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) modificarne i calcoli di convenienza relativa. Ove si giungesse anche in Europa a condizioni di blocco del credito, la Bce avrebbe margini di autonomia molto inferiori a quelli della Fed, soprattutto a causa della frammentazione dei mercati nazionali europei di credito.
Non sarebbe ipotizzabile, ad esempio, pensare ad un programma di acquisto di carta commerciale come quello della Fed, perché in Europa quel mercato rappresenta una fonte di finanziamento aziendale soprattutto in Francia, mentre in Germania prevale il tradizionale credito bancario. Discorso analogo per l’eventuale azione di "easing quantitativo" compiuta attraverso l’acquisto a fermo di obbligazioni, pubbliche e private, a scadenza media e lunga: premesso che oggi la Bce non può acquistare titoli all’emissione ma solo sul mercato secondario, di quali titoli di stato dovrebbe trattarsi, trovandosi di fronte a quindici diversi emittenti nazionali?
Come si comprende da queste considerazioni, spesso le critiche alla Bce nascono dalla mancata comprensione della frammentazione del quadro istituzionale e di mercato in cui l’istituto di emissione opera. Iniziative volte a creare ambiti di gestione sovranazionale delle criticità, come la citata ipotesi della cassa di compensazione sull’interbancario, indicano il ruolo di forte supplenza (anche politica) che la Bce si trova a dover gestire negli ambiti di propria pertinenza, in assenza di quel federalismo politico che l’Europa continua a non riuscire a realizzare.
 

 

Fonte - Libero Mercato

 

 

 

 

 

"Armi nascoste? Così ho ingannato tutto il mondo"

31/12/2008 (8:34) - INCHIESTA - di E. FOLLATH, J. GOETZ, V. WINDFUHR, B. ZAND
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Metà dicembre 2003: Saddam Hussein è stato catturato e viene tenuto prigioniero in una cella provvisoria nella zona di massima sicurezza dell’aeroporto di Baghdad. Intanto, nelle stanze del potere di Washington, Casa Bianca, Segreteria di Stato, Cia e Fbi si combattono aspramente sul trattamento da riservare al prigioniero. Sono tutti d’accordo su un aspetto: dev’essere umiliato. Ma come procedere? Saddam è la loro unica carta vincente, un’isola nel mare di notizie catastrofiche, non la si vuole giocare malamente. Alla fine decidono di lasciarlo a Baghdad sotto la custodia americana e di farlo processare da giudici iracheni. Si tratta però di scegliere con particolare cura l’uomo che dovrà interrogarlo in cella.

Si cerca un americano con genitori arabi, leale verso gli Stati Uniti e familiare con la mentalità irachena. Un uomo capace di guadagnarsi la fiducia di Saddam, magari carpirgli qualche segreto. Fbi e Cia, a sorpresa, arrivano allo stesso nome: George L. Piro, patriota americano ma anche cittadino del mondo arabo, conversatore gioviale ma agente spietato, il genero ideale ma anche un latin lover - un cocktail di Pierce Brosnan, Enrique Iglesias e molto, molto James Bond. E’ nato a Beirut, ma ai tempi della guerra civile, quando aveva 12 anni, fugge con la famiglia negli Stati Uniti. A vent’anni si arruola nell’Aviazione militare, poi lavora come poliziotto e, studiando di sera, completa quegli studi che gli aprono le porte dell’Fbi e della Cia.

Subito dopo l’ingresso a Baghdad Piro ha la sua prima occasione per studiare i rapporti in Iraq: raccoglie informazioni e viene istruito su che cosa è «classified» e che cosa no. Lavora in modo così professionale e sensibile che i servizi segreti scelgono proprio lui per affidare il compito più delicato: l’interrogatorio di Saddam. All’epoca Piro aveva appena compiuto 36 anni e ne aveva appena sei di servizio: una carriera davvero folgorante.

Nel gennaio 2004 Piro torna dunque in Iraq. Per sei mesi - fino al processo - visiterà Saddam Hussein in cella quasi ogni giorno. Il prigioniero, dopo i primi giorni di disorientamento, ha recuperato il suo sangue freddo, è tornato a essere il grande manipolatore che cerca di giocare le sue carte, nulla concede, si tiene coperto.

Piro viene preparato alla sua missione da esperti della Cia, che gli mostrano il profilo psicologico di Saddam, sottolineando i suoi punti deboli: è un egomane con una volontà di ferro che, cresciuto senza padre e senza denaro, si è ferocemente aperto la strada verso l’alto. Ha manie di grandezza che si nutrono del suo potere senza limiti e degli onori che gli vengono tributati. Tutto questo l’ha accecato al punto che si considera l’erede del re di Babilonia Nabucodonosor II.

La prima visita di Piro avviene nella cella provvisoria all’aeroporto di Baghdad. Si rivolge al prigioniero con molto rispetto ma lo chiama «Mister Saddam», senza titoli. Lui si presenta come «Mister George». L’ex presidente non gli chiede il rango, capisce da sé che dev’essere alto, certamente un agente con accesso diretto al presidente Bush. Piro rafforza questa impressione dando ordini concisi alle guardie, che eseguono in un battibaleno. «D’ora in poi sono io responsabile per qualunque aspetto della sua vita», gli dice. Sarà lui ad occuparsi di tutto ciò che gli serve, cibo, abiti, generi di conforto.

Il primo colloquio verte sull’intera storia della Mesopotamia. Quel giorno non parlano della politica di Saddam, ma della storia dell’Iraq, delle poesie dell’ex dittatore, dei suoi quattro romanzi, dei versi che continua a scrivere in cella. I due uomini si testano a vicenda. Saddam saggia la forza e le possibilità di manovra dell’agente che gli siede davanti, gli chiede ad esempio della carta da scrivere - che ottiene subito - e dei fazzolettini umidi, con cui si deterge continuamente mani e viso. Teme i virus.

Il primo incontro è un successo. Piro ha centrato il suo obiettivo: Saddam è disposto a continuare a parlare con lui, non lo rifiuta. Per giorni e giorni si parlerà delle nuove poesie d’amore che va scrivendo, e di donne. Dell’infermiera che gli ha fatto i prelievi di sangue, Saddam dice che è «carina». Poi aggiunge che in generale trova le americane indipendenti: sono capaci, a differenza delle irachene, «di cavarsela senza uomini».

Nei confronti degli Stati Uniti l’ex dittatore manifesta un odio-amore. Disprezza i politici di Washington, soprattutto i due Bush. Reagan invece è l’eccezione: «Era un uomo d’onore». Ammira però gli americani «normali». Non essendo mai uscito dai confini del Medio Oriente, la conoscenza che ha dell’America è quella che gli viene dai film, in particolare dal «Padrino», il suo preferito. Gli piace Don Corleone, e ci si identifica.

Lentamente, Piro si avvicina all’interrogatorio vero e proprio. Usa i soliti mezzi - niente sonno, rumori continui, freddo estremo, magari anche quell’annegamento simulato che è il «waterboarding»? No: Piro va contro le procedure dell’Fbi perché «con uno come Saddam Hussein uno scenario di paura non porta da nessuna parte». La sua arma segreta è la noia del criminale - e il tempo. E’ Piro che lo controlla. Né a Saddam né alle sue guardie è concesso l’orologio, mentre lui sfoggia un enorme cronometro, che Saddam guarda fisso, ipnotizzato, continuando a chiedere che ora è.

Saddam, il prigioniero disorientato, comincia a simpatizzare con George, l’inquisitore simpatico. E in quelle interminabili sedute si mette a raccontare le sue imprese eroiche e la sua ardimentosa fuga da Baghdad già occupata dagli Americani. Racconta nei dettagli come ha beffato gli americani che gli davano la caccia: ha attraversato a nuoto le impetuose acque del Tigri, con un coltello tra i denti, opponendosi alle correnti che volevano trascinarlo via, poi si è arrampicato per forre e burroni fino al villaggio dove si è nascosto. Tra interrogante e interrogato si va formando un legame di fiducia, quasi di dipendenza. Piro lo sfrutta, ma a un certo punto cambia registro: vuole provocare Saddam, farlo infuriare, portandolo sulle montagne russe delle emozioni.

Così gli mostra le immagini del nuovo governo, i resoconti negativi su di lui, anche il video dell’abbattimento della sua statua nella piazza centrale di Baghdad. «Pensavo che il popolo ti amasse - lo irride -, me lo hai sempre detto, invece guarda come balla sulla tua testa di bronzo staccata dal corpo...». Quando poi aggiunge che forse già quando aveva il potere aveva perso il contatto con la gente, ignorava che cosa pensasse davvero, che cosa succedeva nel Paese, Saddam vede rosso, «i suoi occhi divennero freddi e pieni di odio». «Avevo tutto sotto controllo. Ero io che davo gli ordini», dice. «Anche quello di gassare i curdi?», gli chiede Piro.

Saddam non vuole scendere nei dettagli, dice solo: «Quelle erano le mie indicazioni. Questo dovevano fare i miei uomini, perché io avevo detto loro che l’attacco era necessario. E lo era davvero». Poi si parla dei suoi sosia: non si è mai servito di loro nei discorsi pubblici così spesso come scriveva la stampa occidentale perché, spiega, «non era necessario».

Parla poi della sua diffidenza verso tutti, di come suscitasse contese tra i suoi fedelissimi per vedere chi gli era contrario e farlo uccidere. Nemmeno dei suoi figli si fidava, sebbene li avesse designati suoi eredi: «Non possiamo sceglierci i figli». L’unica persona di cui non aveva mai dubitato era sua madre.

Il 28 aprile, giorno del suo compleanno, Piro arriva con un regalo a sorpresa. «Dobbiamo festeggiare noi, sennò in tutto il Paese non c’è nessuno che lo fa», e gli mostra i giornali nei quali non c’è più traccia dell’anniversario. Allora tira fuori dalla tasca un pacco di biscotti e gli dice, mentendo: «Li ha fatti la mia mamma libanese e me li ha spediti perché te li dessi. Li ha fatti secondo un’antica ricetta araba». Ha portato anche un altro regalo: un sacchetto di semi. Vanno insieme nel piccolo giardino che Saddam ha a disposizione per l’ora d’aria, l’ex dittatore scava la terra, li pianta, li ricopre, poi si chiede ad alta voce se riuscirà a vederli germogliare, se la terra è buona. E dice che nemmeno i suoi figli l’hanno mai conosciuto così bene «come lei, Mister George». Il dittatore crudele che ha tenerezze da giardiniere.

A quel punto Saddam passa da un tema tabù all’altro - tutti accuratamente registrati nelle 700 pagine del rapporto segreto di Piro, ovviamente «classified» - e comincia dal suo primo errore tattico: aver ritirato le sue truppe di terra dopo l’invasione del Kuwait. Il secondo era stato non credere all’invasione del 2003, sottovalutando l’effetto degli attentati dell’11 settembre 2001 sugli americani, la politica Usa e «la perfidia di alcuni uomini a Washington», che a lui, il laico, attribuivano legami con Al Qaeda e i fondamentalisti islamici. «Non ho mai avuto contatti con Bin Laden - dice a Piro - Dei fanatici religiosi non ci si può fidare».

Poi arriva il momento di parlare delle armi di distruzione di massa, il motivo ufficiale utilizzato dagli Stati Uniti per la dichiarazione di guerra all’Iraq. Cinque mesi dopo il primo interrogatorio arriva il crollo. Saddam ogni giorno scrive una poesia, che mostra tutto fiero all’agente. Quello lo loda e, mentendo, gli dice che «è una grande opera letteraria». Lo liscia, gli chiede se, con quelle capacità, non si scrivesse da solo anche i discorsi ufficiali. Non tutti, risponde Saddam. Ma è lusingato. E le armi? lo incalza allora. «Erano solo parole. Erano un trucco per ingannare il mondo». E racconta, asciutto, che la maggior parte delle sue armi di distruzione di massa erano state rimosse già negli Anni 90 dagli ispettori dell’Onu e le poche rimaste le aveva fatte distruggere lui stesso. Allora perché mettere a rischio il destino dell’Iraq e la propria vita? Secondo Piro, «Saddam era convinto di poter tenere a distanza il nemico iraniano solo facendogli credere che poteva distruggerlo. In questo modo contava di conservare anche il suo potere». Dunque, Saddam temeva Teheran, non Washington - almeno non lo temette, finché non vide arrivare i suoi aerei e le sue truppe.

Il primo luglio 2004, dopo sei mesi di incontri quasi quotidiani, Piro conduce Saddam in tribunale, per consegnare il suo destino giuridico, almeno formalmente, in mani irachene. L’agente Fbi si congeda. Prima dell’ultimo incontro compra, nel sukh di Baghdad, per sei dollari al pezzo, due sigari Cohiba, la marca preferita dell’iracheno. Li fumano insieme nella cella. Poi si dicono addio alla maniera araba: baciandosi le due guance.
 
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

 
 

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