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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Crisi creditizia e vicenda Dubai World

I dieci gioielli offuscati nel forziere di Dubai World

Crisi creditizia

Banche rotte

Crisi creditizia e Mercati finanziari

Mercati: chissene importa di Dubai e della Grecia

Crisi creditizia e adeguamenti normativi

Obama richiama i banchieri «Non ostacolate le riforme»

Mercati finanziari - Setiment

Finanza: nuvolosità diffusa, nuovi temporali

Mercati finanziari - Setiment

Sentiment mercato USA: prove tecniche di rally

   
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+++   ANSA   +++   Crisi: s&p, Nel 2010 Imprese Europee Insolventi Potranno Toccare l'11%   +++  Cina: Non Cambiera' Paniere Di Valute Per Fissare Cambio Yuan   +++ GRECIA SULL'ORLO DEL CRACK FINANZIARIO, SCONTRI IN PIAZZA AD ATENE   +++   BOND DUBAI A PICCO, MERCATO IN ALLARME   +++   ANSA   +++ 
 
  Martedì 01 Dicembre 2009   Giovedì 03 Dicembre 2009   Sabato 05 Dicembre 2009  
       
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  I dieci gioielli offuscati nel forziere di Dubai World

01 Dicembre 2009 10:23 DUBAI - dall'inviato Angelo Mincuzzi – Il Sole 24 Ore

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Dp World
È il vero gioiello della conglomerata Dubai World. Dp World è uno dei più grandi operatori portuali al mondo con 50 terminal in 32 paesi e 30mila addetti. Dubai World controlla il 77% delle azioni di Dp World. Nonostante il calo dell'8% del movimento dei suoi container quest'anno, la società è ottimista sulla sua profittabilità per il prossimo anno e sta sviluppando 12 progetti nel mondo. La società è quotata al Nasdaq Dubai. Dp World ha annunciato che la ristrutturazione del suo debito non riguarderà Dp World, che possiede asset di gran lunga superiori ai suoi debiti.

Nekheel
È l'anello più debole fra tutte le società di Dubai World. Il 14 dicembre dovrà restituire un bond da 3,5 miliardi di dollari e ha chiesto la sospensione delle quotazioni delle sue obbligazioni alla Borsa di Dubai. Ha costruito Palm Jumeirah, l'isola a forma di palma, e progettava altre due grandi isole analoghe, i cui lavori sono ora sospesi. Tra i suoi progetti c'è anche "The World", un arcipelago di isole che viste dall'alto replicano continenti e i paesi della terra. Ma i suoi piani non si fermano qui. È prevista anche la costruzione di un grattacielo alto un chilometro, che potrà ospitare al suo interno una città di 20mila persone, e lo sviluppo di una penisola - il Waterfront - delle dimensioni pari a due volte Hong Kong. Questi piani sono stati ora rinviati. Dubai World ha consolidato sotto Nakheel tutti i suoi progetti immobiliari a eccezione di quelli collocati all'interno di un'altra società, Limitless.

Istithmar
Creata nel 2003 come braccio per gli investimenti di Dubai World, è diventata famosa per alcune acquisizioni in tutto il mondo. Ha rilevato la catena americana del lusso Barneys New York, il W Hotel a Manhattan e il Cirque du Soleil. Possiede quote della Perella Weinberg Partners, della compagnia aerea low-cost indiana SpiceJet, della Standard Chartered Bank e della società di investimenti alberghieri Kerzner International. I suoi investimenti in azioni intorno al mondo sono superiori a 2,6 miliardi di dollari.

Leisurecorp
È stata creata nel 2006 con l'obiettivo di rilevare e sviluppare impianti e iniziative sportive in tutto il mondo. Controlla il Jumeirah Golf Estates e ha organizzato i recenti campionati mondiali di golf a Dubai. Leisurecorp possiede quote nelle società Troon Golf, che organizza tornei sportivi di lusso, e nella Gps Technologies, che opera nel settore dele soluzioni con tenologia satellitare per il golf.

 

 

  Dubai World and Hodings  
     
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Fonte - Wall Street Journal

 

 


Dubai Multicommodities Centre
È una delle decine di "free zones" di Dubai specializzata nelle commodities (oro, acciaio, metalli preziosi, metalli di base). Creata nel 2002 è stata la seconda società degli Emirati a ricevere un rating da Standard & Poor's.

Dubai Maritime City
È un'area che si estende per 227 ettari a Dubai ed è stata sviluppata per favorire il business nel settore marittimo e commerciale. Dovrebbe essere completata nel 2012. Il progetto prevede la realizzazione di un centro multifunzionale con outlet, ristoranti e attrazioni.

Dubai Natural Resources World
È la società per gli investimenti nel settore energetico del governo di Dubai. È stata creata nel settembre dell'anno scorso con l'obiettivo di investire in tutto il mondo in risorse naturali energetiche. Ha investito finora in joint venture in Russia e Nigeria nel settore del gas e del petrolio.

Economic Zones World
Ha l'obiettivo di investire in zone economiche speciali per attrarre aziende industrliali e di servizi. Il suo fiore all'occhiello è la Jebel Ali Free Zone Authority (Jafza), il gigantesco parco logistico e industriale che sorge alla periferia di Dubai, lungo la strada per Abu Dhabi, di fronte al porto di Jeben Ali. Creata nel 1985, Jebel Ali è la "free zone" più grande della regione. Oggi comprende 6.100 aziende di tutto il mondo. Economic Zones World ha replicato il modello di Jebel Ali in anumerose zone del mondo, come Gibuti e prevede di svilupparne anche in Irak, Senegal e in altri paesi. Dubai World ha annunciato che la società non rientra nel piano di ristrutturazione dei debiti.

Limitless
Famosa in Italia per essere stata a un passo dall'acquisto dell'area ex Falck a Sesto San Giovanni, che avrebbe dovuto rilevare da Risanamento, Limitless è il braccio operativo dello sviluppo immobiliare del governo di Dubai. Nel suo portafoglio ha progetti in Vietnam, Russia, Arabia Saudita. Il suo piano più ambizioso è la realizzazione di un canale di 75 chilometri a Dubai, circondato da abitazioni per centinaia di migliaia di abitanti. Il progetto è stato bloccato.

Drydocks World
È l più grande società della regione nel settore della logistica portuale. Ogni anno gestisce circa 400 navi cargo, la maggior parte delle quali sono petroliere. Controlla società analoghe in Indonesia e a Singapore.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

L'Emirato: «Non garantiremo il debito di Dubai World»

01 Dicembre 2009 14:09 DUBAI – Il Sole 24 Ore
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Il governo di Dubai non intende garantire i debiti di Dubai World e i suoi creditori subiranno «a breve termine» le conseguenze della ristrutturazione del debito della conglomerata. Lo sostiene Abddulrahman al-Saleh, direttore generale del ministero delle Finanze di Dubai.

«I creditori - spiega Abdulrahman al-Saleh alla tv di Dubai - dovranno assumersi la loro parte di responsabilità per la loro decisione di prestare soldi alle compagnie». «Essi pensano - aggiunge - che Dubai World faccia parte del governo, il che non è corretto». «Il governo - spiega ancora - è il proprietario della compagnia, ma fin dalla sua fondazione è stato stabilito che la compagnia non è garantita dal governo».

Dubai World, precisa il direttore generale «fa accordi con tutti su questa base e i suoi prestiti si basano sui suoi progetti e non sulle garanzie del governo». Secondo Saleh la reazione dei mercati, che ha mandato a picco le Borse di Dubai e di Abu Dhabi, è esagerata. «La ristrutturazione del debito - dice ancora - è una decisione che è nell'interesse di tutte le parti nel lungo termine, ma potrebbe infastidire i creditori nel breve termine». La ristrutturazione dovrebbe riguardare 5,7 miliardi di debiti, con scadenza prima del prossimo maggio. La banca centrale degli Emirati arabi uniti ha assicurato che fornirà liquidità extra al sistema bancario, ma Saleh dubita che ce ne sarà bisogno. «Penso - spiega - che le banche a questo stadio non abbiamo bisogno di liquidità extra da parte della banca centrale».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Ecco la lista delle banche a potenziale "rischio sistemico"

01 Dicembre 2009 19:12 MILANO  - di Andrea Franceschi - Il Sole 24 Ore
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«Non c'è nessuna lista definita». Così il Financial Stability Board in un comunicato ha commentato la notizia, pubblicata dal Financial Times, in cui si riferisce di un elenco stilato dalle authority nazionali per il Financial Stability Board allo scopo di indicare le grandi istituzioni finanziarie che, se si trovassero in difficoltà, comporterebbero un "rischio sistemico". Una lista che, insieme a colossi del calibro di Goldman Sachs, Citigroup o Deutsche Bank, comprende anche le italiane Intesa Sanpaolo e UniCredit.

Il Fsb e la supervisione dei mercati
L'organismo internazionale guidato dal governatore della Banca d'Italia Mario Draghi sta studiando forme di supervisione sovranazionale dei mercati. Organismi in grado di coordinare le autorità nazionali nel lavoro di vigilanza dei mercati, al fine di prevenire lo scoppio di un'altra crisi finanziaria. Parallelamente il Fsb intende sentire i vertici delle maggiori banche e assicurazioni del mondo (quelli presenti nella lista). A loro, scrive il Financial Times, verrà chiesto di stilare una sorta di «piano d'emergenza»: una serie di misure da mettere in atto nel caso si verifichi un'altra crisi.
Successivamente il Financial Stability Board ha chiarito questo aspetto. E, in una nota, oggi ha segnalato che intende richiedere alle principali istituzioni finanziarie mondiali di dotarsi di un «collegio di supervisione». «Già nel 2008 - precisa il Fsb - abbiamo stilato un elenco di società che a nostro parere dovrebbero dotarsi di questo strumento. Ma è una lista che è soggetta a cambiamenti e non corrisponde a quella pubblicata dal Financial Times».

L'elenco del Financial Times
Nella lista pubblicata dal quotidiano finanziario ci sono 30 grossi nomi della finanza. Banche e assicurazioni cosiddette «too big to fail», troppo grandi per fallire. Colossi il cui fallimento, al pari della banca americana Lehman Brothers, potrebbe avere un impatto pesante sulla stabilità dei mercati. Situazioni che il Fsb intende prevenire. Tra le banche, oltre alle già citate Unicredit e Intesa Sanpaolo, ci sono le amercane Goldman Sachs, Citigroup, JpMorgan e Bank of America; la canadese Royal Bank of Canada; le britanniche Hsbc, Barclays Royal Bank of Scotland e Standard Chartered; le svizzere Ubs e Credit Suisse; le francesi Societè Generale e Bnp Paribas; le spagnole Banco Santander e Bbva; le giapponesi Mizuh, Sumitomo Mitsui, Nomura e Mitsubishi UFJ; la tedesca Deutsche Bank e l'olandese Ing. Tra le assicurazioni invece ci sono Axa, Aegon, Allianz, Aviva, Zurich e Swiss Re
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

BASTA CON LA FARSA DELLE AGENZIE DI RATING

01 Dicembre 2009 21:28 NEW YORK - di Luca Ciarrocca
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Fitch Ratings ha emesso un downgrade sul debito degli Emirati Arabi Uniti e assegnato un outlook "negativo" quando la ***** (sorry) ha gia' colpito in pieno (e da un pezzo) il ventilatore. Ma dov'erano finora questi incompetenti?
Luca Ciarrocca e' il direttore e fondatore di Wall Street Italia.

Riportiamo la news nuda e cruda dalle agenzie internazionali, anche perche' se no il caso Dubai esce in 48 ore dalle coscienze e dai ragionamenti collettivi:

Fitch Ratings ha emesso un downgrade per il bond UAE CMBS VEHICLE NO. 1 LIMITED's class A, B e C, e assegnato un outlook Negative a tutte e tre le tranches. I rating vengono modificati in questo modo:

USD27.5m class A scadenza Giugno 2016 (XS0305277047) downgraded a 'BBB-' da 'A+'; Outlook Negative

USD12.9m class B scadenza Giugno 2016 (XS0305277393) downgraded a 'BB' da 'A'; Outlook Negative

USD12.5m class C scadenza Giugno 2016 (XS0305277476) downgraded a 'B' da 'BBB'; Outlook Negative

Ora, non facciamo il nostro solito sondaggio WSI in Home Page per chiedervi cosa pensate delle agenzie di ratings (per scongiurare ovvieta': un risultato del 99% in una sola direzione probabilmente con 30.000 voti). Tuttavia facendo questo mestiere, non possiamo tutti i giorni continuare a sorbirci simili sceneggiate, accettando in modo supino che il declassamento del rating da parte di un'agenzia da A+ a BBB- possa ancora avere un qualche significato per gli investitori (parliamo di fondi, banche, di super-ricchi e anche, si spera, di privati che ancora rischiano capitali investendo in proprio). Che senso ha prestare attenzione a un rating emesso quando la ***** (sorry) ha gia' colpito in pieno (e da un pezzo) il ventilatore?

Cari signori di Fitch - ma anche di Moody's Investors Services e di Standard & Poor's - secondo noi di WSI, voi dovreste essere tutti commissariati, posti in amministrazione controllata, o meglio ancora soppressi seduta stante. Perche' siete inutili. Esatto: inutili.

Quando gli analisti di Fitch hanno assegnato il rating A+ ai grattacieli costruiti nel deserto del Dubai a prezzi ultra-sopravvalutati (secondo il buon senso) immobili e piste di sci garantiti da assurdi se non illegali bond "islamici" (a quando notes o obbligazioni con undewriter Gesu' Cristo o Budda?). Quando emetteste quel rating col massimo voto, sotto l'influenza di quale sostanza eravate, gentili signori di Fitch? Solo vino? Oppure dobbiamo pensare che altri sistemi di - diciamo - "pr & marketing" da parte dell'emittente entrarono in gioco?

Nah, forse eravate solo distratti perche' assorbiti dall'ingneria finanziaria e su come poter assegnare qualche altro A+ in modo facile-facile a qualche nuovo fantasmagorico progetto da "Mille e una notte", poggiato su cuscini dorati di CDS, CDO e pacchetti di derivati assortiti. Altro che "Mille e una notte": qui siamo - scusate la banalita' della metafora, ma e' vero - ad "Ali' Baba' e i 4000 ladroni".

Per fortuna il Dubai, come abbiamo gia' scritto, e' una goccia nel mare di indebitamento in cui affoga il nostro capitalismo presente, non piu' accettato e non ancora riformato. Ma diciamoci la verita': a queste menzogne indecenti, questo gioco delle tre carte con miliardi sul tavolo, non crede piu' nessuno. Fino ad ora aveva funzionato perche' ogni perdita e' stata scaricata sui portafogli della "gente", tutti i cittadini di tutti gli stati, con alla guida governi irresponsabili (e banche centrali) che drogano i mercati con debiti pubblici monstre e crescenti (in Italia: 1750 miliardi di euro, il 118% del pil). Qualche centinaia di milioni di fessi che pagano sempre e puntualmente le tasse ai loro governi si trovano sempre, vero?

La differenza adesso e' che questo andazzo dovra' per forza cambiare, e' diventato impellente. Qualcuno comincera' seriamente a ribellarsi. Come, lo vedremo.
 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

 

 

  Banche rotte

03 Dicembre 2009 00:30 ROMA - di R. Razzante e M. Barbetti

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I numeri sono impietosi. E a questo punto fotografano una situazione che difficilmente conosce eguali. Una lista di caduti sul campo di battaglia di questa crisi finanziaria che non risparmia colpi agli istituti di credito. Se torniamo a quel fatidico settembre 2008 quando il mondo subì la scossa della notizia del fallimento di Lehman Brothers, tra le più grandi e finanziariamente esposte banche del globo, vediamo progressivamente allargarsi una faglia che ha letteralmente inghiottito banche di grandi, medie e piccole dimensioni, trascinandole nella voragine del fallimento. Una strage che non ha fatto feriti. Quelle che si sono salvate ci sono riuscite solo grazie al massiccio intervento dello stato, che con una mano calata dall’alto ha tirato fuori dall’impaccio istituti di tutte le dimensioni. Un fenomeno globale, come si suol dire, ma che ha avuto il suo inizio e il suo svolgimento più compiuto proprio nel mercato finanziario statunitense. Oltre 100 istituti di credito falliti sino ad oggi durante l’ultimo anno solare. 94 fino allo scorso 21 settembre, 84 fino ad agosto. 13 solo a febbraio. 12 istituti falliti nella sola giornata di martedì 3 novembre, ben 14 quelle fallite l’11 agosto e 9 nella giornata del 13 febbraio (secondo i dati forniti dal FDIC – failed bank list del 1 ottobre 2009).

Numeri e progressioni impressionanti che possono essere messi a paragone solo con quanto accaduto nel 1989, quando la FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation) decise la chiusura di 534 istituti nella celeberrima crisi delle Saving and Loans (istituti molto simili alle nostre Casse di Risparmio). Una lista che contiene nomi di banche di ogni proporzione del calibro di Strategic Capital Bank, Citizens National Bank, John Warner Bank, First National Bank of Danville, Founders Bank. Solo la Founders Bank contava un’attività per 962.5 milioni di dollari di cui 848.9 milioni in depositi. I numeri diventano ancora più importanti se si mettono a paragone con quelli degli anni appena precedenti: oltre 100 banche hanno dichiarato bancarotta (non ci sono ancora stime ufficiali sui numeri) un’enormità rispetto alle 25 "cadute" nel 2008 e alle "sole" 27 saltate nel periodo compreso tra il 2000 e il 2007. Bank First, Bank of Wyoming, Community Bank of West Georgia, American United Bank, giusto per fornire qualche nome in ordine sparso.

L’ FDIC - Federal Deposit Insurance Corporation – il fondo di garanzia americano gestito dal Tesoro e finanziato dalle stesse banche, è incaricato in questi casi di sobbarcarsi il peso del fallimento di ciascuna banca consociata, con tutto l’evidente disagio che questo può comportare. Ma andiamo per gradi. Il fondo di garanzia americano interviene sostanzialmente in aiuto dei risparmiatori, garantendoli dalle perdite che conseguono ciascun fallimento ed, in seconda battuta, per la liquidazione della banca fallita. Questo ovviamente in un periodo non di crisi non appare particolarmente gravoso, ma in un momento come questo, mette sicuramente a dura prova la tenuta di un istituto di questo genere. Tant’è che le risorse del FDIC sono oramai esigue, al punto da dover richiedere l’intervento dello stato federale per rimpinguare le esauste casse. Ci basti pensare che il solo fallimento di una banca di medie dimensioni comporta oneri per l’FDIC per un valore superiore a 850 milioni di dollari circa. Considerando la recente accelerazione dei fallimenti di questo periodo, problema di estrema attualità non può che essere la tenuta del fondo.

Attualmente il fondo è diretto da Sheila Bair, una lady di ferro che ha utilizzato parole incandescenti contro i grandi colossi bancari, accusati di delapidare il patrimonio dello stato tramite il meccanismo della c.d. "assistenza bancaria aperta". Queste banche di enormi dimensioni vengono in gergo considerate "too big to fail" per cui, in nome di un superiore interesse collettivo arrivano ad accumulare passivi di ingenti dimensioni per poi richiedere l’intervento dello stato a disintossicare gli assets da prodotti finanziari non particolarmente brillanti. La Bair nell’impeto dettato dalla situazione ha chiesto a gran voce che le banche in questione vengano trattate alla stregua di qualsiasi altro istituto, dunque soggetti a fallimento quando questo non sia evidentemente evitabile, su modello di quanto accaduto alla Lehman Bros. Il tutto nell’ottica di "non causare danni collaterali ai mercati".

Sheila Bair ha anche proposto la creazione di un fondo parallelo all’FDIC, istituito con fondi versati dalle too big to fail, ed in soccorso solo a queste. Il tutto per creare un sistema autoreferenziato ed autosufficiente. In questo momento il governo di Washington ha previsto un nuovo flusso di denaro da destinare al fondo: 100 miliardi entro il 2009, ed altri 500 nell’arco del 2010. Questi sommati ai 700 miliardi già spesi per bonificare la palude finanziaria americana dagli prodotti tossici, previsto dalla precedente gestione amministrativa ed ereditata da quella attuale, ci mostra la dimensione del fenomeno e quanto preoccupante esso sia attualmente. Il prestito sarà restituito al tesoro nell’arco di un periodo imprecisato. Almeno nelle previsioni, visto che durante al crisi delle Saving and Loans sopracitata, il fondo chiese un finanziamento di "soli" 15 miliardi, ad oggi non ancora del tutto restituiti.

Il Fondo si nutre principalmente delle quote versate da ciascuna banca associata in una percentuale annua, ed è difficile prevedere che tale percentuale possa aumentare per coprire la voragine creatasi. Le casse degli istituti non lo consentono. Ecco spiegata la necessità dell’ennesimo intervento del Tesoro, attingendo dai fondi pubblici, anche e soprattutto in funzione della previsione di perdite future dovute a mutui, prestiti, carte e titoli di credito. Alla FDIC è affidato anche l’ingrato compito di smaltire le scorie derivanti dal fallimento di ciascuna banca, smembrando la carcassa dell’istituto fallito e tentando di cedere sul mercato gli assets meno compromessi, nell’intento di rientrare almeno in parte del debito accumulato. Lavoro alquanto arduo viste le condizioni di ciascun istituto e il suo grado di compromissione con prodotti tossici.

Questo può significare innanzitutto dover abbassare il rating dei compratori, con evidente rischio, se non nel breve, sicuramente nel lungo periodo. Tra i fallimenti eccellenti è da annoverare Cit Group, tra le società finanziarie più importanti negli States: dopo aver ricevuto aiuti per 2.3 miliardi di dollari ha avviato le procedure fallimentari invocando il Chapter 11 per l’accesso all’amministrazione controllata, al fine di diminuire (e di non poco) il debito. Nella documentazione presentata al Tribunale di New York si può leggere come il debito accumulato arriva a 65 miliardi contro 71 miliardi di assets. Ciò significa che Cit Group entra di diritto in vetta nella poco gratificante classifica degli istituti di più grandi dimensioni mai falliti. Quinta nella classifica dei più grandi fallimento della storia.

Ciò ha portato con sé effetti più che negativi, trascinando a brevissima distanza di tempo dietro di sé altri 9 istituti ad essa collegati. Secondo delle recenti statistiche del Financial Times, ammonta a 476 miliardi di dollari il livello della svalutazione delle attività comunicate dalle grandi banche occidentali sino al luglio 2008, 254 i miliardi richiesti per l’aumento di capitale utile a far fronte all’emergenza, 1000 i miliardi di dollari stimati nell’importo delle svalutazioni totali nei bilanci delle banche e 1600 miliardi i valori persi dalle borse internazionali tra l’agosto 2007 e lo stesso periodo del 2008. Infine da una recente indagine di Standard & Poor’s riportata dal Telegraph e richiamata anche in un recente articolo pubblicato in questa autorevole rivista, emerge come il peggio potrebbe non essere ancora passato per alcuni tra i più grandi istituti internazionali. Tra tutti si è fatto il nome di istituti come Mizuho Financial, Citigroup, UBS, BVA, Bank of America, Deutsche Bank e la nostrana Unicredit.

Ma sull’orlo del baratro a volte non sono solo le banche. Una singolare notizia è apparsa qualche tempo fa sulla stampa americana, facendo un po’ il giro del mondo. Il governatore David Paterson dello stato di New York ha dichiarato che se non si interverrà in fretta lo stato sarà costretto a dichiarare la bancarotta per mancanza di fondi. Infatti, la crisi che ha colpito la Grande mela, principalmente riferita alla crisi dei mutui, ha lasciato l’amministrazione senza fondi, con grave rischio per la garanzia dei servizi e della sicurezza. «Entro Natale potrà arrivare la bancarotta» le parole del Governatore, che aggiunge «le casse saranno vuote in quattro settimane e mezzo. A meno che non facciamo qualcosa finiremo senza soldi».

Il debito ad una prima stima appare riferibile ai 3.2 miliardi di dollari, dovuto principalmente all’esposizione creditizia dei mutui subprime. La colpa dello stato è stata quella di essersi lasciato trasportare dall’onda di entusiasmo che aveva condotto a contrarre prodotti che oggi vengono definiti tossici e che puntualmente hanno mostrato tutta la loro fragilità: credit default swap, asset-backed securities, collateralized debt obligation, tutti prodotti caratterizzati da un rischio elevato. Anche qui è auspicabile l’intervento dello stato a riportare serenità. In totale controtendenza appare invece il colosso Virgin che a detta del suo fondatore Richard Branson è intenzionata ad investire nel settore bancario. Per il momento è un argomento che riguarderà solo il mercato inglese dove Branson dovrebbe rilevare alcuni assets della Northern Rock una di quelle banche che nel pieno della crisi finanziaria inglese sono state inglobate dallo stato. Se poi l’esperimento dovesse riuscire – assicura Richard Branson – allora "la esporteremo anche all’estero".
 

Fonte - AIRA

 

 

 

 

 

Fiammata per l'M&A globale. Stati Uniti terreno di conquista

02 Dicembre 2009 18:26 MILANO - di Alberto Annicchiarico – Il Sole 24 Ore
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Fiammata per l'M&A globale. Stati Uniti terreno di conquista
Fusioni e acquisizioni riprendono fiato dopo un anno a bassa tensione. L'M&A globale a novembre, grazie a due grandi operazioni del governo britannico (salito ancora in Rbs con un'iniezione di 25 miliardi di sterline) e del finanziare Warren Buffett (l'acquisizione delle ferrovie Burlington Northern Santa Fe) ha toccato quota 3o5 miliardi di dollari.
Si tratta, sottolinea il data provider Dealogic, del volume mensile più elevato da inizio d'anno ma soprattutto il top da luglio 2008 (406,5 miliardi). Un'inversione di tendenza, magari temporanea (anche perché i contratti invece ripiegano, si veda grafico sotto), spinta sia dei venti di crisi sul mondo del credito nel Regno Unito sia da una scommessa sulla old economy dell'oracolo di Omaha, che balza ancora più all'occhio se si va a vedere cosa è successo sino al terzo trimestre.
Durante quest'ultimo periodo il calo dei volumi è stato del 53% rispetto a un anno prima. Nei primi nove mesi dell'anno, invece, il declino è stato del 34,2 per cento. In particolare il numero di operazioni realizzate da inizio anno, pari a 3.983, ha toccato il livello più basso dal 2004, secondo i dati dell'osservatorio Mc Kinsey-Il Sole 24 Ore. Un calo evidente, che in Europa, sempre secondo Dealogic, ha visto la sola Francia opporsi alla tendenza generale che ha visto Germania, Gran Bretagna e Spagna dimezzare i volumi. L'Esagono, infatti ha toccato quota 62 miliardi di dollari nel 2009 (dati aggiornati a fine novembre), addirittura superando il dato del 2008 (62,3 miliardi). Il contributo decisivo è arrivato dall'operazione Alstom-Areva, con un'offerta da 6,1 miliardi.
In ogni caso, secondo lo studio "Why capital matters, building competitive advantage in uncertain times" ("L'importanza del capitale, costruire un vantaggio competitivo in tempi d'incertezza", ndr), realizzato da Ernst & Young tramite interviste effettuate nel mese di ottobre 2009 a 500 senior executive di tutto il mondo, il fermento per l'M&A a livello globale è in crescita: il 33% delle aziende è intenzionato quando non fortemente intenzionato ad acquisire altre aziende nei prossimi 12 mesi. Il 25% addirittura nei prossimi 6 mesi.

Lo studio ha però evidenziato anche le difficoltà nel mettere in pratica tale intenzione: il 62% delle aziende ritiene la propria capacità di acquisizione limitata da diversi fattori, tra i quali la mancanza di finanziamenti disponibili. «Nei prossimi mesi - commenta Alastair Robertson, managing partner di Ernst & Young Transaction Advisory Services - è probabile un aumento delle attività di fusione e acquisizione a seguito della dismissione da parte delle aziende di asset non-core, poco performanti o in condizioni di sofferenza. Chi potrà comprare avrà l'occasione di conquistare quote di mercato e aumentare il fatturato in maniera impensabile anche solo due anni fa».
Certo, comprare non sarà più possibile per tutti, il capitale è e sarà merce rara, bisognerà avventurarsi su tereni più rischiosi, dalle joint venture ai collocamenti in Borsa. «La nuova e difficile realtà - spiega Robertson -costringerà alcuni executive a prendere seriamente in considerazione una revisione strategica. Molte aziende hanno risposto alla recessione con misure a breve termine, focalizzate su liquidità e costi; nonostante fossero appropriate vanno considerate in buona misura temporanee, adatte a sopravvivere nella crisi. Per crescere, le imprese devono essere resilienti e adattarsi rapidamente: ciò significa essere capaci di competere con decisione per accedere a nuove possibilità di finanziamento in un periodo in cui il capitale è scarso, rafforzando le core operation ed essendo in grado di prendere le decisioni giuste».
Proprio il rafforzamento delle core operation è la prima ragione che può portare a una transazione, secondo il 64% dei rispondenti; il 50% cerca invece opportunità di acquisizione per entrare in nuove geografie: circa la metà indica gli Stati Uniti come destinazione preferita tra i paesi industrializzati, mentre gli emergenti sono dominati da India (30%) e Cina (27%).
Il 63% del campione prevede per i prossimi 12 mesi un'accelerazione nel processo di consolidamento in corso, mentre per il 61% emergeranno dalla crisi pochi vincitori che saranno, nel momento opportuno, meglio posizionati per sfruttare le opportunità di acquisizione.
Nonostante la fiducia nella ripresa per le M&A, dallo studio di E&Y traspare comunque grande cautela: il 70% delle imprese ritiene che la recessione durerà almeno altri 12 mesi. Di queste, il 40% ritiene che continuerà almeno per altri due anni. Inoltre, il 53% dei rispondenti crede che le condizioni finanziarie non torneranno ai livelli di metà 2007 per almeno altri tre anni, con il 19% convinto che dovranno trascorrere più di cinque anni, o che addirittura non si ritornerà mai più a quei livelli.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Come insegna Warren Buffett sui mercati finanziari ci vuole temperamento

03-12-09 - Valerio Baselli
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La storia finanziaria, dalla bolla dei tulipani olandesi del XVII secolo alla recente crisi dei sub-prime, è piena di esempi di comportamento irrazionale da parte degli investitori. Certo, nel mondo tracciato dalle teorie economiche, questo non dovrebbe accadere. Se gli agenti economici fossero soggetti perfettamente razionali, le bolle non sarebbero possibili.
L’idea che la psicologia degli investitori possa essere la chiave di volta delle performance raggiunte è il cuore di un campo di studi che sta guadagnando sempre più influenza: la finanaza comportamentale. Essa applica la ricerca scientifica nell’ambito della psicologia cognitiva alla comprensione delle decisioni economiche e come queste si riflettano nei prezzi di mercato e nell’allocazione delle risorse. Si interessa quindi della razionalità, o meglio della sua mancanza, da parte degli agenti economici.
La finanza comportamentale, si legge in una nota Morningstar, è ormai diventata un importante aiuto nell’identificare comportamenti che ci costano perdite di denaro. L’analista di Morningstar Christopher Davis ha identificato i tre errori in cui gli investitori cadono più comunemente.
Innanzitutto, non bisogna dare eccessiva importanza alle performance recenti. Infatti, davanti ad una grossa quantità di informazioni, la maggior parte delle persone tendono a guardare solo i risultati a breve termine. Meglio un’analisi più approfondita, perchè non sempre quello che è successo ieri può dire ciò che succederà domani.
Da una indagine condotta tra gli automobilisti svedesi nel 1981, venne fuori che il 90% degli intervistati si riteneva un pilota superiore alla media. Questo, statisticamente parlando, è impossibile. Ecco il secondo errore da evitare: bisogna realizzare che forse non siamo esperti quanto crediamo. Secondo uno studio condotto dalla University of California di Berkley, gli investitori molto sicuri di sè, che fanno alto ricorso al trading, hanno un ritorno medio inferiore a coloro che rimango poco attivi (lo studio prese in considerazione 66 mila persone dal 1991 al 1996). Questo anche perchè chi effettua un alto numero di operazioni di compravendita deve pagare più commissioni di brokeraggio, mangiandosi così parte dei ricavi.
Infine, conclude Davis, la maggior parte di operatori vende troppo presto i titoli vincenti e tiene troppo a lungo i titoli perdenti. Questo perchè l’investitore medio preferisce accettare un guadagno contenuto ma sicuro, piuttosto che prendersi dei rischi per fare più soldi. Dall’altra parte, lo stesso investitore medio è riluttante a vendere titoli che navigano in cattive acque, monetizzando una perdita. Questo è forse l’errore più comune, ma anche il più difficile da evitare. Il trucco, secondo Davis, è fissare delle aspettative; se le aspettative vengono deluse, è tempo di vendere.
In una famosa intervista che si guadagnò la copertina della rivista Business Week nel 1999, Warren Buffet dichiarò che il successo negli investimenti non è corralato con il proprio quozionete intellettivo. Insomma, non bisogna essere dei geni per essere grandi investitori; quello che occorre è il temperamento, ossia la capacità di controllare le proprie emozioni, le proprie ansie e i propri istinti, il che forse è ancora più difficile.

 

Fonte - www.morningstar.it

 

 

 

LA CASSANDRA WHITNEY: «NON POSSIAMO NON DIRCI RIBASSISTI»

08 Dicembre 2009 23:00 NEW YORK - WSI
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La nota analista accusa le banche: hanno i soldi "a zero" dalla Fed e non li prestano. Sistema finanziario bloccato per tutto il 2010. Consumatori sempre peggio. E la borsa? Giu'. VIDEO
Il governo statunitense ha finito le cartucce ed ora si trova di fronte ad una serie di questioni irrisolte, prime fra tutte le difficolta' del mercato del credito e del lavoro.

Avendo fatto ormai tutto il possibile per far ripartire l'economia, ora qualunque cosa Washington abbia in mente di fare per favorire l'accesso al credito ai consumatori, che sono ormai esclusi dal sistema finanziario, questa si rivelera' insufficiente. A lanciare l'allarme e' la nota analista finanziaria Meredith Whitney.

La Whitney, di cui abbiamo parlato molto spesso nel passato (ha predetto in modo accurato un paio di trend importanti di borsa; leggere MEREDITH «MAI STATA TANTO NEGATIVA IN UN ANNO») e' ancora estremamente pessimista circa le prospettive di una ripresa dell'economia Usa ed e' di conseguenza ribassista sui mercati. "Penso che siano a corto di munizioni", ha detto l'analista alle telecamere dell'emittente CNBC, ribadendo il concetto, gia' espresso il mese scorso, secondo cui le possibilita' di una ripresa cosi' come la vede molta gente, sono assai remote.

La principale preoccupazione della Whitney e' la mancanza di accesso al credito da parte dei consumatori, che secondo lei sono tagliati fuori dal sistema finanziario, una tendenza prevalente che si protrarra' per tutto il 2010.
Nonostante possano contare sull'occasione unica di indebitarsi dalla Fed e dalle altre banche (fed funds) a interessi pari quasi a zero, gli istituti americani non stanno dando indietro quei soldi, che potrebbero invece reinvestire nei crediti a famiglie e imprese. Infatti la Federal Reserve ha confermato ieri che in ottobre il credito al consumo e' scivolato dell'1.7% su base tendenziale. Si tratta del nono calo mensile consecutivo.

Considerando che le spese al consumo rappresentano circa il 70% delle attivita' economiche americane (Pil), l'impossibilita' per i consumatori di indebitarsi potrebbe seriamente compromettere la crescita dell'economia.

"Quello che e' piu' frustrante e' che l'amministrazione continua con la sua retorica cosi' populista, senza dare invece peso a tutte le conseguenze collaterali, primo fra tutti il fatto che consumatori e piccole aziende hanno molto meno credito a disposizione".

"Ci troveremo per tanto di fronte ad una situazione di regressione dal punto di vista dei consumi, dove quelli che hanno aperto conti bancari, avuto carte di credito e case per la prima volta verranno tagliati fuori dal sistema e cadranno vittima dei creditori che usano pratiche predatorie, a tassi altissimi (fino al 30%)".

I problemi sopra citati rappresenteranno ovviamente anche un problema per gli investitori. "Sono convinta al 100% che i consumi non miglioreranno e che in realta' non c'e' molta liquidita' in circolazione", ha proseguito la Whitney, sottolineando che siccome "tutto quello che tocca i consumatori tocca anche l'S&P500, allora e' chiaro che la Borsa sara' sottoposta a pressioni al ribasso".

L'unica soluzione e' che il governo faccia qualcosa e lo faccia in fretta, adottando misure che diano ai consumatori piu' soldi per spendere. "Non penso sia possibile apportare tagli fiscali tali da stimolare la domanda in maniera soddisfacente. E per il 2010, ormai alle porte, questo e' un problema serio e reale". Non si puo' far finta di nulla, facendo come se il problema non esistesse. "Non e' mai successo prima d'ora in questo Paese", conclude la Whitney.
 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

 

 

 

  Martedì 08 Dicembre 2009   Mercoledì 09 Dicembre 2009   Venerdì 11 Dicembre 2009  
       
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  Mercati: chissene importa di Dubai e della Grecia

13 Dicembre 2009 23:34 MILANO - di Alessandro Fugnoli

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Gli Stati Uniti e la Cina, con grande dispendio di mezzi, stanno cercando di trainare il mondo verso la ripresa. Dubai e la Grecia stanno cercando di risospingerlo verso la notte. In questa lotta, a guardare i mercati, Dubai e la Grecia sembrano al momento prevalere. Possibile? Il mondo deve proprio dipendere dal pagamento della cedola di un sukuk (di cui il 99 per cento dei gestori europei o americani ignorava fino a un mese fa la stessa esistenza) o dall’esito della prossima asta dei bond della Helleniki Democratia?

Con tutto il rispetto, non riusciamo a vedere elementi nuovi e dirompenti in queste due crisi. Dubai è uno stato palazzinaro colpito dalla crisi come tutti i costruttori indebitati. La sua esposizione verso i creditori, ricostruita in questi giorni, non risulta essere fatale per nessuno. La posizione delle banche inglesi, in particolare, risulta sostenibile.
Quanto alla Grecia, la sua crisi più che esplosiva è irritante. La Grecia ha sempre sfruttato spudoratamente l’amore dei tedeschi per il suo mare e la sua storia. E’ stata fatta entrare nell’euro con un trattamento di favore. Se ne è sempre infischiata delle regole di Maastricht e ha avuto solo richiami bonari, quando all’est europeo non si perdona mai nulla. Ha sfruttato la sua importanza geopolitica e ha saputo farsi risarcire per il flirt che l’Europa ha con gli ottomani dai tempi di Francesco I di Valois e con i post-ottomani di Erdogan al giorno d’oggi. Quei turchi che hanno distrutto l’impero bizantino, schiacciato la Grecia per secoli e occupato di recente mezza Cipro con un’armata di contadini anatolici straccioni.

La Grecia è irritante perché finora non ha fatto nulla per rimettere a posto i suoi conti (si è scoperto addirittura che li ha imbrogliati). L’Irlanda ha appena varato un pacchetto molto duro, la Spagna sta facendo qualcosa, l’Italia è molto attenta a non lasciarsi andare. La Grecia niente. Il suo disavanzo pubblico è altissimo.

In più, annota sconcertato il Financial Times, la Grecia sembra in preda all’anarchia, con i manifestanti che prendono a sassate i banchieri d’affari inglesi in piazza della Costituzione ad Atene. Che scandalo. Come se la Grecia non avesse da decenni un’estrema sinistra particolarmente aggressiva e primitiva. Niente di nuovo, ci sembra.

Niente di nuovo nemmeno sul rapporto tra debito e Pil, che oscilla da molti anni tra il 110 e il 120 per cento. Un livello alto, non c’è dubbio, ma non una scoperta dell’ultima ora. La Grecia del resto ha attraversato il 2008 e il 2009 senza una crisi bancaria o immobiliare devastante (come Irlanda, Spagna e Regno Unito) nè aveva fatto in precedenza particolari follie come l’Islanda.
Il debito greco, benché alto, è uno dei più gestibili. La sua vita residua ponderata è di 7.8 anni, una delle più alte tra i paesi Ocse. Metà dei suoi titoli non scadranno prima di cinque anni. Nei prossimi 12 mesi sarà da rinnovare solo il 12.3 per cento del debito complessivo. Le banche greche lo sottoscrivono senza problemi, anche perché poi lo portano immediatamente alla Banca Centrale Europea che glielo sconta.

Il problema, in realtà, nasce qui. La Bce usa i soldi dei contribuenti europei e si imbarazza a comprare titoli di qualità troppo bassa. Adesso c’è la crisi e si accetta quasi tutto, ma dal 2011 si vorrebbe tornare alla normalità.

Se il rating greco dovesse essere abbassato, la Bce, se vuole rispettare le regole che si è data, dovrebbe smettere di scontarlo. Sia chiaro, la Bce sta tenendo in vita anche parecchie casse spagnole e banche tedesche esposte verso l’est europeo, ma il patto implicito è che all’aiuto deve corrispondere uno sforzo di ricapitalizzazione e di risoluzione dei problemi.

In febbraio, quando infuriava una vera tempesta globale e non la bufera in un bicchier d’acqua di adesso, la Germania arrivò a non escludere un salvataggio europeo, attraverso strutture dell’Unione o un consorzio di stati volonterosi, per i paesi in crisi. Così dicendo, il ministro delle finanze tedesco di allora dichiarava violabile il tabù più sacro dell’Europa finanziaria, il divieto assoluto di salvare singoli stati.

Se in questi giorni i toni sono diversi e si invita la Grecia con modi bruschi a darsi una mossa è perché, in fondo, ce lo si può permettere. E’ un segno di forza, non di debolezza. E’ un segno di forza perché non si temono effetti domino o contagi. I mercati ovviamente in queste ore stanno andando a cercare anche i titoli sovrani della Papuasia o delle terre antartiche per punirli del fatto di essere nella stessa categoria (vagamente emergente) della Grecia, ma non è un vero contagio.

I toni bruschi sono dovuti anche a un altro fatto positivo, la consapevolezza che la Grecia ce la può fare benissimo se solo si decide, per una volta, a fare qualcosa. C’è un’infinità di porte aperte a cui può bussare. Porte europee, prima di tutto, ma se ai politici greci dovesse servire lo spauracchio dell’Uomo Nero per fare passare misure impopolari c’è pronto il Fondo Monetario, nel quale l’Europa ha ancora una grande influenza.

Anche se non consigliamo l’acquisto di titoli greci (rischio per rischio almeno l’Ucraina rende molto, la Grecia no) siamo convinti che la questione sia gestibile e avviabile a soluzione in tempi ragionevoli. Perché allora i mercati sono così preoccupati?

Il motivo, a nostro avviso, è che la vicenda greca viene amplificata dalla debolezza dell’euro, che rafforzando il dollaro deprime le materie prime, che a loro volta fanno scendere i titoli petroliferi, minerari e industriali in generale e alla fine penalizzano gli indici. Qui non c’entrano nulla la paura del double dip, i timori per le vendite di Natale o qualsiasi altro fatto economico. C’è al limite una certa stanchezza nel rialzo, lo smontaggio di posizioni a leva (che non sono certo grandi come paventano i teorici delle bolle ma che comunque esistono in qualche misura) e una grande paura di perdere di nuovo soldi. Le motivazioni macro, per contro, sono tirate per i capelli, pure e deboli razionalizzazioni.

E’ però giustificata questa debolezza dell’euro che ha messo in moto la reazione a catena? Perché la crisi fiscale della California non ha pesato sul dollaro e la crisi fiscale greca pesa sull’euro? Non è forse l’economia californiana, con i suoi quasi due trilioni di Pil, più di cinque volte più grande di quella greca (343 miliardi)?

Si possono dare tre risposte, tutte giuste, ma solo la terza è quella che probabilmente spiega davvero. La prima è che il debito della California è di 60 miliardi, quello greco di 380. In America è l’Unione ad avere il grosso dei debiti, in Europa il secondo grande tabù vieta all’Unione di assumere debiti e tutto ricade sugli stati.

La seconda risposta è che in America l’Unione ha spesso salvato gli stati, per cui i timori di insolvenza e i rischi di contagio sono ridotti. L’Europa, ancora prigioniera dei suoi gelidi principi, non è ancora stata testata e questo accresce l’incertezza. La terza risposta è più che altro un’ipotesi e non c’entra niente con la Grecia. L’ipotesi che avanziamo è quella dell’analogia tra questo dicembre 2009 e la primavera del 2005.

Facciamo un passo indietro. Lo schema di uscita dalla crisi globale, nella crisi precedente come in questa appena terminata, prevede una divisione del lavoro per cui l’America reflaziona svalutando e spendendo, l’Asia producendo e accumulando dollari appena stampati mentre all’Europa spetta il compito di rivalutare. Quest’anno, rispetto al 2003-2004, gli squilibri del processo di reflazione sono attenuati (l’America si indebita di meno con il mondo e l’Asia accumula meno dollari) ma lo schema è il medesimo.

A un certo punto del processo di rivalutazione dell’euro l’Europa si sente però soffocare. Le sue imprese non possono contare sulla crescita della domanda interna e le esportazioni vengono colpite dal cambio troppo forte. L’Europa chiede allora una tregua agli Stati Uniti e ai mercati. Questa richiesta risulta più convincente se è accompagnata da qualche elemento specifico in grado di mettere in dubbio la sopravvivenza stessa dell’euro o addirittura dell’Unione.

All’inizio del 2005, dopo due anni di rivalutazione ininterrotta dell’euro, alcuni paesi dell’Europa mediterranea cominciano a mostrare serie difficoltà. La Germania esportatrice regge meglio, ma a fatica. Sui mercati che già ricamano sulla fuoruscita dall’euro di questo e di quello arriva il dato politico dirompente del no danese, via referendum, alla costituzione europea, replicato in giugno dalla Francia. La discesa dell’euro dura cinque mesi e lo riporta indietro, da 1.36, fino a 1.17 (ovviamente tra cori di "parità, parità" che non verrà peraltro mai più raggiunta). In quei cinque mesi l’Europa prende fiato, delocalizza e sfrutta al meglio la forte ripresa globale. A quel punto l’euro è pronto a seguire di nuovo il suo destino e si rafforza senza interruzione nei due anni e mezzo successivi.

Anche oggi abbiamo qua e là segnali di soffocamento da euro forte e ora abbiamo il tema di Grecia e Spagna per confezionare la teoria di un’Europa che non solo non ce la fa più economicamente, ma nemmeno riuscirà a tenersi insieme politicamente. Non è vero, ma fa comodo che qualcuno ci creda. E’ solo un’ipotesi e non abbiamo nessun elemento per dire che la pausa nel rialzo dell’euro sia già iniziata (o non sia piuttosto tra un anno) né che dovrà per forza avere la durata e l’ampiezza notevole che ebbe nel 2005.

Diciamo solo che nei cicli lunghi le pause sono fisiologiche, a un certo punto arrivano ed è quindi giusto esservi preparati. Questo ragionamento ci induce a essere in questo momento più tranquilli sulle borse che sull’euro.

L’espansione globale è infatti condannata a proseguire, costi quel che costi, mentre i cambi possono essere oggetto di aggiustamenti e manipolazioni. Fra qualche giorno ci saremo dimenticati di Dubai e della Grecia e torneremo ad occuparci di Stati Uniti, di Asia e di grandi temi globali. Si può approfittare dei malumori di questi giorni per comprare petrolio e titoli del settore nonché i ciclici e i finanziari più svenduti.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

  Obama richiama i banchieri «Non ostacolate le riforme»

15 Dicembre 2009 08:53 WASHINGTON – di Marco Valsania

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Citigroup ha raggiunto un accordo con il Tesoro per restituire 20 miliardi di dollari di aiuti pubblici e uscire dalla tutela federale. Ma l'intesa, passo significativo nel risanamento dell'alta finanza, non ha risparmiato ieri ai top executive di Wall Street una nuova e dura lezione impartita da Barack Obama: sono stati strigliati dal presidente, che li ha ricevuti alla Casa Bianca invitandoli a fare molto di più, ad aprire i rubinetti del credito, per stimolare l'economia e superare l'emergenza lavoro.

Citi e il suo a.d. Vikram Pandit hanno convinto le autorità che la banca è ormai abbastanza solida da non correre il pericolo di nuovi crack, ottenendo il via libera a una complessa operazione. Rastrelleranno sul mercato, anzitutto attraverso collocamenti azionari, 20,5 miliardi di capitali necessari a ricomprare titoli privilegiati che il Tesoro detiene in cambio di altrettanti prestiti. Un collocamento da 17 miliardi dovrebbe scattare già in settimana. Il governo, allo stesso tempo, avvierà la cessione a investitori privati di una quota azionaria del 34% nell'istituto ricevuta quale contropartita di ulteriori soccorsi per 25 miliardi. L'amministrazione Obama cederà inizialmente una tranche da 5 miliardi e le restanti azioni nell'arco di 6-12 mesi. La banca, inoltre, abbandonerà un programma federale che la proteggeva da perdite su oltre 300 miliardi di dollari di asset tossici. E, in un segno di sobrietà, ha deciso di pagare in titoli invece che in contanti compensi ai suoi dirigenti per 1,7 miliardi.
Citi, grazie alla manovra, si sbarazzerà dell'etichetta di "assistito speciale", e con questa di controlli pubblici particolarmente rigidi sulle sue strategie e sui compensi dei dirigenti. Simili restrizioni sono state denunciate come sempre più dannose per la competitività dell'istituto, che ha visto concorrenti uscire dalla tutela federale: Bank of America ha già raggiunto nelle scorse settimane un accordo con il Tesoro per restituzione di aiuti e altre società appaiono vicine.

«Abbiamo un debito di gratitudine con il contribuente americano», ha ammesso Pandit nell'annunciare l'accordo con le autorità. Obama, pur citando l'intesa con Citigroup quale segno incoraggiante di stabilità finanziaria, ha tuttavia invocato il debito morale ancora aperto per chiedere maggior cooperazione all'alta finanza. Ha ricordato ai banchieri che i disastri li hanno spesso causati «con le loro mani», con eccessive corse al rischio. «Le banche hanno sempre svolto un ruolo cruciale nell'economia nazionale – ha aggiunto –. Le abbiamo soccorse e, grazie al popolo americano, il sistema è più stabile, gli istituti possono tornare a dichiarare profitti. Mi aspetto un impegno altrettanto straordinario da parte loro per rilanciare l'economia». Un impegno che cominci con «l'aiutare le Pmi di qualità che hanno bisogno di prestiti per crescere e assumere».

Il presidente ha parlato al termine di un incontro con una decina di esponenti dell'Olimpo della finanza: da Jamie Dimon di Jp Morgan a Ken Chenault di American Express, da Ken Lewis di BofA a John Stumpf di Wells Fargo. Tre executive hanno partecipato in videoconferenza quando il maltempo ha impedito loro di arrivare a Washington: Lloyd Blankfein di Goldman Sachs, John Mack di Morgan Stanley e Dick Parsons, presidente di Citi. Oltre a chiedere loro di soddisfare le domande dell'economia reale, Obama ha lanciato un avvertimento: non opporsi, con i lobbisti, alla grande riforma delle regole voluta dall'amministrazione per evitare il ripetersi di gravi crisi. Una riforma, approvata dalla Camera ma non ancora dal Senato, che prevede stretta supervisione del sistema finanziario e inedita protezione dei consumatori.

Il pellegrinaggio dei banchieri a Washington, dove hanno discusso anche con il Segretario al Segretario al Tesoro Tim Geithner e il consigliere economico Larry Summers, è avvenuto in un clima che resta di alta tensione tra Casa Bianca e Wall Street: lo stesso presidente, in un'intervista televisiva nel fine settimana, ha apostrofato i re della finanza come "fat cats", Paperon de Paperoni aggrappati ai loro bonus e insensibili alle difficoltà di una popolazione che fa i conti con una disoccupazione al 10%. I banchieri hanno cercato ieri di smorzare le polemiche e promesso di aprire le porte alle piccole aziende, di riconsiderare richieste di prestiti dove queste siano state troppo frettolosamente negate.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

TASSI USA: LA FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%

16 Dicembre 2009 20:16 NEW YORK - XXX
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Come ampiamente atteso, la Banca Centrale Usa ha mantenuto invariata la forchetta sui fed funds. Le condizioni dei mercati finanziari supportano maggiormente la crescita ora. Decisione unanime. COMUNICATO FED
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse ad un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. I tassi sono fermi all’attuale livello dal 16 dicembre dello scorso anno. Nessun cambiamento significativo nel testo ufficiale che ha accompagnato la decisione; i piani di emergenza dovrebbero essere conclusi nel 2010 come previsto, l’inflazione continuera’ a rimanere contenuta.

Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:

Le informazioni ricevute dall’incontro del FOMC svoltosi a novembre suggeriscono che l’attivita’ economica ha continuato ad espandersi e che il deterioramento del mercato del lavoro si sta affievolendo. Il settore immobiliare ha mostrato alcuni segnali di miglioramento negli ultimi mesi. La spesa delle famiglie sembra essere in espansione ad un tasso moderato sebbene resti limitata dal debole mercato del lavoro, dalla modesta crescita dei salari, dalla ridotta ricchezza e dal limitato accesso al credito. Le aziende stanno continuando a ridurre gli investimenti, sebbene ad un tasso inferiore; ma restano riluttanti ad assumere; continuano a registrare progressi verso un migliore allineamento tra scorte e vendite. Le condizioni del mercato finanziario supportano maggiormente ora la crescita economica. Sebbene l’attivita’ economica restera’ probabilmente debole ancora per diverso tempo, il Comitato anticipa che le azioni mirate alla stabilizzazione dei mercati e degli istituti finanziari, gli stimoli fiscali e monetari e le forze di mercato contribuiranno a rafforzare la crescita economica ed un graduale ritorno a maggiori livelli di utilizzazione delle risorse in un contesto di stabilita’ dei prezzi.

Con il significativo rallentamento dell’utilizzazione delle risorse che continuera’ a limitare le pressioni sui costi, in un contesto inflativo di lungo termine stabile, il Comitato si aspetta che l’inflazione restera’ contenuta per diverso tempo.

Il Comitato manterra’ il target sui fed funds nel range 0.00%-0.25% e continua ad anticipare che le condizioni economiche, inclusi i bassi tassi di utilizzazione delle risorse, i contenuti trend inflativi, e le aspettative di un’inflaizone stabile, probabilmente contribuiranno a mantenere i tassi a livelli eccezionalmente bassi per un lungo periodo. Per fornire supporto alle attivita’ di prestito mutui ed al mercato immobiliare e per migliorare le condizioni generali all’interno dei mercati del credito privati, la Federal Reserve acquistera’ $1.25 mila miliardi in asset MBS (Mortgage-Backed Securities) e circa $175 miliardi in debito (Agency Debt). Per promuovere una piu’ semplice transizione sui mercati, il Comitato rallentera’ gradualmente l’attivita’ di acquisto ed anticipa che tali transazioni saranno eseguite entro la fine del primo trimestre 2010. Il Comitato continuera’ a valutare la tempistica e l’ammontare generale degli acquisti alla luce dello sviluppo dell’outlook economico e delle condizioni dei mercati finanziari.

Alla luce dei miglioramenti in atto nelle funzioni dei mercati finanziari, il Comitato e il Consiglio dei Governatori anticipano che gran parte degli speciali strumenti di liquidita’ utilizzati dalla Fed scadranno entro il primo febbraio 2010, in linea con quanto annunciato lo scorso 25 giugno. Tali strumenti includono: Asset-Backed Commercial Paper Money Market Mutual Fund Liquidity Facility, Commercial Paper Funding Facility, Primary Dealer Credit Facility, e Term Securities Lending Facility. La Federal Reserve lavorera’ anche in cordinamento con le controparti per chiudere temporaneamente gli accordi di swap sulla liquidita’ entro il primo febbraio. La Fed si aspetta che l’ammontare fornito sotto gli accordi di Termn Auction Facility continueranno ad essere ridotti agli inizi del 2010. L’anticipata data di scadenza per i Term Asset-Backed Securities Loan Facility resta fissata al 30 giugno 2010, per i prestiti garantiti da nuove emissioni commerciali MBS e al 31 marzo 2010, per i prestiti garantiti dalle restanti parti. La Federal Reserve e’ pronta a modificare tali piani se necessario per supportare la stabilita’ finanziaria e la crescita economica.

A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen.

Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di confermare il tasso interbancario in un range di 0.0%-0.25%:

Information received since the Federal Open Market Committee met in November suggests that economic activity has continued to pick up and that the deterioration in the labor market is abating. The housing sector has shown some signs of improvement over recent months. Household spending appears to be expanding at a moderate rate, though it remains constrained by a weak labor market, modest income growth, lower housing wealth, and tight credit. Businesses are still cutting back on fixed investment, though at a slower pace, and remain reluctant to add to payrolls; they continue to make progress in bringing inventory stocks into better alignment with sales. Financial market conditions have become more supportive of economic growth. Although economic activity is likely to remain weak for a time, the Committee anticipates that policy actions to stabilize financial markets and institutions, fiscal and monetary stimulus, and market forces will contribute to a strengthening of economic growth and a gradual return to higher levels of resource utilization in a context of price stability.

With substantial resource slack likely to continue to dampen cost pressures and with longer-term inflation expectations stable, the Committee expects that inflation will remain subdued for some time.

The Committee will maintain the target range for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent and continues to anticipate that economic conditions, including low rates of resource utilization, subdued inflation trends, and stable inflation expectations, are likely to warrant exceptionally low levels of the federal funds rate for an extended period. To provide support to mortgage lending and housing markets and to improve overall conditions in private credit markets, the Federal Reserve is in the process of purchasing $1.25 trillion of agency mortgage-backed securities and about $175 billion of agency debt. In order to promote a smooth transition in markets, the Committee is gradually slowing the pace of these purchases, and it anticipates that these transactions will be executed by the end of the first quarter of 2010. The Committee will continue to evaluate the timing and overall amounts of its purchases of securities in light of the evolving economic outlook and conditions in financial markets.

In light of ongoing improvements in the functioning of financial markets, the Committee and the Board of Governors anticipate that most of the Federal Reserve’s special liquidity facilities will expire on February 1, 2010, consistent with the Federal Reserve’s announcement of June 25, 2009. These facilities include the Asset-Backed Commercial Paper Money Market Mutual Fund Liquidity Facility, the Commercial Paper Funding Facility, the Primary Dealer Credit Facility, and the Term Securities Lending Facility. The Federal Reserve will also be working with its central bank counterparties to close its temporary liquidity swap arrangements by February 1. The Federal Reserve expects that amounts provided under the Term Auction Facility will continue to be scaled back in early 2010. The anticipated expiration dates for the Term Asset-Backed Securities Loan Facility remain set at June 30, 2010, for loans backed by new-issue commercial mortgage-backed securities and March 31, 2010, for loans backed by all other types of collateral. The Federal Reserve is prepared to modify these plans if necessary to support financial stability and economic growth.

Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen.
 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

Problemi in vista per il mattone

16-12-09 - Marco Caprotti
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Il comparto immobiliare tiene ma, avvertono gli analisti, si prepara a un difficile 2010. L’indice Msci del settore nell’ultimo mese (fino al 16 dicembre e calcolato in euro) ha guadagnato il 2,7%, portando a +20,5% la performance da inizio anno. “La fiducia che fra alti e bassi si respira sui mercati sta facendo bene anche al mattone”, spiega una nota di Morningstar. “I problemi, tuttavia, non sono ancora finiti e, l’anno prossimo, bisognerà farci i conti”. Anche questa volta, le difficoltà partiranno dagli Stati Uniti. Circa 1.500 miliardi di dollari di mutui per l’edilizia commerciale americana, infatti, nel 2010 andranno in scadenza. Ma molti sottoscrittori hanno già fatto sapere che non saranno in grado di onorare gli impegni. Per questo stanno cercando con grosse difficoltà di rifinanziare il debito e sperano in un intervento del governo (simile a quello attuato per salvare le banche) per risolvere la situazione.

L’amministrazione Usa – e in particolare Tesoro e Federal Reserve – hanno tuttavia già lasciato intendere che non intendono intervenire nuovamente sul mercato. “Una soluzione per molte società immobiliari potrebbe essere quella di quotarsi in Borsa e intascare i soldi dell’Ipo”, continua la nota. “Una situazione simile si è già vista all’inizio degli anni ’90, quando i prezzi del mattone sono crollati”. Per quanto riguarda il settore abitativo, secondo gli ultimi dati rilasciati dal Dipartimento del commercio, la costruzione di nuove case ha novembre è cresciuta dell’8,9%, rispetto allo stesso mese dell’anno scorso.
Problemi potrebbero registrarsi anche nel settore immobiliare europeo. Ad attivare la sirena è stata Kate Baker, personaggio influente della Bank of England che si è detta sorpresa dal rimbalzo dei prezzi delle abitazioni registrato negli ultimi mesi. Secondo i dati della società di consulenza Rightmove, il valore degli immobili da gennaio è cresciuto del 4%. Merito, ha spiegato la Baker della diminuzione della disoccupazione.

“Tuttavia, la situazione sul fronte del lavoro l’anno prossimo potrebbe deteriorarsi ancora. Questo porterà ad una stagnazione dei prezzi”, ha detto il membro della BoE. Lo stesso potrebbe accadere nel resto del Vecchio continente, visto che, di solito, l’andamento del mattone in Gran Bretagna anticipa quello europeo.
In Asia gli esperti tengono d’occhio soprattutto la Cina che, dal punto di vista immobiliare, nell’ultimo trimestre è stata una delle regioni peggiori a livello globale. La situazione è complicata dall’intenzione del governo di reintrodurre la tassa sulle rivendite di case effettuate entro cinque anni dall’acquisto. Precedentemente il limite era stato abbassato a due anni.
Gli operatori, tuttavia, sono ottimisti. “Il mercato ha già digerito il rischio di un intervento della politica nel settore delle abitazioni”, spiega uno studio della società di consulenza CLSA Asia Pacific Markets. “In generale il comparto immobiliare godrà di buona salute, grazie alla crescita economica del Paese che spingerà sempre più persone a investire nel mattone”.
 

Fonte - www.morningstar.it

 

 

 

 

 

  Domenica 13 Dicembre 2009   Giovedì 17 Dicembre 2009   Venerdì 18 Dicembre 2009  
       
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La settimana, 18/12/2009

Friday, 18 December, 2009 at 16:43 - by phastidio
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Durante la settimana il dollaro ha toccato il massimo degli ultimi tre mesi, mentre azioni e materie prime hanno visto un ridimensionamento, per effetto della ripresa di avversione al rischio indotta da timori sulla possibilità di stallo della ripresa economica e dalla vulnerabilità di alcuni paesi dell’Area Euro. Il dollaro ha recuperato contro tutte le divise più scambiate mentre il Dollar Index, che traccia l’andamento della valuta statunitense contro i sei principali partner commerciali del paese, si è rivalutato di circa l’1 per cento.
La decisione dell’agenzia di rating Standard & Poor’s, avvenuta mercoledì 16 dicembre, di risolvere il creditwatch negative sulla Grecia con il taglio del rating (il secondo quest’anno), ha suscitato negli investitori il timore che la recessione globale possa ancora pesare sulle economie più fragili. Si è registrato un significativo aumento del rischio di credito sovrano greco, ed il differenziale tra titoli di stato greci e tedeschi si è ampliato di circa mezzo punto percentuale. Negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha dichiarato, dopo il meeting del Federal Open Market Commitee, che la maggior parte dei programmi straordinari di fornitura di liquidità verranno lasciati scadere, come previsto, il primo febbraio.
L’ascesa del dollaro ha causato ripiegamenti nelle quotazioni azionarie dei produttori di materie prime, mentre Citigroup ha subito una marcata flessione per effetto dell’aumento di capitale deciso per procedere al rimborso dei fondi del TARP. A seguito del ribasso, che è soprattutto effetto della diluizione degli azionisti esistenti, il Tesoro americano ha deciso di rinviare l’inizio della procedura di vendita della prima tranche del 34 per cento di azioni ordinarie Citigroup in suo possesso. La decisione è destinata a pesare sulle quotazioni della banca statunitense, perché rappresenta un elemento aggiuntivo di incertezza. In settimana, anche Wells Fargo ha effettuato un aumento di capitale finalizzato al rimborso degli aiuti pubblici.
Relativamente alle banche, giovedì 17 il comitato di Basilea della Banca dei Regolamenti Internazionali ha presentato la bozza di riforma della supervisione sulle istituzioni finanziarie e creditizie. Le proposte tendono a dare una definizione restrittiva del capitale azionario Tier 1, riducendo l’utilizzo di titoli ibridi a fini di soddisfare i requisiti patrimoniali, oltre a proporre riduzioni del grado di leva finanziaria e aumento del cuscinetto di liquidità prudenziale richiesto agli istituti. Se tali proposte diverranno operative, è verosimile attendersi che molte banche avranno necessità di procedere a ricapitalizzazioni.
In Cina, nel tentativo di raffreddare il mercato immobiliare, le autorità hanno stabilito d’imporre un anticipo di almeno il 50 per cento sull’acquisto di terreni. L’iniziativa segue l’imposizione di una tassa sulla vendita di abitazioni entro i primi 5 anni dall’acquisto. Nella giornata di giovedì 17 dicembre, l’agenzia di rating Fitch in un comunicato ha dichiarato che le banche cinesi avrebbero occultato transazioni fuori bilancio con la finalità di alterare il reale stato del credito. In reazione a queste due notizie, l’indice di Shanghai ha chiuso la settimana con l’ennesimo ribasso, al minimo da 3 settimane, ed ha finora corretto del 10 per cento dal massimo dell’anno.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

Francesco Micheli: «C'è una bolla enorme»

16 Dicembre 2009 11:02 MILANO – Il Sole 24 Ore
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«Oggi siamo di nuovo sulla sommità di una bolla finanziaria enorme, prodotta dagli stessi responsabili della precedente». È secco e senza appello il giudizio del finanziere Francesco Micheli, grande esperto e attento osservatore dei mercati.
Dello stesso avviso Guido Rossi, giurista, professore ed ex presidente Consob: «Sono contento di non essere l'unica Cassandra – ha commentato – dato che anche Micheli prevede una nuova bolla». Entrambi sono intervenuti alla presentazione del libro «Wall Street: La stangata», scritto da Fabio Tamburini, direttore dell'Agenzia Il Sole 24 Ore Radiocor, e Gianfilippo Cuneo, pubblicato da Baldini Castoldi Dalai Editore.
All'evento, ieri sera presso il Circolo della Stampa di fronte a una platea di manager, investitori e gente comune, ha partecipato anche il presidente di Bpm e Impregilo, Massimo Ponzellini. Le basi per lo scoppio della nuova bolla, ha esordito Micheli, sono state poste «a partire da un'enorme base monetaria, soprattutto in dollari, creata in una forma di accanimento terapeutico per risollevare l'economia» e dall'introduzione di nuove regole «che come sempre vanno bene per le banche e non per i risparmiatori».
I responsabili della situazione sono quindi «gli stessi ragazzi che avevano il cappello di Lehman Brothers e oggi hanno cambiato casacca ma fanno esattamente le stesse cose», descrizione in cui, ha aggiunto con un sorriso il finanziere, «ogni riferimento a Goldman Sachs è puramente casuale». Rossi, da parte sua, ha notato che «la rivoluzione finanziaria ha mandato in vacanza la rivoluzione industriale», in un orizzonte in cui «il mercato ha fallito, la finanza conta più dell'industria e la ricchezza viene solo dalla finanza grazie a un sistema che cerca di crearla a partire dal debito».
Commentando diversi passaggi del libro, Rossi ha quindi puntato il dito contro le stock option, «uno degli strumenti di massimo imbroglio da parte dei manager» e tra i principali imputati per la crisi. Se da questo osservatorio il panorama globale non appare certo sereno, nubi non mancano nemmeno nello specifico della situazione italiana. Micheli ha notato infatti che nel nostro Paese la crisi «comincia a fare i suoi veri danni soltanto oggi e, al di là degli annunci della politica, è difficile che questo possa cambiare prima della fine del 2012». Tanto più, ha concluso, che «in Italia siamo molto vicini all'esplosione dello scandalo delle perizie immobiliari, in cui sono state fatte valutazioni valide erga omnes che fanno inorridire come certi prodotti finanziari avvelenati».
Tutto sul filo del paradosso, infine, l'intervento di Ponzellini, che ha ricordato il commiato di Alan Greenspan di fronte ai banchieri centrali europei al termine del suo mandato alla guida della Federal Reserve americana. Quella di Greenspan «voleva essere una battuta di spirito, ma si è rivelata un'esatta fotografia di ciò che si sarebbe verificato». Il banchiere Usa, ha raccontato Ponzellini, «spiegò di aver lasciato al suo successore tre buste, una per ogni futura crisi. Nella prima c'era scritto «Dai la colpa al mercato» e nella seconda «Dai la colpa al governo». Nella terza, infine, «Prepara tre buste».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Finanza: nuvolosità diffusa, nuovi temporali

20 Dicembre 2009 17:03 MILANO - di Giuseppe Turani

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Un recente studio del Boston Consulting Group sostiene che almeno il 50% degli operatori del private equity è a rischio di chiusura e che migliaia di aziende nel mondo saranno presto senza padroni e senza soldi. Banche costrette a rafforzare il capitale. La novità del 2010 sarà una «cosa» chiamata «selezione». Assisteremo ad una tremenda selezione tra le imprese perché con i mercati asfittici, con le banche che non erogano credito, con i costi sempre difficilissimi da comprimere, vincerà solo chi sarà molto ben equipaggiato.

Vinceranno le aziende in grado di competere a livello internazionale perché a fronte a un´Europa e a un Nord America che fanno ancora fatica a riprendersi, Asia e Sud America stanno continuando a crescere senza soste. E chi è posizionato - con stabilimenti o con clienti - in quei paesi ha molte più possibilità di uscire dalla crisi più forte di prima.

A Bologna, ad esempio, ci sono aziende che hanno ridimensionato fabbriche in loco, ma che contemporaneamente hanno avuto il coraggio di aprire produzioni in Vietnam, in Cina o in India. Produzioni che, dopo pochi mesi, già bilanciano buona parte dei cali del fatturato europeo. Per cui tra i primi vincitori ci sono coloro che hanno avuto il coraggio di guardare fuori casa.

La seconda categoria di imprese che uscirà vincitrice è quella di chi ha contratto pochi debiti, in pratica di chi ha fatto il passo della lunghezza della gamba negli anni in cui le banche arrivavano quasi ad obbligare le imprese ad indebitarsi. Oggi le banche non danno più soldi alle imprese, anzi li tolgono, dove possibile. Per cui chi non ha bisogno delle banche è certamente favorito. Molte aziende solide finanziariamente sono chiamate da banche, avvocati e consulenti per salvare le loro concorrenti indebitate, altre sono spinte a rilevare società di proprietà di quei private equity che le avevano indebitate a livelli inaccettabili. E che ora non riescono più a far fronte ai debiti.

Anche tra le banche pertanto ci sarà una forte selezione perché ben presto, analizzandone i bilanci, vedremo chi ha esagerato con l´acquisition financing, con le operazioni a forte leva finanziaria, con le operazioni garantite da titoli azionari che oggi hanno un valore assai ridimensionato. Ed infatti mentre nel corso del 2009 tutti abbiamo guardato all´esposizione sui sub prime, sui titoli tossici e più recentemente sulle carte di credito, nei prossimi mesi non potremo non andare a vedere chi è fortemente esposto con il private equity, le operazioni a forte leva e, peggio del peggio, chi addirittura ha voluto entrare nel capitale di società molto indebitate. Il bubbone, nei bilanci di alcune banche, si preannuncia molto corposo.

Con la conseguenza che tali banche dovranno fare forti svalutazioni. Andando così ad indebolire ulteriormente bilanci già non certo floridi e che saranno costrette a rafforzare con continui aumenti di capitale, sempre più a sconto. Le banche che invece hanno prestato soldi solo a clienti robusti usciranno ben più forti, si porranno come soggetti aggregatori e su di esse le banche centrali costruiranno la futura architettura del sistema, quella del dopo crisi.

La terza selezione sarà proprio nel settore dei fondi e delle finanziarie di investimento. Cioè quel settore che, se lo si studia sui manuali, dovrebbe essere il motore principale dello sviluppo. Grazie a simili investitori infatti le società più promettenti e meritevoli erano in grado di reperire capitali, di andare più rapidamente in borsa, effettuare ulteriori acquisizioni.

Peccato che la maggior parte degli operatori del private equity si sia ubriacata di superficialità, di protagonismo e di faciloneria. E così oggi centinaia di società sono sull´orlo del fallimento. Un recente studio del Boston Consulting Group sostiene che almeno il 50 per cento degli operatori (cioè la metà!) del private equity è a rischio di chiusura e che migliaia di aziende nel mondo saranno presto senza padroni e senza soldi. Anche qui invece trionferanno gli operatori che sono stati più prudenti, che non hanno consigliato operazioni troppo a rischio, che non hanno partecipato a quei superleverage che stanno saltando come birilli. Insomma, cash is king, si sente dire sempre più spesso. Chi ha i soldi stravincerà: è cominciata la selezione.

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

BORSA: SI CHIUDE IL PEGGIOR DECENNIO DI SEMPRE

22 Dicembre 2009 17:05 NEW YORK - APCOM
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A New York sta per calare il sipario sul piu' brutto periodo mai registrato nella storia. I mercati azionari fanno segnare un calo medio dello 0.5% dal 1999 ad oggi. Servirebbe un rally del 3.6% per migliorare il risultato degli anni '30.
A Wall Street sta per calare il sipario sul peggiore decennio di sempre. Lo scrive il Wall Street Journal sulla base di stime di William Goetzmann, il direttore della scuola di management dell'università di Yale. Il mercati azionari di New York hanno fatto segnare un calo medio dello 0,5 per cento, dal 1999 a oggi, e servirebbe uno portentoso rally di fine anno, con una crescita del 3,6 per cento nelle ultime due settimane, per migliorare il risultato degli anni Trenta, quelli della Grande Depressione, quando il calo medio fu dello 0,2 per cento.

Va detto che le statistiche di Goetzmann, che ha preso in considerazione i decenni di Wall Street dal 1820 a oggi, sono viziate da un fattore legato al calendario. Il picco della Grande Depressione fu infatti l'autunno del 1929, ma quell'anno non viene preso in considerazione nella valutazione del decennio iniziato il 1 gennaio 1930. In termini assoluti la Grande Depressione è costata agli investitori americani di più della recessione in atto.

Ma questo poco toglie al terribile decennio che si chiude.
Dal 2000 al 2009, secondo l'economista Michele Gambera, sarebbe stato meglio investire in obbligazioni, che hanno reso tra il 5,6 e l'8 per cento, o meglio ancora in oro, che ha chiuso la decade in rialzo del 15 per cento, dopo aver perso il 3 per cento negli anni Novanta. Anche tenere i soldi nel materasso, secondo il Journal, sarebbe stato un investimento migliore rispetto al mercato azionario.

Dalla fine del 1999 lo Standard & Poor's 500 ha perso una media dello 3,3 per cento l'anno, contro il rialzo medio dell'1,8 per cento degli anni Trenta. La stima è in questo caso di Charles Jones, docente di finanza dell'università della North Carolina, secondo il quale il decennio 'perdente' peserà in maniera significativa anche sui rendimenti su base trentennale, anche ipotizzando una crescita sostenuta nei prossimi dieci anni. I mercati sono cresciuti del 17,6 per cento in media negli anni Novanta, e anche ipotizzando un rialzo del 10 per cento nella prossima decate, la rendita trentennale sarebbe solo dell'8,8 per cento.

Ci sono eccezioni? Ovviamente sì ma poche: solo 13 blue chip hanno chiuso il decennio in positivo e solo due, Caterpillar e United Technologies hanno raddoppiato il loro valore negli ultimi dieci anni.
 

Fonte - APCOM

 

 

 

Bond: le cinque regoleper non scottarsi nel 2010

27 Dicembre 2009 19:49 - di Fabio Pavesi
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Sono (spesso a torto) sinonimo di basso rischio e in genere le acquista chi non vuole sfidare il batticuore delle Borse. Ma anche con le obbligazioni, siano esse pubbliche o private, il piccolo risparmiatore qualche rischio lo corre sempre. E il 2010 sul fronte del mercato dei bond si palesa come assai difficile e complicato. Il motivo è molto semplice. I prezzi sono reduci da una cavalcata notevole lungo tutte le scadenze e i tassi della politica monetaria da decenni non sono mai stati così bassi. Ovvio che prima o poi i tassi non potranno che salire e quando questo accadrà ci sarà un impatto sfavorevole sui prezzi dei titoli. Quel che oggi comprate a 104-105, domani può valere molto meno. Insomma il mercato è caro e quel miraggio di una cedola al 3-4% può rivelarsi un autogol se i prezzi dovessero scendere. Ecco dunque qualche regola di buon senso per minimizzare il più possibile i rischi di un acquisto di titoli di Stato o societari nell'anno che verrà.

1) Prudenza sulle obbligazioni governative che scadono tra i dieci e i 30 anni. E' vero che se si cercano cedole un minimo attraenti è lì che bisogna andare, ma come detto si paga salato. Il BTp che scade nel 2039 ha una cedola ghiotta del 5%, ma il titolo costa 104,8; il valore cioè di un intero anno di rendimento. Se i tassi dovessero salire l'anno prossimo quel prezzo scenderà. Alcune stime dicono che sul trentennale l'effetto di un aumento di 0,25% dei tassi guida deprime i valori del 3,8%. Un rialzo dei tassi fino all'1% (oggi remoto) porta il deprezzamento fino al 14%. Rischiereste quindi in futuro di avere in portafoglio un titolo con buone cedole ma che vale meno di quando lo avete comprato. L'unica difesa è fare il cassettista. Dovete essere sicuri di mantenere il titolo fino a scadenza per evitare qualsiasi effetto negativo sui prezzi d'acquisto

2 ) No al BoT che si autorinnova. È uno degli autogol più clamorosi che fanno i piccoli risparmiatori. Si compra il BoT annuale e si rinnova a scadenza. Nessun rischio vero, ma nessun guadagno. Proprio nessuno. Già perché oggi il buono annuale rende lo 0,68%, ma i costi per comprarlo e venderlo si mangiano l'intera performance. Un giochino che arricchisce solo le banche e non voi

3) Occhio al rendimento troppo alto. Quando un titolo obbligazionario rende di questi tempi sopra il 5 se non 6% c'è da stare molto attenti. È ovvio che un ritorno di questo genere attragga gli investitori e il fatto che sia un bond sembra rassicurare su eventuali rischi, ma non è così. La storia è piena (dall'Argentina in poi) di obbligazionisti che hanno comprato titoli gonfi di ricche cedole per poi ritrovarsi senza capitale in mano. Rendimenti elevati in questa fase ancora molto critica per l'economia e la finanza mondiale, sono sospetti. Vuol dire che lo Stato o la società che emette questi titoli ha un merito di credito traballante e l'unico possibilità di far digerire la sua "carta" è quella di offrire rendimenti sempre più alti. Diffidate, diffidate.

4) Bond in dollari? L'attuale debolezza della moneta Usa può indurre in forti tentazioni. Si comprano bond in valuta americana e si spera di beneficiare di una rivalutazione del dollaro sull'euro. Magari accadrà e si potrà sommare alle cedole il guadagno in conto capitale. Ma se accadesse il contrario sarebbero dolori. Quando una moneta perde valore spesso le cadute sono nell'ordine del 20-30%. Val la pena di correre questo rischio per un'attività finanziaria che rende il 3-4% l'anno se tutto va bene? Il gioco forse non vale la candela.

5) Attenti ai Paesi emergenti. Vi propongono allo sportello i bond del Brasile o della Russia e vi dicono che le cedole sono molto alte e in fondo sono Paesi che tirano l'economia mondiale, dato che la crescita del loro Pil non è quella asfittica della Vecchia Europa o degli Stati Uniti ancora in forte convalescenza. In parte è vero, ma se volete preservare il capitale e guadagnare qualche punto l'anno, forse è il caso di lasciar perdere. Quei bond sono in valuta locale e come detto per il dollaro le oscillazioni dei cambi sono tanto volubili quanto repentine e violente. Avete alte cedole, ma un rischio incorporato paragonabile a un investimento in Borsa.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

La tecnologia va sempre di corsa

23-12-09 - Marco Caprotti
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La tecnologia continua a correre. L’indice Msci del settore nell’ultimo mese (fino al 23 dicembre e calcolato in euro) ha guadagnato quasi il 9%, portando a +50,3% la performance da inizio anno. “Si tratta di un segnale importante”, spiega una nota firmata da Robert Johnson, analista di Morningstar. “Significa che le aziende hanno fiducia nella ripresa e tornano a investire nell’hi-tech”.
Un’ulteriore spinta dovrebbe arrivare dalle vendite natalizie che, secondo Johnson, quest’anno dovrebbero crescere del 2% rispetto all’anno scorso. “Se la previsione sarà confermata, significherebbe che anche a livello dei privati sta tornando un po’ di ottimismo”, continua l’analista. Sul fronte corporate, intanto, si registra un po’ di fermento. Micron Technology, il più grande produttore americano di chip di memoria per i computer ha annunciato che nel primo trimestre fiscale ha registrato un utile netto di 204 milioni di dollari, contro una perdita di 718 milioni nello stesso periodo dell’esercizio precedente. Si tratta, peraltro dei primi profitti che l’azienda vede da due anni a questa parte. Si frega le mani anche Oracle che, per la prima volta da quattro trimestri consecutivi ha registrato un aumento delle nuove licenze.
Sempre per quanto riguarda i conti, Red Hat (produttore del software Linux), ha annunciato che nel terzo trimestre ha avuto un fatturato di oltre 194 milioni di dollari, in crescita del 18% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Gli analisti si attendevano un risultato di 188 milioni. Secondo le indicazioni della società il giro d’affari dell’anno prossimo dovrebbe essere all’interno di una forchetta che va dai 743 ai 745 milioni. Se la stima si avverasse, anche in questo caso si supererebbero le attese degli operatori che puntano a 736 milioni.
Segnali di ottimismo sono arrivati anche da Hewlett-Packard. Il vicepresidente del colosso informatico, Vyomesh Joshi, ha annunciato che la società conta di aumentare la sua quota di mercato nei diversi settori in cui opera nel corso del 2010 (anche se non ha fornito dettagli più precisi). Per farlo, il gruppo dovrà rimettere in sesto il ramo d’azienda che si occupa di stampanti che contribuisce al 21% dei bilanci e che negli ultimi cinque trimestri è sempre stato in perdita. Per l’anno prossimo è previsto un miglioramento del 2%.
Nel frattempo anche i venture capitalist si stanno rimettendo al lavoro nel settore tecnologico. Galleon Group, ad esempio, ha appena completato le procedure per far debuttare in Borsa la società di pubblicità online ReachLocal. Si tratta della quattordicesima operazione del genere da fine ottobre. Secondo la National Venture Capital Association nel corso del 2010 ci saranno altre 26 Ipo di società tecnologiche spalleggiate dal capitale di ventura.
 

Fonte - www.morningstar.it

 

 

 

 

 

  Martedì 22 Dicembre 2009   Giovedì 24 Dicembre 2009   Giovedì 31 Dicembre 2009  
       
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  Sentiment mercato USA: prove tecniche di rally

28 Dicembre 2009 13:54 BIELLA - WSI

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Il mercato azionario, trainato dal Nasdaq, tenta l’allungo. Nonostante il rimbalzo del dollaro Usa – contro euro apprezzatosi di oltre il 6% rispetto ai minimi di fine novembre – gli indici principali stanno dando segnali di volere proseguire nella salita. Tra tutti si distingue positivamente il Nasdaq Composite, che nella seduta di lunedì scorso salta in gap-up la forte resistenza in area 2200/20, che ne aveva contenuto il rialzo dalla metà di novembre in poi.

Il segnale è positivo e conferma la volontà di spingersi verso la resistenza chiave a 2320, che da molti mesi indichiamo come obiettivo ultimo del grande movimento di bear market rally iniziato dai minimi del 9 marzo a 1265. Per conservare un buon momentum le quotazioni devono ora assestarsi al di sopra di 2200/20, anche se un segnale di debolezza si avrebbe solo su discese al di sotto di 2110/55, al momento poco probabile. Tono sostenuto anche per l’indice S&P500, che riesce a spingersi al di sopra della resistenza critica a 1115, che da metà novembre ne aveva arrestato il rialzo.

Per mantenere un’impostazione tonica per le prossime settimane è necessaria la tenuta del supporto in area 1065/80. Il quadro tecnico, tuttavia, si indebolirebbe solo in caso di rottura del forte supporto in area 1020/40, al momento poco probabile. L’obiettivo per le prossime settimane è confermato nella resistenza chiave a 1200, dove dovrebbe esaurirsi il grande rimbalzo in essere dai minimi del 6 marzo a 666. Il Dow Jones Industrial rimane sui massimi di periodo a ridosso della forte resistenza a 10500. Il tono rimane positivo finché le quotazioni stazionano al di sopra di 10100/200.

Per le prossime settimane l’obiettivo è confermato nella resistenza chiave a quota 11000, dove dovrebbe esaurirsi il rally scattato dai minimi del 6 marzo a 6470. Un segnale di debolezza si avrebbe solo su discese al di sotto di 9950, al momento poco probabile. La volatilità implicita tocca nuovi minimi per l’anno, col Vix disceso sotto quota 20 per la prima volta dal settembre 2008. Finché le quotazioni rimangono al di sotto di 26 il tono rimane sereno, propizio ad una prosecuzione del rally azionario.

A livello settoriale si distingue l’ottima performance del comparto dei semiconduttori, con l’indice Sox di Filadelfia risalito sui livelli di inizio settembre 2008 (+112% rispetto ai minimi di fine novembre 2008). Il comparto bancario, un po’ trascurato nei mesi passati, sembra riprendere forza, anche se mancano ancora segnali convincenti. Un segnale rialzista si registra anche dal settore dei consumi durevoli e dall’auto. Nell’insieme vi sono quindi le condizioni per una prosecuzione del rialzo verso gli obiettivi indicati, dove si potrà prendere beneficio e mettersi liquidi in attesa di nuovi segnali dai mercati.

Fonte - Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

 

 

 

 

 

 

Obbligazionario governativo: commento di dicembre

31/12/2009 - By Phastidio
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Nel mese di dicembre il mercato obbligazionario governativo dell’Area Euro (a livello di indice JPM Emu) è stato caratterizzato da una performance negativa per circa l’1 per cento, frutto di aumento dei rendimenti sul tratto di curva successivo alla scadenza triennale, che ne ha determinato quindi un irripidimento.
Il fenomeno appare comune a tutti i mercati obbligazionari, ed è da ricondurre ai timori dei mercati per il venir meno delle operazioni di easing quantitativo da parte delle banche centrali, in un contesto di elevati deficit pubblici, che manterranno elevata l’offerta di titoli governativi anche nel 2010. Altri timori derivano dalla possibilità che pressioni politiche possano determinare un’insufficiente restrizione monetaria, al momento del manifestarsi della ripresa.
I mercati stanno progressivamente scontando un aumento delle attese inflazionistiche, come testimoniato dall’andamento dei breakeven inflation rates sui titoli governativi indicizzati all’inflazione, e ciò si riflette in un aumento dei rendimenti sulla parte a lunga scadenza dei titoli tradizionali.
Altro evento di rilievo nel corso del periodo è stato l’ulteriore forte allargamento dei credit default swap sulla Grecia, dopo che le principali agenzie di rating hanno proceduto al declassamento del debito sovrano del paese, mantenendolo in negative outlook. L’approvazione da parte del parlamento greco della manovra correttiva che taglierà di circa 4 punti percentuali il rapporto deficit-Pil (portandolo secondo le previsioni in prossimità di un comunque poco rassicurante 10 per cento), ha successivamente favorito una riduzione dei livelli del rischio di credito e del differenziale tra titoli di stato greci e tedeschi.
Malgrado l’accresciuta volatilità dei mercati ed il temporaneo aumento dell’avversione al rischio, i titoli di stato italiani hanno mostrato una buona capacità di tenuta, riducendo il differenziale di rendimento con il Bund, sulla scadenza decennale, in un intorno di 70 punti-base. E’ utile osservare che tali valori restano significativamente superiori a quelli che venivano registrati prima dello scoppio della crisi, nella seconda metà del 2007, segnalando la cautela dei mercati verso quei paesi che hanno i maggiori rapporti debito-Pil e che dall’introduzione dell’euro hanno evidenziato limitate capacità di crescita.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

Anno positivo per le Borse. Cina la migliore

31/12/2009 - Miaeconomia
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Il 2009 borsistico e’ cominciato male ma sta finendo con le Borse sui massimi dell’anno. Un risultato su cui molti a gennaio non avrebbero scommesso. Ma quelli che l’hanno fatto e i fortunati che sono entrati in Borsa a inizio marzo, si sono portati a casa un bel rialzo. Tutte le Piazze Mondiali chiudono il 2009 con un cospicuo guadagno, chi piu’ chi meno. Tra le economie piu’ avanzate le Borse dell’Asia dell’est hanno la palma della migliore performance occupando tre dei primi quattro posti nella classifica della performance dal primo gennaio a oggi anche graze alla maggiore tenuta delle loro economie rispetto alla recessione: Singapore e' salita di oltre il 55%, Seul di oltre il 40% Hong Kong del 35%.

A Wall Street la Borsa ha guadagnato poco piu’ del 21%. In Europa il mercato azionario che ha messo ha segno la migliore performance e’, a sorpresa, Stoccolma, che ha guadagnato oltre il 40% da inizio anno. Il resto delle principali Borse europee hanno realizzato rialzi che vanno dal 20% al 25%. Parigi il 18%, Londra il 20%, Francoforte circa il 25%, a dimostrazione che la globalita’ degli scambi porta gli investitori a premiare o penalizzare le Borse in maniera indistinta, segnale che la strategia della diversificazione geografica sta diventando inefficace, almeno per stati, mentre continua ad avere qualche senso per macro regioni (Europa, est-Asia, Nord America, Bric).
Piazza Affari occupa la parte inferiore della classifica con uno striminzito 15% circa di guadagna; solo la Borsa della Finlandia ha fatto peggio di noi, ma di un soffio. L’andamento peggiore delle altre Piazze e’ spiegabile con la massiccia presenza di titoli bancari e finanziari sul nostro listino. La crisi dello scorso anno e il crollo delle Borse di ottobre 2008 ha riguardato in particolar modo i titoli finanziari, con crolli in certi casi vicini al 90% e quindi il nostro listino ha pagato piu’ di altri la sua sovraesposizione al settore bancario e assicurativo. Il successivo recupero del settore non e’ bastato a compensare le perdite precedentemente accumulate.
Discorso a parte va fatto per i tre Paesi emergenti, Cina, Russia e Brasile. Le loro economie hanno risentito molto meno di altre della recessione mondiale, e sono state le prime a riprendere un passo di crescita spedito. Di conseguenza le rispettive Borse hanno accusato solo una parziale battuta di arresto. Da inizio anno l’indice Sse Cinese ha piu’ che raddoppiato mettendo a segno un rialzo di oltre il 100%; l’indice brasiliano Bovespa ha realizzato una performance del 70% e l’indice indiano Sensex ha guadagnato da inizio gennaio a oggi quasi il 75%. E gli indici non sembrano intenzionati a fermarsi nel 2010.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

 
 

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