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Gli
americani
sottovalutano
il dopo-Saddam
03
Febbraio 2003
15:40 NEW YORK
(di
Fawaz A. Georges*)
Nell’accingersi a spodestare il regime di Saddam
Hussein,
l’amministrazione Bush poggia la sua linea d’azione su due principi
fondamentali.
Primo, il presidente Bush e i suoi consiglieri sottolineano che
l’imminente guerra contro l’Iraq rappresenta un’estensione della campagna
militare contro il terrorismo. Si tratta, secondo le parole del vice Segretario
alla Difesa Paul Wolfowitz, di risparmiare al mondo e all’America «il
pericolo che le armi di distruzione di massa possedute dall’Iraq cadano nelle
mani dei terroristi».
Secondo, la squadra di Bush s’impegna a introdurre la democrazia in
Iraq, una trasformazione che – si spera – innescherà un processo di
democratizzazione nell’intera regione.
Un’alba di pace e di democrazia, sostengono, presto si leverà anche
su altri stati arabi a regime autoritario. Trasformando il paesaggio politico
del Medio Oriente, gli americani sperano di colpire alla radice le cause
dell’estremismo islamico.
I signori Bush, Rumsfeld, Cheney e Wolfowitz amano atteggiarsi a
realisti, ma quanto è realistico il loro modo di pensare? Il loro è un
ragionamento che si basa su una pacata valutazione delle complesse realtà che
caratterizzano la regione? O è solo frutto di un’ideologia e di «wishful
thinking»?
E poi: una guerra contro l’Iraq aiuterà gli Stati Uniti nella loro
lotta al terrorismo o invece renderà gli americani più vulnerabili? La
disperazione e l’alienazione si sono insinuate nelle giovani generazioni
arabe, che rappresentano oltre il 50 per cento della popolazione della regione.
La repressione politica e il silenzio della pubblica opinione araba
dovrebbe preoccupare l’America e i suoi alleati arabi e non rassicurarli,
perché tale situazione significa che il popolo non può in alcun modo
incanalare pacificamente i suoi interessi, le sue istanze e le sue frustrazioni.
Un’invasione americana dell’Iraq, con un gran numero di vittime
civili, acuirebbe il senso di vittimismo e di sconfitta avvertito dai giovani
arabi e li renderebbe più inclini ad aderire alle cellule di Al Qaida. Lungi dal far calare la militanza in queste organizzazioni e dal
combattere il terrorismo, una guerra probabilmente non porterà ad altro che a
fare il gioco di Al Qaida, dandole nuove basi per prosperare. In verità i militanti islamici, che sperano di riprendersi dai colpi
devastanti subiti dall’inizio della guerra al terrorismo, si stanno già
predisponendo a volgere a loro vantaggio l’imminente guerra contro l’Iraq.
Nelle ultime settimane, i messaggi propagandistici di Al Qaida hanno
sempre più puntato sulla crisi irachena. L’organizzazione cerca di
reinventarsi come difensore del popolo iracheno. In questo contesto, Al Qaida
trova un pubblico ricettivo. La voce dominante nel mondo arabo-musulmano dice che la guerra imminente
non ha nulla a che fare con la lotta al terrorismo. Piuttosto, avrebbe lo scopo
di regolare vecchi conti in sospeso e di rendere Washington arbitra del destino
e delle risorse arabe, in particolare del petrolio. Attaccando l’Iraq, gli Stati Uniti potrebbero vincere lo scontro
armato con Saddam Hussein, ma probabilmente perderebbero la più ampia – e
vitale – lotta politica per il futuro del Paese. I funzionari dell’amministrazione americana non paiono riconoscere
quanto difficile, costoso e lungo sia il compito di creare un ordine pacifico e
una democrazia vivibile in Iraq.
C’è una mancanza di comprensione di quanto in Iraq siano radicati i
legami settari, tribali ed etnici. Manca un senso di umiltà e di scetticismo.
Mancano le basi e le istituzioni necessarie per uno Stato funzionante, senza
parlare di una democrazia. Dall’avvento del regime militare nel 1958, i regimi che si sono
succeduti hanno terrorizzato gli iracheni fino a sottometterli e a insanguinare
il Paese attraverso i loro misfatti militari. Controllati e oppressi per 45
anni, gli iracheni hanno perso fiducia nel sistema politico e si sono ritratti
nel tribalismo e nel fazionalismo etnico-religioso.
La società civile è stata schiacciata e la borghesia decimata –
grazie in parte alle sanzioni economiche delle Nazioni Unite in forza del 1991.
Certo, riformare e democratizzare il sistema politico iracheno non è
impossibile. Al contrario, gli iracheni hanno sofferto moltissimo e hanno imparato
sulla loro pelle quali siano i pericoli dell’autoritarismo e
dell’oppressione. Essi riconoscono l’interesse acquisito nel superare le
loro divisioni e nel ricostruire la loro comunità politica. L’Iraq possiede anche risorse umane e materiali tali da operare alla
lunga in favore della democrazia. Ma la democrazia non può essere recapitata
all’Iraq da una potenza esterna.
Solamente gli iracheni, con l’assistenza internazionale, possono
trasformare il loro Paese. È un compito che richiede tempo, pazienza, duro
lavoro e fortuna. Perché ciò si realizzi ci vorranno almeno uno o due decenni,
non solamente un anno o due mesi, il periodo di tempo previsto per la presenza
militare in Iraq dopo l’attesa defenestrazione di Saddam Hussein. A meno che l’America non sia disposta a fare da garante al nuovo
ordine per molti anni a venire e ad investire ampie risorse politiche ed
economiche per prestare assistenza (senza farla apparire come imposizione) alla
ricostruzione dello stato e della società, l’Iraq si frantumerà e piomberà
nel caos. I Paesi vicini si destabilizzeranno. Nasceranno nuovi gruppi ispirati
alla «jihad». Non solo non ci sarà pace né democrazia in Iraq, ma la
sicurezza dell’Occidente verrà messa ulteriormente in pericolo.
Purtroppo si tratta di uno scenario scarsamente contemplato dai
funzionari dell’amministrazione americana, che ora sembrano essere prigionieri
della loro stessa retorica.
* Docente
di Studi mediorientali al Sarah Lawrence College (USA) e autore dell’imminente
saggio «The Islamists and the West» (Cambridge University Press
03 Febbraio 2003
15:40 NEW YORK
(di
Fawaz A. Georges*)
Project Syndacate
& Corriere
del Ticino
E
Greenspan ora ha un
nuovo timore: l'inflazione
22
Febbraio 2003
04:37
NEW YORK
(WSI)
Il forte rialzo dei prezzi alla produzione Usa comunicato oggi (+1,6% a
gennaio, record degli ultimi 13 anni) non era del tutto inaspettato. Anzi, e` il
vero motivo per cui il n.1 della Federal Reserve, Alan Greenspan, ha stroncato
giorni fa il piano economico del presidente George Bush. La banca centrale USA
e` molto preoccupata per l'inflazione.
Altro che rischio deflazione, come molti economisti sostenevano fino a
qualche tempo fa: il pericolo e` un imminente rialzo dei tassi. Il che
preluderebbe
ad
eventuali cali in borsa e a un rallentamento del settore immobiliare.
Ma non e` finita qui. Se il balzo record dei prezzi fosse confermato
anche al consumo, potrebbe tornare sul mercato Usa uno sgradito fantasma degli
anni
'70: la stagflazione, deprimente miscela di stagnazione (bassa crescita economica) e
inflazione, che ha piagato Wall Street dopo lo shock petrolifero del 73-74.
Quel che Alan Greenspan ha taciuto, nella sua ultima audizione al
Congresso Usa qualche giorno fa, e' proprio cio' che e' risultato evidente a
tutti gli investitori e operatori del mercato giovedi' 20 febbraio, quando il
governo americano ha reso pubblico il piu' forte rialzo dei prezzi alla
produzione mensile degli ultimi 13 anni (+1,6% a gennaio per il Ppi, che
corrisponde all'aumento dei prezzi al consumo Cpi per l'intero 2002!). Il
chairman della Federal Reserve, in verita`, e` molto preoccupato per la ripresa
dell'inflazione negli Stati Uniti. E nei circoli degli insider, tra New York e
Washington, questo fatto e` noto.
Negli ambienti finanziari circola questa interpretazione: gia` qualche
settimana fa (e comunque molto prima della comunicazione ufficiale
dell'impennata del Ppi) al "numero 1" della Banca Centrale americana
era stato fatto presente, da fonti che egli ritiene assolutamente
affidabili, che sul mercato sono gia` presenti "segnali non ambigui di
inflazione" e "potenzialmente, all'orizzonte, ulteriori forti rialzi
dei prezzi".
I prezzi in realta' sono gia` in tensione per i metalli di base, oltre
che per i metalli preziosi (l'oro e` salito del 20,5% negli ultimi 12 mesi,
ovviamente spinto in alto dalle tensioni Usa/Iraq); i prezzi sono cresciuti per
le merci (perfino escludendo il petrolio), i prodotti tessili, i materiali da
costruzione e - ormai e` ufficiale - i prodotti industriali.
Ma la domanda che vi vogliamo porre e` la seguente: avete notato quanto
diretto, addirittura brutale, e` stato Alan Greenspan nel dichiarare la sua
netta opposizione al piano di taglio delle tasse presentato giorni prima dal
presidente George Bush?
Bene, adesso sappiamo perche'.
La verita` e` che l'economia
americana arranca a fatica (la frenata del quarto trimestre '02 con un GDP a
mala pena positivo fa presuppore che anche il primo trimestre '03 sara` fiacco)
al punto che qualcuno teme - complice una eventuale guerra contro l'Iraq che si
dovesse prolungare oltre le 6-8 settimane - perfino una recessione. In questo
scenario la Fed e` estremamente preoccupata della possibile crescita dei prezzi,
in parallelo alla forte crescita del debito del paese.
Le recenti emissioni di titoli di stato da parte del governo Usa (la
piu' recente di $20 miliardi) sono inoltre da seguire con una certa attenzione e
apprensione, poiche' ogni emissione continua a gonfiare la bolla del debito
americano. Gli stessi consumatori, che in realta` hanno tenuto su di giri
un'economia molto meno robusta del voluto, per quanto siano tutt'altro che
euforici, continuano tuttavia a fare shopping accumulando debiti sulle carte di
credito personali (a tassi spesso del 19,9% annuo). Ebbene, tutto questo
indebitamento a vari livelli, creera` spinte rialziste sui tassi.
Inoltre qualsiasi pacchetto di stimolo fiscale approvato alla fine su
proposta della Casa Bianca di George Bush (e su approvazione del Congresso) e`
certamente destinato ad aggiungere benzina sul fuoco dell'inflazione che sta
gia` cominciando a bruciare. Senza contare che il drammatico ribasso dei tassi
operato dalla Fed (12 ritocchi consecutivi in un numero relativamente ristretto
di mesi, un vero record in termini di poltica monetaria) a cui va
aggiunto un netto irrobustimento dell'offerta di denaro, rende l'intera
situazione ancora piu` complicata.
"Mr. Greenspan e` perfettamente e lucidamente al corrente di tali
scenari'', dice un banchiere, interpellato da Wall Street Italia, la cui banca
d'affari invia regolarmente ricerche e studi a Washington al palazzo della
Federal Reserve, e che ha un legame diretto con Greenspan.
Per concludere, cosa significa tutto cio`? Che anche una modesta ripresa
della crescita economica Usa, per quanto benvenuta, potrebbe in realta` far
spostare al rialzo i tassi d'interesse.
Ora, se e` vero che da una parte fa piacere l'allontanarsi dello
scenario cosiddetto "alla giapponese" (una semi-paralisi economica
fatta di stagnazione e deflazione) dall'altra e` anche vero che non ci si puo`
aspettare che la Federal Reserve cominci a rialzare i tassi immediatamente,
appunto per far fronte a questa nuova ripresa dell'inflazione.
Insomma e` chiaro che la manovra di irrigidimento della politica
monetaria avra` luogo, certo, ma non passera` in modo indolore e senza un
qualche braccio di ferro tra gli uomini di Mr. G. Gli economisti di Standard
& Poor's interpellati da WSI, per esempio, fissano il periodo del rialzo dei
tassi verso la fine dell'anno.
Ma la vera preoccupazione degli insider vicini a Greenspan e` una
situazione in cui l'inflazione in crescita, parallelamente all'aumento
dell'indebitamento, possa causare il crollo dei prezzi dei titoli obbligazionari
e di stato, e quindi di conseguenza una vera galoppata al rialzo dei tassi
d'interesse. Cio` lascerebbe ben poche scelte a Mr.G., se non forse quella
obbligata di cominciare a gonfiare il costo del denaro.
Corollario: se questo scenario dovesse realizzarsi, non sarebbe
certamente una situazione in cui agli investitori, privati e istituzionali,
gioverebbe essere lunghi in borsa. E anche la bolla del mercato immobiliare (non
in tutti gli Stati Uniti, ma certamente in alcune grandi citta`, tra cui in
primis New
York) dovrebbe a quel punto fare qualche sforzo in piu` per continuare a
sfidare imperterrita i principi della legge di gravita`.
22
Febbraio 2003
04:37
NEW YORK
(WSI)
Inflazione: è davvero
pericolosa per gli USA ?
20
Febbraio 2003
18:20
NEW YORK (di
Francesco Leone)
La tornata di dati macroeconomici di giovedi’ ha messo da parte per un
momento le preoccupazioni sul fronte internazionale e ha riportato
l’attenzione sulle condizioni dell’economia americana e sulle sue
possibilita’ di uscire dalla crisi. Inutile nascondere che i numeri sono stati
percepiti per lo piu’ come negativi. Vediamo nel dettaglio l'impatto dei tre
dati piu' importanti: sussidi alla disoccupazione, deficit commerciale e prezzi
alla produzione.
Le nuove richieste di sussidi di disoccupazione sono tornate sopra
l’importante soglia delle 400.000 unita’, segno che il mercato del lavoro
continua ad arrancare. Il deficit commerciale, considerato uno dei grandi
pericoli per l’economia USA, continua a crescere, e non riesce per il momento
ad avvantaggiarsi dell’indebolimento del dollaro. Va osservato comunque che il
deficit commerciale ha storicamente mostrato un tempo di reazione piuttosto
lungo. Difficle quindi aspettarsi i risultati sperati nel breve periodo.
Soprattutto se si considera che il biglietto verde ha perso parecchio terreno
verso l’euro e le monete ad esso collegate, ma su altri fronti continua a
rimanere fortemente sopravvalutato in termini di potere di acquisto.
Ma il dato che preoccupa e fa discutere maggiormente e’ quello
relativo ai prezzi alla produzione, aumentati a gennaio dell’1,6% (+0,9%
escluse le componenti alimentare ed energetica), contro un rialzo dello 0,5%
(+0,2% core) previsto.
A questo punto l’analisi piu’ semplice, compiuta secondo la teoria
tradizionale dei meccanismi di funzionamento della macroeconomia, suggerisce che
ci avviciniamo ad un’area di pericolo. Un aumento dei prezzi e quindi
dell’inflazione significa la fine di una politica di bassi tassi d’interesse
e l’approssimarsi di un possibile rialzo. Gli effetti saranno presumibilmente
quelli di un’ulteriore discesa delle borse e quasi certamente di un forte
rallentamento del mercato immobiliare, a causa del rialzo dei tassi sui mutui.
Tutto cio' e’ certamente possibile, se non probabile, ma vale la pena
considerare anche la parte meno evidente degli eventuali scenari futuri. La
Federal Reserve, al contrario della Bce, e’ meno concentrata sulla difesa del
potere di acquisto della moneta e ha una gamma di obiettivi piu’ allargata,
che comprende uno sviluppo economico su un sentiero sostenibile e
un’occupazione il piu’ possibile vicina al tasso di pieno impiego. Greenspan
potrebbe sopportare una certa dose di inflazione per un periodo di tempo
limitato se sull’altro piatto della bilancia avesse dei vantaggi sostanziali.
Nel lungo periodo, ad influire sull’economia non sono tanto i tassi
d’interesse nominali ma piuttosto quelli reali (interesse nominale meno
inflazione). Gli analisti che paventavano un pericolo “giapponese” per
l’economia americana temevano proprio questo. In presenza di prezzi in
discesa, la politica monetaria di una banca centrale che abbassa (anche fino a
zero) i tassi d’interesse e’ inefficace. Il tasso reale tende a salire e
aumenta il costo del debito. Considerato il livello di indebitamento dei
consumatori americani, ben superiore a quello nipponico, il problema per gli
Stati Uniti potrebbe trasformarsi in una tragedia economica.
Da questo punto di vista il dato sul PPI di gennaio allontana il
pericolo di una nuova recessione. Una buona notizia quindi? Non necessariamente.
Mr. Greenspan non e’ l’unico demiurgo dell’economia USA. La politica
economica non e’ l’unico strumento in grado di influire sulla crescita:
esiste anche la politica fiscale, che e’ controllata dal Governo.
Il pacchetto di incentivi proposto dall’amministrazione Bush potrebbe
rompere le uova nel paniere al team della Federal Reserve. Infatti, a fronte di
una diminuzione delle tasse e a un conseguente aumento del deficit pubblico il
FOMC non potra’ attendere molto per rialzare i tassi. Inoltre esiste il
pericolo che abbia luogo una spirale negativa. Se i consumatori percepissero il
pericolo che poche tasse oggi significa piu’ tasse domani, potrebbero
cominciare a risparmiare invece di spendere, determinando un effetto contrario a
quello desiderato.
Questo potrebbe essere il motivo per cui Mr.
Greenspan, abbandonando la
sua consueta diplomazia, si e’ espresso in maniera tanto netta contro il
pacchetto fiscale di Bush nell’ultima audizione al Congresso. Si delinea
quindi una contrapposizione di interessi, che e’ scritta nelle regole di
funzionamento delle democrazie capitalistiche. Da una parte la Federal Reserve,
con i suoi obiettivi di lungo periodo, dall’altra il Governo, che necessita di
risultati immediati.

20
Febbraio 2003
18:20
NEW YORK
(di
Francesco Leone)
USA:
POSSIBILE ATTACCO AL QAEDA A META' FEBBRAIO
Sulla base delle informazioni raccolte dall'intelligence, gli Stati
Uniti temono che i terroristi di Al Qaeda si stiano preparando a
sferrare un attacco contro obiettivi americani a meta' febbraio.
L'attentato potrebbe aver luogo sul territorio nazionale o all'estero.
Lo ha dichiarato il procuratore generale degli Stati Uniti, John
Ashcroft, spiegando che e' per questo motivo che il governo USA ha
alzato da "yellow" ad "orange" il livello di
allerta.
Ricordiamo che quello "arancione" e' il secondo piu' alto
livello di sicurezza e indica un "alto rischio" di attentati.
Lo stadio successivo e' l'allarme "rosso", che indica un
"rischio molto elevato" di attentati.
WSI
07/02/2003
18:45 New York
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IRAQ: il mondo
sull'orlo della recessione
24
Febbraio 2003 17:05 NEW YORK (WSI)
Le tensioni sul fronte internazionale continueranno a incidere
significativamente sull'economia globale nel 2004, in parte a causa della
mancanza di diversificazione nelle economie mondiali.
Questa la convinzione alla base della decisione della banca d'affari
Morgan Stanley di ridurre le previsioni sul Pil mondiale del 2003-04.
Le stime sulla crescita del Pil passano cosi' dal +2,9% al +2,5% per il
2003 e dal +4% al +3,8% per il 2004.
Secondo il capo economista di Morgan, Steven Roach, "considerato
che in questo momento gli Stati Uniti dominano l'economia mondiale e che, a
differenza di dodici anni fa, manca la presenza di altri Paesi economicamente
forti, una guerra USA-Iraq avrebbe un impatto maggiormente nocivo sull'economia
globale di quanto ne ebbe la guerra del Golfo".
"La revisione al ribasso per il 2003 ha l'effetto di trasformare
una ripresa anemica dell'economia globale in un mondo sul ciglio della
recessione", ha sottolineato Roach.
L'esperto si aspetta inoltre che il prezzo del petrolio raggiungera' i
$40 al barile nel mese di marzo, ma se l'azione militare in Iraq avra' successo,
i prezzi torneranno a scendere, fino a riportarsi a quota $23 al barile entro la
fine dell'anno.
"Cio' porta le nostre previsioni sul prezzo del petrolio a una
crescita del 15,6% nel 2003 - tre volte le precedenti stime di un +5,2%",
ha aggiunto Roach.
L'economista ha sottolineato inoltre che, oltre all'impennata dei prezzi
del petrolio, una guerra con l'Iraq potrebbe scatenare nuovi attacchi
terroristici, intensificare le tensioni tra israeliani e palestinesi, e causare
diversi danni al popolo iracheno.
24
Febbraio 2003 17:05 NEW YORK (WSI)
La guerra ? E' già
scontata dal mercato
26
Febbraio 2003 17:00 NEW YORK (WSI)
L'affaire Iraq e' ormai diventato un tormentone a Wall Street, e da piu'
parti viene accusato di trascinare al ribasso i mercati, far vacillare
l'economia e deprimere la fiducia dei consumatori.
Ma secondo Woody Dorsey, esperto di finanza comportamentale e presidente
di Market Semiotics, tutta questa agitazione potrebbe essere il segnale che
l'azionario ha gia' scontato un eventuale conflitto con Baghdad e potrebbe
mettere in atto un rally nei prossimi mesi.
In un'intervista al quotidiano USA Today, Dorsey sottolinea che gli
investitori sono cosi' concentrati sulla paura della guerra da trascurare altri
elementi importanti, come ad esempio il fatto che, nonostante gli ultimi dati,
il quadro macroeconomico sta lentamente migliorando.
E, osserva l'esperto, quando un'idea si trasforma in ossessione, "cio'
e' spesso sintomo del fatto che si e' giunti ad un estremo". E' accaduto ai
tempi della bolla hi-tech, quando, accecati dal miraggio di guadagni
eccezionali, gli investitori continuavano a puntare sulle dotcom, ignorando gli
inviti alla prudenza di Greenspan & C. Allo stesso modo, oggi, terrorizzati
all'idea di un conflitto, gli investitori continuano a tirarsi fuori dal
mercato.
Dorsey sottolinea che gli estremi si verificano di solito nelle fasi di
massimi o minimi del mercato. E storicamente, quando il pessimismo e la paura
sono ai livelli piu' alti, l'azionario tende a salire.
26
Febbraio 2003 17:00 NEW YORK (WSI)
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