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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Crisi creditizia & Macroeconomia USA

Quanto vale la fiducia

Crisi creditizia & Derivati

Bad Bank? per congelare i titoli tossici, ma non ...

Crisi creditizia & Sentiment mercati

Finanza: mettete pure in conto nuove fasi ...

Politica USA/UE & Crisi creditizia

Una classe dirigente tutta da buttare

Crisi creditizia & Società

Crisi economia, Usa: Mutui: la crisi colpisce anche ...

Politica USA & Macroeconomia

Verso il flop il piano americano di stimolo

Crisi creditizia - USA - Italia

Rischi americani e rischi italiani

Italia - Risparmio gestito

Su Lehman profeziae del giorno dopo

Italia - Politica interna

Veltroni: "mi dimetto". PD nel caos

   
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+++   ANSA   +++   04 Febbraio 2009 11:00 ROMA - CRISI: PERICOLO GUERRE COMMERCIALI, SI ACCENDE OVUNQUE IL DIBATTITO   +++   05 Febbraio 2009 18:09 - Borsa Usa a massimi seduta su voci sospensione mark-to-market   +++   20 Febbraio 2009 15:35 NEW YORK - WALL STREET: VIOLATI TUTTI I MINIMI, ALERT SELL-OFF   +++   ANSA   +++
 
  Martedì 03 Febbraio 2009   Sabato 07 Febbraio 2009   Martedì 10 Febbraio 2009  
       
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  Quanto vale la fiducia

01 Febbraio 2009 16:28 ROMA - di Luigi Zingales

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L'unica cosa che dobbiamo temere è la paura, disse Franklin Roosevelt nel suo discorso inaugurale nel gennaio 1933. E nessuna citazione sarebbe più appropriata di questa per il discorso inaugurale del neopresidente Obama. Recuperare la fiducia nel Paese e nelle sue capacità di crescita è fondamentale. I dati sulla disoccupazione sono drammatici: 2,5 milioni di posti di lavoro persi nel 2008, il 75 per cento dei quali negli ultimi quattro mesi. A questo ritmo la disoccupazione potrebbe raggiungere il 12 per cento alla fine del 2009.
Per fronteggiare questa terribile crisi la maggior parte dei policy maker si è riscoperta keynesiana. Tutti parlano della necessità di uno stimolo fiscale che sostenga la domanda aggregata americana, per compensare la caduta dei consumi familiari. Il rischio di una simile manovra è che curi i sintomi invece che le cause della presente recessione. La riduzione dei consumi delle famiglie americane è un effetto salutare della crisi. Negli ultimi anni le famiglie avevano complessivamente speso più di quello che avevano guadagnato, uno squilibrio sostenuto da un forte accesso al credito reso possibile dal boom immobiliare.
Da parte sua l'amministrazione Bush aveva accentuato questo problema con una spesa federale di gran lunga superiore alle entrate. Se sia le famiglie che lo Stato consumano più di quanto guadagnano, chi paga il conto? In parte le imprese, che hanno speso meno di quello che hanno guadagnato, ma soprattutto il settore estero: negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno importato molto più di quello che hanno esportato. In altre parole, a finanziare i consumi americani sono stati i tedeschi e i cinesi, che hanno forti avanzi nei loro scambi commerciali con gli Stati Uniti.
Questo squilibro puo essere risolto solo in tre modi: con un aumento della domanda da parte dei paesi in surplus commerciale (tedeschi e cinesi), con un'ulteriore svalutazione del dollaro, e con un aggiustamento nella produzione americana verso prodotti e servizi che rimpiazzino le importazioni o aumentino le esportazioni.
Un aumento della spesa pubblica finanziato con debito fa poco o nulla per risolvere questo squilibrio. Anzi lo esagera. Da un lato, sostenendo la domanda, non fa altro che perpetuare il disavanzo commerciale. Dall'altro, sostenendo l'occupazione nei settori tradizionali, rallenta se non blocca il processo di aggiustamento. Paradossalmente, l'unico modo in cui lo stimolo fiscale può aiutare a risolvere lo squilibrio di fondo è se il disavanzo pubblico diventa così elevato da creare una crisi di fiducia nel dollaro, che porti a una forte svalutazione. Non penso che questo sia l'obiettivo dell'amministrazione Obama.
Ma allora perché la maggior parte degli economisti si professano a favore di un forte stimolo fiscale? Da un lato per paura. Il rischio di una disoccupazione al 12 per cento e lo spettro incombente della Grande Depressione incutono il terrore tra i policy maker. Nessuno vuole essere percepito un domani come corresponsabile di una nuova depressione. E visto che la Grande Depressione fu preceduta dall'immobilismo dell'amministrazione Hoover, oggi tutti si mostrano iperattivi.
L'altro, più serio motivo, è la convinzione che la crisi corrente sia accentuata dal panico. Le scelte economiche non sono solo il frutto della parte razionale del nostro cervello. Sono spesso governate dagli istinti, quegli 'animal spirits' di cui parla Keynes. Questo è tanto più vero in momenti traumatici come l'attuale. Paradossalmente il Keynes a cui tutti si rifanno non è quindi il Keynes economista ma il Keynes psicologo, che vedeva nell'intervento statale il modo per calmare e guidare questi animal spirits.
Se lo stimolo fiscale è il prezzo che dobbiamo pagare per calmare questi istinti animali, ben venga. Ma su quali basi? Se l'obiettivo è tranquillizzare gli animi e ridare fiducia, perché non affidarsi a degli psicologi veri e non a degli economisti che si improvvisano tali? Magari riescono a risolvere il problema con meno di 700 miliardi. Perché il problema oggi non è che il consumatore americano non spende abbastanza, ma che non si fida più a investire in un mercato le cui regole sono falsate ogni giorno dall'intervento della Fed e del governo. Forse lo stimolo più efficace che Obama può dare all'economia americana è la promessa che d'ora in poi il governo americano interverrà solo a protezione dei deboli, ma non sovvertirà le fondamentali leggi di mercato. È una piccola promessa, ma vale più di 700 miliardi.
 

Fonte - L'espresso

 

 

 

 

 

 

SPESE AL CONSUMO -1%, REDDITO PERSONALE -0.2%

02 Febbraio 2009 14:30 NEW YORK - di ANSA
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I consumatori americani continuano a tagliare la spesa, scende anche il reddito, ma in misura inferiore delle attese. Inflazione nulla a dicembre, in linea col consensus.
Nel mese di dicembre le spese al consumo negli Stati Uniti hanno registrato una variazione negativa dell’1%, mentre il reddito personale e’ diminuito dello 0.2%.
Lo ha comunicato il Dipartimento del Commercio Usa.
Il primo dato si e’ rivelato inferiore alle attese (-0.9%), l’altro e’ risultato leggermente migliore del consensus (-0.4%).
L'indice "core" PCE (Personal Consumption Expenditures) e’ risultato invariato, portando il tasso annuale all’1.7%, in linea con le attese, e sotto il range di "tolleranza" fissato dalla Fed. Il deflatore della spesa per consumi personali e’ invece cresciuto dello 0.6%, in misura inferiore alle attese degli analisti (+1.0%).
 
 

Fonte - ANSA

 

 

Se Sam non consuma più…

05/02/2009 18.06 - di Sara Silano
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Fino all’anno scorso, Sam aveva una bella casa, con elettrodomestici all’avanguardia, guidava un lussuoso Suv Hummer, vestiva firmato e faceva la spesa ai grandi magazzini Macy’s. Oggi, la sua casa è stata ipotecata, ha venduto il fuoristrada per comprare un’utilitaria e ogni tanto fa acquisti negli hard discount. Sam rappresenta l’America che non consuma più.Secondo il Dipartimento del commercio, a dicembre la spesa delle famiglie statunitensi è scesa dell’1% rispetto a novembre, facendo segnare il sesto calo consecutivo, un record dal 1959, quando si è cominciato a calcolare questo indice. A gennaio, il mercato dell’auto ha segnato il livello minino da 27 anni, con un crollo delle vendite vicino al 40%. Qualcuno potrà dire: “E’ un bene. Negli anni passati l’America ha consumato sopra le sue possibilità e ora torna ad uno stile di vita più sobrio”. Ed è innegabile che il Paese abbia vissuto un boom economico cominciato nel novembre 2001 e terminato nel 2007, favorito da una politica monetaria espansiva (i tassi di interesse sono rimasti all’1% fino al 2004). Una bolla che è scoppiata l’anno scorso e che, a differenza delle altre, ha fatto un gran frastuono.

Gli Stati Uniti ne stanno patendo le conseguenze. Il Prodotto interno lordo (Pil) nel quarto trimestre è sceso del 3,8%, il ribasso più ampio dal 1982. Il dato è il risultato della somma di quattro componenti, i consumi, gli investimenti, la spesa pubblica e le esportazioni nette. Un’analisi più approfondita di questi elementi, mette in luce come la recessione sia fondamentalmente nei consumi, in particolare quelli durevoli (auto, arredamento, elettrodomestici, ecc…), che sono indicatori significativi del ciclo economico. Negli ultimi tre mesi dell’anno, questa voce di spesa è crollata del 22% rispetto al 2007, la frenata più forte dal 1951. A riprova di questa situazione, i grandi magazzini soffrono la concorrenza degli hard discount e molte catene locali sono fallite o rischiano la bancarotta.

Verrebbe da dire: “E’ un problema americano”. Purtroppo però non è così, perché se gli Stati Uniti non consumano, la maggior parte degli altri Paesi, compresi quelli emergenti ne soffre. Non a caso si è levato un coro di polemiche sulla misura protezionistica “Buy American” che l’amministrazione di Barack Obama ha tentato di inserire nel pacchetto di stimolo all’economia. Come ha affermato Marc Faber, editorialista di The Gloom, Boom & Doom famoso per le sue visioni controcorrente, in 200 anni di storia del capitalismo è stata la prima crisi a carattere planetario, seguita a un boom altrettanto globale. Nel 2008, il mondo è passato dall’illusione di un maggior benessere duraturo alla distruzione di ricchezza per 30 mila miliardi di dollari (siccome il reddito pro capite medio di un americano è di circa 30 mila dollari, è come se un miliardo di persone non avesse guadagnato nulla per un anno).

Se l’America non consuma più a soffrirne sono tutti i Paesi che negli anni passati hanno esportato verso gli Stati Uniti, facendo raggiungere al deficit commerciale livelli record. Molte aziende, infatti, hanno investito per accrescere la loro produzione e far fronte all’aumento della domanda. E’ emblematico il caso del Giappone, dove le società di elettronica e tecnologiche pagano nei loro bilanci la recessione d’oltreoceano. Per parafrasare un’affermazione di Faber, essere nati prima o dopo il 2007 fa la differenza, in qualsiasi parte del mondo una persona viva. E pensare che la recessione dei consumi americani sia un problema solo degli States è pura utopia.

 

Fonte - Morningstar

 

 

 

Aprite l’ombrello, continua il diluvio di debito statale

Thursday, 5 February, 2009 at 8:24 - by John Christian Falkenberg
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Il Tesoro americano pianifica di rompere un altro record nell’asta di titoli governativi in arrivo. La via verso il socialismo all’americana è sempre più costosa e la fantasia dei tecnici del Ministero si sbizzarrisce.
I quantitativi richiesti saranno di dimensioni mai viste e per far meglio digerire la montagna di dollari necessaria verrà introdotto un titolo a sette anni. Update: altre misure prese in considerazione o già attuate sono la riduzione del taglio minimo di un titolo di stato da 1000 a 100 dollari e l’introduzione di un titolo a 50 anni.
A Washington dovrebbero ricordarsi che gli italiani sono i maestri nella gestione tecnica di un debito pubblico pesante quanto una pietra al collo di un bambino e studiarsi le innovazioni romane: a quando CCT, Ctz, Cto e chi più ne ha più ne metta?
Una cosa è certa: questi saranno gil anni del debito di Stato e i risparmiatori che si illudono che sia “privo di rischio” scopriranno che esistono pericoli ben più immediati della semplice insolvenza di una nazione.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

Stati Uniti - Continua la distruzione di occupazione

Friday, 6 February, 2009 at 15:49 - by phastidio
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Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è cresciuto in gennaio al 7,6 per cento dal 7,2 per cento di dicembre, massimo dal 1992, ed il numero di occupati nel settore non agricolo è diminuito di 598.000 unità, maggior calo mensile dal 1974, dopo la riduzione di 577.000 impieghi nel mese precedente. Per effetto delle revisioni del bimestre precedente, il numero di occupati è diminuito di ulteriori 66.000 unità. Dall’inizio della recessione, datato dal National Bureau of Economics Research al dicembre 2007, l’economia ha perso 3,57 milioni di posti di lavoro, maggior distruzione di occupazione in ogni recessione dal Dopoguerra. Le perdite di impieghi di gennaio segnano per la prima volta, dall’inizio delle rilevazioni di questa serie storica, un calo superiore a 500.000 unità per tre mesi consecutivi. Le stime di consenso ipotizzavano una riduzione di 540.000 unità, mentre il tasso di disoccupazione era previsto assestarsi al 7,5 per cento.
Gli impieghi in manifattura sono diminuiti di ben 207.000 unità, maggior calo da ottobre 1982, dopo la distruzione di 162.000 in dicembre, e stime di consenso poste a meno 145.000. Tale dato include una perdita di 31.300 impieghi nel settore auto e componenti. Il settore delle costruzioni ha perso 110.000 impieghi netti, dopo gli 86.000 distrutti in dicembre. Il settore dei servizi, che include banche, assicurazioni, ristorazioni e commercio al dettaglio ha sottratto 279.000 impieghi, dopo i 327.000 perduti il mese precedente. L’occupazione nel settore retail è calata di 45.100 unità, dopo le 82.700 perse in dicembre. Buste paga ridotte di 42.000 unità nel settore finanziario dopo le 27.000 perse a dicembre. Il settore pubblico ha aggiunto 6000 impieghi netti, ma anche l’occupazione governativa è a rischio: il servizio postale pianifica una riduzione di occupati attraverso prepensionamenti, ed ha chiesto al Congresso l’autorizzazione a ridurre la frequenza di recapito (oggi a sei giorni la settimana) per ridurre i costi.
La settimana lavorativa media è rimasta in gennaio stabile a 33,3 ore, mentre l’orario medio settimanale dei lavoratori di produzione è sceso da 39,9 a 39,8 ore, con flessione del ricorso agli straordinari da 3 a 2,9 ore settimanali. I salari orari medi sono aumentati dello 0,3 per cento mensile e del 3,9 per cento annuale, meglio delle attese.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

 

  Bad Bank? per congelare i titoli tossici, ma non a carico dello stato

08 Febbraio 2009 22:23 ROMA - di *Mario Lettieri e Paolo Raimondi

*Mario Lettieri, già sottosegretario all'Economia e Finanze nel governo Prodi (2006-8); Paolo Raimondi, economista.

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Le grandi istituzioni economiche internazionali, come la BCE e il FMI, si fanno concorrenza con analisi sempre più negative sugli effetti della crisi finanziaria ed economica sistemica globale. Questo vale anche per l'Italia dove sia la Commissione Europea che la Banca d'Italia hanno indicato una riduzione negativa del 2% del PIL per il 2009. E, non per un pessimismo endemico ma per realismo, riteniamo che queste revisioni al ribasso purtroppo dovranno essere presto ulteriormente ritoccate.
Probabilmente necessita un approccio da "curatore fallimentare" alla crisi, cioè quello di salvare il sistema bancario sia nazionale che internazionale solamente attraverso un procedimento di "bancarotta controllata". Sono parole forti che possono far paura a chi pensa che l'economia si basi primariamente su fattori psicologici e non sui pilastri portanti dell'economia reale fatta di investimenti produttivi e consumi necessari e utili.
In questi giorni si parla di bad bank, cioè di strumenti ad hoc dove collocare i "titoli tossici" e senza alcun valore delle banche, a cominciare dai derivati OTC che sommano a un valore nozionale di 700.000 miliardi di dollari.
La soluzione è giusta ma la questione di fondo è: chi paga? I responsabili della crisi e anche alcuni esponenti di vari governi (Henry Paulson, ex ministro del Tesoro americano, Ben Bernanke, capo della Federal Riserve, Gordon Brown, primo ministro britannico) sostengono che la bad bank debba essere garantita con i soldi dello stato. Sarebbe una grande truffa, solamente sotto un altro nome, dove le finanze pubbliche verrebbero utilizzate per un gigantesco bail out, un salvataggio con pagamenti a fondo perduto per coprire i buchi lasciati dalla speculazione e da banchieri senza scrupoli.
Invece queste bad bank devono rimanere nella responsabilità delle banche che verrebbero però messe in condizione di poter operare a sostegno dell'economia reale. La bad bank così concepita avrebbe il compito di far prosciugare la palude dei derivati e dei titoli tossici. Il compito degli stati invece dovrebbe limitarsi a formulare subito nuove regole per permettere dei cambiamenti contabili e far transitare i titoli tossici dai bilanci delle banche verso questi nuovi contenitori ad hoc consentendone il congelamento per alcuni decenni se necessario, per una eventuale futura loro soluzione nell'ambito del sistema bancario stesso. Lo stato dovrebbe dare subito indicazioni precise per controllare e limitare globalmente le operazione finanziarie derivate, così come ad esempio disposto dal governo Prodi nei confronti degli enti locali. Anche la Germania sta pensando in questa direzione e il ministro dell'Economia Peer Steinbruck ha denunciato la bad bank stile Federal Riserve come pericolosa "dinamite politica".
I salvataggi delle banche devono servire a far rifluire il credito nel sistema produttivo, soprattutto nel tessuto delle piccole e medie industrie ma, senza le nuove regole necessarie, i finanziamenti pubblici si perderebbero nei buchi neri dei bilanci delle banche. Anche l'eventuale abbassamento dei tassi di interesse fino al livello di ZIRP (zero interest rate policy) non sarebbe capace da solo e automaticamente di rimettere in moto il motore dell'economia.
Intanto nel nostro paese lo stato ha uno strumento formidabile per dare una spinta propulsiva alla ripresa economica, la Cassa Depositi e Prestiti con una riserva calcolata intorno a 100 miliardi di euro. La CDP dovrebbe finanziare le nuove grandi infrastrutture, tra cui la logistica e le reti telematiche e non, con un'attenzione particolare verso il Mezzogiorno che ha un gap intollerabile che condiziona negativamente l'economia dell'intero paese.
In una crisi epocale come quella attuale, gli stimoli e i sostegni ai consumi sono necessari ma non possono bastare a rimettere in moto i processi economici. Bisogna puntare alla crescita complessiva dell'economia per poi certamente meglio distribuire. Per questo gli impegni a mantenere livelli di vita, stipendi, salari e pensioni devono accompagnarsi alla messa in cantiere di grandi progetti, di infrastrutture, di modernizzazioni che guidino il paese per i prossimi 50 anni. Davanti a noi e nell'immediato abbiamo sfide come l'indipendenza energetica, lo sviluppo del Mezzogiorno in un'Italia partecipe dell'Europa ed economicamente moderna da Nord a Sud.
Non si esce dalla crisi "mantenendo" soltanto i livelli di produzione e di reddito; non si tratta di "riempire le buche", bensì di formulare un intero progetto di sviluppo nuovo e diverso per la creazione di nuova ricchezza e di reddito. Il continuo litigio tra governo e opposizione sulle cifre economiche, come avvenuto sul decreto anti crisi, e sulla divisione e distribuzione di una torta che si fa di giorno in giorno più piccola, finisce col nascondere i veri problemi economici delle regioni del Nord e penalizza ancor di più quelle del Sud.
 

Fonte - Finanza&Mercati

 

 

 

 

  Finanza: mettete pure in conto nuove fasi di avversione al rischio

08 Febbraio 2009 23:29 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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Ci sono diciassette borse in rialzo dal primo gennaio. Due di queste, Sri Lanka (più 20 per cento) e Israele (più 4) salgono per fattori geopolitici locali (il profilarsi della fine della devastante guerriglia Tamil e il contenimento di Hamas a Gaza). Sette riflettono il recupero dei corsi delle materie prime (Brasile, Argentina, Colombia, Venezuela, Cile, Jamaica, Norvegia). Sette rimbalzano da un ribasso gigantesco che ha esaurito, almeno temporaneamente, la sua forza distruttiva (Russia, Slovenia, Estonia, Lituania, Danimarca, Irlanda, Corea).
La diciassettesima borsa in rialzo, e non di poco (più 16 per cento), è quella di Shanghai. La cosa sembra molto interessante anche perché (forse proprio perché) non è confermata dall’andamento di Hong Kong, che scende del 9 per cento da inizio anno, in linea con i mercati internazionali. Incuriosisce anche il fatto che il rialzo coincida con la pubblicazione, in queste ultime settimane, di dati macro cinesi molto deludenti. La crescita annualizzata del quarto trimestre è scesa infatti a zero (non inganni il più sei anno su anno, frutto dei primi tre trimestri) con, in più, una discesa in termini assoluti (una discesa, non una decelerazione) delle esportazioni. Curioso anche il fatto che la borsa indiana, nel frattempo, abbia continuato a scendere.
Avanziamo un’ipotesi indimostrabile, quasi un’illazione. La borsa interna cinese, da quando è stata ripristinata ai tempi di Deng, è stata spesso pilotata dal governo. Per un lungo periodo è stata fatta salire per attirare e assorbire gli eccessi di liquidità che i privati avevano accumulato nei decenni precedenti (troppi soldi tesaurizzati e poche merci da comprare era un classico problema delle economie socialiste). Poi è stata pilotata al rialzo durante la crisi asiatica in funzione anticiclica. E’ scesa (come tutte) dal 2000 al 2002, ma non perché l’economia cinese andava male (andava al contrario molto bene) ma perché non serviva che salisse. Nei tre anni successivi (2003-2006) è rimasta immobile mentre il bull market imperversava in tutto il mondo e l’economia cinese cresceva del 10 per cento all’anno.
A un certo punto, a fine 2006, il governo ha deciso di collocare sul mercato quote importanti di grandi società statali spesso poco profittevoli e ha fatto salire la borsa di quattro volte in 15 mesi. Collocato tutto quello che doveva collocare il governo ha abbandonato il mercato a sé stesso. L’indice è così ridisceso da 6100 nell’ottobre 2007 a 1700 nell’ottobre 2008.
Ora si può benissimo razionalizzare il rialzo di gennaio con l’ipervenduto precedente e con il pacchetto fiscale, ma si può anche ipotizzare, anche sulla scia delle dichiarazioni dei cinesi presenti a Davos, che il governo sia seriamente preoccupato e stia facendo ricorso molto aggressivamente a tutte le armi amministrative (formali e informali) che ha a disposizione, ancora oggi molto più numerose di quelle dei governi occidentali (tra cui, sempre in ipotesi, ordinare alle banche di sostenere la borsa). Non siamo ancora agli interventi strutturali di sostegno ai consumi (mettere in piedi un sistema pensionistico e sanitario decente che faccia sentire le famiglie più sicure sul loro futuro e meno propense a risparmiare), ma il fatto che la dirigenza cinese abbia deciso di darsi molto da fare è senz’altro utile. Per inciso, un’ulteriore ricaduta positiva di questo atteggiamento è il programma di acquisto strategico di materie prime, che sta sostenendo il corso dei non ferrosi e contribuendo a stabilizzare il greggio.
Barlumi di speranza anche dall’America. Certo, il pacchetto fiscale partorito dalla camera bassa è molto deludente. La qualità è davvero scadente (a parte le ciliegine sulle energie alternative e sul coordinamento informatico delle prestazioni sanitarie). I trasferimenti agli stati in bancarotta permettono a Schwarzenegger di non licenziare i suoi dipendenti ma non bastano certo a farne assumere di nuovi. La quantità è stata ricalcolata da Goldman Sachs in tre punti annualizzati di Pil nel secondo e terzo trimestre, un impulso quasi uguale, se abbiamo fatto bene i conti, a quello del pacchetto fiscale dell’anno scorso (che fu però concentrato su un solo trimestre).
C’è poi, nel pacchetto, la coda del diavolo del Buy America, sfacciato protezionismo. Non bisogna però esagerare con i timori. Geithner che attacca i cinesi e il Buy America sono concessioni alla componente sindacale del partito democratico, così come la camera bassa riflette gli umori delle componenti più radicali. Sono probabilmente concessioni retoriche che l’amministrazione Obama accetta per coprirsi a sinistra, sapendo che il Senato cancellerà il Buy America e che le affermazioni sul renminbi sono già state ritirate. Anche l’enfasi sugli elicotteri delle banche (quanti saranno mai) e sulle retribuzioni dei banchieri servono a coprire la scelta di ridurre davvero al minimo le nazionalizzazioni di banche.
Il brutto pacchetto fiscale, quindi, verrà migliorato dal Senato e in più, fortunatamente, è già scontato dai mercati. Diverso il caso (e qui sono i barlumi di speranza) per le altre misure che verranno annunciate la settimana prossima. Non ci sono solo le banche, ma anche rinegoziazioni di mutui che, quale che sia la soluzione tecnica, rallenteranno i pignoramenti di case e, ci si augura, la discesa del mercato immobiliare. Quanto alle banche, la soluzione leggera prospettata da Schumer (il Tesoro vende alle banche put sugli asset tossici a un prezzo d’esercizio a metà strada tra il valore a bilancio e il valore di mercato in cambio di azioni ordinarie o di call sulle azioni delle banche) ha il vantaggio di non costare quei tre-quattro trilioni della bad bank (che comunque si farà, in versione più piccola).
Curiosamente è la controproposta che fu avanzata dalla destra repubblicana quando Paulson presentò il Tarp prima maniera (quello dell’acquisto diretto degli asset tossici). Ora che le garanzie sul debito vengono proposte dai democratici vedremo se la destra repubblicana vi si opporrà. Al di là dei dettagli tecnici, la settimana prossima si gioca una grande partita per l’amministrazione Obama, per il sistema finanziario globale e per i mercati.
Geithner sa che dovrà stupire. Dovrà proporre qualcosa di grosso, ma anche di completo e sorprendente. Come se non bastasse, dovrà riuscire a non spaventare il dollaro e i bond governativi, di pessimo umore sulla parte lunga da quando sentono i trilioni aggiungersi ai trilioni nel conto delle misure anti-crisi. A proposito di bond governativi, se la settimana prossima ci dovesse essere ulteriore debolezza potrebbe essere interessante comprarli, riducendo nel caso l’esposizione sui corporate bond di alta qualità, che in queste ultime settimane sono stati molto richiesti dal mercato.
Ribadiamo che per quest’anno, al di là del cash che deve essere comunque ben rappresentato in portafoglio, è bene concentrarsi sui rischi moderati, ovvero bond governativi e corporate di alta qualità. Questi rischi moderati, come abbiamo visto in gennaio e come continueremo a vedere nei prossimi mesi, avranno tipicamente un andamento divergente. Nelle fasi di avversione al rischio e di paura della deflazione andranno bene i governativi, in quelle di maggiore propensione al rischio e di timori d’inflazione andranno meglio i corporate. Si tratterà quindi di passare periodicamente dagli uni agli altri.
Una cosa importante da togliersi dalla mente, crediamo, è quella di pensare a un magico punto di svolta della crisi, soprattutto se questo punto di svolta lo si immagina vicino. Anche nella migliore delle ipotesi (un piano Geithner convincente e non penalizzante sulle banche che non costi troppo al Tesoro) avremo un bear market rally (di cui si vede qualche prova in questi giorni) e un rallentamento delle dinamiche viziose in corso.
In altre parole, un piano robusto sarà un passo avanti molto importante e prezioso e darà per la prima volta la possibilità di intravedere una luce in fondo al tunnel. La cosa da non dimenticare è però che il tunnel sarà comunque molto lungo.
Nel suo stile ruvido (ma lontanissimo dai toni disperati che vediamo ormai spesso in molte analisi), il professor Rogoff ricorda oggi sul Wall Street Journal che la crisi finirà, ma probabilmente fra un paio d’anni. La buona notizia è che case e borse hanno già percorso buona parte della loro via dolorosa (qualcosa rimane ancora da fare), quella meno buona è che non c’è da illudersi troppo su un’uscita anticipata dalla crisi, anche in presenza di politiche corrette.
Rogoff afferma anche che in situazioni analoghe, in passato, l’accumulo di debito pubblico (prodotto dai salvataggi bancari e dai minori introiti fiscali in tempi di crisi) ha spesso indotto i governi a usare l’inflazione come scorciatoia per riequilibrare i conti. Rogoff, come El-Erian (che su questa base suggerisce di evitare i governativi lunghi), ha lavorato a lungo al Fondo Monetario e ha visto molti emergenti uscire dalle crisi finanziarie facendosi aiutare dall’inflazione. Sono pareri autorevolissimi, quelli di Rogoff e di El-Erian. Li vorremmo però chiosare con alcune osservazioni.
La prima è che da metà degli anni Novanta in molti paesi emergenti (quanto meno in quelli più seri) la dose d’inflazione post crisi è andata calando. Non ci sono stati, salvo eccezioni, casi di iperinflazione. La seconda è che tra i paesi sviluppati l’utilizzo dell’inflazione è stato ancora più ridotto. C’è poi il caso importante del Giappone, che si è tenuto stoicamente il suo debito, l’ha ridotto lentamente negli ultimi anni e non è riuscito, per quanto ci abbia provato, a creare un grammo d’inflazione. La terza osservazione è che la decisione sull’inflazione apparirà sull’agenda di governi e banche centrali nel 2011 al più presto. Nel 2009 e 2010 il problema sarà quello di evitare la deflazione. Negli ultimi tre mesi, nota Rosenberg di Merrill Lynch, l’inflazione headline americana è scesa a una velocità annualizzata dell’8.4 per cento. Negli anni Trenta, aggiungiamo noi, i prezzi scendevano del 10 per cento l’anno.
Nei prossimi due anni ci sembra difficile pensare a possibili fonti d’inflazione. Aumenti salariali? Forse che il mezzo milione di nuovi disoccupati americani che vedremo venerdì (solo mezzo milione, ha esclamato sollevato oggi il mercato sulla base delle proiezioni ADP) riuscirà a trovare un nuovo impiego (ammesso che ci riesca) con uno stipendio più alto di quello che ha perduto? Forse un’esplosione della domanda di materie prime, con i produttori di auto che non sanno più dove mettere le macchine invendute?
Chi parla d’inflazione o iperinflazione dovrebbe provare a dirci il nome di un prodotto o di un servizio (o anche di un asset) che fra due anni sarà più caro di oggi. Probabilmente le banche centrali (con l’eccezione della Bce) sono contente che una parte del mercato pensi con tenacia all’inflazione imminente mentre i prezzi stanno scendendo come non accadeva da decenni. Guai se si diffondesse una psicologia deflazionistica. Nessuno comprerebbe più niente se fosse certo di potere pagare di meno sei mesi più avanti.
A scanso di equivoci, quindi, diciamo che i bond governativi lunghi non sono da sposare e tenere per 10 o 30 anni. Diciamo solo che per i prossimi 24 mesi ci saranno di nuovo fasi di avversione al rischio e di paura di deflazione che li riporteranno vicini ai prezzi massimi di gennaio. Nel ciclo recessivo precedente, del resto, i tassi dei decennali toccarono il livello minimo non nell’estate del 2001, quando il Pil fu per un attimo negativo, né dopo l’11 settembre, quando la Fed abbassò i tassi all’uno per cento. Il livello minimo dei tassi fu toccato nella primavera del 2003, quando la ripresa era già iniziata. Sta forse già iniziando, la ripresa?
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

 

 

CRISI: PIMCO, IN ARRIVO UNA SECONDA ONDATA DI TURBOLENZE

11 Febbraio 2009 16:21 NEW YORK - di Bloomberg
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11 Febbraio 2009 16:21 NEW YORK

Pacific Investment Management Co. (PIMCO), il fondo obbligazionario piu’ grosso al mondo, gestito dal guru Bill Gross, ha annunciato che l’economia globale rischia una "seconda ondata" di turbolenze qualora i governi dei diversi Paesi non adotteranno nuovi piani di spesa di ampie dimensioni.
"Il tracollo finanziario e’ ancora nelle fasi iniziali" scrive Koyo Ozeki, head of Asia-Pacific credit research dell’ufficio di Tokyo. "Qualsiasi altro calo dei prezzi delle case potrebbe accelerare la caduta ed originare una seconda ondata di crisi finanziaria nei prossimi 6 o 12 mesi".
"Per domare la nuova crisi, i governi di tutto il mondo dovranno incrementare significativamente la spesa. La conseguente erosione delle finanze potrebbe pero’ incrementare il rischio di pericolosi effetti collaterali"
"In una situazione in cui l’economia continua a deteriorarsi a causa della crisi finanziaria, la domanda sul mercato immobiliare non recuperera’ finche’ una forte contrazione dei prezzi non ridurra’ significativamente il rischio di possedere un immobile. Nel caso del Giappone i prezzi delle case hanno impiegato 15 anni per raggiungere il fondo".
 

Fonte - Bloomberg

 

 

 

Usa, per Fbi i casi di frodi potrebbero essere centinaia

11 Febbraio 2009 17:47 - di Reuters
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WASHINGTON (Reuters) - Potrebbero essere centinaia le frodi societarie e le irregolarità bancarie che finiranno in futuro sotto la lente degli investigatori americani, molte di più rispetto alle attuali 38. Lo ha dichiarato oggi il funzionario dell'Fbi John Pistole al Senato americano, aggiungendo di aspettarsi casi "significativi" di frodi fiscali che coinvolgano società che tutti conoscono. Anche per questo l'agenzia, secondo un funzionario del dipartimento di giustizia americano, starebbe studiando la creazione di una squadra speciale che si occupi di frodi legate ai mutui, come quella che indagò sulla Enron e che fu in seguito giudicata superflua dall'amministrazione Bush.
 
 

Fonte - Reuters

 

 

Sotto tutela?

Wednesday, 11 February, 2009 at 15:23 - by phastidio
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Nell’imminenza della visita a Pechino di Hillary Clinton, si levano le voci di quanti, in Cina, vorrebbero mettere sotto tutela le politiche fiscali e di debito pubblico degli Stati Uniti. Yu Yongding, ex consigliere della banca centrale cinese, ed attualmente alla guida del World Economics and Politics Institute presso l’Accademia di Scienze Sociali, ha dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero rassicurare la Cina che il valore dei Treasuries da essa detenuti (pari a 682 miliardi di dollari) non subirà significative erosioni, il che significa invitare gli Usa a non essere troppo spregiudicati nel deficit spending. La presa di posizione sembra la risposta alla intempestiva uscita di Obama (via Geithner), che ha additato la Cina come currency manipulator.
Nella congiuntura attuale, i cinesi preferirebbero un regime di peg al dollaro pressoché rigido, in modo da gudagnare tempo per poter uscire dalla recessione e riconvertire il proprio modello economico, volgendosi alla crescita dei consumi, ed è verosimile che questa richiesta verrà più o meno ufficialmente presentata alla Clinton. Ma i cinesi certamente non ignorano il fatto di essere condannati a riciclare parte del proprio surplus acquistando titoli di stato statunitensi al solo scopo di impedire un indesiderato apprezzamento dello yuan. Né ignorano che liquidare parte non marginale del proprio portafoglio di Treasuries sarebbe azione autolesionistica, per il contraccolpo su prezzi e cambio dollaro-yuan. Forse proprio per limitare parte dell’effetto prezzo, i cinesi hanno recentemente accorciato la scadenza media dei titoli statunitensi in portafoglio, verosimilmente contribuendo alla brusca risalita dei rendimenti. Simul stabunt, simul cadent? Finché Pechino non riuscirà a quadrare il cerchio, l’”equilibrio del terrore finanziario” tra i due paesi è destinato a proseguire.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Mercoledì 11 Febbraio 2009   Sabato 14 Febbraio 2009   Domenica 15 Febbraio 2009  
       
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TESTO INTEGRALE - G7 finanziario a Roma, il documento finale

14 Febbraio 2009 17:57 - di Reuters
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ROMA (Reuters) - Ecco la versione integrale, nel testo originale in inglese, del documento finale emesso al termine del G7 finanziario tenuto a Roma ieri ed oggi. "We, the G7 Finance Ministers and Central Bank Governors met today amid an ongoing and severe global economic downturn and financial turmoil. The stabilisation of the global economy and financial markets remains our highest priority. We have collectively taken exceptional measures to address these challenges and we reaffirm our commitment to act together using the full range of policy tools to support growth and employment and strengthen the financial sector. The financial measures taken by each of us are helping to stabilise extremely volatile financial markets. These actions aimed at restoring normal credit flows to the economy follow three approaches as needed 1) enhanced liquidity and funding through traditional and newly created instruments and facilities 2) strengthen the capital base according to the competent authority's assessment of individual financial institutions and 3) facilitate the orderly resolution of impaired assets. The G7 commit to take any further action that may prove necessary to re-establish full confidence in the global financial system. We will continue to work together and to cooperate to avoid undesirable spillovers and distortions. What started as financial turmoil has now gripped the real economy and spread throughout the world. The severe downturn has already resulted in significant job losses and is expected to persist through most of 2009. The policy response by the G7 has been prompt and vigorous, its full effects will build over time. Policy interest rates have been reduced to very low levels and unconventional monetary policy actions are being taken as appropriate. Budgetary action has been resolute. In addition to the full functioning of automatic stabilisers, substantial further fiscal stimulus packages are being implemented. By taking action together the effects of our individual actions will be boosted. Our fiscal policy measures adhere to principles that will increase their effectiveness. * be frontloaded and quickly executed * include the appropriate mix of spending and tax measures to stimulate domestic demand and job creation and support the most vulnerable * increase longer term growth prospects, addressing structural weaknesses through targeted investments * be consistent with medium-term fiscal sustainability and mostly rely on temporary measures We also welcome and appreciate the prompt macro-economic response from others throughout the world. In particular, we welcome China's fiscal measures and continued commitment to move to a more flexible exchange rate, which should lead to continued appreciation of the Renminbi in effective terms and help promote more balanced growth in China and in the world economy. We reaffirm our shared interest in a strong and stable international financial system. Excess volatility and disorderly movements in exchange rates have adverse implications for economic and financial stability. We continue to monitor exchange markets closely, and cooperate as appropriate. An open system of global trade and investment is indispensable for global prosperity. The G7 remains committed to avoiding protectionist measures, which would only exacerbate the downturn, to refraining from raising new barriers and to working towards a quick and ambitious conclusion of the Doha round. The G7 also stresses the need to support emerging and developing countries' access to credit and trade financing and resume private capital flows, and is committed to explore urgently ways, including through multilateral development banks, to enhance this support. This crisis has highlighted fundamental weaknesses in the international financial system and that urgent reforms are needed. We agree that a reformed IMF, endowed with additional resources, is crucial to respond effectively and flexibly to the current crisis. In this respect, we welcome the Japanese government's lending agreement with the IMF. Increased collaboration between the IMF and the expanded Financial Stability Forum (FSF) will be particularly important to develop a timely and reliable assessment of macro-financial risks. We also welcome the contribution of the World Bank and regional Development Banks to providing finance to emerging and developing countries affected by the crisis, using their resources effectively. The G7 finance ministers have asked their deputies to prepare, in consultation with other partners, a progress report in four months on developing an agreed set of common principles and standards on propriety, integrity and transparency of international economic and financial activity. The G7 is committed to continue working with partners in international fora to accelerate reforms of the regulatory framework including limiting procyclicality, the scope of regulation, compensation practices, market integrity and risk management."
 

Fonte - Reuters

 

 

 

G7, forte risposta a crisi e condanna protezionismo

14 Febbraio 2009 18:31 - di Reuters
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ROMA (Reuters) - Il G7, temendo un ritorno degli errori che hanno amplificato la grande depressione degli Anni 30, farà quanto possibile per combattere la recessione economica ed evitare che siano assunti provvedimenti protezionistici. È quanto si legge nel comunicato che chiude i lavori del summit, svoltosi tra ieri e oggi a Roma. Nelle pieghe del documento si nota anche un tono più conciliante nei confronti della Cina, dopo le dichiarazioni del segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner, che aveva accusato di recente Pechino di manipolare il tasso di cambio dello yuan. La nota, non molto diversa dalla bozza che Reuters ha diffuso ieri sera, sembra messa a punto anche per mitigare i timori di chi vede i governi determinati a varare misure di sostegno all'occupazione e alle industrie nazionali rinunciando al rispetto dei principi di concorrenza e libero scambio. Mentre il G7 era in corso nella notte, infatti, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il piano anticrisi da 787 miliardi di dollari dell'Amministrazione Obama che contiene decine di miliardi di investimenti in opere pubbliche, investimenti vincolati però all'acquisto di beni e materie prime - come l'acciaio - prodotti negli Stati Uniti, sintetizzato nello slogan 'buy American'. Secondo il ministro dell'Economia italiano, Giulio Tremonti, "c'è stata una discussione tutta convergente sul punto: il protezionismo è negativo". Il cancelliere dello Scacchiere britannico Alistair Darling ha detto di aver discusso con Geithner del cosiddetto "buy american" e che "gli Stati uniti sono consapevoli delle loro responsabilità verso il resto del mondo". La clausola "buy american" non è la sola a preoccupare il G7. Le misure di sostegno all'industria dell'auto in Francia e Italia hanno sollevato preoccupazioni, come pure le campagne anti-italiani in Gran Bretagna per assicurare il lavoro ai cittadini inglesi. Sul "buy American" Geithner, alla sua prima uscita internazionale, apprezzato dai colleghi per i toni distesi e concilianti, ha voluto assicurare che lo stesso Barack Obama ha ben presenti le preoccupazioni internazionali. Il comunicato G7 aggiunge che stabilizzare economia e mercati finanziari è essenziale e che tutti devono collaborare utilizzando ogni mezzo di politica economica per assicurare il massimo effetto. "Continueremo a lavorare insieme per evitare effetti indesiderabili e distorsioni", dice il comunicato. Altro tema discusso è stato quello del tasso di cambio dello yuan cinese. Il comunicato G7 è stato più conciliante rispetto alla riunione di ottobre, lanciando un esplicito apprezzamento dell'impegno a un regime valutario più flessibile assunto da Pechino. Nessun riferimento, come ampiamente anticipato ma non considerato scontato dai mercati, ad altre valute. "Il tono più conciliante sulla Cina è la differenza chiave rispetto al precedente comunicato", ha detto Geoffrey Yu, analista di Ubs commentando l'esito del summit. Tremonti ha detto che dall'incontro di Roma parte un percorso per la riscrittura delle regole economiche a livello internazionale che potrà portare alla formazione di un "nuovo ordine". Il documento finale del G7 non menziona i cosiddetti "legal standard" sulla cui necessità il presidente italiano di turno del G7 aveva insistito nei giorni scorsi: si parla più genericamente di "common principle and standard".

 

Fonte - Reuters

 

 

 

 

 

 

  Una classe dirigente tutta da buttare

17 Febbraio 2009 02:08 LUGANO - di Alfonso Tuor

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La crisi finanziaria ed economica diventa ogni giorno più grave, ma mai un vertice dei ministri delle finanze e dell’economia del G7 è stato così dimesso e così irrilevante come quello tenutosi questo fine settimana a Roma. I motivi sono numerosi, ma ve n’è uno che spicca fra tutti. Stati Uniti e Paesi europei non hanno alcuna strategia chiara, procedono a tentoni, cercando di turare le falle che continuano ad aprirsi, ma non sanno se le centinaia di miliardi che finora hanno già speso serviranno solo per guadagnare tempo oppure se saranno effettivamente utili per risolvere questa crisi.
Questo modo caotico di procedere è sicuramente dovuto al fatto che non vi sono terapie certe per un marasma economico provocato dall’esplosione di un’enorme bolla del credito, che ha travolto il sistema bancario e che ora sta provocando una pesante recessione mondiale. Questa spiegazione non è però esaustiva.
La mancanza di ricette e l’accavallarsi degli avvenimenti hanno spinto i governi in un vicolo cieco da cui ora è difficile uscire. Questa strada senza uscita si fonda sulla convinzione oramai diffusa che la premessa indispensabile per poter uscire dalla crisi è il salvataggio del sistema bancario. Per perseguire questo obiettivo, tutti i Paesi occidentali, seppure con modalità diverse, hanno speso somme enormi di denaro per turare le voragini dei conti delle banche, con il deludente risultato di giungere alla prevedibile scoperta che esse sono talmente grandi da essere paragonabili ad un buco nero che rischia di risucchiare tutto e tutti.
Gli aspetti negativi di questo modo di procedere sono molteplici. In primo luogo, solo una quantità minima dei soldi finora spesi sono stati indirizzati al rilancio dell’economia, mentre la quasi totalità è stata data alle banche, per di più in modo molto caotico. In secondo luogo, il tentativo di salvare gli istituti di credito senza porre alcuna condizione (dalla ripresa dell’erogazione del credito alla fine delle operazioni di trading sui mercati con il capitale proprio) ha fatto passare in secondo piano l’obiettivo di rivedere le regole del mondo della finanza e di ridefinire l’architettura del sistema monetario internazionale. In altre parole, l’oligarchia finanziaria, responsabile dell’attuale disastro, è riuscita ad avvinghiare ai propri destini anche i governi e in questo modo ne ha ridotto le aspirazioni di rivedere le regole del gioco.
Questa carenza di visioni nuove è confermata dal piano salvabanche della nuova amministrazione americana. Si può dire che la montagna ha partorito un topolino. Il piano di Obama costerà 2.000 miliardi di dollari, ma tutti concordano che non basterà per salvare le grandi banche a stelle e strisce. La trappola in cui sono finiti i governi è paradossalmente illustrata dallo stesso piano americano. Esso prevede che le banche americane con una cifra di bilancio superiore ai 100 miliardi di dollari (sono una ventina) vengano sottoposte ad uno «stress test» per verificare se sono in grado di sopravvivere: non è però stato detto che cosa farà l’amministrazione se questo test non dovesse essere superato, come è probabile, da molti istituti. Gli stessi banchieri si domandano: le banche che non supereranno l’esame riceveranno altro denaro pubblico, verranno nazionalizzate oppure sono previste altre varianti?
L’attuale successo dell’oligarchia finanziaria di coinvolgere i governi nella battaglia per la loro sopravvivenza e di far perdere slancio al cambiamento delle regole del mondo della finanza è comunque destinato a risultare effimero. Il motivo è semplice: queste politiche sono fallimentari. Non miglioreranno né le condizioni di salute delle banche né quelle dell’economia reale. Faranno però esplodere i debiti pubblici, incrinando prima o poi la fiducia dei risparmiatori nei titoli con cui gli Stati finanziano i loro debiti.
Questa politica potrebbe essere sconfessata molto presto anche perché non si preoccupa del rapido deterioramento delle condizioni di salute dei Paesi alla periferia del G7. È infatti probabile che la prossima fase di altissima tensione della crisi sarà causata dal crack di un Paese emergente. Nella lista dei candidati a ricoprire questo ruolo primeggiano i Paesi dell’Est europeo e in particolare Ucraina, Ungheria, Estonia e Lettonia.
In attesa della prossima grande eruzione non bisogna stancarsi di ripetere che salvare le banche è un’operazione immane, vista l’entità delle perdite nascoste nei loro bilanci. L’obiettivo dei governi dovrebbe invece essere creare delle «good bank», che possano riprendere ad erogare crediti alle famiglie e alle imprese, varare grandi piani di rilancio dell’economia reale, rifare le regole del mondo finanziario e ripensare l’architettura del sistema finanziario internazionale.
L’esempio della Cina conferma la bontà di questa linea. Infatti dal Paese asiatico giungono segnali positivi sempre più frequenti, per cui si può azzardare la previsione che nella seconda metà dell’anno la Cina dovrebbe imboccare la strada della ripresa, anche se lenta rispetto ai parametri del passato. Questo fatto non è sorprendente. Il governo ha varato un piano di rilancio di 600 miliardi di dollari, che sono destinati interamente al rilancio dell’economia. Nemmeno un soldo è andato invece alle banche, che grazie all’inconvertibilità della valuta cinese non hanno accumulato troppe perdite nell’acquisto dei titoli tossici americani. I segnali di ripresa della Cina non devono essere letti solo come un motivo di speranza, ma anche come un’indicazione di quale possa essere la via di uscita dalla crisi.
Il ruolo chiave della Cina è stato riconosciuto anche dallo stesso G7, che nell’unico risultato degno di nota del vertice romano ha ammorbidito il linguaggio nei confronti di Pechino sulla controversa questione del tasso di cambio del renminbi. La svolta è principalmente della nuova amministrazione americana. Il presidente Barack Obama aveva infatti vinto le elezioni presentandosi come un paladino dei posti di lavoro statunitensi e il nuovo segretario al Tesoro Tim Geithner, nella prima audizione davanti al Congresso, aveva dichiarato che la valuta cinese è pesantemente sottovalutata.
Ma il fatto che la Cina sia il maggiore acquirente dei titoli con cui gli Stati Uniti finanziano il loro debito pubblico ha indotto la nuova amministrazione ad attuare un cambiamento radicale di linea che verrà sicuramente suggellato nei colloqui di questa settimana a Pechino del segretario di Stato Hillary Clinton. La svolta americana non è solo dovuta a necessità di cassa, ma anche alla consapevolezza che gli Stati Uniti escono ridimensionati da questa crisi, che è destinata a cambiare i rapporti di forza a livello internazionale.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

 

Crisi: commissario Ue Kroes lancia l'allarme

17 Febbraio 2009 16:27 BRUXELLES - di Reuters
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(ANSA) - BRUXELLES, 17 FEB - Neelie Kroes lancia l'allarme: 'l'esposizione delle banche verso gli asset tossici e quelli deteriorati continua a crescere'. La commissaria Ue alla concorrenza parla di 'numeri sbalorditivi' e sottolinea che 'siamo ancora lontani dalla ripresa'. Per questo - sottolinea - e' piu' che mai necessario che i piani di sostegno alle banche siano 'coordinati e coerenti' con le regole europee. E questo non e' negoziabile'', aggiunge Kroes. 'Se si vuole ripristinare la normale funzione del credito - aggiunge poi - e' necessario che le decisioni sulle ristrutturazioni bancarie siano prese prima della fine del 2009'. 'Non bisogna assicurare solo la sopravvivenza delle banche - spiega - ma che riprenda effettivamente il flusso del credito all'economia reale'. Questo anche a costo di prendere 'decisioni difficili', come quella della liquidazione. Per Kroes va fatto tutto rapidamente, perche' - spiega ancora - 'non possiamo sostenere ulteriori ritardi', col risultato di tenere in vita 'modelli di impresa falliti e di rovinare le finanze pubbliche e il mercato unico, attraverso distorsioni della concorrenza'.(ANSA).
 

 

 

Ue: 18 mila miliardi asset banche a rischio tossicita'

18 Febbraio 2009 12:53 ROMA - di ANSA
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(ANSA) - ROMA, 18 FEB - Diciotto mila miliardi di euro: e' la stima sull'entita' degli asset a rischio di tossicita' delle banche europee.E' contenuta in un documento riservato della Commissione europea- reso noto da Milano finanza- discusso la scorsa settimana dai ministri delle Finanze dell'Ue in sede Ecofin. E' una prima bozza delle linee guida che i governi dovranno tenere in tema di quantificazione degli asset tossici nei bilanci delle banche europee.
 

Fonte - ANSA

 

 

Crisi economia, Usa: risposta globale coordinata

17 Febbraio 2009 17:35 - di Reuters
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LONDRA (Reuters) - Un nuovo rapporto che suggerisce che la recessione economica dell'Europa orientale trascinerà le banche occidentali in una crisi ancora più profonda, ha fatto crescere oggi la preoccupazione dell'impatto negativo delle economie emergenti sulla recessione dell'Occidente. L'euro è calato e le azioni delle banche europee sono state colpite dal report di Moody's, che sottolinea la debolezza fiscale di gran parte dell'Europa dell'Est. L'aumento dei costi di prestito delle banche e la svalutazione della moneta peseranno sulla redditività delle banche contribuendo all'erosione del loro capitale di base, ha spiegato Moody's in un comunicato. Gran parte del globo è in recessione economica a causa di una crisi finanziaria innescata dal collasso del mercato edilizio americano e dei mutui subprime. L'Europa orientale è stata particolarmente colpita: l'Ucraina ex sovietica ha assistito a una contrazione superiore a un terzo della produzione industriale, la peggiore riduzione in più di un decennio. I governi sono intervenuti con una serie di misure, come i pacchetti di stimolo, nel tentativo di evitare l'inasprirsi della recessione, ma spesso sono stati criticati per aver anteposto l'interesse della nazione agli impegni commerciali.
AGIRE INSIEME "Quello che mi sciocca e mi dispiace è che nell'arena internazionale ... tutti siano d'accordo sulla necessità di lavorare insieme", ha detto Dominique Strauss-Kahn, presidente di Imf, alla radio France Inter. "Poi quando tornano a casa, tutti hanno dei vincoli nazionali, ognuno agisce in modo un po' diverso e a volte un po' contraddittorio ed è per questo che corriamo dei rischi". Il pacchetto di stimolo da 787 miliardi di dollari che dovrebbe essere firmato dal presidente Usa Barack Obama nella giornata di oggi, è stato criticato per la sua clausola "Buy American" secondo cui le aziende devono usare acciaio e altri prodotti americani. L'aumento delle preoccupazioni circa l'andamento dell'economia globale e dei profitti delle aziende ha spinto le borse ai minimi delle ultime due settimane, e alcuni decisionisti, visti gli scarsi risultati ottenuti fino ad ora dalle misure del governo, hanno iniziato a valutare altre ipotesi. Ewald Nowotny, membro del board della Banca centrale europea, ha affermato che l'Europa ha ancora spazio per ridurre i saggi di interesse aggiungendo però di "non essere a favore di tassi nominali allo zero, che significano tassi reali negativi". "C'è, mentre l'economia e i tassi continuano a scendere, un dibattito che verte sull'esistenza di misure aggiuntive, non convenzionali. E' una cosa di cui si discute alla Bce e bisogna vedere come si svilupperà", ha detto in un'intervista al Financial Times. In Asia, il Giappone ha subito una contrazione peggiore rispetto alle altre grandi economie a causa della sua forte dipendenza dalle esportazioni e della bassa domanda interna. Il primo ministro giapponese Taro Aso ha nominato il 70 enne ministro dell'Economia Kaoru Yosano come ministro delle Finanze dopo le dimissioni di Shoichi Nakagawa. Nakagawa è stato costretto a negare che era ubriaco al meeting del G7 a Roma. "Con le dimissioni di Nakagawa al governo manca una persona che porti aventi nuove azioni a supporto dell'economia, in condizioni sempre peggiori", ha detto Koichi Haji, dell'istituto di ricerca Nli.

 

Fonte - Reuters

 

 

 

 

 

 

  Crisi economia, Usa: Mutui: la crisi colpisci anche i ricchi

20 Febbraio 2009 17:00 NEW YORK - di Bloomberg

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Gli insolventi tra i proprietari di case di lusso crescono al ritmo piu' elevato da 15 anni. La crisi, iniziata con i "subprime", ora travolge i clienti "prime". I prestiti saranno sempre piu' difficili da ottenere e risanare.
Continua la serie di "Anche i ricchi piangono": persino i proprietari di case di lusso, infatti, stanno incontrando difficolta' a rispettare i pagamenti dei propri mutui. Le persone che accumulano debiti arretrati stanno aumentando al ritmo piu' alto da 15 anni, segnale che la crisi finanziaria Usa, partita con gli americani piu' poveri, ha raggiunto anche la parte piu' benestante della popolazione.
L'anno scorso circa il 2.57% dei contraenti di prestiti di lusso, cosiddetti jumbo, sono risultati in ritardo di almeno 60 giorni, una percentuale raggiunta in meno di 10 mesi, al ritmo piu' spedito dal 1992, secondo i dati raccolti da LPS Applied Analytics. Si tratta di un ritmo del doppio superiore al 2007 e un livello che non veniva toccato da almeno tre anni.
Il balzo della percentuale di insolvenze nei prestiti jumbo, sebbene si mantenga ben al di sotto dei livelli del 20% toccati dai mutui subprime, e' un indice evidente di come anche i mutuatari piu' ricchi stiano accusando l'impatto della recessione, ormai entrata nel suo secondo anno di vita. Significa anche che questi prestiti saranno sempre piu' difficili da ottenere e di conseguenza piu' cari da risanare.
"L'influenza maggiore nella crescita del tasso di insolvenza la esercita l'economia", osserva Keith Gumbinger, vice presidente di HSH Associates, una societa' di ricera mutui di Pompton Plains, nel New Jersey. "Sembra che nessuno sia escluso, siamo tutti coinvolti in qualche modo. Certamente la situazione e' piu' grave per alcuni, ma ormai e' piuttosto diffusa".
Il tasso di disoccupazione ha raggiunto i massimi di 25 anni a gennaio, mentre il tasso relativo all'industria finanziaria e' cresciuto al 6% dal 3% antecedente. Nella categoria dei servizi professionali e di business e' passato al 10.4% dal 6.4%, secondo quanto mostrato dai dati dell'Ufficio di Statistica del Lavoro di Washington.
Circa l'1.92% dei proprietari di case con un mutuo sottoscritto nel 2008 con Fannie Mae e Freddie Mac e' indietro di 60 giorni nei pagamenti dei prestiti jumbo, che sono molto piu' alti di quanto non possano garantire le agenzie statali, sarebbe a dire $417 mila nella maggior parte dei casi e fino a $729750 nelle aere con i prezzi immobiliari piu' elevati. La media per i mutui jumbo nel 2008 e' stata di 762, sempre secondo i dati LPS Applied Analytics. Un punteggio di questo tipo serve per misurare il rischio.
I prestiti Jumbo hanno subito un rallentamento nel quarto trimestre a 11 miliardi, ovvero il 4% del mercato immobiliare, il peggior risultato trimestrale da quando Inside Mortgage Finance ha iniziato a raccogliere i dati nel 1990. Nel 2007 i prestiti jumbo rappresentavano il 14% dei mutui Usa complessivi, secondo la societa' con sede a Bethesda, nel Maryland.
Le cinque principali aziende che offrono prestiti jumbo ai propri clienti, Chase Home Finance, Bank of America, Washington Mutual, Wells Fargo e Citigroup, insieme hanno prodotto $55.3 miliardi in mutui di lusso nel 2008. Di quella cifra, mostrano i dati di Inside Mortgage Finance, sono stati accordati prestiti per appena $4.3 miliardi durante gli ultimi tre mesi dell'anno.
Le banche sono sempre piu' riluttanti a concedere prestiti jumbo perche' vorrebbe dire mantenere riserve in denaro tali da essere sempre in grado di ripagare le eventuali insolvenze, spiega Guy Cecala, AD di Inside Mortgage Finance.
Questa settimana la media nazionale degl interessi per un mutuo jumbo a 30 anni a tasso fisso era al 6.57%, paragonata al 5.34% dei prestiti standard, secondo White Plains, societa' dati di BanxQuote, con sede a New York.
La differenza tra i tassi di interesse dei prestiti jumbo e di quelli "prime" standard, o di mutui che e' possibile anche rivendere a Fannie Mae e Freddie Mac e disponibili solo per clienti qualificati, ha toccato i 20 punti base "per diversi decenni", secondo l'AD di BanxQuote, Norbert Mehl. Ma in agosto 2007, ha aggiunto Mehl, i livelli hanno toccato la soglia dei 200 punti base, per poi mantenersi tra i 100 e i 200 punti base.
 

Fonte - Bloomberg

 

 

 

 

  Marte17 Febbraio 2009   Mercoledì 18 Febbraio 2009   Venerdì 20 Febbraio 2009  
       
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  Verso il flop il piano americano di stimolo

20 Febbraio 2009 19:44 NEW YORK - di Alberto Alesina e Luigi Zingales

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Gli Stati Uniti hanno approvato il più grande piano fiscale in periodo non bellico, 787 miliardi di dollari, seguito da un ambizioso piano di supporto del mercato edilizio per altri 275 miliardi. Funzioneranno? Temiamo di no. Non solo da un punto di vista politico, ma anche da quello economico la legge fiscale è un compromesso.
Da un lato Larry Summers, che voleva un piano di spese immediato, mirato e temporaneo, dall'altro i democratici tradizionali, che chiedevano più stanziamenti per infrastrutture ed educazione. Meglio di niente, si dirà. Vero, ma ci sono due punti cruciali su cui giudicare l'efficacia di questo pacchetto di misure. Primo: in generale servono di più tagli fiscali o aumenti di spesa? Secondo: in questa recessione, quali tagli di imposte e aumenti di spesa sono particolarmente necessari?
Sulla prima domanda vi è molta incertezza, come notava Roberto Perotti (Il Sole 24 Ore dell'8 febbraio). È vero che vi sono opinioni contrastanti, ma noi crediamo che la maggioranza degli studi empirici indichi che in genere sgravi fiscali sono più efficaci che aumenti di spesa per rilanciare l'economia. Ad esempio, una ricerca pubblicata già dieci anni fa su Economic Policy (Alberto Alesina e Silvia Ardagna, ottobre 1998) esaminava tutti i casi di forti stimoli di bilancio nei Paesi Ocse sin dai primi anni 60: il risultato era che le espansioni dal lato delle imposte rilanciavano la crescita più di quelle dal lato della spesa. E Christina Romer (una delle economiste nel team Obama) in un recente lavoro con David Romer ha confermato che negli Stati Uniti gli sgravi fiscali sono stati più efficaci degli aumenti di spesa per stimolare la crescita.
Ecco, allora, che la preponderanza di aumenti di spesa rispetto a tagli fiscali nel pacchetto di Obama preoccupa. Soprattutto perché alcuni dei programmi di spesa non avranno effetto immediato e quelli legati alla tutela ambientale mescolano il breve periodo (la crisi) con il lungo periodo (la politica ambientale) in un modo che ne complicherà l'attuazione riducendone la rapidità di effetto.
Ma forse la seconda domanda è ancora più cruciale. Le famiglie americane sono indebitate moltissimo. In questo momento sgravi fiscali sul reddito familiare sarebbero molto probabilmente destinati al risparmio anziché ai consumi. In fondo, una delle ragioni di questa crisi iniziata dai mercati finanziari era appunto l'eccessivo indebitamento degli americani. Prima li si accusava (forse a ragione) di consumare troppo, ora è difficile chiedere loro di consumare ancora di più per far uscire il mondo dalla crisi.
Certo, se i consumatori cinesi e tedeschi cominciassero a consumare di più sarebbe tutto di guadagnato, ma purtroppo questa non è una variabile che l'amministrazione Obama possa controllare. Quello che il nuovo presidente può fare è preoccuparsi dei mercati finanziari americani, dove la crisi è nata e continua. Basta guardare allo spread tra i titoli del Tesoro e le obbligazioni meno rischiose (tripla A). Tradizionalmente questo spread è di circa mezzo punto percentuale, oggi è di 4 punti e mezzo.
Nonostante i bassi tassi d'interesse sui titoli di Stato, quindi, le imprese trovano l'accesso al credito costoso e questo riduce i loro investimenti. I tagli fiscali andrebbero quindi indirizzati alla ripresa del flusso del credito e agli investimenti delle imprese. Il 2009 e forse anche il 2010 saranno anni difficili per le aziende. Incentivi fiscali temporanei, che spingano le imprese a non posporre investimenti, servirebbero a sostenere domanda aggregata e occupazione.
Servirebbero anche altri incentivi fiscali che incoraggino gli investitori ad assumersi una maggiore dose di rischio. Per esempio, la crisi borsistica ha fortemente ridotto i fondi che gli americani avevano accumulato per le pensioni. Si potrebbero detassare ulteriori contributi a questi fondi a condizione che siano investiti in titoli rischiosi, così da ridurre il premio per il rischio pagato dalle imprese.
La mancanza di fiducia e il pessimismo sono tra le cause della gravità della crisi. La leva fiscale va usata per contribuire a un ritorno della propensione al rischio, sia da parte di creditori sia dei debitori. Questi incentivi devono valere per tutti, non per questo o quel settore.
Dal lato dalla spesa, e questo in parte il piano di Obama lo fa, vanno aumentati i trasferimenti sociali ai disoccupati, cioè a coloro che soffriranno temporaneamente delle ristrutturazioni di vari settori industriali. È molto meglio lasciare che le imprese utilizzino la crisi per ristrutturarsi, piuttosto che aiutarle a sopravvivere con sussidi. Le aziende ristrutturate saranno in grado di far ripartire l'economia. Quelle decotte no: possono solo trasformare una severa recessione in una lunga depressione. Da questa crisi si può uscire solo ricreando fiducia nel mercato. Su questo fronte il piano fiscale di Obama fallisce.
Farà di meglio il piano casa? Il lato positivo è che aiuta alcune famiglie in temporanea difficoltà a evitare il default. Ma spinge le agenzie Fannie Mae e Freddie Mac (e quindi il Governo) ad assumersi un grosso rischio immobiliare, non risolvendo il problema fondamentale: una fetta consistente di famiglie ha un mutuo più elevato del valore della casa e rischia di abbandonarla da un momento all'altro. Tanto nella legge fiscale come nel piano casa la strategia sembra quella di coprire i problemi gettandoci sopra i soldi dei contribuenti, invece che risolverli.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

TESORO USA POTREBBE ACQUISTARE FINO AL 40% CAPITALE CITIGROUP

23 Febbraio 2009 08:24 NEW YORK - di WSI
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Le autorità statunitensi stanno studiando la nazionalizzazione parziale del colosso finanziario. Lo rivela il Wsj nella sua edizione online.
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
Le autorità Usa stanno studiando la nazionalizzazione parziale di Citigroup. Lo ha scritto il Wall Street Journal nella sua edizione on-line, sostenendo che lo Stato dovrebbe rilevare tra il 25 e il 40% dell'istituto. «È possibile che le trattative falliscano - scrive Wsj - ma il governo potrebbe trovarsi in mano fino al 40% delle azioni ordinarie di Citigroup. I dirigenti della banca sperano che la quota della quale si approprierà lo stato sia attorno al 25%».
Le voci su una nazionalizzazione circolavano già la scorsa settimana sia per Citigroup che per Bank of America, entrambe già ricapitalizzate nei mesi scorsi per circa 45 miliardi di dollari ciascuna. La scorsa settimana le azioni di Citigroup hanno accusato un tonfo del 41% e quelle di Bank of America del 31%. Wall Street Journal ha interpellato il portavoce di Bank of America, che ha dichiarato che l'istituto di Charlotte (Caroline del Nord) non ha intavolato discussioni per un eventuale ingresso nel capitale da parte del governo. «Non vediamo alcuna ragione per tale operazione», ha detto il portavoce di Bank of America al quotidiano. Secondo l'autorevole giornale lo Stato potrebbe trasformare gran parte delle azioni 'preferred', senza diritto di voto, in azioni ordinarie. Tale prospettiva era già circolata in Borsa nei giorni scorsi e aveva fatto precipitare le quotazioni.
Wall Street Journal ha precisato che al momento le discussioni stanno avvenendo tra i responsabili della Fed e le altre autorità di regolamentazione. In un secondo momento il progetto sarà poi presentato all'amministrazione del presidente Barack Obama. Per altro proprio venerdì scorso sia la Casa Bianca che il Tesoro avevano sostenuto un sistema bancario privato. «L'amministrazione continua a credere fermamente che un sistema bancario privato rappresenti la soluzione per sopravvivere», ha detto il presidente.
Uno 007 per controllare il piano di aiuti. Oggi il presidente americano Barack Obama dovrebbe nominare Earl Devaney a capo di una squadra di superispettori del ministero dell'Interno con un compito ben preciso: controllare che i finanziamenti federali decisi dal piano di stimolo vengano regolarmente ed effettivamente spesi, e che sia garantita la assoluta trasparenza di ogni operazione. Devaney è un ex agente dei Servizi Segreti e sarà il responsabile dell'organismo preposto al controllo del corretto utilizzo del piano di stimolo economico da 787 miliardi varato la settimana scorsa dalla Casa Bianca. La decisione vuole essere una sorta di replica alle critiche crescenti che gli arrivano dal fronte repubblicano e che lo accusano di aver dato vita a un piano che, anziché rilanciare l'economia, è destinato al contrario a sprecare un fiume di denaro. Come ispettore generale del ministero dell'Interno, Earl Devaney è stato a capo di indagini che hanno portato a scoprire diversi scandali. Fino al 1991 aveva lavorato nel Secret Service.
La tassa di solidarietà per tagliare il deficit. Obama dovrebbe formalizzare la nuova nomina nel corso di un vertice sulla "Responsabilità fiscale" con Joe Biden, membri del Congresso e altri gruppi. Nel vertice si parlerà della proposta di Obama di introdurre una tassa di solidarietà per i redditi superiori a 250mila dollari annui per ridurre il deficit statale.

 

 

 

CRISI BANCHE, NUOVO INTERVENTO DEL GOVERNO

23 Febbraio 2009 15:05 NEW YORK - di WSI
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Documento congiunto del Dipartimento del Tesoro, Fed, FDIC. Il governo assicurera' che capitalizzazione, liquidita' e solvibilita' degli istituti bancari siano sufficienti per rilanciare la crescita economica. Il nuovo programma...
Il governo garantira' che le banche abbiano il capitale e la liquidita' sufficienti per offrire il credito necessario a rilanciare la crescita economica.
"Per facilitare un recupero deciso e duraturo dell'economia serve un sistema finanziario forte, resiliente, pertanto il governo Usa si schiera fermamente al fianco del sistema bancario durante questo periodo di difficolta' finanziarie, per assicurare che sia in grado di svolgere le sue funzioni creditizie primarie verso aziende e famiglie", si legge nel comunicato congiunto pubblicato da Dipartimento del Tesoro Usa, FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation), Ufficio di Controllo Valutario, l'Ufficio di Supervisione dei Risparmi e il Board della Federal Reserve.
"Inoltre confermiamo il nostro impegno nel preservare la solvibilita' degli istituti finanziari piu' importanti a livello sistemico, affinche' siano in grado di rispettare i loro impegni", prosegue il comunicato.
Il programma prevede che vengano valutate le necessita’ a livello di capitale dei principali istituti bancari Usa a fronte delle sempre piu’ difficili condizioni economiche.
"Se ci dovesse essere il bisogno di un’iniezione di capitale ulteriore, faremo si che gli istituti abbiano l’opportunita’ di rivolgersi in prima battuta ai capitali privati. Altrimenti, l’ammontare di capitale provvisorio necessario verra’ messo a disposizione dal governo", dice la nota, precisando che questo non implica che il cuscinetto di capitale verra’ mantenuto per sempre.
"Al contrario, e’ pensato per offrire un cuscinetto contro perdite future maggiori del previsto, dovessero verificarsi a causa di condizioni economiche piu’ difficili, e per sostenere i prestiti alle persone".
Qualsiasi nuovo capitale sara’ messo a disposizione dal governo in forma di azioni privilegiate convertibili vincolanti, che verranno convertite in azioni comuni solo se ce ne sara’ bisogno, nel tentativo di mantenere le banche in una posizione liquida stabile e potra’ essere rititrato quando le condizioni finanziarie saranno migliorate prima che la conversione diventi obbligatoria.
"Siccome la nostra economia funziona meglio quando gli istituti finanziari sono gestiti bene nel settore privato - conclude il comunicato - il programma Capital Assistance e' pensato per far si che le banche rimangano in mani private".

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

OBAMA PRESENTA LA FINANZIARIA, IL DEFICIT SCHIZZA A $1750 mld

26 Febbraio 2009 16:35 NEW YORK - di WSI
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Il presidente degli Stati Uniti ha presentato la bozza della "finanziaria" per il prossimo anno fiscale: una manovra economica da $3600 miliardi, per cui e' previsto un deficit pari al 12.3% del Pil, il maggiore dalla Seconda Guerra Mondiale.
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha presentato la bozza della "finanziaria" per il prossimo anno fiscale, il 2010, che inizierà il prossimo 1 ottobre: si tratta di una manovra economica in 134 pagine da oltre 3.600 miliardi di dollari. Il documento finale, molto più ampio, è atteso tra la metà e la fine di aprile. È previsto un deficit di 1.750 miliardi, pari al 12,3% del Pil, il maggiore dalla seconda guerra mondiale. Il documento, ha spiegato il presidente, «dà conto in modo onesto di dove siamo e dove intendiamo andare».
Il budget - ha detto Obama - non nasconde tutta la gravità della recessione in atto e vuole «offrire chiarezza su come viene speso ogni singolo dollaro dei contribuenti americani». Il presidente ha promesso di tagliare gli sprechi fino a 2mila miliardi di dollari, offrendo esempi di fondi spesi male nel mondo scolastico dove numerosi programmi di occupano del medesimo obiettivo. E ha confermato la promessa fatta durante tutta la sua campagna elettorale: estendere progressivamente la copertura sanitaria a tutti i cittadini americani. Attualmente circa 46 milioni di americani sono invece esclusi da qualsiasi forma di assistenza.
Obama ha annunciato nei giorni scorsi il suo intento di abbattere il deficit federale ereditato da George W. Bush nell'arco di quattro anni portandolo a 533 miliardi nel 2013 o il 3,5% del pil. La proposta di legge che presenterà oggi, include fra le misure volte a ridurre le spese pubbliche anche la netta diminuzione dei sussidi all'agricoltura (e sarà battaglia, la misura consentirebbe risparmi per 9,8 miliardi in dieci anni), che sono del resto uno dei grandi ostacoli in sede Wto al completamento del Doha round. Ma la legge di budget prevede nell'immediato anche un aumento delle spese per centrare alcuni obiettivi chiave.
Tanto per cominciare, si accantonano 250 miliardi di dollari come «riserva» nel caso Obama decidesse di chiedere al Congresso nuovi finanziamenti per aiutare il sistema finanziario americano. Include inoltre un fondo di riserva da 634 miliardi nell'arco di dieci anni per finanziare le riforme al sistema sanitario proposte dal presidente. La somma di 1.750 miliardi di dollari include la legge di stimolo da 787 miliardi varata la scorsa settimana dall'amministrazione e gli impegni di spesa ereditati da Bush.
Obama proporrà un aumento delle tasse per i redditi più alti, per poter finanziare la promessa riforma tesa ad assicurare ad un numero maggiore di americani l'assistenza sanitaria. Gli aumenti arriveranno in forma di riduzione delle deduzioni fiscali introdotte da George Bush in favore dei redditi sopra i 250mila dollari, una piccola percentuale dei contribuenti americani. L'amministrazione poi intende fare cassa anche con il sistema di cap and trade previsto in una nuova regolamentazione in materia ambientale, attraverso il quale le compagnie si potranno pagare il diritto di superare i limiti imposti di emissioni.
La scelta di Obama di alzare ancora l'asticella degli aiuti alle banche e alla finanza ha spinto in alto anche i rendimenti dei titoli di Stato, con i bond a scadenza biennale saliti ai massimi da tre mesi (+2 punti base e rendimento all'1,11%) e i decenaali tornati oltre il 3% (massimo dal 9 febbraio) dopo avere toccato il minimi degli ultimi dieci anni lo scorso 18 dicembre al 2,04 per cento. Proprio oggi era programmata un'asta record da 22 miliardi di dollari per i titoli a scadenza sette anni.
Tornando al budget, finanziare le guerre in Iraq e Afghanistan, Obama prevede di spendere nel 2009 circa 140 miliardi di dollari e altri 130 nell'anno fiscale 2010. I costi scenderanno poi a circa 50 miliardi di dollari l'anno a partire dal 2011. Washington ha speso circa 190 miliardi nelle guerre nel 2008, ma Obama sembra intenzionato a mantenere fede al proprio impegno di ordinare il ritiro dall'Iraq nell'arco dei prossimi 18 mesi aumentando tuttavia al tempo stesso la presenza militare in Afghanistan.
Brutte nuove, intanto, dal fronte dell'economia reale. Nel mese di gennaio, gli ordini dei beni durevoli degli Stati Uniti sono scesi del 5,2% a 163,8 miliardi di dollari. Il dato, reso noto dal dipartimento del Commercio, è peggiore delle stime degli analisti, che avevano previsto un calo del 3 per cento. È stato inoltre rivisto il dato di dicembre quando gli ordini sono diminuiti del 4,6% anzichè del 3%.
Ed è ancora record per i sussidi di disoccupazione che hanno ormai superato la soglia psicologica dei cinque milioni. Il numero degli americani che percepisce ilsussidio è aumentato di 114.000 unità raggiungendo i 5,112 milioni, dopo il forte aumento segnato la scorsa settimana. Le richieste settimanali di sussidio sono salite, infatti, di 36.000 unità a quota 667.000, il livello più alto dal 1982. È stato inoltre rivisto al rialzo il dato della settimana precedente a quota 631.000 da 627.000 della prima rilevazioni.
Infine, le vendite di nuove case sono crollate del 10,2% al tasso annuo di 309mila a gennaio, livello minimo da quando le rilevazioni sono cominciate nel 1963. Il dato reso noto dal dipartimento del Commercio è peggiore delle attese degli analisti, che avevano pronosticato un tasso annuo di 330mila. Il prezzo medio delle abitazioni è scivolato del 13,5% a 201.100 dollari, minimo dal dicembre 2003.
 

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Lunedì 23 Febbraio 2009   Mercoledì 25 Febbraio 2009   Sabato 28 Febbraio 2009  
       
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  Rischi americani e rischi italiani

03 Febbraio 2009 03:55 MILANO - di La Repubblica

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Anche se la maggior parte degli esperti continua a disegnare scenari con la svolta (fine dei segni meno e inizio di quelli più) a metà dell´anno, giusto poco prima dell´estate vera e propria, gli economisti un po´ più avveduti cominciano a usare una maggiore prudenza. E a cercare di leggere i dati con maggiore attenzione. Tipico il recentissimo caso americano. A proposito dell´andamento del Prodotto interno lordo nel quarto trimestre, molti hanno detto e scritto che le cose, alla fine, sono risultate meno catastrofiche del previsto, visto che si attendeva un crollo (dato annualizzato) del 5,5% e che invece ci si è fermati al 3,8%. Ma basta leggere i numeri per vedere che tutto ciò è falso: il crollo del Pil americano, reale, è stato infatti appunto del 5,5% (e gli esperti, per una volta, possono ritenersi soddisfatti).
E´ vero che la discesa registrata è stata del 3,8%. Ma bisogna tener conto che dentro questo 3,8%, c´è il contributo dell´1,3% delle scorte (merce prodotta per sbaglio e che non è mai stata venduta, che è finita nei magazzini, dove sta tuttora) e un secondo contributo (pari allo 0,4%) della spesa pubblica. Quindi, se si tolgono le spese pubbliche e le merci prodotte per un calcolo sbagliato delle imprese (che pensavano di vendere di più), il crollo americano nel quarto trimestre è effettivamente del 5,5%. E questo dice, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la crisi degli Stati Uniti è veramente grossa e importante. Non solo.
Visto che quello che abbiamo appena spiegato, è quasi certo che anche il primo trimestre del 2009 si presenterà con risultati molto brutti. Le aziende, infatti, sono piene fino all´orlo di merci non vendute e di cui devono sbarazzarsi in fretta (rappresentano un costoso immobilizzo di capitali). Si troveranno quindi nelle condizioni di dover ridurre di molto la produzione corrente: e questo significa altri licenziamenti molto consistenti. E quindi altre buste paga in meno e altre cadute nei consumi (e, di conseguenza, nella congiuntura).
Il primo trimestre americano andrà osservato con molta cura perché potrebbe essere l´inizio di un avvitamento molto serio e difficile poi da sbrogliare. Molto probabilmente arriveranno le misure della Casa Bianca e il pericolo che si inneschi una spirale di caduta libera sarà evitato. Ma i rischi ci sono e si capisce perché il presidente Obama insista per fare presto, prestissimo. Molto probabilmente i suoi consiglieri gli hanno appunto spiegato che l´America sta correndo un po´ sul filo del rasoio e che non c´è un solo minuto da perdere. La situazione va rovesciata, a colpi di miliardi di dollari, già nelle prossime settimane. Altrimenti le aziende procederanno ai licenziamenti e poi sarà tutto molto più difficile.
Se questi sono i rischi americani, ci sono anche i rischi italiani. Qui la situazione è, in apparenza, rovesciata rispetto a quella degli Stati Uniti, ma in realtà è uguale. Se le aziende americane hanno prodotto troppo (perché non immaginavano che la congiuntura andasse così male), qui da noi le aziende hanno tirato il freno probabilmente troppo (per il timore inverso, forse). In sostanza, nell´ultimo trimestre del 2008 le nostre aziende anno ridotto la produzione del 6% (grosso modo). E non è ancora chiaro se hanno visto bene o male. Ma, al momento, il problema non è nemmeno questo.
La questione più urgente è evitare che nel primo trimestre del 2009, cioè adesso, facciano altrettanto. C´è il timore, in sostanza, che le aziende italiane (visto il clima di pessimismo che circola) finiscano per fare una sorta di overbooking negativo, cioè che esagerino nel tagliare tutto il tagliabile, nel mettere in cassa integrazione troppa gente, nel ridurre eccessivamente la produzione. Innescando in questo modo una sorta di spirale negativa che si auto-alimenta.
Si deve anche aggiungere che, nel caso che vada malissimo anche il primo trimestre, con una produzione industriale che cade del 10-12% in sei mesi, per molte aziende suona la campana del fuori gioco. In sostanza, anche qui, esattamente come in America, sta diventando essenziale imprimere subito una svolta netta nelle aspettative della gente e delle imprese. Prima che il pessimismo si mangi la gente e le imprese. Solo che in America Obama può tentare perché alle spalle ha un bilancio pubblico che gli consente ancora di lanciarsi in grandi spese e di impegnare grosse quote di reddito nazionale nel tentativo di scacciare il fantasma della spirale negativa che si auto- alimenta.
Noi, invece, abbiamo un bilancio sfondato e, soprattutto, un governo che probabilmente non si è ancora reso conto che, esattamente come e più dell´America, qui si sta correndo sul filo del rasoio. La partita italiana, quindi, è tutta aperta e va giocata adesso, con un po´ di inventiva e di coraggio, nei prossimi sessanta giorni. La svolta vera potrà avvenire a giugno o a settembre, ma il segnale va dato adesso. E deve essere un segnale concreto, solido, preciso.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

Raccolta, un 2008 con luci e ombre

16/02/2009 14.20 - di Marco Caprotti - di MorningStar
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Nel corso del quarto trimestre 2008 i deflussi dalle gestioni collettive hanno sfiorato i 41,8 miliardi di euro. Quasi 43 miliardi, secondo i dati elaborati da Assogestioni, sono i riscatti provenienti dai fondi aperti, mentre per quelli chiusi è stato registrato un risultato positivo, pari a oltre 1 miliardo di euro. I deflussi dalle gstioni di portafoglio si fermano a quota 10,7 miliardi di euro.

Alla fine del 2008 il patrimonio gestito dall’intera industria è pari a 841,4 miliardi di euro. L’83% del totale è gestito dai gruppi italiani.
Per quanto riguarda le categorie, segno positivo per i fondi immobiliari, che hanno raccolto nel corso dell’anno oltre 1,7 miliardi di euro (1 miliardo nell’ultimo trimestre). A fine 2008 i deflussi complessivi per gli hedge ammontavano a 8,45 miliardi, di cui 5,7 miliardi contabilizzati nel quarto trimestre. Nel medesimo periodo la categoria dei non classificato ha accusato deflussi per 5,8 miliardi di euro, 16 da inizio anno. I deflussi dai prodotti monetari sfiorano i 6,3 miliardi nel trimestre e superano gli 11 miliardi in tutto il 2008. Nei tre mesi di riferimento i flessibili hanno perso complessivamente 7,3 miliardi di euro e 24 da inizio anno. Per i prodotti azionari i riscatti ammontano a 4,6 miliardi, poco meno di 38 miliardi in tutto il 2008. I deflussi dai bilanciati superano nell’anno i 31,6 miliardi. Infine, gli obbligazionari perdono 72,6 miliardi di euro in tutto il 2008.
Le Gestioni collettive archiviano il 2008 con un patrimonio di 437,8 miliardi e riscatti complessivi pari a 142 miliardi. In totale 143,7 miliardi sono i deflussi calcolati per i fondi aperti, mentre per i chiusi la raccolta è positiva e pari a 1,8 miliardi di euro. Le due tipologie di prodotto chiudono rispettivamente l’anno con un patrimonio gestito (patrimonio promosso al lordo degli asset ricevuti e al netto di quelli dati in delega) pari a 398,4 miliardi di euro e 35,7 miliardi.
Negli ultimi tre mesi dell’anno scorso i deflussi dai Fondi aperti di diritto estero sono pari a poco meno di 18 miliardi di euro. In tutto il 2008 i riscatti complessivi ammontano a 61 miliardi di euro. Alla fine dell’anno il patrimonio in gestione è pari a 188 miliardi di euro. Per i fondi di diritto italiano i deflussi tornano a superare abbondantemente i 25 miliardi di euro. Sono 83 i miliardi defluiti da inizio anno. A fine dicembre il patrimonio gestito vale 210,7 miliardi di euro, il 52,9% degli asset investiti in Fondi aperti.

In tutto il 2008 i gruppi italiani hanno sostenuto deflussi superiori a 110 miliardi di euro. Il patrimonio è oggi pari a oltre 333 miliardi di euro. Per i gruppi esteri le uscite si sono bloccate a 33 miliardi di euro ed il patrimonio è alla fine dell’anno pari a 69 miliardi di euro.
Durante il quarto trimestre le gestioni di portafoglio hanno accusato deflussi globali per 10,7 miliardi di euro. Il dato sale a -58,1 miliardi da inizio anno e incide sul patrimonio gestito, che si assesta a quota 407 miliardi. La raccolta delle gestioni di patrimoni previdenziali è ancora positiva e in crescita. Nell’ultimo trimestre, infatti, gli afflussi hanno abbondantemente superato i 2,3 miliardi di euro portando il patrimonio gestito a quota 26,4 miliardi di euro. La raccolta è positiva anche per le altre gestioni che riscuotono nel quarto trimestre flussi per oltre 1,8 miliardi d euro.
Per quanto riguarda l’intero anno le sottoscrizioni sono invece negative per oltre 3,6 miliardi di euro. Il patrimonio gestito si presenta a quota 70,1 miliardi. In 12 mesi le Gpf retail hanno perso 33,9 miliardi di euro, di cui 3,4 nel corso dell’ultimo trimestre. Alla fine del 2008 il patrimonio gestito si è collocato a 36,5 miliardi di euro.
Per le Gpm retail il bilancio di fine anno mette in evidenza deflussi per oltre 13 miliardi di euro, di cui 4 miliardi nel corso dell’ultimo trimestre. Alla fine dell’anno gli asset in gestione sono pari a 72,2 miliardi. Sono, infine, pari a 7,4 i miliardi deflussi dalle gestioni di prodotti assicurativi nel corso del trimestre in esame. Il patrimonio è dunque sceso a 203 miliardi.

 

Fonte - Morningstar

 

 

 

 

 

 

  Su Lehman profeziae del giorno dopo

18 Febbraio 2009 02:22 TORINO - di *Beppe Scienza

*Beppe Scienza e' professore all'Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Matematica.

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A qualche mese dal crac della Lehman Brothers merita ritornare sull’argomento, perché ne sono uscite di tutti i colori. Lasciamo perdere i soliti campioni del senno del poi, quando io stesso non mi vanto di averlo previsto, anche se avrei qualche titolo per farlo.
Infatti già nella prima edizione del mio libro "Fondi, polizze e Parmalat. Chi è peggio?", confrontavo a fine 2003 due prestiti indicizzati all’inflazione, uno della Francia e uno della Lehman Brothers. A parte altre considerazioni scrivevo a pag. 75: "Badare al rating dello Stato francese è superfluo: alla scadenza la Francia esisterà e pagherà puntualmente i suoi debiti. Che i fratelli Lehman nel 2013 esisteranno ancora, come società, è invece incerto".
Ma ciò non significava presagire il tracollo della società nel giro di un lustro, bensì sostenere l’inaffidabilità del rating, allora tanto apprezzato da molti gestori, venditori e pretesi esperti. Vedi Angelo Drusiani che sul Sole 24 Ore scriveva: "Investire in titoli che abbiano almeno una tripla B, a livello di rating, dovrebbe rappresentare un’ottima opportunità. L’unico rischio, in questo caso, potrebbe essere quello di un calo del grado di affidabilità ma null’altro" (21-2-2002 p. 39).
Invece era chiaro già col senno del prima che poteva anche capitare qualcos’altro, come infatti accade con le Parmalat o le Lehman Brothers, quest’ultime addirittura con rating a livello A+. Il problema è che nel dare consigli ai risparmiatori il quotidiano confindustriale proprio non ci prende.
Alimentare le illusioni. Esaminiamo infatti un servizio di Federica Pezzatti apparso subito dopo l’insolvenza della Lehman Brothers. Il titolo non lascia spazio a equivoci: "Salvi i bond comprati negli ultimi 12 mesi". Essa intervista un avvocato e docente di diritto commerciale (Edoardo Spano) il quale avrebbe affermato che «la modifica del Tuf del 2005 ha introdotto l’obbligo della banca di rispondere per i bond venduti nei 12 mesi antecedenti a un default» (Plus24, 20-9-2008 p. 6). Letto ciò, molti hanno creduto di essere salvi.
Peccato che il Testo unico della finanza (Tuf) non preveda affatto un tale obbligo, tanto che viene da chiedersi se davvero il giornale abbia riportato fedelmente la risposta. In realtà il Tuf contempla all’art. 100-bis l’obbligo di rispondere in caso di insolvenza dell’emittente per gli intermediari che trasferiscano prodotti finanziari "per la durata di un anno dall’emissione" o nel caso che "essi vengano sistematicamente rivenduti nei dodici mesi successivi a un collocamento".
Quindi tutt’altra cosa. La banca risponde semmai se il titolo venduto è stato emesso da meno di un anno, non se travolto da un fallimento entro un anno dalla vendita. Restano fuori quindi tutte le Lehman Brothers comprate magari anche nel corso del 2008 ma emesse anni prima. Contrariamente al titolo del servizio di Federica Pezzatti sul Sole 24 Ore.
Senza pretendere da una testata economica italiana una qualche competenza nella materie di cui si occupa, bastava il buon senso per rendersi conto l’obbligo enunciato era assurdo. Equivarrebbe a spronare gli speculatori a comprare i titoli delle società sull’orlo del fallimento, facendo conto che alla mala parata arriverebbe l’indennizzo della banca.
Tutto troppo facile. Non s’illudano neppure i risparmiatori incastrati in polizze vita appoggiate a obbligazioni ugualmente della Lehman Brothers. Fra le associazioni di consumatori c’è infatti chi la fa molto semplice. Nel corso della trasmissione "Striscia La Notizia" del 5-11-2008 il Codacons ha presentato una soluzione bell’e pronta. La fornirebbe il decreto Bersani, che permette di recedere da polizze pluriennali anche prima della scadenza.
Peccato che tale norma non valga per le polizze vita. Al che il Codacons ha aggiunto nel suo sito che le fattispecie in questione sarebbero polizze miste, termine già poco chiaro, perché con polizze miste s’intendono in genere le polizze sia per il caso di vita che per il caso di morte. In ogni caso non c’è da sperare che basti richiamarsi al decreto Bersani per ottenere indietro i soldi dalla compagnia di assicurazione. Anzi, ciò potrebbe essere inopportuno, perché significherebbe ammettere senza riserve che tali contratti sono polizze assicurative.
Potrebbe avere più senso un’impostazione diversa. Interessante al riguardo una causa presso il Tribunale di Trani, condotta dall’avvocato Domenico Romito per una polizza unit linked della Cattolica Assicurazioni, conclusasi il 30-4-2008 con la condanna della Banca Popolare di Bari. Essa ha dovuto risarcire la risparmiatrice interessata, proprio perché è stato riconosciuto che anche per tali contratti è applicabile la normativa, più cautelativa, prevista per l’intermediazione finanziaria.
Economisti ritardatari. Ma anche i docenti universitari vogliono fare la loro brava brutta figura. In particolari quel gruppo di economisti che, raggruppati solo la sigla LaVoce.it, da alcuni anni impartiscono lezioni a dritta e a manca. Prendiamo infatti la ridicola iniziativa Patti Chiari delle banche italiane col suo elenco di obbligazioni "a basso rischio". Esso è stato oscurato il 29-11-2008, dopo aver superato il limite della decenza. Continuava infatti a consigliare obbligazioni della Lehman Brothers addirittura la mattina del 15-9-2008, quando ormai era acclarato che la società era andata a gambe all’aria.
Ma fin dall’inizio l’elenco di obbligazioni di Patti Chiari appariva in tutta la sua insulsaggine, incoerenza e anche pericolosità. Bastava un minimo di competenza in materia per accorgersene. Io stesso nel mio piccolo denunciai subito la presenza di titoli ballerini come le Cit Group 5,5% 2005, delle islandesi Kaupthing, di trappole fiscali ecc. (la Repubblica, 19-1-2004, p. 39). Tornai sull’argomento l’anno dopo per le Ford 11-5-2007, crollate in barba al preteso "basso rischio" (la Repubblica, 23-5-2005, p. 43). Ma anche Finanza & Mercati denunciò la presenza in Patti Chiari di obbligazioni Northern Rock, ormai sull’orlo del fallimento (16-9-2007, p. 1).
Invece le menti eccelse de LaVoce.it si astengono dal criticarla, finché quella lista di obbligazioni causa danni. Si fanno vivi invece non solo successivamente alla figuraccia con le Lehman Brothers, ma addirittura quindici giorni dopo la sua chiusura: è datato 16-12-2008 un intervento firmato Marco Bigelli e Stefano Mengoli. I quali però, anziché intonare il de profundis per quella ridicola iniziativa, formulano proposte per migliorarla.
Tutto questo è grave e promette male. Chi si accinge a fare fessi i risparmiatori italiani può stare sereno. Finché gli farà comodo, non arriveranno critiche dalla quasi totalità dei docenti universitari italiani. Solo quando i disastri saranno venuti alla luce, solo allora economisti più o meno autorevoli saranno pronti a dotte osservazioni, autorevoli consigli ecc.
Ridiamoci su. Per finire una citazione che è addirittura divertente. Nel suo solito stile di fornire un altoparlante ai chiaroveggenti ora di una banca, ora di una finanziaria ecc., il quotidiano dalla Confindustria intervista Paola Biraschi di Lehman Brothers. Evidentemente il Sole 24 Ore la riteneva in grado di prevedere il futuro (Plus24, 2-2-2008, p. 11), altrimenti non le avrebbe dato spazio.
Ma ecco l’attacco dell’articolo: "Il peggio? Potrebbe ancora venire. È quanto sostiene Lehman Brothers in una ricerca sul mondo del credito, con una finestra dedicata agli istituti italiani". In effetti il peggio è arrivato, ma non si è abbattuto tanto sulle banche italiane, quanto piuttosto e soprattutto sulla Lehman Brothers stessa, arrivando anche alla rapida chiusura della sua filiale italiana.
 

Fonte - Libero Mercato

 

 

 

 

  Veltroni: "mi dimetto". PD nel caos

17 Febbraio 2009 18:08 ROMA - di Corriere della Sera

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Non ci ha ripensato. Walter Veltroni nel primo pomeriggio ha confermato le dimissioni da segretario del Partito democratico presentate martedì mattina al coordinamento del partito dedicato alla sconfitta elettorale del centrosinistra in Sardegna. «Dopo una discussione di diverse ore, il segretario ha deciso di mantenere l'orientamento espresso questa mattina e di rassegnare le dimissioni da segretario nazionale del Pd», ha reso noto il portavoce del partito, Andrea Orlando.
PROBLEMA - «Se per molti sono un problema, sono pronto ad andarmene per il bene del partito», avrebbe detto Veltroni, raccogliendo il "no" del vertice del partito e l'invito a ripensarci. Ma nel primo pomeriggio le condizioni politiche per Veltroni non sono cambiate e l'ex sindaco di Roma ha confermato il suo addio, annunciando una conferenza stampa per mercoledì nella quale il vice segretario Dario Franceschini comunicherà «gli organismi dirigenti e il percorso sulla base del quale si affronterà il seguito delle dimissioni in base alle regole statutarie».
«GRAZIE» - «Possiamo essere molto grati a Veltroni per la conduzione di questi mesi», ha detto Antonello Soro, capogruppo del Pd alla Camera. «Ora il partito ha necessità dell'impegno di tutti, i passi successivi si decideranno collegialmente».
RESPINTE - I vertici del Pd avevano infatti respinto in mattinata le dimissioni di Veltroni, confermandogli piena fiducia. Il leader dei democratici aveva scelto di prendersi un po' di tempo per riflettere e decidere. La riunione del coordinamento era stata aggiornata alle 15,30 proprio per concedere al segretario un momento di riflessione. Ma Veltroni non ha cambiato idea nonostante la sua proposta di rimettere il mandato fosse stata respinta all'unanimità dal coordinamento del partito, durante il quale il segretario dei democratici avrebbe spiegato che il partito sta pagando il prezzo delle divisioni e dei continui distinguo, confessando anche di aver già fatto molta fatica a gestire quest'ultima fase.
CONGRESSO ANTICIPATO - Nessuno dei partecipanti alla riunione della mattina, racconta chi era presente, avrebbe preso in considerazione l'ipotesi di un congresso anticipato (previsto a ottobre). Anna Finocchiaro avrebbe chiesto la convocazione della direzione, non ritenendo il coordinamento la sede politica idonea per la discussione sull'analisi del dopo voto in Sardegna. È probabile, azzardava qualcuno dei big democratici, che Veltroni alla fine opti per una sorta di nuova investitura, per avere un rinnovato mandato così da ricalibrare la linea, far rientrare le critiche interne e ricompattare il partito. Invece secondo Ermete Realacci, ministro ombra dell'Ambiente del Pd, si va verso un congresso anticipato. Per il senatore Nicola Latorre, «il leader del Pd viene eletto con le primarie, su questo non si torna indietro . Ma per individuare la nuova leadership servirà un passaggio congressuale».
CACCIARI - «Veltroni faccia quello che non è riuscito a fare finora. Ha il pieno rinnovo della mia fiducia per fare un partito nuovo» è la richiesta di Francesco Rutelli, mentre secondo il sindaco di Venezia Massimo Cacciari le responsabilità della sconfitta del Pd in Sardegna non sono da attribuire né a Soru né a Veltroni. «È il Pd nel suo insieme che non va» ha detto il primo cittadino di Venezia.
DI PIETRO - Da parte sua intanto anche il leader dell'Italia dei valori, Antonio Di Pietro, tira le somme del voto in Sardegna, senza risparmiare una stilettata al Partito democratico: noi dell'Italia dei valori, sostiene l'ex pm, siamo «l'unica opposizione» rimasta nelle istituzioni e nelle piazze, che ora vuole «costruire un'alternativa al modello di dittatura sudamericana che sta portando avanti Berlusconi». «L'Idv sale e il Partito democratico scende. Ciò dimostra che quando si sta all'opposizione si fa opposizione e non si "fa ammuina". Se il Pd non decide se essere maschio o femmina, finisce per non essere nessuno», afferma ancora Di Pietro.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

  Mercoledì 18 Febbraio 2009   Mercoledì 18 Febbraio 2009   Mercoledì 18 Febbraio 2009  
       
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  Veltroni: missione compiuta, demolito il PD

18 Febbraio 2009 15:03 MILANO - di Vittorio Feltri

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Veltroni ha fatto tali e tanti danni al suo partito da meritare di rimanerne alla guida fino al completamento dell’opera: l’annientamento del Pd. Le sue dimissioni, pur previste come d’altronde la vittoria del PdL in Sardegna (vedi Libero di venerdì 13 febbraio), sono un peccato. Se fossero giunte fra quattro mesi, Walter avrebbe fatto in tempo a provocare il tracollo della sinistra alle elezioni europee, quando la conta dei voti non sarà regionale bensì nazionale, quindi conclusiva.
Nella vita bisogna accontentarsi: il lavoro di demolizione in ambito progressista compiuto dal Grande Buonista va comunque apprezzato perché ha agevolato prima l’ascesa di Berlusconi, poi il suo consolidamento a Palazzo Chigi, nonostante le divisioni nella maggioranza che impediscono al premier di governare decentemente.
In questo senso, Veltroni è stato l’uomo della Provvidenza, un Fenomeno, un eroe atteso da anni per liberare l’Italia da una mentalità contagiosa: quella degli ex comunisti e dei cattocomunisti. Il dispiacere per la sua scomparsa dalla scena è compensato dalla speranza che anche il vice, cioè quel Franceschini di origini democristiane, torni dietro le quinte del Pd e magari non ci affligga più con la sua presenza nei talk show politici televisivi.
Il medagliere di Walter è invidiabile: in anni remoti raccolse l’eredità di Massimo D’Alema, nominato presidente del Consiglio, e gli bastò un colpo di reni per portare l’allora Pds al minimo storico ponendo le premesse alla sconfitta elettorale nel 2001. Ed eccolo in Campidoglio, rifugio sicuro per chi desideri rifarsi una poltrona comoda.
Nelle vesti di sindaco, egli è riuscito in sette anni a non fare nulla di utile per la città. Converrete, ciò è straordinario; anche involontariamente in un periodo così lungo uno normale, Rutelli, ad esempio, una cosa buona l’avrebbe fatta. Lui no. Imperturbabile, insensibile alle esigenze della popolazione, sorretto da una volontà di ferro nel mantenersi sul vago non ne ha combinata una dritta. Non ha risolto un problema. Però ne ha creati a dismisura organizzando ogni sorta di scemenze e di impicci per gli abitanti, tra cui chitarrate settimanali in piazza con relativi intasamenti del traffico, notti bianche, chiasso e confusione.
Il capolavoro della sua gestione multietnica e multiculturale (impermeabile a qualsiasi forma di intelligenza) è stato il Festival romano del cinema di cui nessuno sentiva la necessità, essendoci già quello di Venezia inventato dal Duce al quale, con rispetto parlando, Veltroni avrebbe al massimo potuto lustrare gli stivali.
Abbandonata la Capitale trasformata in una sorta di Festa permanente dell’Unità, Walter Zero si accinse ad azzerare il neonato Pd partorito dalla fusione dei Ds con la Margherita. Il suo impegno nel perseguire la catastrofe si percepì immediatamente. Pensate che l’ex sindaco, in anticipo sulle primarie da cui sarebbe sortito il segretario, fu incoronato (a Torino) re dei democratici. Pronunciò, davanti a una platea plaudente, un discorso fluviale in cui affrontò anche gli aspetti più reconditi dello scibile buonista, schivando magistralmente di fornire una sola indicazione non sulle cose da fare ma su come farle.
Esaurita l’escursione verbale nel vuoto, l’oratore fu portato in trionfo.
Gli effetti delle sue amorevoli cure al partito si palesarono subito: il capo del governo, Romano Prodi, costretto alle corde dal nuovo leader, cadde come corpo morto cade. Inevitabili le votazioni dopo rituale scioglimento delle Camere. A questo punto, irrompe in campagna elettorale il neosegretario; esordisce liquidando i rifondazionisti, i Comunisti italiani e i Verdi; dichiara che concorrerà soltanto con la propria lista e incassa complimenti a iosa anche a destra, che gli danno alla testa come accade a tutti quelli che non ce l’hanno. Sull’onda dell’entusiasmo ingaggia Antonio Di Pietro, col quale - annuncia - «ci fonderemo a urne chiuse».
La mossa si rivelerà azzeccata perché ha accelerato il processo di decomposizione della sinistra democratica, con la quale il Signor Mani Pulite non ha nulla da spartire. L’esito delle consultazioni sappiamo quale è stato. Sembrava che Walter e Silvio, pur su posizioni diverse, potessero trattare allo scopo di cambiare le cosiddette regole del gioco; l’illusione durò poco. I due cominciarono ben presto a dirsene di tutti i colori.
Veltroni però negli attacchi a Berlusconi è stato sempre superato in veemenza da Di Pietro che, pertanto, ha guadagnato voti a scapito del Pd rendendo impraticabile la strada del dialogo. Inoltre il Pd non è mai stato in grado di proporre non dico una ricetta contro la crisi economica ma almeno un suggerimento di qualche concretezza. Al massimo, è sceso in piazza a urlare stupidaggini. Ovvio. Così ha perso quel pizzico di credibilità residuale avuta in passato. Il disastro era fotografato nei sondaggi ed è stato confermato dalle prove elettorali: frana in Abruzzo e frana in Sardegna. Tralasciamo di mettere il dito nella piaga napoletana.
Berlusconi, lo abbiamo scritto più volte, dovrebbe erigere un monumento a Veltroni. Grazie a lui non ha più avversari se non all’interno della propria coalizione.
Quanto a Soru la batosta se l’è andata a cercare. Uno che si dimette da governatore e, dieci giorni più avanti, si ricandida nella stessa regione autocertifica la propria inadeguatezza a guidare non solamente un ente pubblico, ma anche un tram. Lui e Walter formano una coppia di sprovveduti da fare quasi tenerezza.
Indirettamente Silvio, impareggiabile propagandista di se medesimo, per la prima volta, oltre a riportare l’ennesimo successo, ha risolto in Sardegna un conflitto di interessi: quello di Soru.
 

 

Fonte - Libero

 

 
 

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