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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Crisi creditizia & Governative Bond

Ma il BOT può fare crac ?

Strategie di portafoglio

Per superare la fine del mondo, tanto cash, fino a ...

Borse & Mercati - Sentiment

Wall Street ha in serbo effetti speciali

Paesi emergenti - Brasile

Latam, il Brasile preoccupa

Borse & Mercati - Sentiment

I gestori provano a essere meno pessimisti

Crisi creditizia & altri mercati - Arte

Crolla a candela il mercato dell'arte

Borse & Mercati - Sentiment

Strategie su come limitare il pessimismo

Borse & Mercati - Sentiment

Ecco quanto ci vorrà per uscire dalla crisi

Crisi creditizia - Previsioni guru

Credit crunch: livelli anomali, l'allarme di Greenspan

   
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+++   ANSA   +++   04 Febbraio 2009 11:00 ROMA - CRISI: PERICOLO GUERRE COMMERCIALI, SI ACCENDE OVUNQUE IL DIBATTITO   +++   05 Febbraio 2009 18:09 - Borsa Usa a massimi seduta su voci sospensione mark-to-market   +++   20 Febbraio 2009 15:35 NEW YORK - WALL STREET: VIOLATI TUTTI I MINIMI, ALERT SELL-OFF   +++   ANSA   +++
 
  Martedì 03 Febbraio 2009   Venerdì 06 Febbraio 2009   Martedì 10 Febbraio 2009  
       
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GR1 RAI - 02 FEB ore 22:00

   

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GR1 RAI - 05 FEB  ore 22:00

   

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GR1 RAI - 09 FEB  ore 22:00

   

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  Ma il BOT può fare crac ?

01 Febbraio 2009 16:32 ROMA - di Maurizio Maggi

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Faranno davvero a gomitate, i governi del mondo occidentale, per piazzare i titoli di Stato e rastrellare i soldi necessari per portare aiuto ai sistemi finanziari e alle economie in difficoltà? Sono recepiti come gli investimenti più tranquilli e sicuri, i Bot, i Btp e gli altri, eppure cresce il numero di coloro che, conti alla mano, temono che nel 2009 qualche Paese potrà non riuscire a farsi prestare tutti i soldi richiesti ai risparmiatori e agli investitori; oppure che sarà costretto a pagare quel debito molto di più di quanto non facciano, per esempio, la Germania e gli Stati Uniti.
L'Italia entra sempre più spesso negli elenchi degli Stati in cui il rischio-Paese è considerato in aumento. Per ora, solo in teoria. Però il rischio cresce. Nell'area dell'euro, solo per rifinanziare il debito in scadenza, le emissioni statali previste sono di quasi 300 miliardi di euro nel primo trimestre dell'anno. Nell'intero 2009 gli Stati Uniti inonderanno il globo con 2 mila miliardi di dollari dei loro Treasury Bond, pari - al cambio attuale - a oltre 1.500 miliardi di dollari.
Non tutti gli Stati, però, pagano allo stesso modo i denari chiesi in prestito. Tanto che persino nei capannelli fuori dai bar e negli uffici si sente sempre più spesso parlare del celebre 'spread', il termine inglese che indica il differenziale tra gli interessi che gli Stati riconoscono a chi sottoscrive i titoli emessi.
In Europa, a guidare il gruppo è la locomotiva tedesca: il differenziale che viene preso in considerazione come indicatore più attendibile e importante è quello tra i titoli decennali a cedola fissa e gli omologhi tedeschi (Bund). Ebbene, dopo essere stati molto vicini, ora gli spread tra il rendimento del Bund e i suoi concorrenti dell'Europa più in affanno - oltre all'Italia, del gruppetto fanno parte il Portogallo, l'Irlanda, la Grecia e la Spagna - ha iniziato ad allargarsi sensibilmente da quando la crisi della finanza mondiale è esplosa, nell'autunno scorso. La punta massima, per ora, è stata toccata il 15 gennaio, a quota 1,52 (un anno fa viaggiava intorno a 0,36: in 12 mesi, la forbice è quadruplicata).
Morale: il Btp decennale al risparmiatore italiano garantisce, ai prezzi attuali, una redditività lorda del 4,44 per cento, che scende al 3,88 per cento netto (i titoli di Stato sono tassati al 12,50 per cento). L'equivalente buono con scadenza fra dieci anni emesso dal Tesoro tedesco rende l'1,46 per cento in meno. Molti osservatori e analisti sono sicuri che, sospinti dall'affollamento di offerta, i tassi siano destinati a risalire, tornando nettamente sopra il 5 per cento nel giro di un anno. E anche se per marzo è attesa un ulteriore limatura dei tassi da parte della Banca centrale europea guidata da Jean-Claude Trichet, all'ultima asta dei Btp a cinque anni, è stata notata una certa latitanza da parte degli investitori istituzionali. "Sono convinti che nel brevissimo periodo i tassi dei titoli di Stato italiani siano destinati a salire e quindi aspettano la prossima asta per spuntare un rendimento migliore", commenta Claudia Segre, responsabile del reddito fisso di AbaxBank.
Lo spalancarsi della forbice può rappresentare un'attrattiva per il risparmiatore-investitore, ma è un incubo per l'emittente. Le ricadute negative sono di due ordini: il debito diventa più costoso rispetto a quello degli Stati che esibiscono una situazione finanziaria più sana, e si insospettiscono i mercati che, se gli spread si allargano troppo, possono iniziare a nutrire dubbi sulle capacità di ripagare il debito.
Prendiamo la Grecia. È l'unico Paese su cui da qualche settimana circolano le prime voci, respinte con forza sia ad Atene che a Bruxelles, su una eventuale uscita della Grecia dall'euro. Un'ipotesi teorica, certo. Ma nessuno ha mai accennato l'eventualità che la Francia o l'Austria abbandonino la divisa unica. E l'agenzia Standard & Poor's ha abbassato il rating, cioè il voto sull'affidabilità di Atene, fino al penultimo scalino al di sopra dei titoli spazzatura: A-. Le tensioni sullo spread del paese mediterraneo iniziano ad allungarsi sull'Italia, che dopo la Grecia (già arrivata a quota 2,50 per cento) è quello con lo spread più alto rispetto al Bund decennale.
Per colpa dell'immenso stock di debito esistente e delle lacunose prospettive di rilancio economico, persino due Paesi che certo non godono di grande salute finanziaria, come la Spagna e il Portogallo, hanno un differenziale migliore di quello dei nostri Btp decennali: è pari infatti all'1,20 per cento lo spread dei Bonos emessi dal Tesoro di Madrid e all'1,30 per cento quello dei titoli di Lisbona. Il Tesoro italiano ha emesso 188 miliardi di bond l'anno scorso e ne emetterà almeno 240 miliardi nel 2009, con un incremento del 28 per cento. La macchina può davvero incepparsi?
"Rispetto a un anno e mezzo fa, quando l'ipotesi di avere problemi nel collocare titoli e ogni accostamento alla crisi argentina non sarebbe venuta in mente a nessuno, ora gli spread in aumento dimostrano che qualcuno è disposto a credere a uno scenario così cupo", sostiene Luigi Guiso, che insegna economia all'European University Institute di Firenze e ricorda che prima di fallire, il paese sudamericano era arrivato ad avere uno spread del 3,5 per cento rispetto a quello dei paesi meno rischiosi del continente americano. Aggiunge Guiso: "La vera incognita è l'effettivo impatto della recessione sui bilanci delle banche. Se sarà forte, ciò danneggerà ulteriormente lo stato di salute dell'economia italiana, e allora il Prodotto interno lordo potrebbe anche calare più del 2 per cento immaginato dalla Banca d'Italia".
 

Fonte - L'espresso

 

 

 

 

 

 

Le obbligazioni ad alto rendimento

Monday, 1 Feb, 2007 at 11:57 - by phastidio
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Il mercato dei Junk Bond, letteralmente titoli spazzatura, sta vivendo un momento veramente d’oro: ad ottime performance si accompagna uno sviluppo sempre più rapido che in pochi anni ha portato il giovanissimo mercato europeo delle obbligazioni ad alto rendimento a ritagliarsi un ruolo sempre più importante nel panorama finanziario globale.
Seppur ancora lontano dall’aver raggiunto la piena maturità e dagli standard che caratterizzano il mercato americano, anche nel vecchio continente la liquidità su questi strumenti inizia ad essere abbastanza buona e si è raggiunto finalmente un sufficiente grado di diversificazione settoriale all’interno del comparto.
Un ruolo decisivo in questo processo lo ha giocato e continua a giocarlo lo sviluppo dei derivati di credito e più in generale tutta la nuova l’ingegneria finanziaria legata ai prodotti strutturati che permettono di “impacchettare” il rischio di credito in strumenti più o meno sofisticati.
Prima di avventurarsi in approfondimenti più squisitamente tecnici e in qualche considerazione sulle dinamiche del mercato, vale probabilmente la pena di cercare di approfondire la conoscenza con questo microcosmo che come detto continua a crescere sia in termini dimensionali che di importanza.
Innanzitutto, cosa intendiamo esattamente per Junk Bond?
Convenzionalmente sono considerate obbligazioni High Yield tutti quei bond il cui rating è inferiore alla BBB- (per l’Agenzia Standard& Poors) e a Baa3 (per Moody’s).
La vera discriminante quindi nella classificazione delle obbligazioni societarie è rappresentato dal livello di rating, che ricordiamo offre una indicazione sul livello di affidabilità dell’emittente.
Emissioni oblligazionarie caratterizzate da un rating speculativo sono quindi classificate come High Yield Bond, ovvero obbligazioni ad alto rendimento.
Scendendo nella scala di rating diminuisce, ceteris paribus, il grado di solvibilità ex ante dell’emittente e quindi il maggiore grado di rischio viene compensato da un extrarendimento rispetto ai titoli meno rischiosi. Junk bond oppure High Yield sono quindi nomi diversi usati per riferirsi ad un medesimo strumento, con definizioni che pongono l’accento rispettivamente sulla bassa qualità del credito il primo e sugli alti rendimenti promessi il secondo.
Tecnicamente, è definito spread il premio richiesto dagli investitori per detenere titoli emessi da società che sono maggiormente esposte al rischio di default, ovvero al mancato rimborso del capitale: il termine di confronto per il calcolo di questo extrarendimento normalmente è rappresentato dai titoli governativi privi di rischio come i Bund tedeschi o i T bond americani.
Sempre a livello di classificazioni convenzionali, quando lo spread di una particolare emisssione raggiunge i 1000 punti base, si parla di distressed bond, sottocategoria del comparto High Yield in cui normalmente sono attivi Hedge Fund specializzati: in questo tipo di investimento il focus si sposta dall’analisi del credito tradizionale ad un approccio maggiormente incentrato sulla ristrutturazione aziendale, ambito in cui anche aspetti più prettamente legali possono giocare un ruolo centrale.
Gia da queste primissime battute risulta evidente come l’intera analisi di questi titoli ruoti intorno all’equilibrio tra il rischio ( grado di solvibilità dell’emittente, in qualche modo sintetizzato dal rating) e l’extra rendimento offerto dal titolo.
Scopriamo quindi come nella realtà non esistono titoli spazzatura: esistono solo titoli caratterizzati da un maggiore o minore livello di affidabilità creditizia.E’ importante sottolineare come il guardare ad un solo aspetto può esser fuorviante: infatti per valutare la bontà di un investimento va necessariamente preso in considerazione il rapporto rischio/rendimento offerto dal titolo.
Scopriamo così che negli ultimi anni l’investimento in bond spazzatura sia stato tra i più redditizi in assoluto: con una performance superiore al 60% in quattro anni, il mercato dei junk Bond ha dato risultati migliori di molti altri strumenti e/o mercati molto più blasonati.

 

 

 

Il Rublo alla Campagna di Russia

Monday, 2 February, 2009 at 14:16 - di John Christian Falkenberg
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Il rublo è sceso di nuovo ai minimi, con i partecipanti al mercato che testano la linea di difesa della banca centrale. Sic transit gloria petroleum.
L’istituto di emissione russo ha infatti annunciato che avrebbe lasciato svalutare la moneta sino a 41 rubli contro il paniere di divise a cui è ancorato. Al momento le quotazioni si aggirano intorno a 40.60, pericolosamente vicino alla soglia d’intervento.
Il test della determinazione a difendere la moneta potrebbe essere pericoloso: le riserve vlautarie russe sono state indebolite dal loro impiego per salvare - leggi: nazionalizzare - larghe parti del sistema finanziario ed industriale russo, lasciandone per la difesa della moneta solo una frazione rispetto ad un anno fa. Il crollo delle quotazioni del greggio e le ridotte forniture di gas hanno ulteriormente ridotto l’afflusso di moneta forte nelle casse di Mosca, dipendente di questi tempi dall’andamento delle materie prime né più né meno delle petromonarchie del Golfo Persico o degli altri membri OPEC, organizzazione alla quale sta guardando con malcelato interesse.
MOSCOW — The Russian ruble dropped to new lows on Monday, threatening to test the level at which the central bank has pledged to defend it.
The ruble plunged to 40.60 against a dollar-euro basket as of 1 p.m. (5 a.m. EST) — a whisker away from the bank’s outer limit on the Russian currency.
The central bank announced Jan. 22 that it would allow the ruble to drop sharply to 41 against the basket, implying almost a 10% devaluation and signaling the end to an unsettled period of gradual devaluations, but the currency didn’t drop sharply right away.
 

 

Fonte - Macromonitor

 

 

ALLACCIATE LE CINTURE, NUOVO CICLONE IN ARRIVO

03 Febbraio 2009 16:45 NEW YORK - di Bloomberg
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Le perdite legate alle obbligazioni societarie potrebbero costare alle compagnie assicuratrici piu' di quelle provocate dal buco dei mutui subrpime. Colpiti, tra gli altri, colossi come MetLife, Hartford e Prudential.
I fallimenti dei bond societari potrebbero costare agli assicuratori sulla vita statunitensi "sostanzialmente" piu' delle perdite sui titoli legati ai mutui subprime, ai mutui commerciali e Alt-A, secondo il parere di Eric Berg, analista di Barclays.
Con l'espandersi della recessione, i default societari sono destinati ad aumentare in maniera "significativa" quest'anno, dice Berg in una ricerca pubblicata ieri. Il Consiglio Americano delle Compagnie Assicuratrici sulla Vita ha stimato che l'industria, con MetLife (MET) e Prudential Financial (PRU) in testa, ha mille miliardi di debiti societari.
"Nessuna delle compagnie di assicurazioni che abbiamo studiato sembra che stia facendo un lavoro particolarmente buono" nella scelta dei bond societari, dice Berg, aggiungendo che di conseguenza "e' comprensibile che gli investitori siano preoccupati".
Sul mercato gli assicuratori hanno perso sempre piu' terreno l'anno scorso, con le perdite da investimenti che stanno erodendo il capitale. Dell'industria Hartford Financial Services Group (HIG) e' quella messa peggio, con $7.9 miliardi di svalutazioni e perdite legate al mercato immobiliare accumulati dal 2007 a oggi. Mentre da parte sua la newyorchese MetLife ha accumulato $7.2 miliardi di perdite, secondo i dati di Bloomberg.
Nel tentativo di rafforzare la posizione di liquidita' dopo le nette perdite registrate nel terzo trimestre, Hartford e Prudential hanno tagliato posti di lavoro, hanno chiesto all'antitrust di allentare le norme standard che regolano l'accesso alle riserve di denaro e hanno richiesto un aiuto al governo, nel quadro del piano di salvataggio da $700 miliardi.
Quanto a MetLife, per aumentare le proprie finanze ha deciso di vendere $2.3 miliardi di azioni lo scorso ottobre. L'indice di Standard & Poor’s delle compagnie di assicurazione sulla vita e la salute (Supercomposite Life & Health Insurance Index) ha bruciato circa il 60% del suo valore negli ultimi 12 mesi.
 

 

Fonte - Bloomberg

 

 

 

 

 

 

  Per superare la fine del mondo, tanto cash, fino a Giugno

03 Febbraio 2009 04:20 MILANO - di Ugo Bertone

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Non è la fine del mondo. Ma ci assomiglia. La ripresa? Prima o poi verrà. E il ’29 ha più il sapore dello spauracchio che non di una nemesi inevitabile. Ma, dopo un 2009 a basso regime, meglio non farsi illusioni sul 2010. Morale? Fate come me, suggerisce Giovanni Tamburi: tanto cash. Anzi, tutto cash almeno fino a giugno. Poi si vedrà. Anche se le lusinghe già non mancano: sia per il più parsimonioso gestore di private equity italiano, da sempre nemico della leva, sia per gli investitori, allettati da rapporti fondamentali (basta guardare i valori di libro) che hanno il sapore del saldo. Ma c’è tempo, spiega il più coerente allievo italiano di Warren Buffett cui, tra l’altro, Carlo De Benedetti, rinunciando a tutti i suoi incarichi operativi, ha appena affidato l’onere di guidare le strategie di M&C.
Un fantasma si aggira nei mercati: il debito. Dottor Tamburi, come ne veniamo fuori? Prendiamola alla lontana. Esistono due scuole di pensiero. Una, di cui fa parte ad esempio Alessandro Fugnoli, sostiene che non ci sarà inflazione. Ed è vero che finora la Fed e il Tesoro hanno fatto affluire capitali a fronte di asset accettati per buoni. Un’altra scuola, però, sostiene che l’azione delle banche centrali, prima o poi, non potrà che tradursi in un boom inflattivo.
Lei che ne pensa? Io mi auguro che si scateni l’inflazione: è il modo migliore, se non l’unico, perché il debitore possa far fronte ai suoi impegni.
Quindi, a lungo termine, le azioni, in quanto beni reali, dovrebbero dare soddisfazioni? Stiamo parlando di un futuro remoto. Per ora cerchiamo di vedere più da vicino: vedo segnali di ripresa per l’ultima parte dell’anno. Ma non mi faccio illusioni. Il 2010 sarà a crescita lenta. Non mi sembra realistico il quadro del neopresidente Obama che conta addirittura sul 3-5% del Pil per l’anno prossimo.
Sembra inevitabile, perciò, l’azione di sostegno dei governi. Anche di quello italiano... La realtà è che in cassa non c’è un euro che sia uno. Una realtà che è quella di sempre: o ci salvano le Pmi, le stesse che ci hanno dato da mangiare in questi anni, o per l’Italia sarà dura.
Qual è lo stato di salute del sistema? Le statistiche sono «vecchie», comunque precedenti alla crisi Lehman. Sì, nell’ultima parte dell’anno è cambiato tutto. Io ho a disposizione un campione d’eccellenza, quello delle aziende partecipate da Tip. Ebbene, anche le imprese più solide e meglio posizionate hanno dovuto confrontarsi con lo stop della domanda. Il mio consiglio? Non fate i budget prima della fine dell’anno: andate avanti, poi si vedrà.
E che si è visto? Un calo significativo. Ma non un’ecatombe. Anche perché, nel frattempo, è crollato il petrolio, l’acciaio costa assai meno. E il clima favorisce le ristrutturazioni. Insomma, un calo del fatturato del 15%, per dare un’idea, non segna un’analoga caduta del Mol. Penso che, ancora una volta, le Pmi se la potranno cavare.
O crescere? Possibile. Perché non passa giorno che banche, private equity o imprenditori alle prese con il credit crunch non presentino un dossier. Questa crisi può dare il via alla nascita di poli di settore. Ma...
Ma? È ancora presto. Mancano le coordinate per muoversi.
Non esagera? Guardiamo a Ferretti: bella azienda pronta alla quotazione. Poi, all’improvviso, scompare il mercato più promettente, quello russo. Anzi, i magnati russi sono venditori dei loro yacht. E per la Ferretti si apre un baratro.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

  Mercoledì 11 Febbraio 2009   Giovedì 12 Febbraio 2009   Domenica 15 Febbraio 2009  
       
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  Wall Street ha in serbo effetti speciali

03 Febbraio 2009 23:45 MILANO - di Marco Sabella

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L' indice S&P 500 della Borsa americana raggiungerà quota 1.100 entro la fine del 2009. Un valore che implica un potenziale di rialzo di circa il 26% rispetto alle quotazioni di oggi». È la previsione, coraggiosa, di David Kostin, strategist azionario per il mercato di Wall Street di Goldman Sachs, la grande banca d'affari sopravvissuta, insieme a pochissime altre, alla crisi epocale del sistema finanziario americano.
Kostin non nega le difficoltà e l'estrema incertezza del momento. «Non si può escludere, infatti, che nel corso del primo trimestre 2009 l'indice possa tornare temporaneamente sui minimi di 750 punti raggiunti alla fine dello scorso novembre», avverte.
Su quali elementi si basa questo relativo ottimismo? «Prima di tutto sugli effetti attesi dal piano di rilancio dell'economia, che prevede una spesa di 780 miliardi di dollari. Un intervento che prenderà la forma di una riduzione dell'imposizione fiscale, di uno stimolo alla spesa dei consumatori e che si sostanzierà nell'avvio di investimenti in grandi infrastrutture per un valore di circa 285 miliardi di dollari».
Tuttavia ci vorrà del tempo prima che questi effetti si manifestino...
«In realtà siamo convinti che il ciclo economico abbia già toccato il suo punto più basso nel quarto trimestre del 2008 con una contrazione del Pil di circa il 5%. I prossimi due trimestri saranno ancora negativi, quindi, anche per effetto del piano di rilancio, si manifesterà una debole crescita dell'1% a trimestre nella seconda metà del 2009».
Quale sarà l'impatto della recessione sui profitti delle aziende? «Il ciclo dei profitti non ha ancora toccato il fondo. Anzi, se si escludono i titoli finanziari gli utili aziendali stanno ancora continuando a salire. Detto questo prevediamo che gli utili delle imprese subiranno un calo del 20% in più rispetto alle stime, già negative, formulate dagli analisti. In pratica, considerando tutte le aziende dell'indice S&P 500 come un'unica grande società i profitti aggregati caleranno da 65 a 53 dollari per azione entro la fine del 2009».
Quali settori saranno parzialmente esenti dalla crisi? «Gli utili nel corso di quest'anno cresceranno del 4% nel comparto del largo consumo e del 3% nel settore della salute inteso in senso lato: case farmaceutiche, biotech, case di cura. Non a caso abbiamo sovrapesato nettamente questi due comporti, così come abbiamo un leggero sovrappeso anche sui materiali di base e sulle telecomunicazioni».
In pratica, ancora una volta, vincono i settori difensivi... «In realtà siamo molto attenti anche al tipo di aziende che mettiamo in portafoglio. Abbiamo per esempio una netta preferenza per i gruppi poco indebitati e con bilanci molto solidi».
Quanto pesa il tema dei dividendi? «Pesa molto perché siamo convinti che il modo in cui le imprese utilizzeranno i loro flussi di cassa farà la differenza dal punto di vista delle quotazioni di Borsa. In sintesi le aziende che saranno in grado di pagare agli azionisti elevati dividendi avranno un andamento migliore della media di mercato».
Qualche esempio? «I casi sono numerosi e vanno da Philip Morris nel tabacco, uno yield del 5,2% nel 2009, a Eli Lilly nel farmaceutico (5,7%) a Honeywell nelle tecnologie (4,9%), a Mc Donald's (3,5%). Queste società, insieme a molte altre, registreranno nel biennio 2009-2010 una crescita a doppia cifra del dividendo pagato agli azionisti».
Quali altri criteri adottate per selezionare i titoli migliori? «Preferiamo le aziende che realizzano la maggior parte del loro fatturato negli Stati Uniti rispetto a quelle orientate all'esportazione. Infatti, sebbene i tassi di crescita dell'economia nel 2009 siano più bassi negli Usa che altrove, il deterioramento delle condizioni generali è particolarmente veloce negli altri paesi, a cominciare dall'Europa».
In base a questo criterio quali società hanno il maggior potenziale di Borsa? «Pensiamo a nomi come Humana e United Health Group nella salute, Nucor nei materiali di base, At&T nelle telecomunicazioni. Tutti gruppi che realizzano dal 90 al 100% del loro giro d'affari negli Stati Uniti».
Nella scelta tra piccole e grandi capitalizzazioni qual è la vostra preferenza? «Siamo nettamente a favore delle blue chip, che possono accedere più facilmente al credito rispetto alle piccole e che sono meno sensibili alle vendite innescate dalle operazioni di ricopertura degli hedge fund».
 

Fonte - Finanza & Mercati

 

 

 

 

 

 

STRATEGIE: AZIONI AI MINIMI, I RIBASSISTI SUONANO LA RITIRATA

08 Febbraio 2009 16:40 NEW YORK - di Bloomberg
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L'S&P 500 ha bruciato il 38% del suo valore nel 2008, peggio solo nell'anno della Grande Depressione. Essere short in questo periodo di forti ribassi sembra la strategia sbagliata. "Piu' facile puntare su azioni che saliranno".
Anche i ribassisti piu' convinti stanno perdendo ogni certezza, dopo aver assistito ai cali piu' accentuati che lo Standard & Poor's 5000 abbia visto dai tempi della Grande Depressione. Il mese scorso le azioni vendute o offerte in prestito allo scoperto sul mercato americano hanno ceduto il 28% dai massimi di luglio. Le societa' facenti parte dell'S&P 500 scambiano ai livelli piu' bassi da 18 anni a questa parte. Nel frattempo il presidente Barack Obama e il Congresso stanno lavorando ad un piano da circa $800 miliardi, finalizzato al rilancio dell'economia, mentre gli speculatori vengono sottoposti alla rigida sorveglianza dell'antitrust.
Se secondo Douglas Kass di Seabreeze Partners Management e David Tice di Federated Investors c'e' ancora margine per scommettere sui ribassi di gruppi alimentari e produttori di computer, persino Marc Faber, autore del "Gloom, Boom & Doom Report", ha abbondanato le cosiddette posizioni short. Bill Fleckenstein, che aveva preannunciato la bolla immobiliare nel 2005, ha chiuso il suo fondo ribassista che aveva lanciato 13 anni fa e ha comprato azioni Microsoft.
"Per me risulta piu' facile trovare cinque titoli che penso saliranno, piuttosto che cinque azioni che scenderanno", spiega Fleckenstein, che vive a Seattle. "Essere short in questo periodo sembra proprio la strategia sbagliata". I venditori allo scoperto, che prestano e vendono azioni nella speranza di ricomprare ad un prezzo piu' vantaggioso, hanno avuto un enorme successo tra gli hedge fund l'anno scorso, quando hanno guadagnato il 28% di media, secondo i dati di Hedge Fund Research, a Chicago. Il calo del 38% che l'S&P 500 ha subito l'anno scorso e' stato il piu' marcato dal 1937. Sono solo 24 i titoli che hanno chiuso il 2008 in positivo.

Intanto il focus del mercato e' rivolto all'accordo sul pacchetto di stimolo fiscale e sul progetto "bad bank": per entrambi l'annuncio definitivo dovrebbe arrivare martedi'. Al 15 gennaio i titoli venduti allo scoperto erano 13.4 miliardi, in contrazione rispetto ai 18.6 miliardi di luglio, secondo i dati raccolti da NYSE Euronext, a New York.
Le azioni Usa scambiano in media su livelli di 15.23 volte superiore agli utili, dopo essere piombati a novembre sino ai livelli record di 15.20, sui minimi dal 1990, mostra un'analisi di Robert Shiller, professore dell'Universita' di Yale che nel 2000 aveva previsto il collasso del mercato nel suo libro "Irrational Exuberance".
"Se volessi essere short in questo mercato, ora, tenderei a muovermi coi piedi di piombo", dice Dan Veru, che gestisce circa $2.4 miliardi e puo' scommettere su ribassi e rialzi azionari come chief investment officer di Palisade Capital Management LLC a Fort Lee, New Jersey. "E' una strategia molto avventata".
Tuttavia ci sono titoli su cui scommettere al ribasso potrebbe dare frutti. Kass sostiene che i ribassisti possono ancora trarre profitti dalla crisi delle spese al consumo, che si riversera' su prodotti generici, appesantendo le azioni di Kraft, Colgate e Kellogg, ad esempio.
"Bisogna essere un po' piu' creativi", dice sempre Kass, che gestisce $200 milioni per la societa' hedge fund Seabreeze, di Palm Beach, in Florida. "Queste sono societa' il cui modello di business sara' messo in discussione sul lungo termine. Gli investitori se ne accorgeranno".
Tice, strategist del fondo Federated Prudent Bear, a Dallas, prevede che l'S&P 500 esca dimezzato dal 2009, e che i titoli tech e retail subiranno un netto ritracciamento. Il fondo, che ha registrato un balzo del 27% nel 2008, ha battuto il 96% dei suoi rivali gli ultimi cinque anni, secondo i dati raccolti da Bloomberg.
Intel, leader mondiale nella produzione di chip, potrebbe chiudere in rosso il primo trimestre, secondo quanto riferito il mese scorso dal Ceo Paul Otellini, il che metterebbe fine ad un periodo positivo che durava da 21 anni per la societa' di Santa Clara, California. I titoli technologici sono tra i piu' costosi dell'S&P 500, con la mediana dei valori che scambia a 12.4 volte i profitti.
"Molti pensano che i tecnologici andranno bene", ha detto sempre Tice, in un'intervista rilasciata Bllomberg lo scorso 5 febbraio. "Noi invece pensiamo che scenderanno un bel po'. Tuttavia le opportunita' si sono chiaramente ridotte e bisognera' avere giudizio per trarre profitti da tali strategie".
(fonte: Bloomberg)
 
 

Fonte - Bloomberg

 

 

 

AZIONARIO: PANIC-SELLING O SUPER-RIMBALZO? MEGLIO IL SECONDO

08 Febbraio 2009 14:30 BIELLA - di *Maurizio Milano
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Gli indici stanno cercando di ricostituire una base che potrebbe quindi sfociare in un forte rally nei prossimi mesi. Non e' da escludere un ritorno ai livelli di settembre. Semaforo verde alla...
*Maurizio Milano e' il responsabile dell'ufficio di Analisi Tecnica del Gruppo Banca Sella. Il documento e' rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori e clientela professionale ai sensi dell'allegato n.3 al reg. n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita' alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita' di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI)- Negli ultimi 3 mesi i principali indici azionari mondiali si sono mossi all’interno di trading range di ampiezza, a seconda del mercato, pari a circa il 15-20%. Dopo gli affondi ribassisti del mese di ottobre-novembre 2008, il comparto azionario non è ancor riuscito a mettere a segno un movimento di rimbalzo credibile. La fase di impasse in atto si presta a due interpretazioni opposte: è una pausa di distribuzione prima di un panic-selling generalizzato (che avrebbe obiettivi di discesa e tempi di recupero di impossibile previsione); oppure gli indici stanno cercando di ricostituire una base, in una riaccumulazione che potrebbe quindi sfociare in un forte rally nei prossimi mesi. Non ci sono ancora elementi grafici sufficienti per prevedere quale delle due ipotesi si verificherà. Dovendo scegliere, pare che l’ipotesi di rimbalzo sia quella più probabile.
È possibile che il mercato azionario metta a segno un rimbalzo anche ambizioso, del 30%, e che ritorni sui livelli di fine settembre 2008, precedenti al crash. Spingersi più in là con le previsioni al momento è impossibile. In prima battuta, comunque, se tale rimbalzo si verificherà, potrebbe essere un’ottima occasione di alleggerimento delle posizioni in ottica tattica, perché recuperi più ampi e sostenibili al momento paiono poco probabili. Se partirà un rally nelle prossime sedute, è probabile che sarà accompagnato da prese di beneficio sul comparto obbligazionario. Sul decennale, sia in Europa che negli Usa, poteremmo assistere ad un calo dei corsi obbligazionari di un 3-4% dai livelli correnti, e tale flusso in uscita potrebbe alimentare il rimbalzo azionario.
A livello valutario, il dollaro dovrebbe rimanere in una situazione di debolezza. Contro euro un segnale di rafforzamento per il biglietto verde, per le settimane a venire, si avrebbe solo su discese di euro/dollaro al di sotto di 1,2700 e quindi sotto il forte supporto a 1,2330 (al momento siamo a ridosso di 1,3000).
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di stabilizzazione in essere da fine dicembre – che interrompe una forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua anche per le prossime settimane. Sono possibili apprezzamenti sia del petrolio che delle altre materie prime, ed un rimbalzo dell’azionario ne farebbe aumentare la probabilità.
Il semaforo verde alla partenza dell’azionario verrebbe dal superamento dei massimi toccati a ridosso del 6 gennaio (SP500 sopra 935/45; Nasdaq Composite sopra 1650; Dow Jones Industrial sopra 9000/100; Eurostoxx50 sopra 2625; SPMib sopra 21000), oltre che da un calo della volatilità implicita. Una discesa del Vix al di sotto di 41 (e quindi un assestamento sotto 35-37) fornirebbe un buon segnale, che sarebbe confermato da una stabilizzazione del Vix al di sotto del Vxn. Ciò segnalerebbe il venir meno delle tensioni sul comparto finanziario. L’aspetto cruciale rimane infatti il ristabilimento del circuito del credito: un ritorno a regime dell’attività del settore bancario, ed un recupero delle corrispondenti quotazioni in borsa – ad oggi il settore bancario Usa è sotto di circa l’80% dai massimi della primavera 2007 –, sarebbe il segnale più importante per ipotizzare che il rimbalzo è alle porte.
 

Fonte - Gruppo Banca Sella

 

 

 

Speculatori al muro anche in Inghilterra?

Monday, 9 February, 2009 at 17:28 - by John Christian Falkenberg
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Vi sembra intelligente una proposta per cui la vostra assicuraizone potrebbe vendervi una polizza contro incendio e furto solo dopo aver dimostrato di avere già acquistato un’altra automobile identica alla vostra? E’ la nuova idea di Gordon Brown e di alcuni congressman americani.
Il nuovo piano del governo laburista inglese per fermare la discesa dei corsi di Borsa è semplice: obbligare chiunque decida di andare corto su un titolo a dichiararlo preventivamente. A quando la fucilazione per gli speculatori?
Il piano è soltanto marginalmente meno demenziale a quello previsto per i CDS da una proposta di legge presentata al Congresso USA, secondo la quale non si potrebbe comprare protezione tramite CDS se non in possesso di attività rischiose dello stesso emittente su cui si compra protezione. entrambi i progetti si limitano a nascondere la realtà sotto una coltre fumogena.

Uno della miriade di problemi tecnici è infatti simile per i due mercati. Buona parte dei volumi scambiati quotidianamente è infatti sugli indici di settore. La procedura per mantener il valore dell’indice pari alla somma delle proprie componenti è un tipo di arbitraggio relativamente semplice: si compra un paniere identico all’indice e si vende l’indice, nel caso quest’ultimo dia più costoso della somma delle parti; si vendono allo scoperto azioni (o CDS, o bond) . Il meccanismo è benefico all’intero mercato, perché garantisce che ogni notizia sui singoli titoli si rifletta sull’indice e viceversa che si possano eseguire operazioni per esprimere una opinione sul mercato in generale senza essere costretti a comprare individualmente ogni azione. Come faranno i market maker, che quotano gli indici, a gestire la propria esposizione su tale prodotto, se viene loro vietato ? Come farebbero anche i fondi comuni ed i fondi pensione, nel caso volessero tutelare gli investimenti dei risparmiatori comprando protezione su uno strumento che non li convince più?
Il problema è di natura ancora più generale: si sostiene che gli speculatori sarebebro geni della finanza, animati da intenti egoistici e malvagi e dedicati a speculare sul fallimento di aziende in crisi per poi , presumibilmente, riacquistarle una volta sull’orlo del fallimento o peggio. Dico presumibilmente, perché mancano disamine del comportamento dotate di una qualche sistematicità.
Questo punto di vista tuttavia si basa conteporaneamente su due tesi incoerenti fra loro: se gli speculatori sono geni del male, perché dovrebbero andare corti di aziende fondamentalmente sane, invece di concentrarsi sulla demolizione sistematica di quelle che effettivamente in crisi per motivi fondamentali? In questo caso, starebbero facendo opera meritoria, costringendo le aziende meno efficienti a ristrutturarsi o lasciando più spazio a quelle sane per competere. Fra l’altro, sì, non generare cassa è una grave pecca, non importa quanti dipendenti si assumano, quanti utili puramente contabili si facciano o quanto glamour sia l’attività in cui si è impegnati.
Nel caso invece non fossero così intelligenti, ma andassero controvento, perché dovremmo preoccuparci? Il tempo e investitori più intelligenti di loro ne farebbero giustizia molto rapidamente.
La realtà è che alcuni regolatori e qualche legislatore sono in preda al panico e vogliono mettere la testa nella sabbia. Accusare gli speculatori assolve due obbiettivi fondamentali: si trova un utile capro espiatorio per la folla assetata di vendetta, eliminando proprio coloro che hanno la sgradevole abitudine di affermare che il re è nudo. I nostri politici se ne accorgeranno solo quando il Re sarà fallito.
 

 

 

Uno sguardo al futuro del bailout: il caso di Shinsei Bank

Tuesday, 10 February, 2009 at 12:34 - di John Christian Falkenberg
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Nel dibattito sui piani di salvataggio e di stimolo all’economia, la parte del leone è normalmente riservata ai casi di successo, o addirittura ad un singolo caso, quello della Svezia nei primi anni 1990.
Eppure, la crisi svedese non costituisce un paragone calzante con quella attuale; meglio sarebbe osservare altre nazioni, come ad esempio il Giappone. E quello che osserivamo non è per nulla tranquillizzante.
Le caratteristiche della crisi di Tokio a partire dal 1990 sono molto differenti dalla situazione che viviamo oggi, ma alcune caratteristiche sono più vicine di quella svedese, inclusi alcuni dei provvedimenti presi per risolverla: un piano di investimenti pubblici faraonico, ogni sorta di misure per aiutare il settore bancario a sopportare la crisi nata dalla bolla immobiliare, l’obbligo per il settore bancario ad aumentare i suoi prestiti alle imprese in cambio del salvataggio dalla bancarotta, una banca centrale disposta a portare i tassi di interesse a zero e a finanziare l’acquisto a debito di qualsiasi attività finanziaria, sino all’estremo di acquistare direttamente azioni sul mercato pur di sostenere i corsi.
Nulla è servito a ridurre l’entità apocalittica della crisi, che ha devastato il bilancio pubblico e lasciato il settore privato ancora debole e perseguitato da perdite nascoste che nessuno ha avuto il coraggio di ammettere.
Dopo quasi vent’anni di tentativi falliti, ci si dovrebbe chiedere se la liquidazione, seppure dolorosa, e la conseguente ristrutturazione forzata delle banche e delle aziende insolventi non sarebbe stato meglio della legione di zombie che affligge il Giappone, risucchiando risorse prelevate dalle tasche dei contribuenti e fornendo una concorrenza sussidiata e sleale alle aziende sane, limitandone le possibilità di crescita e di creazione di posti di lavoro.
Ad esempio, Il Wall Street Journal ci ricorda il caso di Shinsei Bank, nazionalizzata nel 2000. Il governo ha seguito il corso considerato più razionale: nazionalizzazione, ristrutturazione, iniezione di capitali ulteriori, ritiro di un grosso portafoglio di mutui ed altre attività di dubbia esigibilità ad un prezzo superiore al mercato e, successivamente, la rivendita della maggioranza ad un consorzio di investitori esteri. Eppure la banca è ancora sull’orlo della crisi, nonostante la profonda ristrutturazione operata dai fondi che ne sono proprietari.
E’ vero che il Governo è riuscito a recuperare almeno una parte del suo investimento ed i prestiti di emergenza alle altre maxibanche giapponesi, ma è avvenuto a prezzo di un consolidamento che ha creato un oligopolio di fatto (di cui la stessa Shinsei, di dimensioni medie, soffre) , dove le tre banche maggiori sono ormai troppo grandi per non essere salvate dal governo in caso di crisi (un altro parallelo con gli USA).
Adesso il Giappone si trova con tassi a zero, una recessione, una deflazione ed un bilancio pubblico devastato dal debito incorso per finanziare salvataggi ed in vestimenti, andati in gran parte sprecati. Non erano meglio qualche amministrazione controllata qualche fallimento ed una serie di ristrutturazioni?
Soprattutto, chi ci garantisce che non arriveremo anche noi allo stesso punto, magari con la maledizione di una inflazione galoppante?
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

 

  Latam, il Brasile preoccupa

12/02/2009 11.43 - di Marco Caprotti

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Chi investe in America latina guarda il Brasile e incrocia le dita. La maggiore economia dell’area, spiegano infatti gli analisti, assomiglia sempre di più a un campione in disarmo e rischia di frenare l’indice Msci della regione che, anche se nell’ultimo mese (fino al 12 febbraio e calcolato in euro) ha guadagnato il 2,3% ha sulle spalle il -50,3% perso nel corso del 2008.
Fra settembre e novembre dell’anno scorso il Paese ha investito più di 46 miliardi di dollari per dare una mano all’economia a cui si sono aggiunti, a gennaio, altri 42 miliardi pompati nella sua banca di sviluppo. Nei giorni scorsi il governo ha annunciato di aver aumentato l’investimento nel suo programma accelerato di crescita (principalmente legato alle infrastrutture), portandoli dagli iniziali 62 miliardi a 280 miliardi nei prossimi due anni. “Gli sforzi per portare liquidità sul mercato e contrastare la fuga degli investitori internazionali, può aver attenuato la crisi”, spiega una nota di Morningstar. “Ma il Brasile sta ancora soffrendo. E rischia di frenare l’intera regione di cui rappresenta il motore”.
A dicembre la produzione industriale è calata del 12,4% rispetto al mese precedente: il livello peggiore degli ultimi 17 anni. A peggiorare le cose ci si è messa la bilancia commerciale che, a gennaio di quest’anno, ha chiuso con un deficit di 518 milioni di euro (dato peggiore da marzo 2001). In questa situazione era inevitabile una riduzione delle stime di crescita del Pil 2009 da parte della Banca centrale. Se prima si parlava di +2%, ora si preferisce un più cauto +1,8%. Il presidente Ignacio Lula è stato chiaro: “Attraverseremo un primo trimestre preoccupante”.
Un concetto riaffermato anche dal ministro dell’economia Guido Mantega che, tuttavia, ha escluso (almeno per ora) una recessione. “Sul Brasile sta pesando una drastica riduzione dei crediti da parte delle banche iniziata nell’ultimo trimestre dell’anno scorso”, continua la nota. “Il risultato è che le famiglie hanno ridotto i consumi”. A farne le spese in borsa sono stati soprattutto i produttori di beni durevoli. La piazza brasiliana non ha potuto contare nemmeno sulle aziende delle commodity (storico traino), piegate dal calo dei prezzi delle materie prime.
Ma se il Brasile piange, le altre grandi economie della regione non ridono. In Venezuela il ministro per la pianificazione e lo sviluppo economico Haiman El Troudi ha già anticipato che il governo sarà costretto a rivedere al ribasso le previsioni sull’andamento del Pil di quest’anno. Le stime più ottimistiche, fino ad ora, parlano di un +1%. Colpa, anche in questo caso, dell’andamento delle materie prime. In particolare del petrolio, sulla cui esportazione si basa l’economia del Paese.

Situazione difficile in Cile in cui la congiuntura, nell’ultimo trimestre dell’anno scorso ha segnato +1,1% contro il +4,8% registrato nei tre mesi precedenti. Anche in questo caso gli esperti locali di politica economica hanno dovuto rivedere le stime sul 2009: da +4,2% a +1,2% mentre si comincia a parlare apertamente di recessione.
 

Fonte - MorningStar

 

 

 

 

  Marte17 Febbraio 2009   Mercoledì 18 Febbraio 2009   Venerdì 20 Febbraio 2009  
       
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  I gestori provano a essere meno pessimisti

13/02/2009 09.34 - di Sara Silano

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Nelle risposte dei gestori all’ultimo sondaggio Morningstar si legge tra le righe un minor pessimismo, ma non è ancora il momento di essere ottimisti sulle principali Borse mondiali. Dall’indagine, condotta tra 22 delle principali case di investimento che operano in Italia, emerge che Wall Street potrebbe essere il primo mercato a stabilizzarsi, seguito dall’Europa, mentre il Giappone è ancora dominato da forze contrapposte. Nel complesso, sui mercati finanziari stanno leggermente migliorando le condizioni monetarie e del credito.

Europa, recessione severa ma non depressione
Le Borse del Vecchio continente scontano una recessione severa, che non si è ancora manifestata interamente. E’ probabile, dunque, che il flusso di notizie macroeconomiche negative continui nei prossimi mesi. L’Europa, però, non cadrà in depressione, grazie agli interventi straordinari di politica fiscale e monetaria. A questo si aggiunge la revisione al ribasso degli utili, che è destinata a proseguire, considerata la situazione congiunturale. I mercati, dunque, potrebbero toccare nuovi minimi nella prima parte dell’anno, seguiti da brevi rimbalzi. Per una ripresa più duratura bisognerà aspettare la fine del 2009. Quasi il 60% dei gestori prevede che i listini non si discosteranno significativamente dagli attuali livelli nei prossimi sei mesi, mentre il 13,6% considera possibile un’ulteriore discesa (a gennaio era quasi del 28%).

Usa, il rally può attendere
La situazione americana non è molto differente da quella europea sia dal punto di vista congiunturale sia dei mercati finanziari. Tuttavia, molti gestori sono convinti che Wall Street offra le migliori opportunità, considerato che è in una fase più avanzata della crisi economica e ha carattere più difensivo. Un nodo delicato è rappresentato dal piano di stimoli governativi messo a punto dalla nuova amministrazione, perché è ancora troppo presto per poter dire se sarà sufficiente per aiutare l’America ad uscire dalla recessione. In questo contesto, il 63,6% dei gestori prevede che la Borsa statunitense oscillerà, anche violentemente, intorno agli attuali livelli nei prossimi sei mesi. Meno del 10% si attende cali significativi (a gennaio, la percentuale era quasi doppia).

Il Giappone continuerà a deludere?
Tokyo è la Borsa che raccoglie il maggior numero di pessimisti (quasi un terzo dei gestori). L’economia nipponica è molto legata alle esportazioni e quindi risente di più della recessione globale. In particolare, c’è molta incertezza su quale sarà l’impatto del rallentamento della Cina e del sud-est asiatico. Gli analisti si attendono una discesa degli utili per l’anno fiscale 2008-09 (che si conclude a marzo) e secondo alcuni le previsioni di una ripresa nei dodici mesi successivi sono troppo ottimiste.

Ancora politiche espansive
Il presidente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, ha lasciato intendere la possibilità di un taglio dei tassi a marzo, dopo quello deciso a gennaio, che ha portato i saggi di riferimento al 2%. I gestori sono convinti che la politica espansiva continuerà. Per questa ragione, circa il 40% degli intervistati stima rendimenti in discesa e prezzi in salita. Le quotazioni saranno sostenute anche da un’ulteriore migrazione verso la qualità da parte degli investitori, almeno fino a quando non tornerà l’appetito per il rischio. I fund manager invitano alla prudenza sul mercato obbligazionario americano. I rendimenti governativi, infatti, sono ai minimi storici e non sono possibili ulteriori tagli da parte della Federal Reserve. La banca centrale statunitense, tuttavia, manterrà i tassi bassi ancora a lungo.

Il cambio divide i gestori
La percentuale di gestori che prevedono un rialzo dell’euro (36%) equivale a quella dei fund manager che si attendono un ulteriore rafforzamento del dollaro. Il cosiddetto “fly to quality” e la probabilità che gli Stati Uniti ripartano prima favoriscono il biglietto verde, mentre le politiche monetarie e fiscali espansive possono indebolirlo.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 5 e l’11 febbraio, 22 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa il 85% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Axa Im, Banca Ifigest, Banca Profilo, Bipiemme Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr, Eurizon Capital, Euromobiliare AM, Fideuram Investimenti, Henderson Global Investors, Ing IM, Investitori Sgr, Julius Baer, Maxos sim, Mc Gestioni, Mps Am, Pioneer Im, Sella Gestioni, Sgam, Standard Chartered Bank, Vontobel.
 

Fonte - MorningStar

 

 

 

 

 

 

Quando si parla di commodities, La Cina è vicina

Monday, 16 February, 2009 at 9:39 - di Macromonitor
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Le aziende di Stato cinesi sembrano disinteressate al calo mondiale della domanda di metalli e stanno approfittando del crollo delle quotazioni dei propri fornitori per acquistarne quote strategiche. Lungimiranza o pessimo tempismo?
E’ di oggi la notizia che la cinese Minmetals ha presentato un’offerta per acquistare la totalità di Oz Minerals, il secondo produttore mondiale di zinco nel mondo. L’azienda di Melbourne è la più piccola delle tre grandi conglomerati minerari australiani e la più debole finanziariamente, a causa di una politica di espansione aggressiva di sfida ai due colossi globali BHP Billiton e Rio Tinto: la bolla degli anni scorsi le ha permesso negli anni scorsi di investire pesantemente finanziandosi tramite debito a costi contenuti, ma la crisi del credito ha gettato in crisi questa strategia e la società aveva ammesso nelle scorse settimane di avere seri problemi di rifinanziamento che ne ponevano a rischio la stessa sopravvivenza. Il consiglio di amministrazione di Oz Minerals ha appoggiato all’unanimità l’offerta di Minmetals, anche se soprattutto a causa della “assenza di un’offerta alternativa”.
Quella su Oz Minerals è la seconda grande operazione cinese nel comparto minerario australiano: la scorsa settimana Chinalco, azienda statale attiva nel settore dell’alluminio, ha iniettato 19.5 miliardi di dollari in Rio Tinto, in cambio di bond convertibili in grado di portarla sino al 18% del capitale e di una quota diretta del 50% in alcune delle maggiori miniere di bauxite di proprietà del colosso minerario, che sta cercando di ridurre il peso dei propri 39 miliardi di dollari di passività.
Il deal è però incerto, a causa delle obiezioni dei grandi azionisti di Rio Tinto che lo ritengono eccessivamente oneroso e più favorevole alle strategie del management che agli interessi degli azionisti.
La strategia delle aziende di Stato cinesi sembra relativamente semplice: la fenomenale crescita dei consumi di materie prime in Cina ha giocato una parte importantissima nel boom delle commodities degli ultimi anni, un boom che tuttavia ha beneficiato soprattutto le aziende dei paesi produttori mentre ha creato notevoli problemi ai monopolisti statali delle forniture all’industria cinese, costringendoli a pagare prezzi elevati per minerali le cui fonti di approvvigionamento vengono viste dal governo di Pechino come “poco sicure”, perché da reperire sul mercato aperto.
La crisi del credito e la recessione che hanno portato ad un crollo dei prezzi dei minerali sono viste dalle entità statali cinesi come una occasione per assicurarsi il controllo di risorse strategiche in modo da evitare il rischio di nuovi colli di bottiglia alla produzione e di coprirsi dai rischi del futuro.

 

 

 

Aziende d’azzardo

Tuesday, 17 February, 2009 at 14:15 - by phastidio
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Pare che un altro degli effetti collaterali dell’eccesso di liquidità e credito in cui il mondo si è cullato negli ultimi anni sia l’aumentata propensione delle imprese non finanziarie a giocare con la finanza. Mentre in Polonia un numero crescente di aziende si dirige inesorabilmente verso il dissesto per aver speculato sul rialzo dello zloty contro euro (le cose sono andate piuttosto diversamente, come sappiamo), è di oggi la notizia che, dietro al già di per sé sospetto incremento del credito in Cina vi sarebbe l’investimento azionario.
Secondo un analista di Shanghai, fino a 660 miliardi di yuan (pari a 97 miliardi di dollari) di credito bancario avrebbero preso la via della borsa. A gennaio le banche cinesi hanno prestato un importo record di 1.620 miliardi di yuan, mentre M2, la più ampia misura dell’offerta di moneta, è cresciuta del 18,8 per cento sull’anno precedente. L’indice Composite della borsa di Shanghai è cresciuto da inizio anno del 29 per cento, a fronte di un calo del 10 per cento dell’indice Morgan Stanley World. Secondo l’analista cinese, le compagnie sarebbero riluttanti ad aumentare la produzione a causa del rallentamento della domanda ed alcune potrebbero aver dirottato fondi sul mercato azionario, per ottenere ritorni più elevati sull’investimento.
Per questo motivo la banca centrale cinese sta chiedendo ai prestatori di identificare i destinatari dei crediti erogati il mese scorso per accertare che i fondi vadano effettivamente a sostenere la crescita economica, ma per le banche potrebbe risultare impossibile identificare la destinazione ultima del credito. Nel frattempo, la settimana scorsa il volume di transazioni azionarie sulle borse di Shanghai e Shenzen ha toccato il nuovo massimo da tre anni. In sostanza, il rimbalzo delle quotazioni azionarie potrebbe essere guidato non dai fondamentali bensì dall’ampia fornitura di liquidità e dal credito facile. A indiretta conferma di ciò si cita l’andamento depresso della borsa di Hong Kong che, a differenza di quelle della Mainland China, non ha restrizioni all’investimento degli stranieri, e che da inizio anno perde circa l’8 per cento.
Se il sospetto di un boom azionario fittizio (perché indotto da liquidità) venisse confermato, il risultato finale sarebbero dissesti di aziende che hanno giocato troppo con la finanza, ed un aumento di bad loans per il sistema bancario cinese. Anche in tempi di profonda crisi come l’attuale, l’eccesso di liquidità sembra destinato a fare altre vittime.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Crolla a candela il mercato dell'arte

16 Febbraio 2009 21:08 MILANO - di Paolo Manazza

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Il verdetto delle aste londinesi di febbraio è senza scampo. Tra Christie's e Sotheby's le vendite d'arte impressionista, moderna e contemporanea conclusesi la scorsa settimana hanno raccolto 166,3 milioni di sterline. Il 65% in meno rispetto ai 470 milioni di pound incassati con le analoghe aste nel 2008.
Christie's è riuscita meglio nella politica di contenimento della crisi. Ha venduto per 94,3 milioni di sterline rispetto ai 205,2 del 2008. Mentre Sotheby's è crollata dai 264,3 dell'anno scorso ai 72 milioni di oggi. Ma questa volta le cifre non bastano a dire per intero la verità su ciò che sta accadendo. Le Evening Sale di quest'anno sia di Impressionist & Modern che di Contemporary Art, presentavano cataloghi striminziti. Con valutazioni molto al di sotto delle stime correnti sino a giugno 2008. Anche se avessero aggiudicato tutto al triplo delle valutazioni, non avrebbero sfiorato la metà degli incassi precedenti.
Per questo è necessario vedere oltre i numeri. La prima constatazione è che il crollo è stato maggiore nel segmento delle Evening Sale, le sessioni d'asta frequentate per antonomasia dai super-ricchi. Qui, la caduta è stata del 66,5%. Mentre nelle Day sale il decremento degli incassi si è fermato al -50%. Considerando che nelle Day il totale dei lotti presentati era più simile a quello dei cataloghi 2008, rispetto alla Evening, ne consegue che il segmento medio del mercato sembra giocare un ruolo propulsivo rispetto alla crisi in atto.
Detto questo siamo andati a spulciare tra gli autori italiani presenti nei vari cataloghi, per cercare di comprendere meglio le tendenze in corso.
Da Sotheby's, tra i moderni, una «Cariatide» del 1913 di Amedeo Modigliani (stimata 6-8 milioni di pound) è andata invenduta. Mentre nel catalogo Christie's «Les deux filles» dello stesso autore (stimato 3,5-5,5 milioni) è stato aggiudicato per 6.537.250 sterline.
Interessante, da Christie's, la comparazione tra i tre de Chirico presenti. Il primo, un capolavoro del '29 («Le cheval d'Agamémnon») stimato 350-450 mila pound è andato invenduto. Mentre nella Day Sale una «Natura morta» del '34 stimata 20-30 mila pound è arrivata a 46.850 e un «Cavallo con scudiere» degli anni 60, stimato 60-80 mila è andato venduto per 73.250 sterline diritti compresi. Ciò significa che il mercato è composto da acquirenti perfettamente in grado di comprendere autonomamente il prezzo reale di ogni opera. Se le stime sono eccessive il quadro va invenduto. Se sono realistiche si vende, ma aggiustando nel prezzo finale la realtà dei valori correnti. Nessuno si fa più prendere per il naso.
Nelle aste di contemporanea, da Sotheby's, un Giovanni Anselmo, stimato 40-60 mila è andato a 70.850 pound. Agostino Bonalumi, esponente storico dell'arte astratta attraverso la tecnica dell'estroflessione delle tele, era presente con un'opera del 1965 stimata 25-35 mila ma battuta a 43.250 pound. Bene Fontana che ha tenuto, al ribasso. Così come gli informali Afro e Burri. Invenduto Vezzoli.
Ma ora che accadrà nelle vendite in arrivo in Italia? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Rosa che sta lavorando sull'asta Finarte a Milano del prossimo 17 marzo. «Un riequilibrio dei prezzi e un mercato più sano e meno speculativo saranno le parole d'ordine dei prossimi mesi — ci ha detto —. Da Londra arrivano conferme sulla tenuta generale, pur in presenza di un'offerta selettiva e con valutazioni appetibili. In Italia questo andamento non è stato ancora metabolizzato del tutto. E questo finirà per limitare le transazioni anche se la domanda resta forte». Insomma, il mercato c'è. A patto che si smetta di sognare i prezzi degli anni scorsi.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

  Strategie su come limitare il pessimismo

19 Febbraio 2009 12:59 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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L’anno più buio della Grande Depressione fu il 1932. In quell’anno i cinque film più visti in America furono Shanghai Express (esotismo decadente, atmosfere trasognate e Marlene Dietrich protagonista), The Kid from Spain (un ladro americano in fuga in Spagna si finge torero per ingannare il poliziotto che lo insegue), Grand Hotel (Greta Garbo in un Art Déco movie, quelli che in Italia vennero chiamati i Telefoni Bianchi), Emma (un melodramma d’amore strappalacrime) e Tarzan the Ape Man.
Disoccupati, sfrattati e impoveriti non andavano al cinema per vedere film su sfrattati, disoccupati e impoveriti, ma per distrarsi o per avere stimoli positivi. John Ford porta Steinbeck sullo schermo con Furore, ma siamo ormai nel 1940 e gli anni terribili della grande siccità sono già storia. In questo spirito, ben consapevoli dei problemi terribili del mondo, proviamo per cinque minuti a elencare qualcosa di positivo, senza la minima pretesa di trarre conclusioni consolatorie. D’altra parte anche i fatti positivi sono fatti.
Siamo i primi a non scaldarci per la ripresa di domanda di materie prime e per il rimbalzo del Baltic Dry Index. Sono solo riordini di scorte esaurite dopo due mesi in cui non si era ordinato nulla. Ci piace di più il fatto che da settembre le vendite di auto in America siano stabili, sia pure a un livello straordinariamente basso. Per inciso, se l’industria automobilistica, sia pure con qualche aiuto pubblico (niente in confronto alle banche), riesce a sopravvivere a questa crisi, si può pensare che i suoi margini, quando un giorno la crisi finirà, saranno ben più alti di quelli degli ultimi anni. La produttività, del resto, sta continuando a crescere, mostrando un andamento molto migliore rispetto a quello delle recessioni degli ultimi decenni.
Tornando alle auto, il sito Calculated Risk ha calcolato che,dovessero le vendite di auto rimanere a questi livelli a tempo indefinito, la vita media del parco auto in America arriverebbe presto a 24 anni. Sarebbe bello per quei turisti in cerca di atmosfere rétro che vanno a Cuba a vedere le vecchie macchine americane degli anni Cinquanta amorevolmente mantenute in vita. Paul Krugman nel suo blog nota che le riprese arrivano comunque, se non altro per il fatto che le auto, i macchinari, i computer prima o poi si rompono e, se si vuole restare in produzione, bisogna riprendere a comprarne. Questa ripresa naturale, però, ci mise cinq ue anni ad arrivare tanto nel 1873 quanto nel 1929.
I concessionari di auto in America (ma il fenomeno c’è anche in Europa) notano che l’afflusso di clienti è in ripresa. Se non aumentano le vendite è perché la possibiltà di acquistare a rate praticamente non c’è più. A questo dovrebbe però porre rimedio la Talf, che Bernanke ha oggi confermato che partirà a giorni. C’è un trilione di dollari pronto ad acquistare, tra l’altro, crediti al consumo.
La Talf, del resto, fa parte di una serie ormai notevole di misure che i mercati ritengono insufficienti, ma che sono comunque pronte ad entrare in azione. I due trilioni e rotti del piano Geithner, gli 800 miliardi di stimolo fiscale, i 275 del piano casa vengono valutati zero dai mercati, ma zero non sono. Il fatto poi che si stia parlando sempre più frequentemente di Tarp 2 e di un nuovo piano fiscale per il 2010 significa che le armi per combattere la crisi non sono esaurite.
L’obiezione è, a questo punto, sulla possibilità di tenuta dei conti pubblici se davvero tutti questi incentivi dovessero materializzarsi. La paura sulla solvibilità degli emittenti anche eccellenti è arrivata al punto che c’è chi, per assicurare 10 milioni di Bund a 5 anni, è disposto a spendere in Cds 90mila euro all’anno Che fa, in 5 anni, 450mila euro buttati via se la Germania, per caso, dovesse poi rimborsare, come di solito fa.
Chi ha di queste paure potrebbe probabilmente investire meglio i suoi 450mila euro comprando oro, che fra 5 anni varrà in ogni caso più di zero. L’oro in questa fase non è comprato solo da investitori individuali, ma anche da banche centrali come quella russa. Nei prossimi due anni, comunque vadano le cose, ci sarà una parte del mercato che diffiderà della carta anche governativa. Poiché l’oro è sottopesato o totalmente assente nella stragrande maggioranza dei portafogli (inclusi quelli delle banche centrali) le prospettive dovrebbero essere positive.
Detto questo, continua a essere difficile pensare all’inflazione come a un problema per i prossimi due-tre anni. Sono interessanti, su questo, le previsioni del Fomc rilasciate oggi. Studi accademici (tra cui uno di Christina Romer che risale molto indietro nel tempo) mostrano che i membri del Fomc non sono mai stati molto bravi nel fare previsioni (sono meglio i PhD dello staff).
I loro numeri, a nostro avviso, indicano più che altro le loro paure e le loro speranze. Leggere quindi che la previsione dell’inflazione Core PCE per il 2011 è 0.0 - 1.8 per cento indica che i due falchi del Fomc, quelli che nei due anni passati ci hanno torturato sui pericoli d’inflazione e ora ci torturano sui pericoli della monetizzazione del debito, pensano che fra due anni saremo all’1.8. In pratica non hanno timori veri, fanno finta di averli.
Il tema della tenuta dei conti pubblici è stato al centro delle inquietudini dei mercati europei negli ultimi giorni, in particolare in relazione all’Irlanda (che avrà un disavanzo 2009 dell’11 per cento) e all’Europa orientale. I problemi dell’Europa orientale sono sotto gli occhi di tutti. Imprese, banche e stati nazionali hanno debiti in scadenza da rifinanziare in una fase in cui i mercati e le banche dell’Europa occidentale tutto vorrebbero tranne che mettere altri soldi a est.
La crisi è durissima, ma segnaliamo qualche elemento positivo.
1) Le economie di questi paesi, per quanto in alcuni casi quadruplicate dalla caduta del comunismo, sono ancora relativamente piccole. Il paese con il disavanzo delle partite correnti più alto è la Bulgaria (12 per cento su Pil). La Nuova Zelanda ha un disavanzo uguale e altrettanto strutturale, ma non ha problemi a finanziarlo, la Bulgaria adesso ce li ha. Il Pil bulgaro è però di 30 miliardi di euro, esattamente come quello della Saar, un ridente e microscopico Land tedesco con un milione di abitanti. Salvare la Bulgaria, la Romania (125 miliardi di Pil) o l’Ucraina (108 miliardi) non è costosissimo. La Serbia costa poco anch’essa e poi sa come tirare la cinghia dopo avere combattuto una guerra contro il mondo dieci anni fa. La Polonia ha un disavanzo delle partite correnti del 4 per cento, come l’America, e la forte svalutazione dello zloty le sta ridando competitività. La Russia, dal canto suo, sta bruciando riserve con velocità impressionante, ma ne ha ancora molte.
2) Il Fondo Monetario ha avuto finalmente i 100 miliardi promessi dal Giappone. Adesso Strauss-Kahn ha a disposizione 500 miliardi da prestare. E’ una somma importante se si pensa che finora i numerosi interventi di questi mesi del Fondo sono costati solo 50 miliardi.
3) Il ministro delle finanze tedesco si è fatto coraggio e ha affermato, per ben due volte in due giorni, che i salvataggi in Europa, dovessero essere necessari, si faranno. Questa è un’affermazione storica. E’ la prima volta, a quanto ci consta, che la Germania supera il tabù (da lei stessa imposto) del divieto di salvataggio intraeuropeo. Nella pratica l’aveva già fatto non opponendosi ai pacchetti di aiuto dell’Unione a vari paesi dell’Europa orientale, ma ora arriva anche la conferma dottrinale.
La nostra ipotesi è che la Germania, per tutti questi anni, non abbia mai escluso, dentro di sé, l’ipotesi del salvataggio di un paese in crisi e che l’abbia anzi considerata l’esito più naturale. Il fatto che si sia sempre guardata bene dal dirlo (affermando spesso anzi il contrario) è comprensibile. Tenere gli altri sulla corda è stato un modo per ridurne la propensione all’azzardo morale (cioè a spendere allegramente perché tanto alla fine arrivano i tedeschi).
A questo punto però il governo tedesco considera giustamente che costi meno concedere la garanzia (caso per caso, naturalmente, in modo da tenersi qualche strumento di pressione) piuttosto che affrontare la disgregazione di un unione politica e monetaria che non porterebbe nulla di buono all’industria e alle banche tedesche.
Operativamente, i fatti positivi di cui si è parlato dovrebbero servire più a limitare il pessimismo che a infiammare di ottimismo. L’economia globale continua a contrarsi, la fragilità del sistema è evidente e l’area degli asset tossici continua ad allargarsi. L’azionario, in quanto indicatore sostanzialmente coincidente, non sembra avere ancora la forza di risollevarsi. Il cash e una modica quantità di governativi lunghi e di corporate bond di alta qualità (con il massimo di diversificazione) rimangono la scelta migliore. Con, se si vuole, una spruzzata di polvere d’oro.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

  Lunedì 23 Febbraio 2009   Martedì 24 Febbraio 2009   Sabato 28 Febbraio 2009  
       
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MUTUI: LA CRISI ORA COLPISCE ANCHE I RICCHI

20 Febbraio 2009 17:00 NEW YORK - di Bloomberg
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Gli insolventi tra i proprietari di case di lusso crescono al ritmo piu' elevato da 15 anni. La crisi, iniziata con i "subprime", ora travolge i clienti "prime". I prestiti saranno sempre piu' difficili da ottenere e risanare.
Continua la serie di "Anche i ricchi piangono": persino i proprietari di case di lusso, infatti, stanno incontrando difficolta' a rispettare i pagamenti dei propri mutui. Le persone che accumulano debiti arretrati stanno aumentando al ritmo piu' alto da 15 anni, segnale che la crisi finanziaria Usa, partita con gli americani piu' poveri, ha raggiunto anche la parte piu' benestante della popolazione.
L'anno scorso circa il 2.57% dei contraenti di prestiti di lusso, cosiddetti jumbo, sono risultati in ritardo di almeno 60 giorni, una percentuale raggiunta in meno di 10 mesi, al ritmo piu' spedito dal 1992, secondo i dati raccolti da LPS Applied Analytics. Si tratta di un ritmo del doppio superiore al 2007 e un livello che non veniva toccato da almeno tre anni.
Il balzo della percentuale di insolvenze nei prestiti jumbo, sebbene si mantenga ben al di sotto dei livelli del 20% toccati dai mutui subprime, e' un indice evidente di come anche i mutuatari piu' ricchi stiano accusando l'impatto della recessione, ormai entrata nel suo secondo anno di vita. Significa anche che questi prestiti saranno sempre piu' difficili da ottenere e di conseguenza piu' cari da risanare.
"L'influenza maggiore nella crescita del tasso di insolvenza la esercita l'economia", osserva Keith Gumbinger, vice presidente di HSH Associates, una societa' di ricera mutui di Pompton Plains, nel New Jersey. "Sembra che nessuno sia escluso, siamo tutti coinvolti in qualche modo. Certamente la situazione e' piu' grave per alcuni, ma ormai e' piuttosto diffusa".
Il tasso di disoccupazione ha raggiunto i massimi di 25 anni a gennaio, mentre il tasso relativo all'industria finanziaria e' cresciuto al 6% dal 3% antecedente. Nella categoria dei servizi professionali e di business e' passato al 10.4% dal 6.4%, secondo quanto mostrato dai dati dell'Ufficio di Statistica del Lavoro di Washington.
Circa l'1.92% dei proprietari di case con un mutuo sottoscritto nel 2008 con Fannie Mae e Freddie Mac e' indietro di 60 giorni nei pagamenti dei prestiti jumbo, che sono molto piu' alti di quanto non possano garantire le agenzie statali, sarebbe a dire $417 mila nella maggior parte dei casi e fino a $729750 nelle aere con i prezzi immobiliari piu' elevati. La media per i mutui jumbo nel 2008 e' stata di 762, sempre secondo i dati LPS Applied Analytics. Un punteggio di questo tipo serve per misurare il rischio.
I prestiti Jumbo hanno subito un rallentamento nel quarto trimestre a 11 miliardi, ovvero il 4% del mercato immobiliare, il peggior risultato trimestrale da quando Inside Mortgage Finance ha iniziato a raccogliere i dati nel 1990. Nel 2007 i prestiti jumbo rappresentavano il 14% dei mutui Usa complessivi, secondo la societa' con sede a Bethesda, nel Maryland.
Le cinque principali aziende che offrono prestiti jumbo ai propri clienti, Chase Home Finance, Bank of America, Washington Mutual, Wells Fargo e Citigroup, insieme hanno prodotto $55.3 miliardi in mutui di lusso nel 2008. Di quella cifra, mostrano i dati di Inside Mortgage Finance, sono stati accordati prestiti per appena $4.3 miliardi durante gli ultimi tre mesi dell'anno.
Le banche sono sempre piu' riluttanti a concedere prestiti jumbo perche' vorrebbe dire mantenere riserve in denaro tali da essere sempre in grado di ripagare le eventuali insolvenze, spiega Guy Cecala, AD di Inside Mortgage Finance.
Questa settimana la media nazionale degl interessi per un mutuo jumbo a 30 anni a tasso fisso era al 6.57%, paragonata al 5.34% dei prestiti standard, secondo White Plains, societa' dati di BanxQuote, con sede a New York.
La differenza tra i tassi di interesse dei prestiti jumbo e di quelli "prime" standard, o di mutui che e' possibile anche rivendere a Fannie Mae e Freddie Mac e disponibili solo per clienti qualificati, ha toccato i 20 punti base "per diversi decenni", secondo l'AD di BanxQuote, Norbert Mehl. Ma in agosto 2007, ha aggiunto Mehl, i livelli hanno toccato la soglia dei 200 punti base, per poi mantenersi tra i 100 e i 200 punti base.

 

Fonte - Bloomberg

 

 

 

 

 

 

  Ecco quanto ci vorrà per uscire dalla crisi

23 Febbraio 2009 14:40 MILANO - di  (G. MAR.)

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«Mi aspetto anni di Quaresima, anche se non mancheranno le possibilità per investire». Alessandro Valeri, alla guida di Intermonte sim, ha appena vinto con la sua squadra di analisti il premio Institutional Investor per l'Italia, assegnato dalla pubblicazione inglese che compila una classifica dei migliori uffici studi d'Europa sulla base di oltre 1.300 interviste. Intermonte è controllata per l'80% da manager e dipendenti e per il 20% dal gruppo Montepaschi: lavora per gli investitori istituzionali, ma è anche sul fronte retail con Websim.it, il sito di consulenza online per privati.
A che punto è la crisi dei mercati? «Al momento non abbiamo nessun segnale che l'implosione della bolla creditizia sia a un punto di svolta. E finché le banche non ricominceranno a prestare denaro la crisi peggiorerà, anziché migliorare».
Ha senso preoccuparsi già oggi per un possibile ritorno dell'inflazione? I piani di stimolo hanno avuto pochissimi effetti positivi finora. O no? «Non vedo una possibilità di ripresa dell'inflazione a breve, non prima del 2011 o anche 2012. La crisi giapponese ha insegnato che quando si sgonfia una bolla creditizia di dimensioni colossali si sgonfia anche il valore di tutti gli asset, dagli immobili alle materie prime, alle Borse».
Quindi ci sono più rischi deflazionistici per ora? «La tendenza è nettamente deflazionistica: in questa situazione stampare moneta non serve a convincere le banche a prestare soldi e questo vale finché si continua a vedere un rischio molto alto che il denaro prestato non venga restituito. Prima di vedere ripartire i prezzi ci avvicineremo a un'inflazione pari a zero».
Le valutazioni dei titoli di Piazza Affari sono a sconto o a premio rispetto a quelle dei listini europei e americani? «I paragoni sono difficili. In linea di principio Milano è un po' a sconto, ma lo è sempre stato, riflettendo il "rischio Italia". Non vedo nessun indicatore che faccia ritenere che l'Italia possa fare meglio del resto del mondo, anzi...».
Da dove partirà la ripresa? Da Wall Street? «Gli Stati Uniti sono entrati per primi in recessione e saranno i primi a uscirne. Prima risalirà la Borsa americana e prima potremo risalire anche noi, probabilmente con sei mesi di ritardo».
Ci sono delle ragioni per cui Piazza Affari continuerà a fare peggio delle altre Piazze europee? «Faccio alcune semplici considerazioni purtroppo negative: l'Italia ha un debito pubblico molto più elevato e soffre di una posizione peggiore sul costo del debito che si riflette anche sulle aziende. L'alto debito pubblico rende molto difficile utilizzare la leva fiscale, come stanno facendo altri Paesi. A questo si aggiunge che il costo del lavoro per unità di prodotto è peggiorato di oltre 30 punti percentuali rispetto alla Germania dall'introduzione dell'euro e la minore flessibilità del sistema non aiuta la posizione competitiva del Paese».
Quali sono le storie da seguire in questo momento? E quelle da vendere? «Rimango ancora cauto sui finanziari. Sono positivo su pochi titoli, soprattutto utilities come Terna, Acea, A2A e qualche caso speciale. Come Parmalat che ha in bilancio liquidità per un valore pari a metà della capitalizzazione».
Si sono sprecate molte parole apocalittiche su questa crisi, che cosa servirebbe veramente per una svolta? «Non lo so. Una crisi cosi non si è mai vista e direi una bugia se dicessi di sapere qual è la soluzione. Purtroppo il mondo occidentale ha vissuto per 20-30 anni al di sopra dei suoi mezzi: temo che la vera soluzione sia il ritorno a standard meno opulenti, ovvero che sia necessaria una riduzione del benessere creato artificialmente a debito. Insomma mi aspetto anni di Quaresima».
Finanziaria ed economica? «Non mancheranno occasioni di investimento interessanti sui mercati che sono scesi del 60-70%. La Borsa magari recupera nel 2010, ma l'economia prima del 2011 non esce dalle secche. Non mi fa piacere pensarla così, ma è quello che vedo nel nostro futuro. Anche se la presenza di un leader credibile come Barack Obama alla guida degli Stati Uniti mitiga un po' le ragioni dei pessimisti».
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

  Credit crunch: livelli anomali, l'allarme di Greenspan

23 Febbraio 2009 22:30 NEW YORK - di Bloomberg

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Il mercato del credito e' congelato, come mostrano i livelli del Libor, secondo Greenspan ancora ben lontani dalla normalita'. Inutili le mosse dei governi, unica strada da seguire appare la nazionalizzazione.
Nonostante i $9.7 mila miliardi promessi da Washington per combattere la peggiore crisi finanziaria dal Dopoguerra, i mercati monetari mostrano che le principali banche del paese non rialzeranno la testa prima del 2010.
La settimana scorsa lo spread Libor-Ois si e' infatti portato sopra l'1% per la prima volta dallo scorso 9 gennaio, a conferma delle difficili condizioni del mercato del credito, che nemmeno gli sforzi economici fatti sin qui dai governi e banche centrali sono riusciti a sbloccare. I contratti scambiati sul mercato indicano che il differenziale, che misura la riluttanza delle banche a concedersi prestiti vicendevolmente, e' destinato a restare sopra i livelli precedenti il fallimento di Lehman Brothers sino alla fine dell'anno.
In un'intervista rilasciata a Bloomberg, l'ex numero uno della Federal Reserve, Alan Greenspan, sottolinea come tale indicatore possa essere considerato il barometro della fiducia nelle banche e della paura di insolvenze creditizie. "Tali timori si sono sostanzialmente placati da meta' ottobre, ma il calo si e' comunque fermato su livelli ancora ben lontati da quelli dei mercati in condizioni normali", ha aggiunto Greenspan.
Dalle analisi del Senior Loan Office della stessa Federal Reserve pubblicate il 2 febbraio scorso, segnala l'agenzia di stampa, emerge chiaramente che negli ultimi tre mesi del 2008 il 65% delle banche americane ha ristretto il credito, nonostante i massicci aiuti, dell'ordine di 200 miliardi, giunti da Washington.
Secondo le stime degli economisti interpellati dall'agenzia di stampa, la crescita economica Usa ha probabilmente subito una contrazione del 5.4% nel quarto trimestre, il peggior risultato dal 1983. Per Moody’s Investors Service la percentuale di fallimenti societari potrebbe salire al 16.4 entro novembre: si tratterebbe del livello piu' alto dalla Grande Depressione, nonche' una cifra circa tre volte superiore al tasso attuale.
Nei giorni scorsi il Senatore Christopher Dodd ha precisato che, considerando i guai che continuano ad affliggere il sistema finanziario nonostante siano stati spesi dal 2007 a oggi oltre 1.1 mila miliardi di dollari tra svalutazioni e perdite, potrebbe non restare altra soluzione se non quella di procedere alla nazionalizzazione temporanea dei maggiori istituti bancari.
"La soluzione non mi piace per niente, ma posso capire che e' possibile che si verifichi un'eventualita' del genere", ha detto il Senatore Democratico in un'intervista rilasciata a Bloomberg Television lo scorso 20 febbraio.
Citigroup, che ha ricevuto $45 miliardi di aiuti governativi, e' in trattative con i funzionari federali perche' il Tesoro incrementi la quota di proprieta' nella banca, secondo quanto riferito da fonti anonime al Wall Street Journal.
Una tensione di tali dimensioni si riflette chiaramente nello spread Libor-OIS, che misura il gap tra il tasso interbancario sui depositi a tre mesi offerto in dollari Usa a Londra e il tasso index swap sui prestito overnight (Ois), ovvero una semplice speculazione sui tassi monetari e contestualmente quello che i trader si aspettano sia la media ponderata del tasso di riferimento della Fed per i prestiti overnight tra le banche. Tale spread si e' attestato in media allo 0.11% tra dicembre 2001 e luglio 2007, prima di salire il mese successivo allo 0.73%, in seguito allo scoppio della crisi subprime.
Dopo il fallimento di Lehman Brothers, l'indicatore e' schizzato al 3.64% da circa lo 0.87%, con i timori di nuovi colassi tra i giganti del settore bancario che hanno reso gli istituti sempre piu' riluttanti a concedere prestiti. Lo spread si e' poi mano a mano ristretto sempre di piu', ma in giugno Greenspan, presidente della Fed da agosto 1987 a gennaio 2006, ha avvertito che non considerera' i mercati tornati alla normalita' finche' lo spread Libor-Ois non sara' tornato allo 0.25%.
 

Fonte - Bloomberg

 

 

 

 

 

VIOLATI I MINIMI, ALERTDA PANIC-SELLING

23 Febbraio 2009 20:52 BIELLA - di *Maurizio Milano
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Ancora una settimana difficile per le Borse. Il mercato azionario, sia negli Usa che in Europa, prosegue in un movimento laterale da oltre 3 mesi, e nell’ultima ottava si è portato al test della parte bassa di tale range.
La volatilità implicita rimane molto al di sotto dei picchi registrati durante l’affondo ribassista di ottobre-novembre 2008, ma non è più ridiscesa sui livelli pre-crisi di fine settembre, a conferma di una situazione ancora difficile. Prosegue quindi la fase di incertezza, con gli indici sospesi tra la voglia di mettere a segno per lo meno un rimbalzo tecnico e le incognite sull’evoluzione della crisi finanziaria ed economica che frenano sul nascere ogni velleità rialzista. Se gli indici rompessero i minimi degli ultimi mesi si rischierebbe una ripresa delle vendite, con una nuovo panic-selling, che spingerebbe gli indici su livelli che non di vedevano da tre lustri. Per ridurre la probabilità di questo scenario occorre una pronta risalita degli indici dai livelli critici di supporto in fase di test.
Sull’S&P500 le tensioni diminuirebbero al di sopra di 835 ma solo il superamento di 875/95 fornirebbe un segnale di moderata positività: gli acquisti per le prossime settimane riprenderebbero poi in modo convinto solo su chiusure al di sopra dei massimi del 6 gennaio a 935, al momento prematuro. La perforazione dei minimi 2008 in area 740/50 porterebbe al test del supporto psicologico a quota 700. Ancora più debole l’indice Dow Jones Industrial, che rompe il minimo del 21 novembre 2008 a 7450 e si spinge verso 7250, molto vicino al minimo toccato nell’ottobre 2002 a 7200. La rottura di tale livello provocherebbe una nuova ondata di vendite, con obiettivo 7000 ed estensioni verso 6550. Per avere un segnale di tenuta è necessaria una veloce risalita sopra 8000, ma un segnale positivo verrebbe solo dal superamento di 8300: gli acquisti riprenderebbero poi con maggiore convinzione sopra 8600/800, per un nuovo test di 9000/100, il cui superamento, prematuro, è necessario per avere un segnale di rimbalzo di più ampio respiro. Un po’ meno debole il Nasdaq Composite, che scende comunque al di sotto di 1440, livello che sosteneva le quotazioni da inizio dicembre. La perforazione di tale livello (da confermare) provocherebbe una discesa verso il forte supporto in area 1385-1400 e quindi a testare i minimi in area 1250/95. È necessaria una veloce risalita sopra 1535 per dare un segnale di tenuta. Un segnale di rimbalzo si avrebbe solo sopra 1600, con conferma su chiusure sopra 1650, al momento prematuro.
Da un punto di vista settoriale prosegue la dinamica fortemente ribassista del comparto finanziario, seguito dal settore auto e dall’immobiliare, che rimangono i comparti più vulnerabili. Difendono le posizioni i settori difensivi, come l’alimentare, o anti-ciclici come le telecomunicazioni ed il settore salute, tuttavia il quadro è sconfortante: negli ultimi 2 mesi tutti i settori dell’SP500 sono in territorio negativo, ad eccezione del comparto salute, con perdite pari addirittura al 62% per il comparto bancario e pari al 43% per l’auto. Solo una ripresa di questi due comparti darebbe al mercato la spinta per mettere a segno un rimbalzo tecnico. Un segnale positivo verrebbe poi da un calo della volatilità implicita, con discese del Vix (volatilità SP500, ora sotto alla resistenza a 51-52) al di sotto di 41. Un assestamento del Vix al di sotto del Vxn (volatilità Nasdaq) è necessario per avere una segnale che stanno diminuendo le tensioni sul settore finanziario. Fino ad allora non ci sono le condizioni per un rimbalzo degno di nota, neppure per un bear-market rally.
I listini europei denotano una debolezza ancora più marcata delle borse Usa, con il DJEurostoxx50 che scende verso il supporto psicologico a quota 2000 e registra quindi nuovi minimi. Solo una pronta risalita ed un assestamento al di sopra di 2200/50 darebbero un segnale di tenuta, altrimenti si rischia una discesa verso 2000 e quindi a testare i minimi del 12 marzo 2003 a 1848. Per un segnale di moderata positività occorre il superamento di 2360-2400, ma gli acquisti per le prossime settimane tornerebbero in modo convinto solo sopra 2500-2625, prematuro. In questo quadro desolante, il listino italiano riesce a distinguersi in negativo. L’SPMib tocca un nuovo minimo a ridosso di 15500: un segnale di assestamento si avrebbe sopra 17200 ma un rimbalzo scatterebbe solo col superamento di quota 19000, prematuro.
Sul fronte valutario, dovrebbe proseguire la stabilizzazione in atto del cambio euro/dollaro, nell’intervallo 1,2500-1,3000, mentre il dollaro potrebbe apprezzarsi contro yen se riuscirà a superare la resistenza a 95 (in fase di test).
Sul comparto obbligazionario, dopo i forti rialzi delle ultime settimane, sono possibili di prese di beneficio. Un segnale di perdita di spinta si avrebbe su discese del Bund (prezzo corrente a ridosso di 125) al di sotto di 123,75 e quindi sotto 121,55, con obiettivo 120 e quindi il forte supporto in area 116-118. Sul Treasury (decennale Usa, prezzo corrente a ridosso di 122) le prese di beneficio scatterebbero con la rottura del supporto a 121, con possibili discese verso 117.
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di stabilizzazione in essere da fine dicembre – che interrompe una forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua anche per le prossime settimane. Apprezzamenti del petrolio e delle altre materie prime scatterebbero solo nel caso parta un rimbalzo dell’azionario. Il forte rialzo dell’oro, sostenuto dal clima di generale incertezza, ha portato al test dei massimi del marzo 2008 a ridosso dell’area 1000-1033: le tensioni diminuirebbero sotto 900 ma un segnale distensivo affidabile si avrebbe solo su discese al di sotto di 845, prematuro.

 

Fonte - Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

 

 

MANHATTAN VENDESI

26 Febbraio 2009 20:00 NEW YORK - di WSI
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Il mercato delle case di lusso e' in ginocchio, stretta nella morsa del credit crunch e dei tagli al personale di Wall Street. I prezzi potrebbero scendere ancora del 30%, la Grande Mela rischia di diventare la peggiore aerea d'America.
20 Pine Street. Non tanto tempo fa poteva apparire il simbolo della rinascita della citta' di New York dopo l'11 settembre, con il suo germogliare di appartamenti disegnati da Armani, dotati di finestre gigantesche, vegetazione esotica e fontane. Dove una volta si ergeva la sede centrale di Chase Manhattan, ora c'e' una piscina e un bagno turco. Ma con tutto il dovuto rispetto per le tante virtu' dell'area, 20 Pine ora non sembra altro che una delle tante vittime del tracollo immobiliare di New York.
Ultimamente sono circolate voci secondo cui la societa' proprietaria dei 409 complessi dell'area, Boymelgreen Developers, potrebbe vendere 80 appartamenti al prezzo stracciato di $652 per piede quadrato (poco meno di $200 per metro quadrato), ovvero circa la meta' del prezzo attuale. Shvo, 36enne senza nemmeno una piccola sbavatura nel portamento e abbigliamento, riconosce l'esistenza di "20-25 offerte", alcune delle quali arrivano sino a solo $600 per piede quadrato, ma le offerte non sembrano interesserargli. "La societs' immobiliare" ha detto con tono incurante, "non e' interessata". O per lo meno non ancora. Prima e' stata la volta di Miami, Las Vegas e Phoenix. Ora e' arrivato il turno di Manhattan, il cui mercato immobiliare di lusso si sta deteriorando sempre piu'.
Con i continui tagli annunciati dalle societa' di Wall Street, i prezzi per acquistare gli appartamenti, i loft e le caratteristiche case di New York del valore superiore ai $5 milioni, stanno crollando e potrebbero scendere ancora di un altro 30% prima di toccare finalmente il fondo. Questo potrebbe trasformare la Grande Mela nel peggior mercato immobiliare degli Stati Uniti.
Tre mesi fa Barron's aveva previsto il tracollo del mercato del lusso della citta', ma non si aspettava che la situazione si facesse cosi' preoccupante, con alcuni che indicano la bancarotta di Lehman Brothers come il punto di svolta della crisi. L'economia locale arranca, con l'industria che si prepara ad altri 46 mila tagli di posti di lavoro entro l'estate del 2010. Gli investitori hanno smesso di comprare case, intenti a leccarsi le ferite subite sul fronte dell'azionario. Non sorprende dunque che anche i compratori piu' voraci, come i manager di hedge-fund, abbiano completamente perso appetito.
Ma persino con cali di questa entita', il numero di immobili rimasti invenduti si sta gonfiando. Streeteasy.com, sito Internet che fornisce un elenco esaustivo delle operazioni e delle indicazioni fornite da broker e acquirenti, mostra che tra le offerte figurano 795 appartamenti di New York al prezzo di $5 milioni o piu', in netto rialzo dai 518 di un anno prima.
In dicembre, secondo Jonathan Miller, presidente di Streeteasy.com, i prezzi sono scesi del 20% rispetto ad agosto, non facendo altro che confermare l'idea che un calo anche nei mesi successivi e' inevitabile. Non e' infatti poi cosi' insolito, oggigiorno, sentire storie di potenziali acquirenti che alzano bandiera bianca, rinunciando a pagamenti anche solamente di $500 mila, preoccupati che il prezzo dell'immobile possa scendere ancora.
Gli acquirenti preferiscono mantenere un approccio a dir poco cauto. Il numero di nuovi contratti firmati per l'acquisto di proprieta' di lusso e' calato del 40% nel quarto trimestre, riferisce Sofia Kim, direttore delle ricerche di StreetEasy. Allo stesso tempo, le proprieta' immobiliari in vendita sono aumentate del 65%. "Siamo lontani anni luce dal pieno recupero", ha sentenziato Kim.
I prezzi stanno ancora barcollando: la media dei prezzi degli appartamenti di Manhattan, calcolando tutti i livelli, e' di $1.6 milioni. La piu' cara, per quanto e' possibile sapere, e' l'enorme palazzo al 25 di Columbus Circle, meglio noto come il Time-Warner Building. L'edificio e' offerto a $65 milioni dal broker Brown Harris Stevens. Ma queste cifre non tengono conto dei privati: gli appartamenti della dirigente della Nu Skin Enterprises, ad esempio, vuole vendere la sua proprieta' di lusso per $80 milioni tramie la casa di aste Sotheby's, secondo quanto riportato di recente dal New York Observer.
Ormai, spiega Dolly Lenz, broker e vice presidente di Prudential Douglas Elliman, per essere vantaggioso il prezzo di una proprieta' immobiliare deve essere del 25% piu' alto dell'ultimo prezzo a cui e' stata venduta. La gente non ha piu' fretta di comprare, quando invece una certa necessita' incombente e' proprio quello di cui ha bisogno il mercato immobiliare come stimolo".
In sintesi, il mercato e' quasi irriconoscibile rispetto ad un anno fa. "Quando guardiamo a New York City vediamo un rapporto tra prezzi e ricavi che storicamente e' stato quattro volte superiore alla rendita, contro il dato di circa tre volte del resto del paese", spiega Ivy Zelman, ex analista di Credit Suisse e tra i primi a prevedere la crisi immobiliare su scala nazionale.
Al livello di 7.7 di oggi, il tasso e' "signifiativamente piu' alto del normale", perche' siamo solo all'inizio della discesa dei prezzi. "Se si prende in considerazione la mediana, si tratterebbe di una correzione del 46%", continua Zelman, che ora gestisce una societa' in proprio. "Se dovessi scegliere il mercato piu' a rischio negli Stati Uniti, che ha piu' possibilita' di scendere in futuro, questo e' New York City. Ha il maggior numero di tagli al personale tra i lavoratori con i redditi piu' alti".
Il problema e' che nessuno sa per certo fino a che punnto i prezzi scenderanno ancora. "E' come indovinare il cavallo vincente", osserva Jonathan Miller di Miller Samuel. "Prima di poter parlare di mercati immobiliari ritornati in equilibrio e di 'fondo della crisi', il credito si deve stabilizzare e la liquidita' deve tornare ai livelli normali precedenti lo scoppio della crisi. Ci vorranno diversi anni".
Michael Shvo, il broker degli immobili di 20 Pine Street, e' del parere che i prezzi nella citta' di New York sono destinati a calare ancora, e che il credito dovra' diventare piu' accessibile prima che la domanda torni a correre. Ma quanto a fondo scenderanno i prezzi? "Alcuni progetti subiranno un calo del valore del 50% rispetto alle punte massime. Altri probabilmente del 30%", la maggior parte si collochera' nel mezzo.
Anche se i venditori spererebbero che cosi' non fosse, signore e signori, questa e' la vita nella grande citta'.

 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 
 

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