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INDICE ARTICOLI

 

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Borse - Bilancio 2006

Un anno da Toro per i listini internazionali

Borse & Macro USA

Gufi smentiti: per l'america il peggio é alle spalle

Petrolio & Geo politica

L'arma del petrolio più forte delle bombe

Borse - Sentiment e Previsioni

Le dieci profezie del guru

Materie Prime - Petrolio

Borse: per i guru é ancora toro

Cina

Rischio bolla sulla borsa cinese

Borse - Sentiment e Previsioni

Borsa noiosa? Cambierà presto

Borse - Sentiment e Previsioni

La strettoia di un piccolo crollo

Borse - Sentiment e Previsioni

Guru & Gufi: da leggare senza pregiudizi

 

 

 
  Lunedì 08 gennaio 2007   Mercoledì 10 gennaio 2007   Domenica 21 gennaio 2007  
       
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  Un anno da Toro per i listini internazionali

02 Gennaio 2008 10:45 TRENTO - di MariaGrazia Briganti

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Le Borse mondiali archiviano il 2006 con un rialzo medio del 20%. Corrono i mercati emergenti, soprattutto latinoamericani ed europei, mentre frena il Giappone. Wall Street tocca nuovi record storici, ma la flessione del dollaro erode i guadagni dell’investitore in euro. Tra le due sponde dell’Oceano, l’Europa prosegue nella crescita, spinta dalle operazioni di M&A.
I mercati azionari mondiali archiviano il quarto anno di rally, mettendo a segno un guadagno medio che supera il 20% (indice Msci world free in dollari).

Ma è cinese il rendimento più alto registrato nel corso dell’ultimo anno. La Borsa di Shangai è salita del 120% in valuta locale, sostenuta dall’afflusso di capitali esteri e dai collocamenti record sul listino, come quello che ha portato alla quotazione di Icbc, la terza banca al mondo per capitalizzazione. Anche i principali listini asiatici hanno registrato andamenti a due cifre: dal 47% della Borsa indiana, al +34% messo a segno da Hong Kong, fino al 26,2% offerto da Singapore.

Storia diversa per il Giappone che, grazie al rally di dicembre, ha chiuso il 2006 con un +6,5%, bilancio che altrimenti sarebbe stato negativo. La Borsa di Tokyo, dopo il calo generalizzato dei listini internazionali dello scorso maggio, è rimasta al palo, perdendo il rally successivo e facendo crollare le illusioni di chi sperava nella ripresa economica e finanziaria del Paese.

L’anello debole dell’economia del Giappone restano i consumi interni e la dinamica dell’inflazione, che non accenna a salire. Per questo motivo, la Banca centrale giapponese, dopo un timido tentativo di aumentare i tassi di interesse per la prima volta in sei anni, ha dovuto sospendere qualunque intervento, lasciando il saggio di riferimento allo 0,25%. Non ha aiutato il listino la debolezza dello yen che si è deprezzato di circa il 12% nel corso dell’anno contro euro e dollaro.

La dinamica valutaria è stato un elemento chiave nel corso del 2006: il dollaro ha progressivamente perso posizioni nei confronti della divisa comunitaria, deprezzandosi del 10% e riducendo a zero i guadagni di un investitore europeo che ha investito sui mercati Usa, nonostante il Dow Jones sia salito del 16,5% e l’S&P 500 abbia messo a segno un rialzo superiore al 18%.

A dare impulso a Wall Street è stato in primo luogo il fronte societario, dove procede a passo sostenuto l’attività di finanza straordinaria e le operazioni di fusione e acquisizione, soprattutto ad opera dei fondi di private equity.

Secondo le stime, l’economia americana è cresciuta del 3,6% nel corso del 2006 e rallenterà il passo fermandosi al 2,6% nel 2007. In questa direzione, il differenziale di crescita con il Vecchio continente è destinato a diminuire, rendendo sempre meno allettante - oltre che complicato dal rapporto di cambio - l’investimento negli Usa.

La forza dell’euro ha rallentato la corsa delle Borse europee che, tuttavia, hanno registrato un guadagno che sfiora il 20% (Msci Europe negli ultimi 12 mesi). Regina dei listini europei è stata la piazza di Madrid, salita del 34,7%, seguita dall’Iseq di Dublino (+28%), mentre il Dax tedesco e il Cac 40 di Parigi hanno realizzato rispettivamente, un rialzo del 22 e del 17%. Londra è avanzata del 20%.

La moneta comune si è spinta fino a quota 1,33 contro il biglietto verde avvantaggiata dall’aumento dei tassi europei che il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha portato fino al 3,5%, a fronte di un andamento nella crescita dei prezzi che dovrebbe essere contenuto entro la forchetta del 2,1-2,3%. Anche per l’area euro, a fungere da motore della crescita dei listini sono state la necessità di trovare dimensioni efficienti e l’abbondante liquidità, che hanno finanziato l’attività di fusione e acquisizione tra le società.

Il Toro è proseguito anche nei mercati emergenti. Quelli dell’Est Europa archiviano il 2006 con un progresso pari al 28%. In testa ancora il mercato russo (+67% in valuta locale), sostenuto da un contesto macroeconomico in miglioramento e con il debito pubblico interno ed estero in diminuzione. Ma la sorpresa più rilevante è stato il balzo in avanti della Borsa polacca, che ha messo a segno un rialzo superiore al 25%, all’interno di un quadro economico interno molto favorevole.

L’inflazione in calo, la crescita delle esportazioni e degli investimenti, sono stati i principali driver dell’aumento del Prodotto interno lordo, che dovrebbe assestarsi nel 2006 al 5,5%. Solo la Turchia ha chiuso l’anno in rosso: l’indice della Borsa di Ankara è sceso del 3%, a causa delle tensioni governative con l’Unione europea, che ha momentaneamente congelato il processo di annessione per via del rifiuto turco di aprire le trattative diplomatiche con Cipro.

Nell’America Latina, la crescita economica ha supportato i listini locali, compreso quello venezuelano, che è stato trainato dalla rielezione del presidente Hugo Chavez. Il Brasile ha registrato un progresso del 33%, ma la migliore è stata la Borsa messicana, dove l’indice Bolsa ha guadagnato il 47%, sostenuto dalla crescita economica che nel 2006 dovrebbe attestarsi al 4,7% il tasso più alto dal 2000.

Ancora più forte il boom economico dell’Argentina, che secondo l’Istituto nazionale di statistica, registrerà nel 2006 un progresso dell’8,5%, grazie soprattutto all’espansione dei consumi privati favoriti dall’aumento dei salari e dalla discesa della disoccupazione, mentre gli investimenti in percentuale del Pil sono raddoppiati negli ultimi quattro anni.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

PRESTO L' ORO A 700 DOLLARI

2 Gennaio 2007 23:04 NEW YORK - di Gianluigi Raimondi
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«Grazie alla domanda globale e alla progressiva riduzione delle scorte nel 2007, il comparto delle commodity tornerà a brillare dopo la correzione accusata nella seconda metà di quest’anno. Questo nonostante i problemi legati alla frenata dell’economia statunitense». È l’opinione di Daniel Brebner, strategist del settore materie prime, attualmente chief analist a Ubs. Da gennaio l’indice Crb, paniere di riferimento per il comparto, ha perso oltre il 7% (16,5% se calcolato in euro).
«Per ottenere performance degne di nota - precisa l’analista - occorre individuare le commodity caratterizzate da una scarsa elasticità della domanda e da elevati costi marginali di produzione». Sulla base di questi criteri Brebner segnala il potenziale rialzista di oro, petrolio, alluminio e grano. Nel dettaglio, secondo le stime della banca d’affari elvetica, nei prossimi mesi le quotazioni del metallo prezioso torneranno a superare i 700 dollari per oncia. A trainare i corsi saranno la rinnovata richiesta da parte dell’industria gioielliera (soprattutto asiatica) e la domanda finanziaria legata a prodotti come gli Etf.
Per quanto riguarda il greggio, i driver saranno i sempre più alti costi di estrazione e raffinazione causati dal progressivo esaurimento dei grossi giacimenti di «qualità». Questo anche ipotizzando una domanda costante rispetto al 2006 e l’assenza di tensioni geopolitiche. Sull’alluminio il prezzo medio atteso nei prossimi dodici mesi è di 3.200 dollari per tonnellata, oltre il 10% rispetto alla quotazione attuale.
A fare la parte del leone sarà, anche per questo metallo, la richiesta asiatica. Tra le soft commodity, infine, Brebner segnala le potenzialità rialziste del grano determinate dalla costante diminuzione dell’offerta degli Stati Uniti, maggiore produttore mondiale. «Attenzione invece - avverte l’analista - a operare sull’argento, data l’eccessiva volatilità che caratterizza i corsi e il recente incremento della capacità produttiva mondiale».
 

 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

WALL STREET A PICCO DOPO I VERBALI FED, POI RIPRENDE

3 Gennaio 2007 22:00 NEW YORK - di ANSA
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L' andamento dell' inflazione continua ad essere al centro delle preoccupazioni della Federal Reserve. E' quanto emerge dai verbali dell' ultima riunione del FOMC, diffusi oggi, secondo cui resta "predominante il timore" che la dinamica dei prezzi al consumo possa non evidenziare il previsto raffreddamento, mentre appaiono aumentate le possibilità di un rallentamento della crescita economica.
La diffusione del contenuto dei verbali dell' ultima seduta del Federal Open Market Committee (l' organismo preposto alle decisioni di politica monetaria), in cui si è deciso di lasciare i tassi di interesse americani fermi al 5,25% non e' piaciuta affatto a Wall Street.
Il Nasdaq (QQQQ) che poco prima della diffusione dei verbali Fed era in rialzo dell'1.25%, nel giro di pochi minuti ha perso tutto il vantaggio, poi e' passato in negativo e ha fatto segnare fino -0.75%, con uno sbalzo quindi di 2 punti percentuali, certamente il piu' forte degli ultimi mesi. Sul finale sono ripresi gli acquisti e il Nasdaq Composite e' riuscito a chiudere a +0.33% a quota 2.423,16 (+7.87). Per il Dow Jones, chiusura sostanzialmente piatta con +0.09% a quota 12.474,52 (+11.37) e frazionale calo di -0.12%delo S&P500 che finisce a quota 1.416,60 (-1.70).
I verbali della FOMC sottolineano che il "rischio inflazione resta la maggiore preoccupazione" e che pertanto sono "possibili ulteriori manovre restrittive". Questa frase ha messo in allarme le grandi case di brokeraggio americane, che avevano iniziato il 2007 sulla base di uno scenario macroeconomico che vedeva il consensus puntare su tassi stabili o addirittura in ribasso e una crescita economica appena rallentata.
Quanto all'andamento dell'economia, alcuni membri del Fomc vedono "aumentati i rischi di un rallentamento della crescita" anche se al tempo stesso si "continua a prevedere che l'espansione dell'economia proceda con un ritmo di crescita vicino o poco sotto al tasso di crescita sostenibile nel lungo termine".
Le indicazioni emerse dai verbali del Fomc appaiono in contrasto con le attese di economisti e operatori i quali da tempo mettono in conto un taglio del costo del denaro da parte della Federal Reserve nella prima parte del 2007, a fronte del rallentamento dell'economia. La prossima riunione di politica monetaria della Banca centrale americana è in calendario il 30-31 gennaio prossimi.
 
 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

LA LUNA IN VENDITA LA COMPRANO

5 Gennaio 2007 3:40 GERUSALEMME - Marco Ansaldo
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La nuova Terra promessa? La Luna. Almeno a giudicare dalle richieste dei cittadini israeliani che, nell´ultimo mese, hanno fatto la corsa ad acquistare appezzamenti sul corpo celeste. Non è uno scherzo, o almeno la gente che compra acri di luna ritiene di farlo seriamente.
A dicembre, riferiscono tanto il Jerusalem Post quanto il Maariv, gli acquirenti sono stati ben mille, portando a un totale di 10 mila coloro che vantano diritti sul piccolo satellite. Risultato: il 10 per cento dei 40 milioni di chilometri quadrati di superficie lunare messa in vendita è appannaggio di cittadini dello Stato ebraico.
Sogno o realtà? A sentire la società Crazyshop, l´agenzia che si occupa della vendita, è tutto vero. Il portavoce, Tom Wegner, afferma che «la vendita di lotti lunari è possibile dall´anno 2000». Anche se ben due trattati internazionali, firmati o ratificati da diversi paesi, proibiscono espressamente negoziati riguardanti il suolo celeste. «Noi abbiamo ottenuto il franchising - spiega convinto Wegner - dalla compagnia americana guidata da Dennis Hop, il quale detiene la proprietà della Luna». Una mentalità da Far West, replicano alcuni, risorta dopo che gli Stati Uniti hanno piantato la bandiera a stelle e strisce con la missione spaziale di Neil Armstrong. Ma molti israeliani pensano che un pezzo di Luna sia un buon investimento.
I prezzi sono popolari, anche se «l´effetto valanga» dell´ultimo mese rischia di far lievitare i costi: 47 euro per mezzo ettaro. Scorrendo il sito di Crazyshop brillano le offerte speciali: «Se si acquistano quattro lotti di Luna, il quinto viene dato in regalo». Chi poi intende fare un acquisto in grande può scegliere il «pacchetto siderale»: 1 acro più 1 stella da intitolare a qualcuno. A prezzo per ora scontato: 480 shekel, meno di 100 euro. E dal 1 febbraio riceverà: certificato di proprietà, piantina lunare e foto dell´appezzamento prenotato. In regalo il kit comprendente la storia del corpo celeste e selezionati articoli di giornale.
La Crazyshop è del resto un´agenzia specializzata in proposte a dir poco singolari. In vendita ci sono: corsi di guida pericolosa, di surfing, di parapendio, voli su aeroplani ultraleggeri, massaggi fitness nella natura, pranzi organizzati a casa da rinomati chef, incisioni di dischi personalizzati, consigli sui modi pìù sicuri di ottenere il «sì» a proposte di matrimonio, l´affitto di aeroplanini che disegnano il cuore nel cielo, noleggi di yacht per tour romantici, eccetera.
Per Wegner il costo dei terreni crescerà con lo sviluppo dei programmi spaziali. Non è escluso che in futuro la Nasa debba comprare superficie lunare da privati. D´altra parte la corsa alla luna è ormai a tutto campo. C´è chi invece che sulla proprietà di lotti punta sul turismo: come il fondatore di Amazon Jeff Bezos, che ieri ha diffuso in Texas le prime immagini della navicella con cui intende portare a spasso visitatori del cosmo. Ed è alla ricerca di collaboratori per la sua impresa.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

  Gufi smentiti: per l'america il peggio é alle spalle

11 Gennaio 2007 14:41 MILANO - di La Lettera Finanziaria

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Per l’America il peggio è alle spalle. L’economista di Global Insight, Nariman Behravesh, dalle colonne del Financial Times, critica fortemente tutti i gufi che in questi mesi hanno previsto per l’economia americana sciagure di tutti i generi, compresa quella della recessione: “hanno costantemente sovrastimato la sua vulnerabilità finanziaria – scrive l’economista – sottostimando invece la sua forza”.
D’altronde, ricorda l’autore, non è la prima volta che gli economisti hanno previsto per gli Usa un hard landing. E per venti anni hanno dovuto ricredersi. E anche questa volta per i gufi è andata male. Neanche il brusco rallentamento del mercato immobiliare – scrive Behravesh - ha messo un freno all’economia d’Oltreoceano.
Spesso – scrive Nariman Behravesh – i pessimisti portano a giustificazione delle loro teorie il peggioramento della finanza pubblica. Tuttavia – continua – lo stato dei conti pubblici americani, se confrontato a quello della maggiori economie mondiali, non appare messo tanto peggio.
1 – Partiamo dal tasso di risparmio. Se è vero che gli americani hanno un tasso di risparmio negativo, è altrettanto vero che gli Stati Uniti sono in buona compagnia. Anzi, peggio della locomotiva a stelle e strisce sono messi paesi come la Finlandia, la Danimarca e l’Australia. Per non parlare del fatto che, da metà degli anni 80, un forte decremento della propensione al risparmio sì è verificata in Italia, Giappone, Canada, Corea del Sud e la stessa Australia.
2 – Debito privato. Spesso gli Stati Uniti sono presi di mira dagli economisti per avere un tasso di indebitamento troppo alto. In base alle stime dell’Ocse, la percentuale di indebitamento dei privati è del 130% negli Stati Uniti, stesso livello rilevato per il Giappone e il Canada. Peggio è messa la Gran Bretagna (155%). Poco distante la Germania (110%). Tradotto: lo stato delle finanze dei consumatori americani non è messo tanto peggio che in altri paesi.
3 – Passando invece ai conti pubblici, l’autore ricorda come nel 2006 il deficit statunitense si è atteso all’1,9% del Pil paragonato al +2,1% della zona euro, al 3% della Gran Bretagna e al 4,6% del Giappone.
4 – E ancora il debito pubblico. Sempre nel 2006, il rapporto debito/Pil viene stimato al 65%, meglio della media dei sette maggiori paesi industrializzati. Nello stesso anno di riferimento, l’economista di Global Insight ricorda che nella zona euro il rapporto debito/Pil è visto al 77% e addirittura al 175% in Giappone.
5 – Infine, il deficit della bilancia commerciale. Qui, il punto dolente. L’autore ammette che il disavanzo corrente degli Stati Uniti (al 6,5% del Pil), con l’unica eccezione della Spagna, è il peggiore tra tutti i paesi industrializzati. “Se alcuni analisti – aggiunge – vedono questo livello come insostenibile – è necessario considerare il dato in prospettiva”. Innanzitutto, l’economista di Global Insight ricorda come alcuni paesi (Australi, Nuova Zelanda, Canada e Spagna), pur in presenza di un deficit molto alto, non hanno avuto ricadute significative sulla crescita degli stessi.
L’autore conclude invitando gli osservatori pessimisti a una riflessione. Se l’America è ritenuta la principale responsabile degli squilibri finanziari mondiali, è altrettanto vero che la causa va cercata fuori dai confini americani. Una spiegazione più corretta dello stato attuale va individuata nel gap che separa la domanda americana da quella di Eurolandia e Giappone. Economie queste ultime, che continuano a mostrare consumi deboli, e la cui crescita resta trainata dalle esportazioni.
 

Fonte - La Lettera Finanziaria

 

 

 

 

 

 

UN ESERCITO DI FALLITI IN UK

Martedì 3 Giugno 2008, 16:23 - di Fabio Caldato - Euroforex
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Quando non tornano i conti, sono dolori. Questo è quello che decine di migliaia di cittadini inglesi stanno scoprendo in questi giorni, a causa dell’indebitamento personale fuori controllo. Secondo uno studio della società di revisione contabile Grant Thornton, di qui a marzo circa 30mila inglesi dichiareranno fallimento, un record per l’Inghilterra. Buona parte delle insolvenze (circa un terzo) è dipesa dall’uso scriteriato della carta di credito per le spese di Natale.
Insomma c’è di che preoccuparsi, anche perché secondo stime attendibili, quest’anno 10mila persone al mese dichiareranno di non poter far fronte ai debiti contratti. Una notizia che segue quella che nel 2006 le banche e molti fornitori del credito hanno dovuto mettere a bilancio la cifra record di 1,4 miliardi di sterline (circa 2 miliardi di euro) di prestiti inesigibili.
Dietro il fenomeno dei fallimenti inglesi, spiegano gli esperti, ci sono diversi fattori. Primo fra tutti è la diffusione di una cultura del credito troppo facile, che incoraggia una mentalità del tipo «compro ora, pago dopo» (o mai, come dimostrano i dati). Inoltre, l’arma più forte contro il fallimento personale - quella psicologica - pare non funzioni un granché con le nuove generazioni.
Ma a peggiorare la situazione ci sono anche le sanzioni troppo leggere a cui va incontro contro chi si indebita e non paga. Nel Regno Unito chi non fa fronte agli impegni assunti può entrare nel programma Individual voluntary agreement (Iva), una specie di rete di protezione dai creditori che rende meno oneroso il fallimento.
Nel 2006, secondo le stime di Kpmg, circa 45mila cittadini lo hanno utilizzato. Esattamente il doppio di quelli del 2005. Il debito medio con il quale si va in bancarotta è 52mila sterline; ma solo il 39% viene ripagato. Detto questo, non è tutta colpa dei consumatori. L’aumento delle bollette e dei tassi d’interesse hanno colpito anche gli utenti più attenti al portafoglio.
 

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

 

 

GLI GNOMI SUONANO LA RISCOSSA

12 Gennaio 2007 1:50 MILANO - di Bloomberg - Finanza&Mercati
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La legge era quella: chi sceglieva la riservatezza delle banque privée svizzere era disposto a chiudere un occhio sui rendimenti, di solito non proprio brillanti. Ma le banche elvetiche, quest’anno, hanno deciso di partire all’offensiva e dimostrare, dati alla mano, che gli gnomi, oltre a custodirlo, il denaro sanno farlo rendere.
Si sono così rivolti al PriBil, un gruppo di analisti londinesi che collabora con il Ftse, che ha realizzato un indice ad hoc in cui le performance del settore vengono calcolate su base reale e confrontabile. Dalle elaborazioni è così emerso che le banche private svizzere hanno ottenuto nel 2006 un rendimento medio dell’8,2%, al netto delle spese, per i loro clienti.
Nel dettaglio, i portafogli che hanno reso meno sono quelli in franchi svizzeri, che si sono accontentati di un rendimento compreso tra l’1% (per quelli a basso rischio) e il 6,26% (rischio elevato), mentre si sono comportati particolarmente bene quelli espressi in dollari: i portafogli a basso rischio hanno guadagnato il 5,27%, quelli a rischio elevato hanno prodotto rendimenti medi attestati sull’11,7 per cento. «Su un arco di tempo di due anni, i portafogli a rischio elevato espressi in dollari hanno avuto performance analoghe a quelle degli hedge fund, con minore volatilità», osserva Roy Scheepe del PriBil.
I dati per l’elaborazione dell’indice sono forniti da 40 banche (tra cui Pictet, Mirabaud, Dresdner, Vontobel, Rothschild, Sarasin e Lodh) che complessivamente gestiscono un patrimonio di 1.500 miliardi di dollari. Sul podio dei migliori rendimenti spiccano Dresdner, Rothschild e Lodh: quest’ultima ha garantito ai propri clienti ritorni mensili compresi tra il 2 e il 9 per cento. «Abbiamo piazzato il 50% dei nostri investimenti fuori dagli Stati Uniti, valutato bene i rischi e abbiamo fatto qualche scommessa felice, soprattutto sull’azionario», spiega il vicepresidente esecutivo Jacques Raemy.

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

 

 

  Mercoledì 03 gennaio 2007   Giovedì 04 gennaio 2007   Venerdì 05 gennaio 2007  
       
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  L'arma del petrolio più forte delle bombe

15 Gennaio 2007 19:33 TORINO - di Mimmo Càndito

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E’ lo sconvolgimento imposto dagli esiti della Prima guerra mondiale alla mappa politica del pianeta a far nascere il sospetto che dietro le strategie delle grandi potenze ora entri sempre più decisamente il petrolio, dopo che il crollo dell'Impero ottomano ha rivelato con quanto impegno si sia proiettato ad assumere il controllo dei pozzi del Medio Oriente il Grande di quel tempo, grande per potenza industriale e potenza militare, che era la Gran Bretagna.
Negli Anni ‘20 l'Iraq sarà «la folle invenzione» di Churchill, che unifica tre realtà totalmente diverse - Mosul, Bassora, e Baghdad - pur d'impossessarsi dei giacimenti della Mesopotamia; la risposta susseguente sarà, 20 anni più tardi, quella del nuovo Grande del mondo, gli Usa, che nella Seconda guerra mondiale sono andati sostituendosi a Londra come potenza dominante, e nel febbraio del '45 stipulano un patto di ferro con la dinastia dei Saud, guadagnando il controllo degli immensi bacini di idrocarburi che si stendono sotto i deserti dell'Arabia Saudita.
Nella storia del mondo contemporaneo, potenza e petrolio sono, dunque, due identità strettamente interdipendenti. L’idea che gli Stati Uniti di Bush abbiano avuto ben chiaro l'utilizzo del potenziale petrolifero dell'Iraq quale possibile sostituto di un alleato sempre più inaffidabile, come era andata diventando la monarchia di Riyad, è un'idea che con una credibilità diffusa tende a spiegare buona parte dell'attacco (anglo)americano contro Saddam Hussein.
Gli Stati Uniti, infatti, che con Roosevelt di ritorno da Yalta firmavano a bordo di un incrociatore americano ancorato nel Golfo il patto con i Saud, erano ancora - in quel 1945 - esportatori di petrolio, i primi al mondo; però avevano ben chiaro come fosse il controllo delle risorse energetiche il primo elemento di ogni strategia vincente (la Germania di Hitler ne aveva condizionato le proiezioni militari della Wermacht nel mondo), e con quella firma si premunivano di fronte al futuro. Ora quel futuro è arrivato, gli Usa sono diventati importatori anch'essi, e dipendono dai flussi petroliferi che le rotte marittime internazionali aprono verso i porti e le raffinerie americane.
Di questi flussi, il Golfo è certamente un elemento essenziale con quel suo 65% di riserve petrolifere mondiali. Il controllo del suo bacino garantisce flussi costanti e sicuri, ma nel Golfo c'è anche l'Iran, che stende i propri giacimenti sulla costa opposta a quella degli sceiccati arabi; e se gli sceiccati sono grandi fornitori degli Usa e dell'Occidente europeo, l'Iran che spedisce il 45% della propria produzione verso l'Europa non manda a Washington un solo barile (ci fu un tempo, naturalmente, in cui l'America era ottimo cliente della Persia, ma lo Shah Pahlavi cadde sotto la spinta di Khomeini e da quel giorno i rubinetti si chiusero). Non solo l'Iran non spedisce agli Usa un solo barile, ma nei fatti pratica a tutto campo una politica decisamente antiamericana, accusando Washington di «imperialismo» e «neocolonialismo».
Sono le stesse accuse che muove all'America il Venezuela di Chávez, che pure spedisce verso le raffinerie degli Stati Uniti più del 40% delle proprie esportazioni e, coprendo con questi flussi il 15% delle importazioni americane totali di idrocarburi, è certamente un fornitore capace di impensierire i governi Usa nelle loro politiche di controllo delle riserve strategiche.
Washington sta provvedendo a un ulteriore diversificazione delle forniture, ma l'alleanza che Chávez e Ahmadinejad rafforzano a ogni passare di stagione - hanno già firmato una trentina di protocolli d'intesa, pur tanto distanti tra loro per dimensione geografica, orizzonti culturali, tradizioni politiche - crea certamente problematiche nuove agli scenaristi di strategie della Casa Bianca (anche perché l'Europa, alleata «naturale» degli Usa, è comunque molto sensibile a quanto accade nel Golfo, da dove importa larga parte delle risorse energetiche per i bisogni della propria economia: quel 45% di esportazioni petrolifere iraniane verso Italia, Germania, Francia eccetera è un potenziale di pressione politica che non va sottovalutata).
In un mondo nel quale le strategie americane debbono misurarsi con la concorrenza che è in ogni orizzonte del mondo gli crea la bulimia cinese di petrolio, e mentre la Russia di Putin manifesta il recupero delle proprie ambizioni di grande potenza attraverso il controllo dei suoi immensi giacimenti di petrolio e di gas, il panorama nel quale si articolavano le alleanze e le manifestazioni di forza (il soft power, ma anche l’hard power, secondo Joseph Nye) degli Stati Uniti ha mutato profondamente i terreni tradizionali di intervento. E persino una così singolare alleanza come quella tra Ahmadinejad e Chávez si guadagna ora attenzione e, certamente in Usa, preoccupazione.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

  Le dieci profezie del guru

16 Gennaio 2007 0:37 NEW YORK - di M. T. C.

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Sarà un altro anno Toro a Wall Street, con guadagni minimi dell'8%. Ma, chissà, magari si arriva fino al 12%. E andrà bene, probabilmente meglio, anche sulle piazze finanziarie del resto del mondo, con la Borsa di Tokio in corsa per ottenere il miglior rialzo.
Vede rosa Bob Doll, responsabile globale degli investimenti azionari di BlackRock , colosso del risparmio gestito con oltre mille miliardi di dollari amministrati dopo la fusione con i fondi di Merrill Lynch. Le sue dieci previsioni di 12 mesi fa avevano peccato di pessimismo nell'aspettarsi una crescita dei profitti delle aziende Usa minore di quella reale, avevano anticipato troppo il trend delle azioni growth che avrebbero battuto quelle value e delle large cap che avrebbero superato le small cap («Sta succedendo davvero, ma più lentamente») e sbagliato nel vedere il partito Repubblicano ancora in controllo del Congresso dopo le elezioni di novembre.
Inoltre Doll aveva azzeccato solo a metà l'andamento dei tassi: si è infatti verificata l'inversione della curva dei rendimenti, ma il T-bond decennale ha superato il 5%, contrariamente a quello che pensava Doll un anno fa. Voto per il 2006: sei e mezzo.
E l’anno prossimo? Ecco le dieci nuove profezie di Doll.
1) L'economia Usa rallenterà al 2-2,5%, mentre il resto del mondo continuerà a crescere in modo piuttosto robusto.
2) Dopo cinque anni di aumenti record, ben sopra la media storica, per la prima volta dal 2001 i profitti delle aziende Usa saranno più deboli.
3) La curva dei rendimenti dei titoli del Tesoro americani tornerà normale, grazie alla discesa dei tassi a breve e alla risalita di quelli a lungo termine, perché l'inflazione resta benigna. A un certo punto la Fed (banca centrale Usa) potrà tagliare il costo del denaro dall'attuale 5,25% fino al 4,5% entro l'anno. Ma se anche i T-bond decennali arriveranno a rendere il 5,25% (ora sono sotto il 5%), continueranno ad essere un investimento non attraente.
4) Continuerà la seconda fase della corsa del Toro a Wall Street, iniziata la scorsa estate. Se la prima è stata alimentata dalla crescita dei profitti superiore alle aspettative, adesso è la volta dell'aumento dei prezzi che gli investitori sono disposti a pagare per le azioni. A favorire il rialzo, può esserci anche la circostanza che di solito l'anno che precede le elezioni presidenziali è positivo per la Borsa americana: l'indice S&P500 ha guadagnato in media il 18,6% negli anni pre-elettorali dal 1950 ad oggi. Doll non esclude neppure che Wall Street possa tornare a far meglio delle altre Borse, offrendo titoli relativamente più sicuri e meno volatili.
5) Se finora il mercato ha premiato con un rapporto p/u (prezzo/utili) più alto le azioni di rating finanziario inferiore, ora la situazione dovrebbe ribaltarsi. Secondo Doll sono anche da preferire le azioni con alto potenziale di crescita, meno care del normale.
6) I settori che faranno meglio della media sono quello dell'energia (forte domanda globale di petrolio e gas; bassi p/u dei titoli), della salute (motivi demografici), della tecnologia (le aziende devono spendere molto in high-tech).
7) Il dollaro continuerà ad essere debole scivolando verso i minimi degli ultimi dieci anni. Meglio quindi diversificare gli investimenti valutari, puntare sulle multinazionali e in generale sulle società con una buona fetta di fatturato non-Usa.
8) L'economia e la Borsa giapponese vivranno un boom.
9) Dopo quattro anni di incredibilmente bassa volatilità e bassi spread nella remunerazione dei rischi d'investimento, i mercati torneranno a ballare su e giù, magari per qualche sorpresa geopolitica o crisi finanziaria.
10) Con i Democratici padroni del Congresso, negli Usa tornano di moda politiche populiste. Per esempio quasi certamente sarà alzata la paga oraria minima e saranno introdotti nuovi limiti ai compensi dei top manager.
I consigli conclusivi di Doll agli investitori: preferire le azioni alle obbligazioni; pensare globale, sovrappesando la Borsa giapponese e, fra i Paesi emergenti, quelle latinoamericane e in particolare la brasiliana. E per chi accetta una certa dose di rischio, continuare a diversificare sulle materie prime.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

IL PETROLIO SALIRA' SOPRA I $100

18 Gennaio 2007 5:28 NEW YORK - di ANSA
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Il greggio ricomincera' la sua marcia verso i $100 al barile dopo una "correzione", ha detto a Bloomberg Jim Rogers, 64 anni, ex manager e co-fondatore del primo hedge fund di George Soros (Quantum) oggi gestore in proprio, e colui che prima di ogni altro ha predetto l'inizio del bull market nelle commodities nel 1999.
"Non sono abbastanza intelligente da sapere quanto in basso calera' e quanto a lungo ci stara' - ha detto Rogers in un'intervista a Tokyo - ma so che nel contesto del mercato toro, il petrolio salira' sopra i $100. E poi sopra $150. Se accadra' nel 2009 o nel 2013, non ne ho la minima idea, ma so per certo che succedera'".
Stando al website di Bloomberg il greggio quotato a New York e' crollato oggi del 33% a un minimo di 19 mesi, rispetto al picco record di $78.40 al barile toccato lo scorso luglio. Secondo Rogers, autore del libro "Hot Commodities", il petrolio continuera' a salire perche' non sono stati scoperti grossi giacimenti negli ultimi 30 anni mentre la crescita economica in Cina e nel resto dell'Asia spinge la domanda.
Jim Rogers ha lanciato il Rogers International Commodity Index, che e' piu' che raddoppiato negli ultimi 5 anni, ma che e' calato del 13% negli ultimi 6 mesi.
 

Fonte - ANSA
 

 

 

 

 

 

  Borse: per i guru é ancora toro

22 Gennaio 2007 0:01 MILANO - di Vincenzo Sciarretta

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A sentire gli esperti, la festa non è finita per i listini azionari europei: il 2007 dovrebbe regalare nuove soddisfazioni agli investitori. Nove dei 10 analisti interpellati da Borsa & Finanza ritengono che le quotazioni delle società trattate sulle piazze europee si apprezzeranno, mentre uno soltanto, Florent Bronès di Bnp Paribas, vede grigio e ritiene che il bilancuio annuale si risolverà con un andamento pressoché piatto.
Alla base dell’ottimismo c’è la constatazione che le azioni abbiano tuttora prezzi in armonia con la crescita degli utili. Se infatti è vero che gli indici corrono, è altrettanto vero che il ritmo di espansione dei profitti, in molti casi, tiene un passo maggiore, sicché i multipli di Borsa rimangono ai livelli del 2003. «A 13 volte gli utili le società europee non sono affatto care - dice Ian Richards di Abn Amro - specialmente nel classico confronto con le obbligazioni governative che rendono poco più del 4 per cento».

LA CORSA DEL MADE IN EUROPE. Ma come mai l’attività d’impresa in Europa da così tante soddisfazioni? Una prima risposta mette in relazione l’esplosione degli utili europei con i fenomeni di globalizzazione e mondializzazione dei mercati. «Il Vecchio Continente è fortemente orientato verso le esportazioni - spiega Lars Kalbreier del Credit Suisse - Il caso più eclatante viene dalla Germania: in media le società che fanno parte dell’indice Dax realizzano i due terzi del fatturato sui mercati esteri». Il boom internazionale moltiplica il giro d’affari e garantisce ottimi margini. Anche in un Paese come la Germania, caratterizzato da un costo del lavoro tutt’altro che basso e condizionato come tutti i Paesi di Eurolandia dall’andamento dell’euro, che grazie alla qualità dei propri prodotti mantiene una notevole capacità di penetrazione dei mercati internazionali.
Secondo gli esperti, comunque, anche se gli utili soffrissero una decelerazione nel 2007, i listini avrebbero buone probabilità di proseguire la corsa. Al limite a un ritmo leggermente inferiore rispetto a quello ipotizzato. Secondo Kevin Gardiner di Hsbc «i multipli di Borsa si sono mantenuti a livelli molto compressi durante il ciclo rialzista del 2003-2006. In parte ciò è dovuto alle strette creditizie della Federal Reserve. Nel 2007, però, la Fed, anche se senza fretta, dovrebbe invece iniziare ad allentare la presa sui tassi. E storicamente, negli ultimi quattro casi in cui questo è accaduto, i multipli hanno goduto di una certa espansione».

LA SPINTA DELL’M&A. L’altro pilastro del mercato Toro del 2003-2006 è costituito dalla forte corrente di fusioni e di acquisizioni che ha percorso numerosi listini. La tendenza, per gli analisti interpellati, è di una tenuta dei livelli massimi raggiunti nel 2006, con la prospettiva di andare persino oltre. «I bilanci aziendali sono solidissimi - interviene Richards - A ciò si aggiunge il costo del debito basso che, unito alla grande disponibilità di liquidità, favorisce le scalate e i raggruppamenti». L’ampia disponibilità di capitali di cui parla Richards non è messa a rischio dalla politica della Bce, che dovrebbe alzare il tasso base ancora una volta a marzo e, forse, una seconda volta più avanti nel corso dell’anno. Insomma, si arriverà al 3,75% o al massimo al 4 per cento. Queste condizioni del credito non sono ritenute un ostacolo al rialzo del mercato azionario.
Significativo è anche il calo del prezzo del petrolio. «Una buona notizia tanto per i titoli del debito quanto per il mercato azionario», afferma Alain Bokobza di Société Générale. Ma quali sono i rischi? Secondo Florent Bronès, strategist di Bnp Paribas, «esiste l’eventualità che il rallentamento della congiuntura statunitense sfoci in una vera e propria recessione, innescando un effetto a catena con conseguenze facilmente immaginabili. In secondo luogo - prosegue - c’è troppo ottimismo sulle prospettive di espansione dei profitti. Gli utili sono già a livelli record e da qui non possono che frenare». A ogni modo, e per quello che conta, nel nostro sondaggio gli ottimisti battono i pessimisti nove a uno.
 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza

 

 

 

  Rischio bolla sulla borsa cinese

23 Gennaio 2007 16:53 MILANO - di La Lettera Finanziaria

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Le azioni cinesi sono diventate le più care di tutta l'Asia e ciò induce gli strategist di alcune delle principali banche d'affari, come Citigroup, Hsbc e Ubs a mettere in guardia gli investitori. I titoli trattati sulle principali borse della Cina continentale costano circa il doppio, in rapporto agli utili, rispetto a 18 mesi fa. Anche rispetto ai prezzi medi rilevati sulle borse dei paesi emergenti le quotazioni sulla Borsa cinese risultano doppie.
L'anno scorso, l'indice Shanghai e Shenzhen 300 ha segnato un rialzo del 121%, portando il valore delle due borse a superare quota 1.000 miliardi di dollari per la prima volta. Ciò indusse il governo ad avvertire gli investitori che a sospingere la borsa era "un cieco ottimismo". Lo stesso che ha portato alcuni titoli a quotazioni stratosferiche. Dal collocamento, avvenuto a Shanghai il 9 gennaio e dopo richieste pari a 49 volte l'offerta, China Life Insurance co., primo gruppo assicurativo del paese, ha raddoppiato il valore.
Il titolo di industrial & commercial bank of china, prima banca cinese, ha segnato un rialzo del 70% dall'Ipo lanciata ad ottobre, che è risultato il maggior collocamento mai effettuato, con una richiesta del pubblico pari a cinque volte quella degli investitori istituzionali, secondo le banche che hanno gestito l'operazione. Tutto questo è motivo di allarme tra gli analisti, che vedono pericoli in agguato "ogniqualvolta si vedono investitori privati formare lunghe file per acquistare azioni ai collocamenti iniziali" dal momento che non sono i piccoli risparmiatori a stabilire la tendenza del mercato, piuttosto, si buttano a pesce quando pensano che ci sia da guadagnare e spesso sul finire del rally."
Hai gia' provato le quotazioni in tempo reale e il book a 15 livelli dei 3200 titoli del NASDAQ? Non morire di noia con le 299 azioni di Borsa Italiana, scopri le eccezionali performance di BOOK NASDAQ, cliccando su INSIDER
Le ondate di acquisti stanno prosegunedo. L'indice Shanghai e Shenzhen 300, che segue le azioni di classe A quotate sulle due Borse, ha guadagnato il 10% la scorsa settimana, toccando quota 2.396,09. Si tratta del balzo settimanale più cospicuo degli ultimi otto mesi. Oggi è salito di un altro 3,5% portando il guadagno da inizio anno al 21%. L'indice è valutato oggi 37 volte l'utile, un bel pezzo avanti rispetto al minimo di 14,4 volte visto nel luglio 2005. E anche rispetto all'indice Morgan Stanley Capital International Emerging Markets, l'indice di riferimento mondiale per i paesi emergenti, che vale 15 volte l'utile.
Il balzo registrato dalle azioni a in Cina "rende nervosi," commenta alla Bloomberg Virginie Maisonneuve, responsabile per l'azionario internazionale presso Schroder Investment Management ltd presso la sede di Londra. "Una correzione non mi sorprenderebbe e la considererei un'opportunità per comprare." Marc Faber, gestore a Hong Kong, che aveva previsto il crollo delle borse del 1987, ha detto l'8 gennaio sempre a Bloomberg News di usare "cautela" nell'acquistare azioni in Cina arrivando addirittura a pronosticare un crollo dei mercati emergenti nel primo trimestre di quest'anno.
Tutti questi moniti non stanno cadendo nel vuoto. le autorità cinesi stanno cercando da tempo di raffreddare il mercato. Alle banche, per esempio, è stato chiesto di non finanziare investimenti in borsa e di chiedere il rientro dei finanziamenti in essere. La banca centrale nell'ultimo anno ha inoltre aumentato quattro volte il coefficiente di riserva obbligatoria per le banche, portandolo a gennaio al 9,5% dei depositi, per ridurre la disponibilità di liquidità.
Bisogna ricordare che gli investitori privati cinesi, anche a causa delle restrizioni nell'investire all'estero, hanno immesso circa 150 miliardi di yuan nei fondi comuni e speso 100 miliardi di yuan nell'azionario nelle ultime sei settimane del 2006, secondo stime di Credit Suisse Group. A fine giugno, i fondi della Cina continentale amministravano 580 miliardi di yuan.
A questi investimenti si aggiungono quelli provenienti dall'estero. I fondi che investono soprattutto in Cina hanno riportato un afflusso di 1,3 miliardi di dollari nelle prime due settimane del 2007, ammontare quasi triplo rispetto ai fondi che investono nel resto dell'Asia, Giappone escluso, secondo Emerging Portfolio Fund Research inc. a Boston. L'anno scorso, la metà dell'ammontare record di 22,4 miliardi di dollari investito in fondi dei mercati emergenti è stato assorbito da fondi che investivano in Cina.
"Le attese degli investitori sono davvero molto elevate e conseguentemente lo sono anche i rischi" commenta Ajay Kapur, strategista responsabile per l'azionario globale presso Citigroup a new york. Per Garry Evans, di Hsbc, c'è un 30% di possibilità di una "forte correzione" nel primo semestre. "C'è stato un enorme afflusso di capitali sul mercato della Cina continentale," commenta Evans, responsabile per la strategia sull'azionario per l'Asia presso Hsbc a Hong Kong. "La situazione si fa effervescente."
 

Fonte - La Lettera Finanziaria

 

 

 

  Venerdì 12 gennaio 2007   Venerdì 19 gennaio 2007   Giovedì 25 gennaio 2007  
       
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GR1 RAI - 24 GEN ore 23:00

   

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  Borsa noiosa? Cambierà presto

26 Gennaio 2007 1:09 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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Ogni trimestre, nelle tre settimane dedicate alla comunicazione dei risultati societari, il mercato azionario si muove poco, almeno nei primi 10-15 giorni. Mentre le azioni singole reagiscono anche violentemente, gli indici reagiscono poco. Nessuno, giustamente, vuole mettersi aggressivamente al rialzo o al ribasso quando di lì a poche ore o minuti qualche altra importante società comunicherà gli utili, cambiando magari di segno l’umore generale.
Solo quando comincia a profilarsi un risultato complessivo, quando cioè almeno metà delle società hanno reso piena confessione dei loro fatti e misfatti, solo allora il mercato si incammina, se è il caso, nell’una o nell’altra direzione.
Non è detto che questa volta sia il caso. Il primo quinto di società americane (in Europa siamo anche più indietro) ha prodotto risultati certamente molto buoni (con il consueto e rituale centesimo in più rispetto alle stime) ma non strabilianti e non significativamente superiori a quanto il mercato in cuor suo si aspettasse come dovuto.

La nostra scommessa è che fra qualche giorno usciremo dal range strettissimo delle ultime settimane e vedremo oscillazioni più ampie, ma senza che questo significhi una direzione precisa.
C’è infatti un sostanziale equilibrio tra lo scenario complessivamente positivo da una parte e i sette mesi di rialzo ininterrotto che ci portiamo sulle spalle e il sentiment iper-rialzista dall’altra. C’è una fisiologia, anche nei bull market più feroci, per cui pause e consolidamenti sono un elemento di forza, più che di debolezza.
C’è poi un elemento d’incertezza macro, sia pure all’interno di un quadro benigno. L’incertezza non è tanto sul comportamento della Fed e sul suo presunto attivismo nell’abbassare i tassi (a questo pensano i bond nella loro lentissima deriva), quanto sulle motivazioni di un eventuale prolungarsi dei livelli attuali.
Ci può infatti essere un motivo nobile per non abbassare i tassi, ovvero un rallentamento dell’espansione meno pronunciato di quanto già incorporato nelle attese del mercato, e ce ne può essere un altro molto meno apprezzabile, ovvero un permanere eventuale dell’inflazione core su un plateau più alto dei limiti ufficiosi di inflation targeting, con la prospettiva, in caso di riaccelerazione della crescita nel secondo semestre, di salire ulteriormente.
Sarà dunque l’inflazione core il dato da guardare con più attenzione nei prossimi tre mesi, in un contesto in cui le materie prime, da mesi in pesante ribasso, potrebbero anche dare vita a un modesto e temporaneo recupero proprio in questa fase così delicata.
Poiché occorrerà aspettare almeno un trimestre per capire con che velocità l’inflazione core sta scendendo, se l’azionario vorrà nel frattempo avventurarsi troppo in alto lo farà a proprio rischio e pericolo. Uno scenario spiacevole sarebbe quello di un rialzo delle borse fino a primavera bruscamente interrotto dal profilarsi dello spettro (o dalla realtà) di un rialzo dai tassi motivato dal persistere dell’inflazione. Non è lo scenario più probabile (gli diamo un 20 per cento di possibilità), ma va tenuto in conto prima di sbilanciarsi troppo aggressivamente. Più probabile (e desiderabile) è un aumento di volatilità con un tono di fondo leggermente positivo. Un esito di questo tipo decongestionerebbe il mercato e placherebbe, senza spegnerle, le sue pulsioni rialziste.
Quanto alle esogene, si manterranno a distanza di sicurezza. Il profilarsi di una guerra civile in Libano, con il rischio che Hezbollah si faccia stato a che l’Iran arrivi in questo modo a confinare direttamente con Israele, non promette nulla di buono per il medio termine ma nel breve, cioè per quest’anno, resterà un problema circoscritto.
Quanto al petrolio, qualsiasi cosa succeda sotto i 65 dollari potrà creare qualche intralcio temporaneo nelle fasi in cui il prezzo sale, ma non sarà tale da mettere in discussione il quadro di fondo dell’espansione. Lo stesso problema libanese, con l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti schierati da una parte e l’Iran dall’altra, cementa l’alleanza tra sauditi e America anche sul petrolio, con effetti calmieratori sul prezzo.
Tirando le somme, essere sottopesati di azionario ci pare più rischioso che essere sovrappesati, ma essere neutrali resta l’opzione preferibile. Parliamo di una neutralità attiva, propensa al trading, alla vendita di put e a muoversi tra il sovrappesato e il neutrale.
In questo momento i mercati azionari sono coccolati da tutti. Dai sauditi che rassicurano sul petrolio. Dai giapponesi che promettono altro combustibile per il carry trading con una politica di rialzo dei tassi al limite dell’invisibile. Dai cambi che si mantengono tranquilli e non creano problemi. Dai bond che si tengono nell’ombra evitando in tutti i modi di presentarsi come alternativa attraente. Il buon umore è più che comprensibile. Purché non ci si monti la testa.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

 

  La strettoia di un piccolo crollo

29 Gennaio 2007 1:27 MILANO - di di Giuseppe Turani

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Il boom di Borsa continua e imperversa. Sembra sordo a qualsiasi avviso di prudenza e di cautela. Basta guardare l´andamento degli indici nel corso degli ultimi tre anni per vedere che le mani forti e quelle deboli sono unite verso un unico obiettivo: quotazioni ancora più alte, senza sosta e con un certo sprezzo del pericolo.
Da qualche settimana, però, si notano crisi di coscienza che da New York arrivano fino alla Vecchia Europa. Dopo una prima parte della settimana scoppiettante, come al solito, nelle ultime sedute improvvisamente gli indici virano sul rosso e scendono. Non di tantissimo, ma scendono. E questo, al di là dei risultati settimanali, che sono sempre positivi, è un segnale che qualche dubbio sta affiorando. Di che cosa si tratta? Di dubbi, come si diceva prima.
Oggi i mercati, per essere chiari, non hanno perplessità sull´andamento complessivo dell´economia mondiale. Negli Stati Uniti, che erano la zona più debole, i tanti crack annunciati non si sono verificati e tutto sembra andare come di consueto. Anzi, se fino a qualche settimana fa si pensava che nel 2007 ci sarebbe stata una modesta crescita del 2 per cento, adesso si comincia a credere (o a sperare) che si possa andare al 2,5 per cento e forse addirittura al 3 per cento. Insomma, bene.
Benissimo, soprattutto se si ricorda che ancora fino a qualche mese fa si temeva un avvio di recessione o, peggio ancora, un hard-landing, cioè un atterraggio duro, da schiantarsi le ossa sulla pista (evento che avrebbe avuto ripercussioni pesantissime sul resto dell´economia mondiale).
L´Asia rallenta un po´, ma questo era nei voti di tutti per evitare un incendio di proporzioni devastanti. Ma anche dopo le frenate l´Asia continua a andare avanti a ritmi (dal 6 al 10 per cento, a seconda dei paesi) più che sufficienti per fare da stimolo all´economia mondiale. Su quel fronte, quindi e almeno per ora, nessun problema.
L´Europa, in questo breve scenario, rappresenta la novità positiva, nel senso che la bella addormentata un po´ si sta svegliando. Per ora non girano cifre da capogiro (la crescita 2007 è vista fra il 2 e il 2,5 per cento), ma è fuori di dubbio che siamo davanti a un risveglio. La Germania, che molti avevano dato per assopita per sempre, adesso si è svegliata, è forte, e corre molto. Anzi, qualche studioso comincia a dire che nei prossimi anni l´Europa potrebbe essere un´area economica più brillante degli Stati Uniti.
Questo spiega perché le mani forti e le mani deboli dei mercati rimangono sostanzialmente ottimiste. Il 2007 è visto come un altro anno positivo. Come un altro anno in cui le aziende faranno buoni affari e si presenteranno con utili più che interessanti (mediamente). E´ questa sensazione di un´annata che non presenta pericoli a tenere vivo l´ottimismo degli operatori grandi e piccoli.
Ma allora perché quasi regolarmente a metà settimana si spaventano e cominciano a vendere, sia pure un po´ di soppiatto e nascondendo la mano? Perché questo ondeggiamenti, queste variazioni d´umore a cadenza settimanale? La spiegazione c´è e è molto semplice. Anzi, ce ne sono due. La prima è che tutti quelli che stanno comprando e vendendo in Borsa sanno che le quotazioni sono già un po´ troppo alte e che "devono" scendere di un 5- 10 per cento. Tutti sanno che questa "limatura" è dentro i mercati e sanno che prima o poi arriverà. Ma cercano di rinviarla il più tardi possibile. Quindi al giovedì vendono, ma poi, temendo di innescare un effetto valanga, al lunedì ricominciano a comprare per ristabilire l´equilibrio ex-ante.
Inoltre, hanno capito (anche se non da molto) che dalle banche centrali non arriverà a loro nessun aiuto. Fino a non molto tempo fa erano convinti che nel giro di qualche mese la Federal Riserve avrebbe tagliato i tassi americani, rilanciando un´economia (supposta in crisi), ma anche Wall Street. E Wall Street si sarebbe trascinata dietro tutte le altre Borse, in una nuova piccola orgia rialzista. Ma nel giro di qualche settimana tutto è cambiato. L´America va bene, e quindi la Fed non taglierà proprio niente: starà ferma.
In Europa, invece, la Bce continuerà a alzare (il primo appuntamento è all´8 di marzo). In sostanza, i mercati sanno che si sono spinti un po´ troppo in avanti (forse sperando proprio che arrivasse una mano dalle banche centrali). E adesso sanno che non arriverà nessun aiuto dai signori che governano la moneta sulle due sponde dell´Atlantico. E quindi, pur essendo evidente che il 2007 quasi certamente sarà un buon anno di Borsa, sanno che prima devono passare attraverso la strettoia di un piccolo crollo.
Crollo che molti aspettavano per inizio gennaio e che invece è stato rinviato. Ormai siamo alla fine di gennaio e ancora non si è visto niente. Se non quei piccoli segnali di nervosismo sul finire della settimana, quando i più avvertiti si liberano di un po´ di titoli, giusto per saggiare gli umori del mercato, salvo spaventarsi poi durante il week-end, e tornare compratori il lunedì. Insomma, si sa che la spada di Damocle deve cadere, ma si spera che sia la settimana prossima. O il mese prossimo.
 

Fonte - La Repubblica

 


 

 

 

 

WALL STREET CONTRASTATA IN ATTESA DELLA FED

29 Gennaio 2007 22:00 NEW YORK - di ANSA
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La seduta di borsa di Wall Street si e’ chiusa con gli indici contrastati. Le numerose operazioni di fusioni e acquisizioni societarie e il calo del greggio hanno offerto un contenuto supporto agli acquisti. Il Dow Jones ha guadagnato lo 0.03% a 12490, l’S&P500 e' arretrato dello 0.11% a 1420, il Nasdaq e’ avanzato dello 0.23% a 2441.
La settimana in corso sara’ caratterizzata da numerosi dati macro e trimestrali societarie, nonche’ dall’incontro della Federal Reserve sui tassi d’interesse per cui e’ ampiamente attesa una conferma dell’attuale livello (5.25%). Molto interessante sara’ pero’ valutare il documento ufficiale che accompagna la decisione della Banca Centrale, alla luce degli ultimi robusti dati economici.
Nelle scorse settimane, i mercati hanno assistito ad una serie positiva di notizie che e’ difficile prevedere cosa possa muovere i listini ulteriormente al rialzo, dando origine ad un nuovo mercato toro, nelle attuali condizioni di ipercomprato.
Tuttavia, ognuno degli appuntamenti in calendario ha il potenziale di muovere i mercati e non dovrebbe sorpendere, quindi, il contenuto movimento giornaliero, almeno fino a che gli operatori non avranno un quadro completo dell’attuale situazione economica.

 

 

 

 

 

 

  Guru & Gufi: da leggare senza pregiudizi

31 Gennaio 2007 0:45 MILANO - di M. Malandra

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«Non sono certo ottimista sul mercato azionario. Anzi sono convinto del prossimo ribasso dei principali indici». A pronunciare queste parole non è un semplice broker o analista, ma Tom DeMark, uno dei massimi guru dell’analisi tecnica, anche se lui ama definirsi un market timer, uno che sa leggere i tempi dei mercati, più che un analista.
Borsa & Finanza lo ha incontrato in occasione di un seminario organizzato a Milano da Intesatrade e dalla piattaforma finanziaria Bloomberg, e ha approfittato della ghiotta occasione per rivolgere all’autore di una serie di numerosi e noti indicatori e oscillatori qualche domanda sulle prospettive dei mercati.
Mister DeMark, come mai questa visione negativa sull’azionario? Le Borse stanno salendo ormai da quattro anni, e credo proprio che siano quasi arrivate al capolinea. Nel corso delle prossime settimane assisteremo a nuovi massimi degli indici azionari, sia negli Stati Uniti sia in Europa, ma al contempo sono in formazione, sia sui grafici settimanali sia su quelli mensili, una serie di «13» (il numero che identifica in alcuni indicatori di Tom DeMark, per esempio Sequential e Combo, la possibile fine di un movimento, ndr). Siamo cioè sempre più vicini all’esaurimento del trend crescente.
Meglio quindi cominciare ad alleggerire le posizioni sull’equity? Direi proprio di sì, a mio parere non vi è più appeal in questa asset class. E nemmeno in termini di comparti vedo occasioni particolari. Le utility appaiono le uniche in grado di reggere il calo, ma si tratta solo di un battaglia di retroguardia. Perché rischiare quindi?
Neanche la statistica del ciclo presidenziale, secondo cui il secondo biennio del mandato presidenziale Usa è generalmente positivo, riuscirà a ribaltare la situazione? Non credo proprio. Penso infatti che la vittoria dei democratici al Congresso sia stato un brutto segnale dal punto di vista dei mercati azionari, che sconteremo a partire dai prossimi mesi.
È così brutta quindi la situazione? Possibile che non vi sia nulla di positivo in giro per il mondo? In realtà vi sono due investimenti che mi sento di proporre, e che a parer mio avranno risultati molto buoni. Ma è evidente che il rischio è elevato.
Quali sono? Le due commodity più seguite, vale a dire oro e petrolio. Il greggio rimarrà ancora a lungo la materia prima che fa girare l’economia mondiale: ora il mio target sul future è di almeno 85 dollari al barile. Discorso analogo anche per l’oro. Con obiettivo a 1.200 dollari per oncia.
A parte le commodity, quindi, dove è meglio investire? Obbligazionario di breve, T-bill a tre e sei mesi. Mi pare l’unica attività che possa garantire un buon rendimento con rischi veramente limitati.
E per un investitore europeo? Anche. Dopo il calo del 2006, vedo molto positivamente il dollaro statunitense. Ecco che quindi per un europeo si profila un doppio guadagno: da una parte sfrutta il differenziale sui tassi, che vede favoriti gli Usa, dall’altra la rivalutazione del dollaro nei confronti dell’euro.
 

 

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza