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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Materie Prime - Petrolio

Petrolio: la trave nell'occhio dell'aquila

Macro mondo - G8

Economia: ancora la logora farsa del G8

FED

Bernanke? bocciato

Macro USA

Mattone USA? Frenata sì, crollo no

Borse e Mercati

La Cina corre e insegue Wall Street

Borse e Mercati

L' interesse del Samurai

   

Vai alla seconda parte della Rassegna

 

+++   I test missilistici nord-coreani spaventano i mercati   +++   Israele attacca il Libano - Beirut in fiamme   +++   In azione la diplomazione internazionale per scongiurare una escalation del conflitto   +++

  Giovedì  13  luglio  2006   Venerdì  14  luglio  2006   Domenica  16  luglio  2006  
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GR1 RAI - 06 LUG ore 22:00

   

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  Petrolio: la trave nell'occhio dell'aquila

20 Luglio 2006 New York - (di Pablo Ayo)
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Il prezzo del petrolio schizza a 75.78 dollari al barile, il caro benzina ci sormonta implacabilmente, e presto poter prendere la macchina per fare un giro sarà considerato un lusso. Di chi è la colpa? Ma degli “Stati Canaglia”, come ci rivela l’amministrazione Bush con una precisione svizzera.
“A spingere così in alto le quotazioni (questi livelli non venivano toccati dal 1980, anno successivo alla rivoluzione iraniana), sono state le tensioni internazionali create dai programmi nucleari di Iran e Corea del Nord. Teheran è il quarto produttore mondiale di greggio e ha minacciato ritorsioni nelle forniture, se da parte dell'Occidente arrivassero sanzioni per i test di arricchimento dell'uranio”, citano le fonti ANSA. Non avevamo dubbi a riguardo, ma naturalmente la notizia vale un approfondimento, e qualche considerazione.

I titoli dei giornali di oggi [14 luglio, NdR] parlano di “nuovo record storico” dei prezzi del petrolio, e aggiungono che secondo gli esperti la corsa al rincaro non dovrebbero rallentare, dato che la scorsa settimana le scorte Usa sono scese di altri 2,4 milioni di barili.
È di non molto tempo fa l’ammissione di Bush che fece scalpore: «L’America è drogata dal petrolio», disse il Presidente USA, «spesso importato da zone instabili del mondo. Il modo migliore per spezzare la dipendenza è la tecnologia». Bush desidera rimpiazzare con fonti alternative entro il 2025 oltre il 75% dell’import di greggio dal Medio Oriente e annuncia un aumento del 22% degli stanziamenti per la ricerca sull’energia pulita. Ma per adesso, la politica energetica USA di pulito ha ben poco.

Qualche mese fa, il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice stilava la lista degli “Stati Canaglia” che gli Stati Uniti dovevano perseguitare per il loro coinvolgimento col terrorismo. Eppure, a una pur banale e superficiale analisi, saltava all’occhio che tutte queste potenze straniere erano forti produttrici di petrolio, Peter Phillips, nel suo libro 'Censura 2006: Le 25 notizie più censurate' (Nuovi Mondi Media, 2006), afferma che il vero motivo per un possibile attacco USA nei riguardi dell’Iran non è la loro ricerca sul nucleare. “I motivi economici preoccupano gli USA molto più di qualunque arma di distruzione di massa. Il vero pericolo è rappresentato dal suo tentativo di modificare il sistema economico mondiale utilizzando il petro-euro al posto del petro-dollaro.
Un tale cambiamento viene considerato, nei circoli americani, come una vera e propria dichiarazione di guerra economica che appiattirebbe i profitti delle aziende americane provocando anche un probabile collasso economico. Nel giugno del 2004 l’Iran aveva manifestato la sua intenzione di creare un centro di scambio petrolifero internazionale (una borsa) basata sull’euro. L’iniziativa trovava il favore sia di molti paesi produttori sia di molti paesi consumatori. Naturalmente questa borsa si sarebbe trovata a competere con la borsa petrolifera di Londra (International Petroleum Exchange - IPE-), e con quella di New York (New York Mercantile Exchange - NYMEX-), ambedue in mano americana. Se l’Iran, seguito da altri paesi produttori, fosse disposto ad accettare l’Euro al posto del Dollaro l’economia americana si troverebbe ad affrontare una vera e propria crisi.”

Nel frattempo, come goccia che fa traboccare il vaso, è di poco fa la notizia che ora Cuba, per estrarre il proprio petrolio, si farà aiutare tecnologicamente ed economicamente dalla Cina. Le riserve petrolifere finora erano divise esattamente a metà tra Cuba e USA da un trattato firmato nel 1977. Ma ora Pechino ha firmato un contratto con Cuba per lo sfruttamento dei giacimenti nel golfo della Florida, mentre gli americani sono disperati per il vertiginoso aumento del prezzo della benzina che potrebbe fare perdere le elezioni al partito di governo e i petrolieri del Texas masticano amaro per la nazionalizzazione dei loro interessi in Venezuela.
George Monbiot, dal suo sito www.monbiot.com. ci rammenta i veri motivi delle recenti campagne militari USA. “Nell'industria petrolifera se ne parla a bassa voce. Ogni generazione ha il suo tabù, e questo è il nostro: che la risorsa sulla base della quale sono state costruite e impostate le nostre vite stia esaurendosi. Non ne parliamo perché non riusciamo nemmeno ad immaginarcelo. Questa civiltà se lo nasconde. Il petrolio in sé non scomparirà, ma estrarre quello che resta sta diventando sempre più difficile e costoso. La scoperta di nuove riserve ha raggiunto l'apice negli anni 60. Ogni anno, consumiamo quattro volte il petrolio che troviamo.

Tutte le grandi scoperte sembra siano state fatte molto tempo fa: i 400 milioni di barili nel Mare del Nord sarebbero stati considerati insignificanti negli anni ‘70. I nostri approvvigionamenti futuri dipenderanno dalla scoperta di piccoli nuovi giacimenti e da un migliore sfruttamento di quelli grandi. Nessun esperto del settore dubita che la produzione globale di petrolio diminuirà entro breve tempo. La sola domanda è fra quanto tempo. Le proiezioni più ottimistiche sono quelle del Dipartimento per l'Energia statunitense, secondo le quali ciò non accadrà fino al 2037. Ma l'agenzia americana di informazione sull'energia ha ammesso che i dati del governo sono stati edulcorati: le sue proiezioni sono state basate sulle previsioni di domanda di petrolio, forse per non seminare il panico nei mercati finanziari.
Altri analisti sono meno ottimisti. Il geologo petrolifero Colin Campbell calcola che l'estrazione globale scenderà prima del 2010. Il geofisico Kenneth Deffeyes ha riferito a New Scientist di essere "sicuro al 99%" che l'anno di massima produzione mondiale è stato il 2004. Anche se gli ottimisti avessero ragione, saremo giunti a raschiare il fondo del barile prima del termine della vita di molti di quelli che sono oggi di mezza età. La disponibilità di petrolio diminuirà, la domanda globale no. Nella giornata di oggi bruceremo 76 milioni di barili; entro il 2020 utilizzeremo 112 milioni di barili al giorno, dopo di che la domanda prevista subirà un'accelerazione. Se i rifornimenti scenderanno e la domanda crescerà, presto ci troveremo di fronte a qualcosa a cui le economie industriali avanzate non sono abituate: la scarsità di prodotto. Il prezzo del petrolio andrà alle stelle.

A seguito di questo aumento di prezzo, i settori che oggi dipendono pressoché totalmente dal petrolio greggio - principalmente i trasporti e l'agricoltura - saranno costretti a subire una contrazione. Considerando che i cambiamenti climatici causati dal consumo di petrolio stanno cuocendo il pianeta, questo potrebbe sembrare un evento positivo. Il problema é che le nostre vite sono strettamente dipendenti dall'economia del petrolio. Le nostre periferie sempre più estese sono impossibili da servire senza automobili. Prezzi alti del petrolio significano prezzi alti per il cibo: molti dei sempre più numerosi abitanti del pianeta soffriranno la fame. Questi problemi saranno esacerbati dal legame diretto fra i prezzi del petrolio e il tasso di disoccupazione. Le ultime cinque recessioni negli Stati Uniti sono state tutte precedute da un aumento del prezzo del petrolio. L'unica risposta razionale all'imminente fine dell'età del petrolio e alla minaccia del riscaldamento globale è di ripensare le nostre città, la nostra agricoltura, le nostre vite. Ma ciò non può accadere senza una massiccia pressione politica, e il nostro problema è che nessuno è mai insorto a favore dell'austerità. La gente scende nelle piazze perché vuole consumare di più, non di meno.”

Le rivelazioni di Scott Ritter
Qualcuno si domanderà se noi giornalisti di frontiera non si sia completamente impazziti: in fondo, uno stato sovrano come gli Stati Uniti, sotto l’egida dell’ONU, ha affermato che l’Iraq di Saddam (ex “stato Canaglia”) era un pericolo per l’umanità, per via delle sue temibili “armi di distruzione di massa”. Ebbene, a questo riguardo qualche elemento illuminante ce lo può fornire Scott Ritter.
Ritter è un ex membro dell’intelligence del corpo dei Marines, nonché ex ispettore dell’ONU in Iran per la famigerata ricerca delle armi di distruzione di massa, che di recente non ha risparmiato critiche all’amministrazione Bush. Già nel 2004 scriveva: “Il programma Oil For Food traeva origine dalla risoluzione del consiglio di sicurezza, promossa principalmente dagli Stati Uniti, ratificata nell'aprile del 1995 ma non entrata in vigore fino al dicembre 1996. Durante questo arco di tempo la CIA appoggiò due tentativi di colpo di stato contro Saddam, il secondo dei quali, il più famoso, uno sforzo congiunto con gli inglesi, che implose nel giugno del 1996, al culmine dei negoziati per l'attuazione del programma Oil For Food.

Il programma oil for food non è mai stato un sincero sforzo di sostegno umanitario, ma piuttosto un espediente politicamente motivato teso ad attuare la reale politica degli Stati Uniti: un cambio di regime. Attraverso vari meccanismi di controllo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avevano la possibilità di aprire e chiudere il flusso di petrolio a proprio piacimento. In questo modo gli americani hanno potuto autorizzare un'esenzione di un miliardo di dollari inerente l'esportazione di petrolio iracheno per la Giordania, oltre che legittimare i miliardari traffici illegali di petrolio lungo il confine turco, dal quale hanno tratto vantaggio tanto l'alleato Nato Turchia quanto i fautori di un cambio di regime nel Kurdistan.
Contemporaneamente, mentre il segretario di stato americano Madeleine Albright stava negoziando con il ministro degli esteri Primakov riguardo a un accordo mediato dai russi per porre fine all'impasse tra l'Iraq e gli ispettori delle Nazioni Unite nell'ottobre/novembre 1997, gli Stati Uniti chiudevano un occhio sulla creazione di una compagnia petrolifera russa a Cipro. Questa compagnia petrolifera, guidata dalla sorella di Primakov, comprava petrolio dall'Iraq grazie al programma Oil For Food a prezzi irrisori per poi rivenderlo a pieno prezzo di mercato principalmente alle compagnie americane, spartendosi equamente la differenza con Primakov e gli iracheni.

Questo patto, promosso dagli Stati Uniti, ha generato profitti per centinaia di milioni di dollari sia per i russi che per gli iracheni, fuori dal controllo Oil For Food. È stato stimato che l'80% del petrolio illegalmente fuoriuscito dall'Iraq sotto il programma Oil For Food sia finito negli Stati Uniiti. In maniera analoga, utilizzando il suo potere di veto sul comitato 661, creato nel 1990 per monitorare e gestire le sanzioni economiche contro l'Iraq, gli Stati Uniti furono capaci di bloccare milardi di dollari di beni umanitari legittimamente aquistati dall'Iraq sotto l'egida dell'accordo Oil For Food. E quando Saddam si mostrò troppo abile nell'arricchirsi con le tangenti, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna idearono un nuovo sistema di vendita del petrolio che forzava potenziali aquirenti ad impegnarsi in contratti petroliferi nei quali il prezzo sarebbe stato deciso dopo che il petrolio era stato venduto, un meccanismo perverso che portò rapidamente la vendita del petrolio ad un arresto, privando di denaro il programma Oil For Food al punto che miliardi di dollari di contratti umanitari non poterono essere pagati dalle Nazioni Unite.
La palese corruzione del programma Oil For Food era reale, ma non è scaturita in seno alle Nazioni Unite, come sostengono Norman Coleman ed altri. Le sue orgini risiedono in una politica moralmente corrotta di strangolamento dell'economia Irachena, messa in atto dagli Stati Uniti, nel contesto di una più ampia strategia di cambio di regime. Dal 1991 gli Stati Uniti avevano fatto capire chiaramente, attraverso successive affermazioni di James Baker, George W. Bush e Madeleine Albright, che le sanzioni economiche, legate all'obbligo iracheno di disarmarsi, non sarebbero mai state ritirate anche se l'Iraq avesse adempiuto ai suoi obblighi e si fosse disarmato, fino a quando Saddam Hussein non fosse stato rimosso dal potere.

Tale politica è rimasta inalterata per oltre un decennio, durante il quale centinaia di migliaia di iracheni sono morti a causa di queste sanzioni. Mentre il denaro derivante dalla vendita illegale di petrolio serviva in realtà a finanziare la compravendita di armi convenzionali e la costruzione di palazzi, la stragrande maggioranza dei fondi era versata in programmi di recupero economico che hanno permesso all'Iraq di emergere dalla rovina finanziaria pressochè totale del 1996. Nel 2002, alla vigilia dell'invasione guidata dagli americani, a Baghdad gli affari prosperavano, i ristoranti erano gremiti e le famiglie camminavano liberamente attraverso giardini ben puliti. Adesso prendete questa immagine e confrontatela con la realtà di Baghdad oggi, e la corruzione estrema che era il programma Oil For Food diventa lampante.”

Chi sono davvero gli ‘Stati Canaglia’?
Stati Canaglia: secondo gli Stati Uniti devono considerarsi tali (l’espressione fu usata per la prima volta da Colin Powell) quei Paesi che, qualunque sia il loro regime interno, possiedono armi di distruzione di massa e soprattutto appoggiano o praticano direttamente il terrorismo all’interno del loro territorio o fuori dei confini a danno di Paesi terzi. L’FBI americano così definisce il terrorismo: "Uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà a fini intimidatori o coercitivi nei confronti di un Governo, della loro popolazione civile o di ogni loro parte, per l’ottenimento di obiettivi politici o sociali". Ora che si parla così tanto di terrorismo internazionale e dalle misure per sconfiggerlo, è opportuno chiedersi chi siano davvero i veri terroristi e gli autentici stati canaglia.

Naturalmente la lista in questione è lunga e non si ferma solamente al Nicaragua. Discutendo sulla lotta contro l’Apartheid in Sudafrica, il prof. Noam Chomsky, professore al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, negli Stati Uniti, ebbe a dichiarare: "I potenti possiedono le maggiori risorse per l’uso della violenza, ma quando sono loro a usare violenza la chiamano autodifesa; al contrario, quando sono le vittime, quello si chiama terrorismo.
Nel 1988, quando il Governo americano era alleato del Governo razzista di Pretoria il Pentagono definì Nelson Mandela (premio Nobel per la pace) ‘uno dei più pericolosi terroristi del mondo’". Nell’autunno del 1965, con un colpo di stato, il generale Suharto prese il potere in Indonesia. Stati Uniti e Gran Bretagna temevano che il PKI, forte di un sostegno di massa fra i contadini, potesse trasformare l’Indonesia in un bastione antioccidentale passando nel blocco sovietico. Il generale Suharto in pochissimo tempo fece massacrare circa due milioni di persone, in maggioranza civili innocenti. La stampa americana si profuse in lodi di Suharto. Il New York Times lo descrisse come "un raggio di luce in Asia". Newsweek dichiarò: "E’ la speranza là dove non c’era". I diplomatici angloamericani esprimevano grande soddisfazione.

Mentre a El Salvador, nel dicembre 1981, il battaglione Atlacatl dell’esercito salvadoregno compie una strage al villaggio di El Mozote: uomini, donne, e bambini vengono uccisi dentro la Chiesa a fucilate e coltellate. 1.200 i morti, tutti civili. A distanza di tempo gli USA riconobbero che "il battaglione Atlacatl fu addestrato dai militari degli Stati Uniti nel 1981... L’addestramento fu condotto nel Salvador" (Memorandum 1-90/51466). Allora, chi sono gli "Stati canaglia"? Stati Uniti e Gran Bretagna hanno armi di distruzione di massa, ospitano e addestrano terroristi dentro e fuori il loro territorio e usano direttamente o indirettamente metodi terroristici per colpire e danneggiare i loro avversari. Famoso era il piano, previsto negli anni ’60 dalla CIA, per avvelenare i sigari di Fidel Castro! Per non parlare della cronaca più recente, dove nei confronti di 22 agenti CIA, responsabili del rapimento su suolo italiano dell’Imam della Moschea di Milano, Abu Omar, sono stati emessi addirittura degli ordini di arresto da parte della magistratura.
Noam Chomsky continua a illuminarci sulla strategia di politica estera degli USA. «Uno studio segreto del 1995 del Comando Strategico, che è responsabile dell'arsenale strategico nucleare, tratteggiò il pensiero base. Rilasciato grazie al Freedom of Information Act, lo studio, Elementi sulla deterrenza nel post guerra fredda (Essentials of Post-Cold War Deterrence), mostra come gli Stati Uniti hanno spostato la loro strategia dissuasiva dalla defunta Unione Sovietica ai cosiddetti stati canaglia come Iraq, Libia, Cuba e Corea del Nord.
Lo studio sostiene che gli Stati Uniti usino il loro arsenale nucleare per presentarsi come "irrazionali e vendicativi se i loro interessi vitali sono attaccati". Ciò "dovrebbe essere una parte della caratteristica nazionale che prospettiamo a tutti gli avversari, specialmente gli Stati canaglia". "Nuoce presentarci come troppo razionali e calmi", tanto meno impegnati in tali sciocchezze come il diritto internazionale e gli obblighi di trattato. "Il fatto che alcuni elementi" del governo degli Stati Uniti "possano sembrare essere potenzialmente 'fuori controllo' può essere utile a creare e rafforzare paure e dubbi nella testa degli avversari".

La relazione risuscita la "teoria del pazzo" di Nixon: i nostri nemici dovrebbero rendersi conto che siamo matti ed imprevedibili, con una straordinaria forza distruttiva al nostro comando, così si piegheranno al nostro volere per paura. A quanto pare, l'idea fu escogitata in Israele negli anni '50 dal partito laburista al governo, i cui leader "spingevano verso atti di pazzia", riporta il Primo Ministro Moshe Sharett nel suo diario, avvertendo che "diventeremo matti (nishtagea)" se fermati, una "arma segreta" puntata in parte contro gli Stati Uniti, non considerati sufficientemente affidabili a quel tempo.
Da parte dell'unica superpotenza mondiale, che si ritiene uno stato fuorilegge ed è soggetta a pochi vincoli da parte dell'elite interna, quella posizione pone non pochi problemi al mondo. Subito dopo la caduta del muro di Berlino, finito ogni ricorso alla minaccia sovietica, l'Amministrazione Bush presentò la sua richiesta annuale al Congresso per un sostanzioso aumento del budget del Pentagono. Spiegò che "nella nuova era,prevediamo che la nostra forza militare resterà un sostegno essenziale all'equilibrio mondiale, ma... le necessità più probabili per l'uso delle nostre forze militari potranno non riguardare l'Unione Sovietica, ma il Terzo Mondo, dove nuove capacità ed impostazioni possono essere richieste", come "quando il Presidente Reagan diresse la forza aerea e navale americana sulla Libia nel 1986" per bombardare bersagli civili ed urbani, spinto dallo scopo di "contribuire allo sviluppo internazionale della pace, libertà e progresso all'interno del quale la nostra democrazia - e le altre nazioni libere - possono prosperare".»

Traduzione: Nuovi Mondi Media
Fonte: Nexus – New Times Magazine


 

 

 

 

 

GUERRA, LE BORSE SE NE INFISCHIANO (PER ORA)

25 Luglio 2006 Milano - di Federico De Palo
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Cadono le bombe in Medio Oriente, ma i mercati non si mostrano particolarmente preoccupati: semmai nel corso della settimana appena trascorsa si sono entusiasmati per le dichiarazioni del presidente della Federal reserve, Ben Bernanke, che hanno ventilato uno stop alla politica di stretta monetaria.
Marco Vailati, direttore investimenti di Cassa lombarda, così commenta: «In poche ore la situazione è passata dal pessimismo, causato dalla tensioni geopolitiche, a un’ondata eccessiva di ottimismo. Queste crisi, non solo la questione israelo-palestinese ma anche quella dell'arricchimento dell’uranio in Iran, dei missili lanciati dalla Corea del nord o degli attentati in India, distolgono i mercati dal fisiologico sviluppo del ciclo e aumentano preoccupazioni, volatilità, incertezza. Tutti elementi che remano contro l’apprezzamento dei corsi». Ma poi prosegue aggiungendo: «Gli operatori, forse un po’ cinicamente, si sono quasi abituati a questo genere di eventi che non hanno più sui mercati l’impatto devastante che avrebbero avuto qualche anno fa».

Un altro elemento è che né Israele né il Libano sono paesi produttori di petrolio: fatta questa considerazione i mercati tendono a disinteressarsi del problema, e a concentrarsi su altri fattori quali ad esempio gli earning. Anche per Martin Hrdina, gestore di Union investment: «l’impatto per il momento è stato abbastanza limitato. I mercati mondiali stanno guardando maggiormente ai tassi di interesse e alla liquidità.
Finché il conflitto rimane regionale e non si allarga ad altri paesi come Siria, Giordania o Iran, l’impatto rimarrà relativamente innocuo». Secondo il gestore in questo contesto «i mercati rimangono spinti principalmente dalla politica monetaria in Usa, Giappone ed Europa».Secondo alcuni, in realtà la crisi mediorientale ha fatto semplicemente da catalizzatore a timori preesistenti. È questa la tesi di Stefano Pizzamiglio, gestore azionario Europa di Dws investments Italy sgr: «La crisi in Medio oriente, che al momento tocca paesi non produttori, ha rappresentato una scossa a mercati già pervasi dai timori sulla crescita negli Stati Uniti e sulle spinte inflazionistiche a livello mondiale. È stata come una spallata a un mercato già traballante».
 

QUANDO PARLA MISTER FED

Il mercato ha anche accolto con particolare ottimismo, da molti ritenuto eccessivo, le dichiarazioni del governatore della Fed che ha parlato di moderazione del tasso di crescita dell’economia, facendo quindi presagire una frenata sul fronte dei tassi Usa. Ad esempio, secondo Vailati, «il mercato ha sovrareagito a queste dichiarazioni. In realtà Bernanke non ha detto nulla di particolarmente nuovo e, parlando anche dei fattori inflazionistici, si è lasciato aperta la strada per altri aumenti dei tassi. I mercati sembrano avere ascoltato solo la prima parte del discorso e c’è stata una corsa eccessiva alla ricopertura (si pensi agli hedge che erano addirittura short)».
Tesi simile quella di Pizzamiglio: «Se la politica di Bernanke risulterà effettivamente uno stop alla stretta monetaria, anche in Europa si potranno avere benefici, anche se qui c’è da aspettarsi ancora qualche aumento dei tassi. Tuttavia leggendo attentamente le dichiarazioni del governatore è chiaro che si sia voluto lasciare aperte tutte le possibilità: non è affatto detto che non procederà ad altri rialzi». Per Hrdina, Bernanke ha evitato di specificare chiaramente la politica che seguirà: «Rimane dunque possibile un aumento dei tassi ad agosto». In questo contesto quindi sono vari e diversi i fattori di rischio, come sottolinea Vailati: «Non bisogna sottovalutare i pericoli insiti nella situazione che rimane di allerta e preoccupazione: l’incertezza produce negatività».
Secondo Hrdina perdurerà una situazione di breve periodo e «nell’immediato futuro l’azionario rimarrà volatile, sebbene una pausa della Fed molto probabilmente spingerà ancora in su i mercati». Sulla carta il settore petrolifero è avvantaggiato dalla situazione, ma molti settori ne subiscono invece le conseguenze. Per Pizzamiglio in Europa «ne risentono particolarmente i titoli automobilistici e le aziende chimiche. I primi, sia i produttori di auto che quelli di pneumatici, subiscono enormi aumenti nelle materie prime, al pari del comparto chimico che risente notevolmente dei costi energetici».
Sempre in Europa i tassi attesi, qui sì in crescita, favoriscono invece il settore bancario e quello assicurativo a differenza di quanto avviene nel resto del mondo dove, spiega Vailati, questi titoli «sono sfavoriti, soprattutto per i rischi connessi ai risarcimento danni sia per eventi naturali catastrofici (in estate gli uragani nei Caraibi sono più frequenti) sia per attentati». Quanto a consigli operativi, Hrdina ammette: «In termini di settori e stile di investimento il risultato non è così chiaro. In un contesto di perdurante incertezza della politica monetaria a breve termine e di una più moderata crescita, i titoli difensivi, growth e ad alta capitalizzazione, come ad esempio società con un flusso più stabile di utili, dovrebbero sovraperformare rispetto a ciclici, settore value e bassa capitalizzazione ». Riguardo al portafoglio Union investment consiglia di «sovrappesare i titoli dei settore salute, energia e assicurazione, e di sottopesare gli industriali e i produttori di beni di largo consumo».
 

RISIKO BANCARIO

Che gli aspetti legati a questo ennesimo conflitto mediorientale siano poco considerati anche nel mercato nostrano è dimostrato dal fatto che gli operatori tendono anche qui a individuare le banche come settore di interesse che, dice Vailati, «sono favorite sia per i tassi sia per le note vicende del risiko bancario e le spinte all’aggregazione». Sulla specifica situazione italiana interviene anche Raimondo Marcialis, responsabile team investimenti di Mc gestioni: «La borsa italiana è spesso giocata su pochi temi (una borsa monotematica) e viene vivacizzata, anche in questo periodo da problematiche politiche, da un po’ di energia e banche in tutte le salse».
Quanto ai problemi politici riguardanti il mercato italiano, proprio la settimana scorsa il ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa ha specificato che lo stato non ridurrà ulteriormente la propria quota di partecipazione in aziende strategiche come Eni ed Enel, nel contempo però ha anche ventilato l’ipotesi di aprire ai capitali privati poste e ferrovie. Marcialis comunque non vede «particolari motivi perché la borsa italiana debba sovra performare le altre borse europee» e anzi aggiunge che «le tensioni politiche e la scarsa diversificazione tipica del listino milanese non sono di certo elementi attrattivi per i grandi investitori che tendono a riposizionarsi ».
Le numerose forze operanti nel contesto danno come risultato mercati altalenanti ovunque.Nel periodo estivo poi i volumi si riducono e questo contribuisce ad accrescere la volatilità. Le visioni esageratamente rialziste sembrano sparite fra gli operatori ma i pessimisti, che oggi si aspetterebbero un allargamento del conflitto israelo- palestinese, e i moderatamente ottimisti si contendono la scena.
Fra questi ultimi si posiziona anche Vailati, secondo il quale non siamo in una situazione «da panic selling ma neppure in quella di un’euforica corsa all’acquisto. Il mio atteggiamento è prudente, non particolarmente esposto, ma neppure assente dall’azionario. Rimangono margini di crescita. Dove le aspettative sono troppo pompate c’è spazio per ridimensionamenti, al contrario dove le stime non sono esagerate ci possono essere ancora società in grado di stupire in positivo con riflessi sul listino».

 
Fonte - Il Valore


 

 

 

 

 

..... Lunedì  17  luglio  2006   Mercoledì  19  luglio  2006   Giovedì  20  luglio  2006 .....
       
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  Economia: ancora la logora farsa del G8

14 Luglio 2006 Lugano - (di Alfonso Tuor) 
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A pochi giorni dal vertice del G8 che si terrà a San Pietroburgo, che tra le altre cose dovrebbe sbloccare i negoziati commerciali del Doha Round nell'ambito dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), Pechino ha annunciato che in giugno il surplus commerciale cinese ha raggiunto la quota primato di 14,5 miliardi di dollari e che nel primo semestre di quest'anno ha toccato i 61,5 miliardi di dollari con un aumento del 55% rispetto ai primi sei mesi dell'anno scorso.
Questi dati sono in parte sorprendenti. Infatti gli economisti si aspettavano una riduzione dell'attivo commerciale a causa dell'aumento della bolletta petrolifera e dei prezzi delle altre materie prime di cui la Cina è una grande divoratrice. Ciò non è avvenuto a causa della crescita delle esportazioni aumentate in giugno del 23% (a 81,3 miliardi di dollari) rispetto allo stesso mese dell'anno precedente e a causa della sostituzione di molti prodotti finora importati con beni prodotti localmente.
Questo nuovo record è dunque destinato ad acuire le tensioni commerciali con i paesi di vecchia industrializzazione e a rilanciare le pressioni occidentali affinché il governo cinese rivaluti ancora lo yuan e garantisca un migliore accesso alle società occidentali. Ci si può quindi domandare se le richieste occidentali siano giustificate e se Pechino sarà disposta ad accettarle.Il surplus commerciale non è di per sè molto elevato e quindi apparentemente non dovrebbe costituire motivo di particolare fastidio.

Analizzando i dati si scopre però che gli scambi commerciali della Cina svolgono di fatto una funzione di grande ridistribuzione dei redditi a livello mondiale.
Infatti la Cina accusa dei disavanzi negli scambi commerciali con quasi tutti i paesi in via sviluppo che compensa con grandi surplus negli scambi commerciali con i paesi europei e soprattutto con gli Stati Uniti (ciò non vale per la Svizzera che vanta un attivo negli scambi commerciali con la Cina). Si scopre inoltre che circa la metà delle esportazioni cinesi proviene da multinazionali o società occidentali o giapponesi che hanno trasferito parte dei loro processi produttivi in Cina a causa del basso costo del lavoro. Pechino, che nell'ultimo anno ha già rivalutato lo yuan del 3,5% rispetto al dollaro, sostiene con ottime ragioni che anche un forte apprezzamento della valuta cinese non migliorerebbe la bilancia commerciale americana, perché negli Stati Uniti non vi sono più industrie in grado di sostituire le importazioni cinesi e perché Washington continuirebbe ad impedire l'esportazione di beni tecnologicamente avanzati (che la Cina vorrebbe comprare) per motivi di sicurezza militare.

Quindi, la leadership cinese, pur lasciandosi aperta la porta per una nuova modesta rivalutazione, continua a ripetere che la strada migliore per tentare di riaggiustare almeno parzialmente questi squilibri commerciali è quella di aspettare di vedere i risultati della sua politica che mira ad aumentare drasticamente i consumi interni e che quindi farebbe lievitare le importazioni di beni occidentali. Le considerazioni cinesi non sono campate in aria, ma esse mirano, da un canto, a guadagnare tempo e, dall'altro, ad aumentare il grado di interdipendenza economica rendendo estremamente più costosa una «guerra commerciale».
Ma vi è di più. Il governo cinese sa di poter contare sul sostegno politico delle multinazionali americane ed europee che operano in Cina e, in caso di necessità, di poter ricorrere alla minaccia di non più continuare a finanziare il disavanzo estero americano con la possibile conseguenza di provocare una crisi del dollaro ed un'impennata dei tassi di interesse statunitensi. Non solo. Le mosse del governo cinese sembrano chiaramente indicare che Pechino ha già previsto una progressiva chiusura dei mercati occidentali alle esportazioni cinesi e che si sta ritagliando un proprio spazio economico per garantirsi, da un canto, l'approvvigionamento di materie prime e, dall'altro, un mercato di sbocco per la propria industria di esportazione oltre ovviamente ad un sostegno politico.

Questa strategia è perseguita in modo chiaro e lucido in Africa (dove Pechino usa le proprie riserve valutarie per finanziare ampi progetti infrastrutturali), in America Latina e nel Sud-Est asiatico. Questa politica è aiutata dal fatto che con questi paesi la Cina ha per lo più un disavanzo negli scambi commerciali. Il nocciolo della questione è che la Cina per la velocità della sua crescita economica, per le sue dimensioni e per il suo peso geostrategico non può essere solo considerata un altro paese che fa parte del Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e che partecipa al libero commercio internazionale.
D'altra parte, sia gli Stati Uniti sia l'Europa non sono ancora disposte a trattare un accordo con Pechino che tenga conto del cambiamento delle variabili economiche, commerciali, finanziarie, ambientali e geostrategiche che il boom economico cinese sta provocando. Nel frattempo assisteremo ad un vertice del G8 che per l'assenza dei leaders di Cina, India e Brasile è destinato ad assomigliare ad un incontro delle potenze del passato.

 Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

 

Al Quaeda, voleva allagare Wall Street

08 Luglio 2006 New York - di Alberto Flores d'Arcais
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Volevano far saltare l'Holland, uno dei grandi tunnel sotto l'Hudson River che collega Manhattan al New Jersey, allagare Wall Street e tutto il quartiere finanziario di New York. L'ultimo piano di Al Qaeda per attaccare di nuovo la città colpita l'11 settembre del 2001 è stato sventato dall'Fbi prima che potesse prendere una forma definitiva; un estremista islamico, il libanese di 31 anni Assem Hammoud (nome di battaglia Amir al-Andalousi), arrestato a Beirut, ha confessato il progetto: l'attacco era previsto per il prossimo ottobre, una bomba dentro il tunnel ferroviario che porta i pendolari dal New Jersey fino a Ground Zero.
L'Fbi non ha dubbi, Hammoud è un seguace di Al Qaeda e aveva prestato giuramento a Osama bin Laden; era lui la mente dell'attentato ed era lui che comandava il commando terrorista ("otto i principali protagonisti del progetto", precisa il Bureau) che in autunno avrebbe colpito al cuore Manhattan; anche simbolicamente considerato il luogo scelto. Il ministero degli interni libanese aggiunge che Hammoud ha confessato di "aver progettato un viaggio in Pakistan per un addestramento di quattro mesi".

Il capo del Fbi di New York, Mark Mershon, ha spiegato come le indagini degli agenti federali andassero avanti da quasi un anno, da quando l'intelligence Usa aveva captato i primi segnali di un nuovo piano di attacco contro New York monitorando su internet le chat islamiche; insieme ai servizi segreti di altri paesi l'Fbi aveva raccolto per mesi altre informazioni fino all'arresto di Hammoud. Una lunga inchiesta, almeno sei i paesi coinvolti, che doveva restare segreta ancora a lungo. Non è stato possibile perche ieri mattina il Daily News, uno dei tabloid di New York più informati sulle questioni che riguardano sicurezza e terrorismo, ha raccontato tutto, dedicando al "Tunnel Bomb Plot" due intere pagine del quotidiano. E a quel punto l'Fbi non ha potuto che confermare, non mascherando l'irritazione per la fuga di notizie ma precisando che le indagini non sono state per questo compromesse in quanto la rete terroristica è stata in gran parte già smantellata.
Secondo il Daily News il piano prevedeva di allagare il tunnel facendo esplodere diverse cariche di esplosivo dove passano le auto, in modo da creare una gigantesca ondata che avrebbe raggiunto l'intero distretto finanziario di Manhattan. Una possibilità ritenuta assai improbabile dagli esperti, interrogati dallo stesso giornale, per i quali vista la profondità del tunnel l'acqua non avrebbe mai raggiunto il livello delle strade: "far esplodere l'Holland per allagare Manhattan non ha senso, sarebbe una sfida alle leggi della fisica".
Mershon è di diverso avviso: nel mirino dei terroristi c'erano diversi tunnel sotto l'Hudson e l'obiettivo principale sarebbe stato quello ferroviario - l'unico di cui gli arrestati avrebbero parlato - ed era un piano che "prevedeva martirio, esplosivo e alcune delle gallerie tra il New Jersey e Lower Manhattan: non possiamo dire di più sulle modalità". Qualche differenza di valutazione tra il sindaco di NewYork, Michael Bloomberg, e il capo della Nypd Ray Kelly: per il primo la minaccia era "molto seria", per il secondo "era nelle fasi di pianificazione e non ha raggiunto alcun livello operativo". 

 
Fonte - Il Sole 24 Ore


 

 
 

 

 

 

. Lunedì  24  luglio  2006   Martedì  25  luglio  2006   Giovedì  27  luglio  2006  
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  Bernanke? bocciato

2 Luglio 2006 18:53 Milano - (di Borsa&Finanza)
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E alla fine il diciassettesimo rialzo dei tassi Usa è arrivato. Per Ben Bernanke è il terzo giro di vite monetario dalla data d’insediamento al timone della Fed, il 1° febbraio scorso. Un’azione tale da lasciare il segno nel bilancio di questo primo semestre 2006 dei mercati mondiali. Anche perché la striscia dei rialzi non sembra ancora esaurita. Annunciando la decisione di giovedì 29, il Fomc ha sottolineato che «vede ancora qualche rischio di inflazione» e ha aggiunto che «la dimensione e il timing di nuovi interventi dipenderanno dall’evoluzione dell’outlook dell’inflazione e della crescita economica». I trader di future sui tassi puntano già sul rialzo al 5,50% ad agosto.

Le polemiche intorno a questa linea della Fed non mancano. Ed Yardeni, l’influente guru di Wall Street, ha diffuso un vero e proprio j’accuse in dieci punti contro Bernanke per aver messo a soqquadro i mercati finanziari per effetto di una retorica esagerata e insistita sui pericoli dell’inflazione. «Una retorica - dice Yardeni - non giustificata dalle circostanze, perché la dinamica dei prezzi è sotto controllo».
Paul Kasriel, capo economista della Northern Trust di Chicago, è andato oltre: «Se la Banca centrale insiste nel tirare le briglie della politica monetaria, si rischia di scivolare in una recessione nella seconda parte del 2006 o all’inizio del 2007». Mentre secondo David Kotok, di Cumberland Advisors, «siamo in una fase di transizione in cui le condizioni monetarie stanno passando da troppo accomodanti a troppo restrittive, prestando il fianco al pericolo di un capitombolo com’è accaduto in passato in circostanze analoghe». Tanto nervosismo si è riflesso nelle settimane scorse in una grandinata di vendite, specie su metalli industriali e Borse emergenti.

WALL STREET. La Borsa Usa sta reggendo l’urto. Gli analisti tecnici fanno notare che i mercati statunitensi vivono da 1.343 giorni una striscia sostanzialmente positiva, cioè senza correzioni maggiori del 10%: è la terza fase di questo tipo più lunga nella storia dell’S&P500. Oltretutto va considerato che il periodo maggio-ottobre è tradizionalmente fiacco e che quest’anno ci sono le elezioni di medio termine. Un appuntamento che per Wall Street ha sempre coinciso con un modello di andamento ben definito: massimo in aprile, poi un calo fino a settembre, e infine un marcato apprezzamento nei mesi di ottobre, novembre e dicembre.

IMMOBILIARE. Secondo gli esperti è la minaccia numero uno per la congiuntura internazionale. Il mattone ha messo le ali ai consumi americani attraverso il ben noto fenomeno del rifinanziamento dei mutui e da qui ha dispiegato a raggiera i suoi effetti benefici grazie al volano delle importazioni. Il rischio è ora quello di una brusca gelata: «Carta canta - chiarisce Kotok - Mutui ipotecari per mille miliardi di dollari subiranno una revisione dei tassi d’interesse all’insù nel corso del 2006. E 1.700 nel corso del 2007. Ciò vuol dire che dieci milioni di famiglie dovranno tirare la cinghia nei prossimi due anni. Perciò mi aspetto una frenata; è inevitabile. Tanto più che nuove previsioni individuano il tasso sui fondi federali tra il 5,5% e il 6% entro la fine dell’anno (oggi il saggio è al 5,25%, ndr.)». «L’aspetto preoccupante - gli fa eco Kasriel - è la crescita delle scorte, cioè delle case ultimate, ma ancora da vendere. Esse sono arrivate a un volume corrispondente a 6,5 mesi di vendite, mentre nel maggio del 2005 il livello era di appena 4,5 mesi. Una crescita ulteriore lancerebbe davvero un sinistro campanello d’allarme». A ogni buon conto, il consensus prevede che la rettifica dell’edilizia porti a un rallentamento dell’attività produttiva, ma senza avvitarla in una recessione. Spiega John Silvia, capo economista della banca Wachovia: «I mesi venturi testimonieranno un cambio di leadership nei settori trainanti con una moderazione dei lavori edili e della spesa per consumi controbilanciata dall’accelerazione degli investimenti aziendali». Insomma, il tasso di sviluppo del Pil dovrebbe risultare meno soddisfacente che nel 2005, ma senza sconquassi. Salvo eccessi di stretta monetaria da parte della Fed.

MERCATI EUROPEI. Se sull’altra sponda dell’Atlantico gli operatori vivono con una certa apprensione il tema dell’inflazione, in Europa il costo della vita pare ben ancorato all’interno di una ristretta banda di oscillazione. E se così è, allora non dovrebbero presentarsi grandi insidie per le Borse. «In Europa - dice John Butler di Hsbc - esiste una notevole capacità produttiva inutilizzata. Quando la domanda aumenta, l’attività si intensifica senza innescare una fiammata dei prezzi. Inoltre, la ripresa del Vecchio Continente va contestualizzata. È vero che rispetto al recente passato si può quasi parlare di boom, ma in termini assoluti, il Pil dell’Eurozona ha scarse possibilità di raggiungere il 2% nel 2006, con la prospettiva di calare all’1,4% nel 2007. Insomma, stiamo parlando di cifre che sarebbero considerate sconfortanti in altre parti del mondo». La stessa Banca centrale europea deve propendere per questa diagnosi, tanto è vero che non si affretta ad alzare i tassi d’interesse, forse conscia anche della mazzata fiscale che si abbatterà di qui in avanti sui contribuenti tedeschi e italiani. Rintuzzato lo spauracchio dell’inflazione, i fondamentali delle Borse continentali rimangono molto incoraggianti a detta di tutti i più autorevoli osservatori: in particolare, i profitti sono maggiori del 50% rispetto a quelli del 2000, e parallelamente le cedole offerte dalle obbligazioni governative sono diminuite, facendo meno concorrenza alle azioni. Dunque i rischi esistono, ma sono transitori: «Il fatto che le tre principali banche centrali del pianeta stiano drenando liquidità dal sistema è una prima causa di turbolenza - commenta Florent Bronès di Bnp Paribas - In più pesano la discesa del biglietto verde e il petrolio sempre vicino ai 70 dollari al barile. Ciò detto, resta il fatto che le azioni europee sono a buon mercato e con un forte potenziale di allargamento del volume d’affari». Come a dire, nervi saldi perché c’è solo da superare qualche vuoto d’aria.

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza

 

 

 

 

 

 

FED, Bernanke: tassi adeguati inflazione non fa paura

19 Luglio 2006 New York - di ANSA

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I recenti rialzi dei prezzi sono "motivo di preoccupazione", ma l'economia Usa anche se solida mostra segnali di raffreddamento tali da poter disinnescare l'inflazione: in questo scenario il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, vede i tassi d'interesse, ora sui massimi degli ultimi 5 anni al 5,25%, "in un range normale" anche se i rischi del caro-petrolio spingono a una "continua vigilanza". Le valutazioni sulla congiuntura economica Usa illustrate da Bernanke nel corso della testimonianza semestrale davanti alla commissione bancaria del Senato fanno correre i listini di borsa (deprimendo i corsi del dollaro) con Dow Jones, Nasdaq Composite e S&P's 500 che guadagnano più di un punto e mezzo percentuale. Tassi nel range definito 'normale' non significano al livello 'neutro', ma il mercato legge nelle parole del 'banchiere dei banchieri' il segnale dell'ormai prossima fine del ciclo restrittivo, che registra finora 17 interventi consecutivi da 25 punti base ciascuno. In occasione del Federal Open Market Committee (Fomc, il board di politica monetaria) dell'8 agosto, il mercato stima al 50% la probabilità di una nuova misura restrittiva, seguita però dall'attesa pausa. "La politica monetaria - spiega Bernanke ai senatori durante la testimonianza che sarà replicata domani alla Camera - deve essere orientata alla massima flessibilità e pertanto ogni decisione può variare da una riunione all'altra". La Fed, assicura, "non vuole stringere i tassi troppo o troppo poco, l'obiettivo è raggiungere una crescita sostenibile al riparo dell'inflazione". L'eccessiva dinamica dei prezzi vuol dire danni per la tenuta l'economia e per questo la banca centrale "deve restare vigile sul suo possibile consolidamento", a causa delle preoccupazioni degli alti costi dell'energia, petrolio in testa, e del settore del lavoro (visto l'atteso aumento delle retribuzioni orarie) con possibili tensioni inflazionistiche. L'economia Usa, aggiunge ancora, appare "in una fase di transizione" e si muove verso una crescita moderata, sulla base dell'evoluzione anche del settore immobiliare, con un'inflazione "finora più alta di quanto previsto appena a febbraio". La politica monetaria, con uno scenario macroeconomico in continua evoluzione, non può che essere improntata "alla più ampia flessibilità possibile". La strategia, osserva ancora, "deve tenere nel dovuto conto le passate decisioni sui tassi ovvero dei rialzi già effettuati. L'estensione e la tempistica di qualsiasi ulteriore misura deve tener conto del fatto che i rischi d'inflazione dipendono dall'evoluzione dell'outlook sia per i prezzi sia per la crescita". Proprio in giornata è stato diffuso il tasso del prezzi al consumo in rialzo dello 0,2% su base mensile, in linea con le attese, mentre il dato 'core', al netto di cibo e petrolio, ha registrato un aumento dello 0,3%, di poco sopra le previsioni. Nonostante l'inflazione viaggi su livelli superiori alle attese, la Fed prevede che il carovita rallenterà nel 2007. Le nuove stime sull'andamento dell'inflazione illustrate da Bernanke e tutte riviste al rialzo, ipotizzano nel quarto trimestre il 'core rate' dei prezzi nel range di +2,25-2,5% rispetto al 2% circa di febbraio. Nel 2007 è atteso un rallentamento nel range del 2-2,25%, oltre la prima stima di 1,75-2%, mentre quanto alla crescita, il Pil reale dovrebbe attestarsi nel 2006 al 3,25-3,5% (dal 3,5% precedente) e nel 2007 al 3-3,25% dal precedente 3-3,5%.(ANSA)
 
 

Fonte - ANSA

 

 

 

Beige Book: l'economia USA rallenta il passo

26 Luglio 2006 Milano - di Alberto Susic

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L'economia americana sta registrando un progressivo rallentamento del tasso di crescita, pur in presenza di un modesto incremento registrato dalla dinamica dei prezzi al consumo e delle retribuzioni salariali. E' questo in estrema sentito il messaggio che emerge questa sera dalla lettura del Beige Book, il consueto rapporto mensile elaborato dalla Federal Reserve, sullo stato di salute della congiuntura economica rilevata nei 12 distretti federali.
In diverse aree del Paese, e in particolare in almeno la metà dei distretti considerati, la ripresa dell'economia sta procedendo ad un ritmo “moderato” se non addirittura “modesto”, e soprattutto nell'ultime mese, si è riscontrato un rallentamento del tasso di espansione. In generale la crescita economica ha continuato a progredire durante il mese di giugno e nella prima metà di quello in corso, evidenziando però i primi segnali di decelerazione.
Sullo sfondo resta intanto uno scenario caratterizzato da un'inflazione piuttosto contenuta, nonostante i continui rincari dei prezzi energetici, tanto è vero che si segnala comunque modesto incremento dei prezzi al consumo, unitamente a quello delle retribuzioni. La pressione degli alti prezzi dell'energia e di altri fattori continua a persistere, ma se in alcuni distretti è stata riscontrata una crescita della stessa, in altri si è evidenziata una flessione dei prezzi di alcuni beni.
Non a caso, nella metà dei distretti che sono oggetto di rilevazione, incluso quello di san Francisco che si distingue per la sua grandezza, si è avuta una caduta del tasso di crescita, accompagnata da un raffreddamento del mercato immobiliare e da una crescita modesta o addirittura deludente sul fronte delle vendite al dettaglio.
La fotografia scattata questa sera dalla Federal Reserve sulla situazione dell'attuale congiuntura economica a stelle e strisce, di fatto conferma le indicazioni già emerse durante la scorsa settimana, quando nei verbali dell'ultima riunione del FOMC si era parlato di una fase di transizione dell'economia americana. Lo stesso presidente della Banca Centrale americana, nel corso della sua audizione al Congresso, aveva evidenziato questo rallentamento in atto, che si sta riflettendo anche sul fronte della spesa dei consumatori e degli investimenti per le costruzioni residenziali.
Una conferma di questo scenario segnato da una decelerazione dell'espansione economica, dovrebbe giungere nelle prossime ore, in occasione del rilascio della prima stima relativa al Prodotto Interno Lordo in calendario nella giornata di venerdì prossimo. Gli analisti si attendono infatti un dato quasi dimezzato rispetto a quello riferito al primo trimestre dell'anno, quando il tasso di crescita era stato pari al 5,6%, rispetto al quale invece la scommessa del mercato è ora nell'ordine di tre punti percentuali.
Alla luce di quanto appena evidenziato, anche la lettura del Beige Book di questa sera contribuisce a rafforzare l'ipotesi di un imminente stop al ciclo di rialzo dei tassi di interesse iniziato nel mese di giugno del 2004. Se da una parte appare ormai scontato che nella riunione del prossimo 8 agosto, la Fed procederà con un ulteriore ritocco verso l'alto del costo del denaro, destinato così a salire al 5,5%, dall'altra non si esclude che proprio in tale occasione si possa decidere di porre fine all'attuale politica monetaria. Non dimenticando tuttavia che lo stesso Bernanke aveva già anticipato la scorsa settimana che la Banca centrale americana ha come unico obiettivo quello di raggiungere uno sviluppo sostenibile, senza alcuna volontà di proseguire a tutti i costi una stretta creditizia che potrebbe avere sull'economia effetti contrari rispetto a quelli auspicati.
 
 

Fonte - MiaEconomia

 

 

 

 

 

Giovedì  6  luglio  2006   Giovedì  20  luglio  2006   Martedì  25  luglio  2006
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  Mattone USA? Frenata sì, crollo no

10 Luglio 2006 1:35 Milano - (di Vincenzo Sciarretta)
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Il futuro prossimo dei mercati, da qui al 2007, si gioca sull’immobiliare statunitense. È stato il forte apprezzamento dei valori residenziali a consentire agli americani di spendere, sostenendo i consumi, ben più di quanto la crescita dei redditi personali avrebbe permesso. Una molla che ha messo le ali all’economia e agli investimenti e, attraverso il meccanismo delle importazioni, ha attivato una richiesta di beni e servizi anche in Europa e in Asia.
Perciò una dinamica di boom-crollo del mattone sarebbe gravida di conseguenze nefaste. Primo, perché la ricchezza immobiliare è quattro volte quella azionaria. Secondo, perché i consumi sono stati alimentati dal rifinanziamento dei mutui. Terzo, perché un gran numero di nuovi posti di lavoro ruota attorno all’edilizia. Borsa & Finanza ne ha discusso con David Berson, vicepresidente e capo economista di Fannie Mae, indiscusso gigante dei mutui ipotecari negli Stati Uniti. Un manager che occupa un ruolo chiave nel settore.
C’è grande apprensione per il futuro dei valori residenziali. Qual è la prospettiva in America? Su base nazionale ci aspettiamo una contrazione. Di che entità? Se dovessi indicare una cifra, direi che il volume delle vendite di abitazioni ha una buona probabilità di calare del 10% quest’anno.
E cosa ve lo fa pensare? Ci sono diverse ragioni: primo, l’acquisto della casa si è fatto più ostico sia per effetto del rincaro dei tassi sui mutui, sia, e soprattutto, per effetto dell’aumento dei prezzi di vendita. Secondo, l’economia è in rallentamento. Ciò vuol dire un minor impeto nella creazione di posti di lavoro e minore esuberanza da parte delle famiglie. Terzo, la richiesta di appartamenti e seconde case per finalità d'investimento ha già superato l'apice ed è destinata ad assottigliarsi.
Quali sono le regioni più a rischio? Direi quelle in cui gli acquisti per finalità d’investimento hanno esercitato un ruolo cruciale nello spingere in alto i prezzi. Diverse città in Florida, e alcune in California, Arizona e Nevada.
Lei ha affermato di aspettarsi una contrazione nel volume di abitazioni vendute. Che cosa è in grado di dirci invece sul fronte delle quotazioni? L’apprezzamento del mattone è stato connotato da tassi di sviluppo a due cifre negli ultimi anni. Questa tendenza è insostenibile nel lungo termine se l’inflazione rimane sotto controllo. E se i trend sono insostenibili alla fine si esauriscono. Noi pensiamo che il 2006 sia l’anno nel quale il trend si esaurirà.
Sta affermando che dobbiamo aspettarci un ripiegamento delle valutazioni? Non è proprio così. L’esperienza storica americana suggerisce che quando gli immobili crescono troppo per un certo numero di anni, l’aggiustamento successivo prende la forma di un rallentamento, e non di una caduta dei prezzi. Insomma, se l’ascesa naturale dei valori immobiliari è negli Stati Uniti del 4-5% l'anno, la rettifica degli eccessi dovrebbe aver luogo con un rialzo inferiore alla media, diciamo nell’ordine del 2-3% l’anno.
Insomma, niente crollo? Ci possono essere dei casi di boom-crollo a livello regionale, ma non a livello nazionale. Solo durante la Grande Depressione degli anni ’30, i prezzi calarono un po’ dappertutto. Ma sarebbe assurdo tirare un parallelo fra la Grande Depressione e i giorni nostri.
Quali sono le metropoli più a rischio? Quelle nelle quali si è costruito troppo in risposta all’accresciuta domanda di appartamenti per investimento.
Nomi? Non voglio entrare nel dettaglio per non influenzare i mercati, ma in termini generali ho già dato delle indicazioni.
In queste località si aspetta delle discese di prezzo? Sì, discese nell’ordine del 5-15% in alcuni lustri. Per certi versi potrebbe essere la ripetizione di quanto sperimentato nei primi anni ’90. E come allora, non si tratterà di un dramma nazionale.
Gli esperti fanno notare come le scorte di case siano in rapida accumulazione (cioè case pronte, ma in attesa di passare di mano). Per smaltire quelle già costruite occorrono ora sei mesi e mezzo, mentre in passato ne bastavo quattro o cinque. È un segno grave? Non ancora. Di solito livelli più elevati, diciamo di otto o nove mesi, sono da considerarsi gravi. L’invenduto è riconducibile soprattutto agli alloggi in condominio, dove, come dicevo, si è addensata la domanda speculativa e per investimento. È lì il nocciolo del problema.
Finora gli americani hanno fatto leva sulla rivalutazione degli immobili per finanziare i consumi. Esiste la possibilità che il meccanismo si inceppi, bloccando la congiuntura? Una dolce frenata dei consumi è nelle cose. In tale ipotesi io prevedo una decelerazione della congiuntura con la prospettiva di arrivare a un’espansione del Pil al 2-2,5%, in luogo del 3-4% sperimentato negli ultimi anni.
A maggio i mercati finanziari sono finiti sull’ottovolante spaventati dalla stretta monetaria messa in atto dalla Federal Reserve. La paura era alimentata dall’eventualità che saggi eccessivi spingessero in recessione la locomotiva Usa. Lei che ne pensa? Nessuno ha le idee chiare su questo punto, neppure la Federal Reserve. E la ragione è che i modelli non sono sufficientemente puntuali per determinare con precisione il tasso critico oltre il quale l’edilizia e l’attività produttiva entrerebbero in crisi.
Se ci fosse una recessione nel 2007, il settore delle costruzioni sarebbe in grado di sopportarne le conseguenze? Dipende dal tipo di recessione. Se parliamo di una contrazione modesta come è accaduto nel 2001, allora, sia pure con qualche scossone, il comparto ha radici abbastanza forti per tenersi in piedi. Nel 2001, la perdita di posti di lavoro fu blanda e non mise in crisi le famiglie. La Federal Reserve, come allora, taglierebbe il costo del denaro con vigore, ridando fiato agli affari e rilanciando gli impieghi finanziari.
Qual è lo scenario peggiore? Lo scenario peggiore è quello in cui il rallentamento scivola in una brutta recessione per effetto di un qualche shock esterno. Per esempio un’impennata del petrolio a 100 dollari al barile in una manciata di mesi, oppure una mutazione dell’influenza aviaria in forma umana. In un contesto simile sia i lavori edili che il mercato dei mutui patirebbero guai seri.
 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza
 

 

 

 

 

Il pericolo non è l'inflazione ma...

12 Luglio 2006 Milano - di Francesco Arcucci

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Pochi colgono la differenza fra l'inflazione derivante dall'aumento della moneta prodotta dalla banca centrale ("monetaria") e l'inflazione derivante dall'inflazione del credito ("creditizia").
Un classico esempio di inflazione "monetaria" si ebbe in Germania nel 1922/23 quando le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale imposero a quel paese di pagare eccessive riparazioni belliche. La Banca centrale tedesca di allora, come è noto, credette di trovare una soluzione stampando marchi. E fu l'iperinflazione e il disastro economico.
L'inflazione sperimentata negli ultimi sessant'anni nelle economie occidentali non è di questa natura: non è stata causata dall'uso sfrenato della stampa di biglietti. Le banche centrali hanno esercitato un certo ritegno nel far uso della medesima.
L'inflazione è derivata invece dalla tendenza espansionistica dei rapporti di debito e di credito che si è verificata, sia pure ad ondate, l'ultima essendo quella che ha caratterizzato la politica della Fed (e in parte della Banca Centrale Europea) negli anni dal 2002 al 2005. Preoccupate dalla recessione del 2001/inizi 2002 le autorità monetarie e le aziende di credito, specie americane, hanno fornito tutta la liquidità possibile ed immaginabile per sostenere consumi, spesa pubblica ed investimenti.
La liquidità si è diffusa in ogni punto del sistema economico, rendendo meritevole di credito anche debitori marginali. Gli investimenti, anche quelli meno attraenti, sono stati finanziati, purché in qualche modo garantiti; il settore immobiliare ha goduto di facilitazioni creditizie fino a poco tempo fa inimmaginabili, il credito al consumo e l'uso delle carte di credito sono stati incoraggiati fino all'inverosimile per aumentare il potere di acquisto delle famiglie, anche di quelle più povere, senza considerare le compatibilità microeconomiche dei bilanci familiari. L'intero sistema economico oggi è saturo di credito fino all'inverosimile ed è noto che, in queste condizioni, se si manifesta, così come si sta manifestando, una inversione del ciclo del credito le conseguenze di ciò non possono che essere di tipo deflazionistico.
Infatti, la deflazione non è figlia dell'inflazione di origine "monetaria" perché una volta emessi i biglietti rimangono nel sistema, ma è figlia dell'inflazione di origine "creditizia" perché i debiti prima o poi vanno rimborsati.
Molti economisti sono convinti che attualmente il nemico da battere sia l'inflazione e ciò perché ogni generazione conserva i ricordi delle cose che l'hanno traumatizzata. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si dava poca importanza all'inflazione e si abbracciavano senza riserve le teorie keynesiane perché era ancora vivo il ricordo della depressione degli anni Trenta. Oggi le banche centrali, per lo stesso motivo forse, non si rendono conto che lo sbocco inevitabile di questa espansione incontrollata della liquidità è la deflazione.
Altri economisti si chiedono se siamo entrati in un periodo di stagflation (stagnazione più inflazione, come negli anni Settanta). La risposta è negativa. Basti pensare che, mentre negli anni Settanta i prezzi delle materie prime salivano e quelli delle obbligazioni e delle azioni scendevano, nel corso del 2004 e del 2005 e fino ad aprile 2006 abbiamo assistito ad una inflazione da credito che ha sollevato i prezzi di tutto: materie prime, metalli preziosi, petrolio, obbligazioni e azioni.
Ma da qualche settimana si stanno accentuando i sintomi di una implosione del ciclo creditizio (con gli effetti negativi sui prezzi che si sono potuti constatare). Non si dimentichi, infatti, che la capacità di rimborso di famiglie e imprese non costituisce una variabile indipendente, ma è il frutto essa stessa della propensione delle banche e degli altri intermediari finanziari di mantenere inalterato o crescente il livello delle concessioni creditizie.
Se la quantità di credito al sistema si riduce, debitori prima ritenuti solvibili, nelle nuove condizioni non lo saranno più, poiché, come si è detto, il merito di credito, in gran parte, non dipende dal conto economico e patrimoniale del debitore, ma dal livello del credito concesso dalle banche al sistema economico. Il ciclo del credito si autoalimenta, sia in senso espansionistico (più credito, più merito del credito, più credito), sia in senso riduttivo (meno credito, meno merito del credito, meno credito). Da qualche settimana i motori del credito girano a pieno ritmo, ma in direzione contraria rispetto a prima, come i reattori di un jet quando il velivolo tocca il suolo.
Certo rimane sempre la possibilità che le banche centrali, di fronte a un fenomeno deflazionistico indotto dalla mancanza di credito, ricorrano all'inflazione da biglietti, ma questo potrebbe essere soltanto un provvedimento di ultima istanza e sarebbe comunque molto doloroso, come è stato nella Germania di Weimar. Ricorrere alla inflazione "monetaria" per frenare le spinte deflazionistiche rischia di portare l'economia nel marasma. Il sistema finanziario non riesce più a funzionare. Il valore dei crediti e dei debiti va a zero, i beni reali, l'oro e anche le azioni vengono ricercati in modo spasmodico.
Questo scenario è ancora molto lontano dall'attuale situazione, che è invece caratterizzata da una prossima contrazione del ciclo del credito. Non molti lo hanno capito. Ancora una volta i generali hanno la propensione a combattere l'ultima guerra e cioè quella contro l'inflazione, mentre il nemico che si profila davanti a noi è la deflazione.

 

Fonte - Affari & Finanza - La Repubblica

 

 

 

Economia mondiale a rischio collasso

13 Luglio 2006 Milano - di La Lettera Finanziaria

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Tassi d'interesse in salita e prezzi della benzina che rimangono elevati comprimeranno la spesa al consumo negli Usa in misura superiore a quanto precedentemente atteso, con l'effetto di indebolire la maggiore economia mondiale per il resto dell'anno. Lo rileva il sondaggio mensile condotto da Bloomberg news.
Il prodotto interno lordo, che comprende tutti i beni e servizi prodotti nel paese, crescerà al ritmo annuale del 2,9 percento nel trimestre in corso e del 2,8 percento negli ultimi tre mesi del 2006, secondo la previsione mediana dei 51 economisti interpellati da bloomberg dal 30 giugno al 10 luglio. Si tratta in entrambe i casi di una riduzione di un decimo di punto percentuale rispetto alle previsioni mediane espresse il mese scorso.
La Federal Reserve dovrà ora alzare nuovamente l'obiettivo per il tasso interbancario overnight questo trimestre, mantenendolo poi fermo nel resto del 2006 per impedire che il rincaro del 35 percento registrato dai prezzi della benzina nell'anno possa far partire l'inflazione, secondo il sondaggio.
I consumatori si troveranno poi alle prese anche con un certo raffreddamento del mercato immobiliare. "Con una Federal reserve che si mostra piuttosto franca nell'affermare che la priorità è la lotta all'inflazione, ci sono buone probabilità che continui ad alzare i tassi nonostante il fatto che gli indicatori di crescita segneranno un rallentamento," dice Sharon Lee Stark, strategista capo per il reddito fisso presso Stifel nicolaus & co., Società di brokeraggio per la clientela istituzionale a Baltimora. Stark, che nel sondaggio di questo mese ha alzato la sua stima relativa ai tassi d'interesse, dice che l'inflazione "continuerà ad essere elevata."
Lo scorso trimestre, la crescita usa si era raffreddata al 2,8 percento, pari alla metà rispetto ai livelli del primo trimestre e inferiore al 3 percento indicato nel sondaggio di giugno. Se il terzo trimestre dovesse confermare un trend di tre trimestri con crescita inferiore al 3 percento, si tratterebbe dell'andamento più debole dai nove mesi terminati nel marzo 2003.
Spesa al consumo dopo l'impennata registrata nel primo trimestre, la spesa al consumo fornisce attualmente all'economia un impeto più modesto. Le vendite al consumo saliranno al tasso annuale del 2,8 percento questo trimestre e del 2,7 percento nel quarto, con una riduzione di un decimo di punto percentuale rispetto alle attese del mese scorso, secondo il nuovo sondaggio. La spesa personale, che alimenta oltre i due-terzi dell'economia Usa, dovrebbe aver registrato una crescita del 2,2 percento su base annuale lo scorso trimestre, a fronte del 5,1 percento dei primi tre mesi dell'anno e contro una media del 3,8 percento per trimestre nel corso dell'ultimo decennio.
"I consumatori si trovano alle strette da pi parti," commenta mark vitner, economista senior presso wachovia corp. A charlotte, nella carolina del nord. La rallentata crescita rappresenta "una buona notizia. Esattamente quello cui puntava la fed." Gli economisti di wachovia prevedono una crescita media del 2,75 percento nella seconda met del 2006, un quarto di punto percentuale sotto la loro stima di un mese fa.
Anno 2006
Per l'intero anno, in base alle nuove previsioni, l'economia usa dovrebbe crescere del 3,5 percento, cio allo stesso ritmo del 2005 e in aumento rispetto al 3,4 percento previsto un mese fa. La stima di crescita stata ritoccata al rialzo dopo che il mese scorso il governo usa ha rivisto al rialzo il tasso di crescita del primo trimestre, portandolo al 5,6 percento. A temperare la crescita economica il prezzo dei carburanti. Il barile di greggio per consegna ad agosto balzato al livello senza precedenti di $75,78 il 7 luglio al New york mercantile exchange. Il prezzo medio della benzina salito a $2,94 il gallone il 6 luglio, livello che non si vedeva da almeno 10 mesi, secondo dati forniti dall'automobile association of america. La benzina aveva segnato il record assoluto di $3,06 il gallone il 5 settembre scorso, sulla scia dei danni agli impianti petroliferi arrecati dall'uragano katrina.
Prezzi dell'energia
Il nuovo sondaggio conferma la stima di un aumento del 3 percento per i prezzi al consumo quest'anno, espressa un mese fa. Si tratterebbe del terzo anno consecutivo di crescita pari o superiore al 3 percento, periodo pi lungo dal 1991.
L'aumento dei prezzi porter la fed ad alzare ulteriormente i tassi d'interesse, secondo il sondaggio. La stima mediana degli analisti di un ritocco di un quarto di punto, al 5,5 percento, del tasso di riferimento entro la fine del terzo trimestre. Il tasso dovrebbe poi rimanere a tale livello fino a fine anno. Il mese scorso, gli economisti stimavano che i tassi sarebbero saliti al 5,25 percento e che si sarebbero poi fermati.
La prossima riunione della Fed in calendario per l'8 agosto. L'ultimo ritocco del tasso di riferimento risale al 29 giugno. Gli esponenti della fed hanno dichiarato che ulteriori aumenti dipenderanno dai dati che perverranno circa le prospettive di crescita e di inflazione.
 

Fonte - La Lettera Finanziaria

 

 

 

 

 

 

  La Cina corre e insegue Wall Street

19 Luglio 2006 Milano - di Federico Fubini
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La primavera cinese si è chiusa con un altro primato, crescita a più 11,3% rispetto a un anno fa: obiettivo del governo mancato per eccesso. Ma la stagione era iniziata, un venerdì di marzo, con un altro record forse meno visibile e più rivelatore della febbre da finanza che ha raggiunto Pechino. Nel grattacielo della Industrial and Commercial Bank of China (Icbc), con le loro cartelle piene di presentazioni elettroniche, i dignitari di quasi tutte le grandi banche d’affari del mondo si sono sfidati in un concorso di bellezza sotto gli sguardi impassibili dei plenipotenziari di Jiang Jianqing.
Lui, il presidente della Icbc, a quella parata di occidentali ansiosi di offrirgli i loro servizi non c’era. Ma quale sia il suo potere lo si era già visto mesi prima, quando Hank Paulson aveva preso la figlia di Jiang con sé a New York. Da presidente di Goldman Sachs - ha rivelato «Fortune» - Paulson le ha offerto un’esperienza nell’istituto d’affari più ambito al mondo. Poco importa se altri per un’occasione del genere devono superare decine di esami, perché quella è una vecchia tecnica: anche Merrill Lynch, UBS o Crédit Suisse assumono figli o generi dei potenti nella nomenklatura cinese, pur di ottenere un mandato per la quotazione in Borsa di un colosso come Icbc.

Proprio ieri il primo istituto di credito del Paese, con i suoi 12 miliardi di dollari di utile netto l’anno, ha avuto il via libera per quotarsi in autunno a Hong Kong e a Shanghai. Ovviamente lo Stato cederà agli investitori internazionali solo una quota di minoranza del gruppo, benché conti di raccogliere almeno 14 miliardi di dollari (la terza più grande offerta di Borsa della storia). Eppure il mandato per condurre in porto l’operazione, malgrado il successo al concorso di bellezza e il viaggio a New York per la figlia di Jiang, alla fine non è andato a Goldman Sachs. Sarà che Paulson allora era sul punto di essere chiamato da George Bush alla guida del Tesoro americano. O che Goldman ha già curato il collocamento di Bank of China, che ha rastrellato a sua volta quasi 12 miliardi. Ma stavolta le ricche commissioni andranno a Merrill, Crédit Suisse, Deutsche Bank e China International Capital. Se le meritano: il loro lavoro sarà delicatissimo. Se in Cina la prossima sommossa non verrà dalle miniere o dalle carceri, rischia infatti di arrivare dalla Borsa.
Quando a giugno Bank of China ha iniziato a vendere le sue azioni a Hong Kong - racconta l’economista di Pechino Fan Gang - i risparmiatori cinesi si sono ribellati perché quella scelta li tagliava fuori. Anche loro, non solo i fondi pensione della California o i cardiologi di Camberra, vogliono i dividendi finanziari di una crescita apparentemente inarrestabile: ieri l’aumento del prodotto lordo cinese è uscito appunto all’astronomico ritmo annuo dell’11,3% nel secondo trimestre, e a metà anno gli investimenti in fabbriche o macchinari sono saliti del 30%.

Alla fine così la Bank of China è andata in vendita anche a Shanghai, per il pubblico locale, e lo stesso farà Icbc. Ma che il boom industriale si traduca automaticamente in ricchezza azionaria resta da dimostrare, perché i timori di un trauma da sbornia non sono affatto scongiurati. I revisori di Ernst & Young calcolano con una stima davvero prudente (anche loro sono nell’affare Icbc) che le sofferenze del sistema bancario cinese ammontino già a oltre 300 miliardi di dollari. L’eccesso di prestiti bancari e di investimenti in capacità produttiva porterebbe a un crollo dei profitti e a fallimenti a catena.
Lo stesso imminente ingresso delle banche giapponesi e americane sul mercato cinese - nota il viceministro all’Economia di Tokyo, Hiroshi Watanabe - può aggravare le difficoltà del sistema locale del credito. A Pechino nei giorni scorsi Lorenzo Bini Smaghi, dell’esecutivo della Banca centrale europea, ha persino messo in guardia i suoi colleghi della Banca del popolo per la loro linea di credito facile e valuta debole vincolata al dollaro: «L’obiettivo della politica monetaria non dovrebbe essere la stabilità anziché la promozione dell’export e della crescita?», ha chiesto. La risposta, con buona pace di Paulson, non l’ha portata certo a Wall Street la figlia di Jiang Jianqing.

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

  L' interesse del Samurai

15 Luglio 2006 Milano - di Il Foglio
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La banca centrale del Giappone, la Boj, ha innalzato il tasso di interesse sui finanziamenti a breve termine alle banche dal livello zero al livello positivo dello 0,25 per cento. Si tratta d’un evento storico, in quanto il tasso zero era stato coraggiosamente adottato dalla Boj oltre cinque anni fa – nel febbraio del 2001 – per combattere la tendenza dei prezzi all’ingrosso e al consumo alla discesa allora in atto.
Era una conseguenza della deflazione che aveva colpito l’intreccio banca-industria, a causa dei dissesti innescati dallo scoppio della “bolla di prezzi gonfiati” del mercato immobiliare. Non s’era mai verificata nella storia economica una situazione di lento ma costante declino dei prezzi, con l’economia domestica stagnante com’era accaduto in Giappone. Negli altri casi di scoppio di bolle speculative si erano avute rapide e disastrose cadute tamponate da salvataggi immediati della banca centrale e del governo con una successiva ripresa in tempi brevi.

Ora che il Giappone è uscito dalla depressione con l’inedita terapia gradualista d’un quinquennio abbondante di tasso zero, con lente ristrutturazioni dei prestiti incagliati, la Boj annuncia che essa aumenterà il suo tasso di interesse solo gradualmente. E, comunque, la sua linea di “denaro facile” erogato senza esagerare non subirà una vera inversione. In effetti, i prezzi in Giappone durante il 2005 hanno smesso di scendere e dai primi del 2006 hanno cominciato a salire. Dato ciò, il tasso dello 0,25 della banca centrale in termini reali è ancora attorno allo zero. Questa politica monetaria agevola la crescita economica giapponese che quest’anno è del tre per cento.
Ma un cambiamento nel mondo finanziario dopo l’abbandono del tasso zero da parte della Boj ci sarà. Sinora i risparmi giapponesi si sono rivolti soprattutto a Wall Street e ai mercati asiatici, dove si potevano ottenere remunerazioni vantaggiose. E hanno contribuito all’euforia delle Borse. Se nel 2006 – come pare – ci sarà un altro rialzo del tasso della Boj, che farà salire la remunerazione dei titoli obbligazionari e del debito pubblico giapponesi, questa tendenza si invertirà. Il mercato azionario internazionale potrà contare sempre meno sul soccorso samurai.
 

Fonte - Il Foglio