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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Crisi creditizia - Previsioni

Alert: seconda crisi bancaria in vista

Crisi & Mercati - Opinioni

Il rally delle illusioni. L'euforia non si deve fermare

Crisi & Mercati - Opinioni

Caccia al tesoro

Crisi creditizia - Previsioni

E’ troppo presto per parlare di ripresa

Crisi & Mercati - Opinioni

Ripresa: non fatevi prendere in giro

Borse & Mercati - Opinioni

Analisti pessimisti. Il rally non può continuare

Borse & Mercati - Opinioni

Le borse e il segreto di Star Trek

Crisi creditizia e Mercati - Previsioni su sviluppo settore

Con le nuove regole un mercato più piccolo e operatori meno avidi

Fondi Sovrani - normativa

Fondi sovrani, pirati e regole

Crisi creditizia e effetti settore bancario

Trovate un Marchionne per le banche

   
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+++   ANSA - Lun. 04 Mag. 2009 - Ws: CRESCE OTTIMISMO, IL RALLY CONTINUA   +++   Mer. 13 Mag. 2009 - Ws: PESANTE, DJ -2.18%, NASDAQ -3%   +++   Gio. 21 Mag. 2009 - Ws: TERZA SEDUTA CONSECUTIVA IN ROSSO   +++   ANSA   +++
 
  Venerdì 01 Maggio 2009   Lunedì 04 Maggio 2009   Mercoledì 06 Maggio 2009  
       
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GR1 RAI - 05 MAG ore 22:00

   

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  Alert: seconda crisi bancaria in vista

03 Maggio 2009 19:58 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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La Spagnola uccise Max Weber nel giugno del 1920. Weber fu una delle ultime vittime. La pandemia cessò infatti in agosto. Egon Schiele fu invece tra i primi ad andarsene ventottenne, nell’ottobre del 1918, tre giorni dopo la moglie Edith. La Spagnola era partita in marzo come una normale influenza, ma all’improvviso in agosto varianti estremamente aggressive del virus erano comparse simultaneamente in Bretagna, in Africa e a Boston. Pochi giorni dopo Schiele se ne andò Apollinaire e la settimana dopo toccò all’Edmond Rostand che aveva messo in versi la vita di Cyrano de Bergerac.
Insieme a loro finirono i loro giorni per la Spagnola il presidente del Brasile, il primo ministro del Sud Africa e la regina delle isole Tonga. Roosevelt riuscì invece a guarire e a cambiare il corso della storia negli anni Trenta e Quaranta.

Le pandemie, come le bolle finanziarie, hanno tempi lunghi di formazione e, una volta scoppiate, procedono a ondate e si dispiegano su tempi lunghi. La Spagnola del 1918-1920 e la Grande Depressione del 1929-1932 sono i perfetti benchmark della catastrofe sanitaria ed economica dell’era contemporanea. Da decenni ogni crisi economica viene paragonata al ’29 e ogni focolaio pandemico al ’18. Per 24 ore, tra lunedì e martedì, il mondo ha pensato all’ipotesi di un ’29 e di un ’18 congiunti. Di per sé, scrive Willem Buiter, una pandemia costituisce uno shock negativo da offerta (la forza lavoro si riduce per malattia o morte) e da domanda (malati e morti consumano meno). La depressione, dal canto suo, è uno shock da domanda.
L’ipotesi di un ’29 e di un ’18 congiunti ha fatto perdere alle borse il 3 per cento, cioè niente. Il fatto è stato ancora più notevole se si considera che i mercati venivano da sette settimane di rialzo senza interruzioni e da un più 30 per cento dai minimi del 9 marzo. Se il profilarsi improvviso di una pandemia non viene preso come pretesto per una correzione bisogna allora aspettare un asteroide lanciato verso la Terra, ma ne è appena passato uno in febbraio e se ne è andato.

L’impressionante robustezza dei mercati si nutre ovviamente di sé stessa, ma non solo. Il Pil americano del primo trimestre mostra che la recessione (o quanto meno la sua parte successiva a novembre) non è colpa dei consumatori (più 2.2 per cento i consumi) ma delle aziende che non producono perché vogliono prima eliminare le scorte in eccesso, anche perché le banche non gliele finanziano (meno 3 per cento il contributo negativo delle scorte).
Oltre alla forza dei consumi americani i mercati festeggiano il brusco rallentamento della contrazione del Pil europeo che si profila per il secondo trimestre e la brillante riaccelerazione cinese in corso da inizio marzo.

Oltre a questo, naturalmente, ci sono gli utili sorprendentemente positivi del primo trimestre, dovuti in parte a una contabilità con gli occhiali rosa da parte delle banche ma anche ai risultati delle feroci ristrutturazioni nel resto dell’economia. Aggiungiamo infine l’esito non traumatico dello stress test sulle banche americane, severo quel tanto che basta a non far sospettare la promozione politica per tutti, e abbiamo gli ingredienti per indurre i mercati a pensare che il peggio è veramente finito su tutta la linea e che da qui in avanti si camminerà in un giardino fiorito e profumato. Perfino i produttori di automobili, sgravati di debiti previdenziali e obbligazionari e debitamente incentivati, sembrano avere davanti un futuro luminoso.

C’è naturalmente una versione più mesta di quanto sta accadendo. Quello che si profila è semplicemente un miniciclo delle scorte. In questi quattro mesi passati le si è ridotte con furore, ma da qui in avanti la produzione dovrà riprendere non solo per soddisfare i consumi rimasti stabili (o addirittura cresciuti come in America) ma anche per ricostituire un minimo fisiologico di scorte. Attenzione, però. A consumi stabili (e con la disoccupazione ancora in crescita per qualche mese è difficile che risalgano molto) corrisponderà prima o poi una produzione di nuovo stabile (dopo la ripresina da scorte). Gli investimenti produttivi delle imprese, dal canto loro, rimarranno a lungo depressi.
Quanto alla spesa pubblica, fanno notare i più mesti, agli aumenti a livello federale (in America) o statale (nel resto del mondo) corrisponderanno tagli ulteriori nella spesa degli enti locali (State and Local Finances: Delaying the Inevitable, Goldman Sachs, 17 aprile). Il mercato immobiliare, d’altronde, sta vivendo una stabilizzazione più apparente che reale dovuta alla moratoria sui pignoramenti, che sta per scadere.
Di mestizia in mestizia si può notare che il sentiment ormai compattamente rialzista non è di per sé un elemento favorevole. Che il sentiment sia ormai tutto da una parte lo prova clamorosamente la lettura che si dà dei movimenti del petrolio. Quando scende ci si rallegra per lo stimolo che darà ai consumi e quando sale ci si rallegra ancora di più perché è la prova della ripresa della domanda.
Peccato che la domanda mondiale finale di greggio stia continuando inesorabilmente a scendere. In America, in Europa e in Asia. E non può che essere così in un mondo che sta ancora contraendosi. Se il prezzo del greggio (e quello del rame) salgono è perché la Cina, intelligentemente, sta usando una parte dei suoi dollari per accumulare scorte. Le altre materie prime, quelle su cui la Cina non interviene, sono più in basso che a inizio anno.

Tutti questi mesti ragionamenti avranno un giorno il loro peso. Per il momento, tuttavia, la carica dei bisonti che devono ricoprire gli short e quella ancora più travolgente dei sottopesati che devono riportarsi in pari si saldano con quella in partenza di quanti ritengono che ora o mai più sia il momento per mettersi strategicamente lunghi per i prossimi anni di bull market.
Fra qualche tempo, probabilmente presto, ai bisonti famelici di azioni verranno date in pasto gigantesche razioni di aumenti di capitale, in particolare da parte delle banche. La digestione di questi aumenti (un trilione abbondante solo per le banche americane, altrettanto per l’Europa) rallenterà la corsa, ma perché gli aumenti abbiano inizio è bene che il recupero azionario faccia ancora un po’ di strada.
Nel breve solo un salto di qualità della pandemia può arrestare le borse. Quello che vediamo, influenza a parte, è un movimento a w, con un rialzo ancora per qualche settimana e un ritracciamento estivo, seguito da un rialzo più lento più avanti. Questa w minuscola di borsa potrebbe essere parte di una W maiuscola più ampia di ciclo economico. Con la tarda estate 2009 come punto d’inversione, la crescita potrebbe assumere segno positivo fino a tutto il 2010 (anche in vista delle elezioni americane di mid term) con l’aiuto di un altro pacchetto fiscale da varare a fine anno o, in sua assenza, di ulteriori monetizzazioni di debito da parte della Fed.
Il 2011 o il 2012 potrebbero invece vedere una nuova decelerazione. Le cause potrebbero essere due. Della prima si parla molto, moltissimo (iperventilazione, la chiama Jan Hatzius), ed è la possibile impennata dell’inflazione, unita magari a un impennata dei tassi reali, che costringerebbe la Fed a una brusca frenata. Il tema, dicevamo, è già bollente adesso, se si pensa che la Fed, nell'ultimo comunicato, ha dovuto mandare un messaggio in codice ai mercati obbligazionari per rassicurarli (il messaggio è che gli acquisti programmati di titoli rimarranno quelli già annunciati, che in traduzione significa che la Fed ha già finito di premere sempre di più sull’acceleratore ed è anzi molto sensibile al grido di dolore che si leva dalla parte lunga della curva governativa).
A noi sembra che al momento il problema sia sopravvalutato. La Fed ogni tanto dà qualche soddisfazione ai bond vigilantes e mostra di essere capace di frenare all’occorrenza. L’ha fatto in gennaio vendendo la carta commerciale accumulata e contraendo il suo bilancio (distruggendo base monetaria) e lo fa adesso. Saremo maliziosi ma non possiamo fare a meno di notare che gennaio e aprile sono stati periodi di bull market in cui i mercati hanno cominciato a mettersi in testa che il peggio era alle spalle. Non appena questa sensazione di euforia sarà svanita, dovesse occorrere, la Fed riprenderà a creare moneta.

Il fatto che il problema sia sopravvalutato adesso non significa comunque che non si porrà sul serio fra un paio d’anni. Insieme a un altro, del quale invece si parla pochissimo, se non per niente. E’ l’ipotesi di una seconda crisi bancaria, avanzata da Adam Posen. Posen non è uno qualsiasi, è un’eminenza grigia ex Fed che fa da consulente di molte tra le maggiori banche centrali.
La sua idea è che quello che si sta facendo è una sistemazione raffazzonata dell’attivo tossico delle banche, accompagnata (e qui viene il peggio) da una giapponesizzazione dei comportamenti per quanto riguarda gli impieghi tradizionali. Le banche giapponesi, come è noto, continuarono per anni a rifinanziare le imprese malandate per non fare emergere perdite a bilancio ed evitarono d’altra parte con cura di erogare credito fresco alle imprese sane. Con il risultato, alla fine, di un deterioramento continuo dell’attivo, con necessità finale di nazionalizzazioni complete.
Al di qua di queste sfide terribilmente impegnative per i prossimi anni, suggeriamo di godere di questa fase irripetibile in cui anche le notizie macro negative, alla facile condizione che non siano ancora più negative di quelle dei mesi appena trascorsi, diventano positive agli occhi dei mercati. Un giorno, quando le valutazioni saranno più generose di adesso, la vulnerabilità dei mercati sarà maggiore, ma ai livelli attuali, rischiando, non si rischia poi così tanto.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

  Il rally delle illusioni. L'euforia non si deve fermare

Lunedì 4 Maggio 2009, 13:14 - di Pierluigi Gerbino - Borsaprof

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I mercati azionari mondiali hanno archiviato il mese di Aprile estendendo il rimbalzo iniziato il 10 marzo ben oltre le legittime attese di correzione tecnica.
Ci ritroviamo ora a vivere un rimbalzo che sembra quasi invincibile: quasi due mesi di salita che ha sostanzialmente riportato i principali mercati ad un passo dai valori di inizio anno, recuperando quasi tutta la devastazione provocata dal panico di gennaio e febbraio.
Che quello di marzo sia stato un minimo di medio periodo è ormai chiaro. Assai meno chiaro è quel che ora potrà succedere.
Insomma, molti investitori di medio periodo, che non hanno approfittato del rimbalzo per prudenza, si stanno chiedendo: siamo già al punto di svolta che ci permetta di ipotizzare la morte dell'orso ed il ritorno stabile del ciclo rialzista? In tal caso che Toro (NYSE: TTC - notizie) stiamo cavalcando? Un torello poco muscoloso oppure un animale possente in grado di riportarci ai fasti di due anni fa?
Qualcun altro si pone la domanda che ciclicamente sentiamo: come mai le borse salgono anche quando arrivano dati brutti? Davvero possiamo credere che la crisi, che due mesi fa sembrava apocalittica, ora sia passata?
Non sono certo in grado di rispondere con certezze a tutto ciò, però proverei a mettere un po' in ordine quel che si sta affastellando sui media, ovviamente secondo il mio punto di vista.
Partiamo dal dato macroeconomico, dai fondamentali.
Anche io sono stupito dalla rapidità in cui le banche centrali (in modo cauto), i governanti (in modo più convinto) e gli analisti prezzolati delle banche d'affari (in modo spudorato) hanno mutato opinione nel breve volgere di un mese.
Quella crisi che a marzo tutti paragonavano con la Grande Depressione e che, secondo i più, avrebbe dovuto accompagnarci per tutto il 2009 e forse anche per il 2010, sembra passata d'incanto.
Il drastico mutamento di opinioni non deriva da dati reali, ma da alcuni miglioramenti che si intravvedono negli indicatori di fiducia.
I dati reali pervenuti finora non lasciano spazio a grandi illusioni: il PIL USA è stimato ad un tasso di caduta del 6,1% annualizzato; la stima più recente fatta del PIL tedesco del 2009 parla anch'essa di un -6%. Nessun barlume di positività viene dal mercato del lavoro USA, che continua a perdere ogni mese più di 600.000 posti di lavoro.
Gli unici dati migliori delle attese sono arrivati dagli indici di fiducia dei consumatori e dagli indici dei manager (ISM e PMI), che hanno fermato la caduta e sono rimbalzati. Va considerato comunque che la fiducia registra comunque ancora valori intorno a 60, ben lontani dai valori superiori a 100 che si vedevano nel 2007. Anche ISM e PMI si sono riportati intorno a 40, che è ancora ben lontano dal valore 50 che separa la recessione dalla crescita.
Sembra quindi corretto, come lucidamente ha fatto Draghi, parlare di rallentamento della caduta delle economie più importanti, non di ripresa. Un rallentamento della recessione potrebbe far ipotizzare una futura stabilizzazione, ma pare prematuro già scommettere sull'inversione congiunturale. Eppure sembra che i mercati lo facciano.
O scambiano una rondine con la primavera, sbagliando, oppure stanno correggendo l'eccessivo pessimismo che li ha colpiti ad inizio anno. Insomma, stanno sbagliando oppure hanno sbagliato prima. Questo perché le inversioni a V sono un evento molto raro e si giustificano con qualche radicale mutamento di prospettiva, che dai dati attuali non si vede. Non dimentichiamo che la caduta produttiva dell'ultimo semestre (da ottobre 2008 a marzo 2009) ha avuto una portata eccezionale, un'intensità mai vista nel dopoguerra. Pertanto una stabilizzazione non è certo quel che basta per risollevare le sorti dell'economia mondiale.
Gli ottimisti invece non mancano. Tutti però, non potendo affermare che ci sono dati di ripresa, si aggrappano alle mutate aspettative. Allora affermano che la crisi è finita poiché il G20 ha fatto vedere che i governi vogliono agire per combattere la crisi, Obama nei suoi 100 giorni ha dato prova di coraggio ed abilità a stimolare i consumi (unica voce che ha dato un contributo positivo al PIL USA del 1° trimestre) e salvare le banche con massicci interventi. E siccome stiamo vivendo prevalentemente una crisi di fiducia, tornata la fiducia, finita la crisi.
A me pare che si voglia mettere il carro un po' troppo davanti ai buoi.
Infatti, se andiamo a vedere bene, i risultati del G20 sono stati sostanzialmente un elenco di pie intenzioni dei governi: stanziare altri 1000 miliardi, combattere i paradisi fiscali, regolamentare i fondi hedge, smetterla con i bonus ai manager bancari. Qualcuno ha visto finora attuare anche solo una di queste buone intenzioni? Io no. Anzi, il fatto che i mercati finanziari si siano un po' ripresi sembra aver ringalluzzito le lobbies dello status quo ed accantonato l'urgenza di provvedere, quasi che tutto si risolva da solo.
Obama poi si è rivelato maestro di illusionismo, dimostrando un'inattesa (da me) capacità di prendere in giro l'America facendole credere di salvarla.
Le imponenti misure messe in campo, con la creazione di una montagna di debito, che bloccherà le aspettative di crescita futura, porterà inflazione e svuoterà le tasche delle future generazioni, sono state destinate in gran parte a sostenere l'attuale establishment bancario, che si cerca di far uscire indenne dalla colossale truffa perpetrata ai danni del mondo.
Qualche esempio lo abbiamo già visto in precedenti articoli. Ricordo soltanto il piano salvabanche di Geithner, che regala alle banche la possibilità di disfarsi di titoli tossici vendendoli ad enti pubblici-privati in cui i guadagni finiscono ai privati ed i rischi al bilancio pubblico.
Non da meno è stata la modifica alle regole contabili che ha permesso alle banche di valorizzare i titoli tossici a loro piacimento. Questa chicca, a cui io attribuisco gran parte del merito del rialzo borsistico, ha permesso a tutte le principali banche di presentare utili fantascientifici nelle trimestrali presentate, proprio nei giorni in cui il FMI rivedeva al rialzo oltre i 4.000 miliardi di dollari la stima del buco originato dai titoli tossici. Ricordo che finora le perdite emerse sono state di circa 1.300 miliardi. Se il FMI non sbaglia restano 2.700 miliardi di polvere che è stata nascosta sotto il tappeto ed emergerà in futuro. Ma non ora! Questo è quel che conta. Magari il ritorno della fiducia farà il miracolo di far sparire la tossicità. Questa è la speranza dei furbetti. Ed il mercato ci sta credendo, lanciandosi nella speculazione rialzista sui bancari. E' bastato truccare il termometro e tutti cominciano a credere che la febbre sia sparita.
L'altra presa in giro è l'Araba Fenice degli Stress Test sulle 19 principali banche USA. Non si riesce più a capire quando avremo i dati ufficiali, dato che i tempi di pubblicazione vengono posticipati ogni settimana. Tuttavia le anticipazioni che sono state pubblicate su importanti giornali americani fanno temere che quella che venne presentata come “l'operazione verità” per togliere ogni dubbio sul sistema bancario USA, sia in realtà un'altra operazione di intossicazione della realtà.
Innanzitutto il metodo usato presta il fianco alla critica di eccessiva accondiscendenza. Si è esaminata la solidità delle banche utilizzando due ipotesi: l'ipotesi di base prevede il PIL 2009 a -2% e tasso di disoccupazione a 8,5%, mentre per il 2010 il PIL è visto a +2,1% (non è un errore di stampa) e la disoccupazione a 8,8%. Si è poi esaminata anche l'ipotesi peggiore: nel 2009 PIL a -3,3% e disoccupazione a 8,9%, nel 2010 PIL a +0,5% e disoccupazione al 10,3%.
Si noti che la realtà ha già superato l'ipotesi avversa utilizzata. Infatti il PIL viaggia a velocità negativa doppia rispetto all'ipotesi peggiore e la disoccupazione è già a 8,5% a marzo e cresce di circa 0,3-0,4% al mese.
Ebbene, nonostante ciò, pare dalle ultime indiscrezioni che ben 14 banche su 19 escano dallo stress test con la necessità di ricapitalizzare, cioè siano sostanzialmente insolventi anche con i parametri compiacenti della Federal Reserve. Che sarebbe successo se si fossero usati parametri più realistici?
Eppure Geithner si è potuto permettere l'affermazione che ha fatto schizzare le borse, secondo cui “la maggior parte delle banche USA ha capitale in eccesso” rispetto alle necessità. Mente? Formalmente no, in sostanza sì. Infatti le banche USA sono 1700 ma le 10 più grandi contano per il 60% circa degli assets. Come ha fatto acutamente notare il Nobel Krugman, basta che alcune delle più grandi siano sottocapitalizzate, ma non lo siano molte tra le piccole, per consentire l'affermazione di Geithner che nega la realtà della sostanziale insolvenza del sistema.
Questione di fiducia…
Ed infatti un'altra bella affermazione di “faccia d'angelo” Geithner è stata: il Governo non consentirà il fallimento di alcuna delle 19 banche sottoposte allo stress test.
Il che significa, in altre parole, che la lobby del “too big to fail” ha vinto un'altra battaglia e che possiamo prepararci ad un'altra scorpacciata di soldi pubblici per tenerla in vita. Ma anche che quelle piccole possono tranquillamente fallire, in barba al principio dell'uguaglianza di fronte alla legge e della libera concorrenza, capisaldi del capitalismo.
Intanto, nonostante le notizie così belle, pare che la Casa Bianca sia preoccupata di come comunicare i risultati al mercato, temendo che le 14 banche in difficoltà vengano massacrate. Per questo continua a rinviarne la pubblicazione.
Mi sento quindi di affermare che le regole della finanza e della decenza sono state pesantemente truccate per ottenere quel che si voleva, ovviamente per “il bene dell'umanità”: i mercati non potevano collassare, ed allora si è iniettata una colossale dose di droga informativa, per tentare di convincere il popolo dei risparmiatori che è tutto finito e si potrà ricominciare come prima a creare una bolla speculativa dopo l'altra.
A chi giova questo bluff? Sicuramente alla lobby finanziaria americana, così ben “ammanicata” con il governo Obama, nonostante le apparenze retoriche del Presidente che asseconda la rabbia popolare contro i bonus dei manager, ma in pratica fa tutto quel che può (ed anche quel che non si dovrebbe) pur di salvare lo status quo del sistema bancario americano. La possibilità di far vedere il bianco per il nero è l'estremo tentativo per cambiare il meno possibile questo mondo marcio e tentare di distribuire ad altri le perdite occulte.
Conviene anche ai governi, in particolare a quello americano. Obama si è già svenato (per la precisione ha svenato i contribuenti americani dei prossimi anni per combattere la crisi ed ha già buttato oltre 1000 miliardi nel pozzo senza fondo delle perdite bancarie. La prospettiva di doverne buttare un altro bel gruzzolo per ricapitalizzare le banche con danaro pubblico non lo entusiasma. Per cui se si riesce a pompare un po' i titoli bancari è possibile che i prossimi e cospicui aumenti di capitale “post stress test” vengano almeno in parte sottoscritti dai privati.
Conviene all'industria del risparmio gestito, che ha subito in questi mesi la fuga del popolo dei risparmiatori, mentre chi non è scappato è stato trattenuto a stento con la solita favoletta che “nel lungo periodo i mercati salgono sempre”. Magari un cospicuo rimbalzo consentirebbe di distribuire al popolo degli speculatori dilettanti un bel po' di titoli a prezzi assai migliori di due mesi fa, consentendo di scaricare i portafogli per riaccumulare dopo la correzione.
Insomma, ci sono troppi interessi occulti dietro questo rialzo e troppo pochi elementi oggettivi.
Il problema però è che quando si illude la gente, la disillusione può portare alla delusione. E la delusione di questi tempi può essere molto pericolosa. Per questo i mercati stanno salendo senza consentire mai nemmeno la minima correzione. Così si costringono gli inseguitori a salire a prezzi crescenti, alimentando il rally.
Inoltre si possono raggiungere livelli che preservino dagli effetti negativi della futura presa di beneficio. Se si riuscirà ad impedire che la correzione di questo rally si avvicini troppo ai minimi di marzo, si dovrebbe aver buon gioco a convincere a comprare anche coloro che non si fidano ancora ad entrare.
Quante probabilità ha questo bluff di risultare vincente?
Personalmente ritengo che nel lungo periodo ne abbia poche, poiché il marcio delle banche non può essere nascosto all'infinito. Inoltre il crollo del settore dell'edilizia commerciale, appena iniziato, del business delle carte di credito, prossimo venturo, e la continua emorragia di posti di lavoro aggiungeranno altri problemi “reali” a quelli finanziari.
Ma nell'arco di qualche mese, se non si frappongono “incidenti di percorso”, ci sono ampie possibilità che il “rally delle illusioni” trascini i mercati. Un imprevisto che potrebbe rovinare i piani è l'influenza suina, se il livello di allerta dell'OMS dovesse passare a 6 (pandemia in atto). Però finora gli allarmi ed il livello 5 di allerta (pandemia imminente) hanno fatto solamente il solletico all'euforia del mercato.
Pertanto il cammino verso “quota mille” di SP500, arrivato a 2/3, potrà ancora proseguire, specie se sarà intervallato ora da una rapida correzione. Poi in autunno tutti i nodi verranno al pettine e sapremo se la recessione è veramente finita o se invece il rialzo è servito solo alle mani forti a distribuire la spazzatura al popolo a prezzi migliori.
 

Fonte - Borsaprof

 

 

 

 

 

Usa, le banche ancora nel mirino

04/05/2009 - di Miaeconomia
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La tensione sul settore finanziario negli Usa sembra ancora lontana dall'alleggerirsi. Da una parte continua lo stillicidio di banche che chiudono i battenti. Nella lista piu’ recente delle banche in fallimento, si segnala anche la Citizens Community Bank del New Jersey e la America West Bank dello Utah, cosi’ il totale e’ arrivato a quota 32 nei soli primi 4 mesi del 2009. In tutto il 2008 il numero delle banche che hanno chiuso negli Stati Uniti e’ stato di 25, in tutto il 2007 solo 3.
Il caso piu’ pesante – tra gli ultimi - quello della chiusura della Silverton Bank, anche in questo caso l'istituto e' passato sotto il controllo della Fdic (ovvero la Federal Deposit Insurance Corp, l'agenzia di assicurazione dei depositi).
Come al solito la Fdic mettera' in piedi una banca "ponte" per rilevare le attivita' di Silverton Bank, una importante banca di Atlanta che puo' contare su 4,1 miliardi di dollari di asset e 3,3 miliardi depositi. L'agenzia stima che la transazione costera' 1,3 miliardi di dollari. Intanto l'amministrazione Obama ha annunciato il secondo rinvio dei risultati del cosiddetto "stress test", sui 19 big finanziari degli Stati Uniti.
La data e' stata spostata da lunedi' 4 maggio al 7 maggio. Gli analisti ormai si aspettano che i risultati del test mostreranno come una larga parte delle maggiori banche abbiano bisogno di un nuovo aumento di capitale, tra cui anche Citigroup e Bank of America. Secondo quanto stabilito, le banche che saranno invitate ad aumentare il capitale, avranno 6 mesi per chiudere l'operazione prima di essere costrette a chiedere aiuti pubblici dal governo federale.
Uno dei motivi per cui si e' arrivati al secondo rinvio e' dovuto al fatto che i vertici delle banche, viste in difficolta' dal test, contestano i risultati del governo. In particolare il disaccordo e’ incentrato sulla ampiezza delle possibili perdite delle banche americane e la loro capacita’ di aumentare gli utili nei prossimi mesi.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

 

 

  Caccia al tesoro

04 Maggio 2009 23:39 MILANO - di Fabrizio Guidoni

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Caccia al tesoro. La «mappa» dei mercati azionari parla chiaro: le maggiori soddisfazioni vanno cercate adesso in Cina e Brasile. E anche in India. Tre emergenti doc, che permettono di coniare un nuovo acronimo: il Bic (perchè la Russia sta maluccio). Armandosi, ovviamente, della dovuta pazienza. Perchè l’uscita dalla crisi non è poi così scontata, almeno a breve termine, nonostante la cavalcata dei listini azionari dal 9 marzo scorso.

Dunque un Etf sulla Borsa cinese non può mancare. I listini di Shanghai e Shenzhen, già in rialzo di oltre il 30% da inizio anno, si cibano di un’economia dai numeri impressionanti. Il Pil del Dragone saleal ritmo del 6,1 per cento. Del resto la produzione industriale, dopo la flessione di fine 2008, è aumentata del 5,1% nel primo trimestre. E il premier Wen Jiabao continua a ripetere che l’obiettivo di un Pil all’8% nel 2009 è a portata di mano.

Merita una crocetta anche il Brasile, ben rappresentato all’Etfplus di Piazza Affari dagli Etf Db x-trackers Msci Brazil, dallo iShares Brazil e dal Lyxor Brazil Ibovespa. Il motivo? L’economia carioca (+1,27% nel 2008) tiene botta alla crisi. Inoltre, il Bovespa (+25% nel 2009) offre anche un ricco dividendo (??). poi c’è l’Elefante. Già, l’India. Già, l’India: come pensare alle Borse senza mettere sul piatto il subcontinente (+18% da gennaio)? Il vestito può essere quello dell’Etf Db x-trackers S&P/Cnx Nifty o del Lyxor Msci India, per un’economia che offre una crescita del pil al 5,3%. Niente male.

SELETTIVITÀ. Certo, in tempi di forte rally delle Borse non è facile decrittare i listini azionari. Come insegna il proverbio: la marea alza tutte le barche. Il rischio è un grande abbaglio, come altre crisi storiche insegnano, a partire da quella del 1929-1933. Anche allora ci furono rally strepitosi, ma illusori. Per questo, una road map sugli indici deve fondarsi su almeno quattro indicatori: 1) analisi macro; 2) analisi tecnica; 3) analisi fondamentale; 4) merito di credito. Ovviamente, volendo puntare sui listini Emerging va messa in conto una volatilità accentuata. Oltre al rischio cambio.

I NUOVISSIMI. Si può anche osare di più: c’è sempre un emergente più emergente di un altro. Così, spostando un poco il tiro, dall’India si può atterrare nel Sudest asiatico. E il Vietnam è senz’altro il maggiore protagonista tra le «nuovissime» economie in forte sviluppo. Altrettanto non va trascurata una delle ex tigri asiatiche . Diciamo ex perchè ormai sempre più la nozioe di paese emergente va stretta alla Corea del Sud. Il Pil mostra infatti dinamiche simili ai Paesi del G7, anche quello pro-capite ha compiuto passi da gigante, mentre l’indice Kospi viagga al +16% nel 2009 e il p/e oscilla su quota 14. Quindi, semaforo verde anche al benchmark Msci Korea.

E il grande Giappone, seconda economia del pianeta, anche se non si sa fino a quando? Troppe volte negli ultimi 20 anni il Sol Levante ha illuso gli investiori. Secondo l’Fmi nel 2010 il Paese avrà un rapporto debito/Pil al 227 per cento. Ne consegue che anche se non c’è nulla di meccanico fra Borse e debito pubblico, occorre cautela. Dunque, sì ad Asia senza Giappone. Come farlo? La scelta è ricca: Db X-Trackers Msci Ac Asia ex Japan, iShares Msci Ac Far East ex Japan o Lyxor Msci Ac Asia Pacific ex Japan.

TORELLO DOC. Che dire in generale dei mercati azionari? Come già accennato dal 6 marzo scorso le Borse hanno virato. E questo è un fatto. Un bel rimbalzo che, visti i livelli raggiunti (ormai siamo a un +40% medio sui principali listini europei), ha conquistato l’etichetta di Torello doc. E ora? È ancora il momento di comprare? Inutile dire che i dati macro sono tutti scoraggianti. Per dirne una il Pil degli Stati Uniti nel primo trimestre 2009 ha registrato una contrazione del 6,1 per cento. Ma le Borse guardano sempre avanti. Così, la sola idea, che nei prossimi trimestri andrà un po’ meno peggio fa rivivere i listini. In più, dati dell’ultim’ora, i consumi Usa sono risaliti del 2,2%, mentre le scorte si stanno azzerando, dunque occorrerà ricostituirle. E solo questo contribuirà a restituire pil alla superpotenza ammalata.

SELL IN MAY. C’è un altro aspetto che può rendere cauti gli investitori: è il noto refrain che recita sell in may and go away. Ovvero «vendi a maggio», mese canonico di debolezza e correzione dei listini. Le ragioni per una sosta non mancano: dopo una corsa mozzafiato è sempre bene una pausa di respiro. Ma appunto potrebbe una correzione da comprare. Se dal punto di visto tecnico diversi quasi tutti i mercati, a partire da Cina e America, hanno spazio per un ritracciamento, anche consistente (10-15 punti percentuali), ciò non comprometterebbe il Torello. Anzi. Tra l’altro le Borse hanno dimostrato finora un’ottima «resilienza». Ovvero ogni volta che stornano un po’ si presenta nuovo denaro. Basta osservare la facilità con cui (incrociando le dita) i mercati hanno digerito i colpi inferti dalla «febbre suina»: a parte un breve smottamento, la corsa è ripartita più veloce di primo con l’S&P 500 che ha messo nel mirino quota 900-930.

Va detto che sul fronte macro qualche spiraglio si delinea. Diciamo quei «barlumi di speranza» accennati dal presidente Obama. Basta leggere anche l’ultimo Beige book della Federal reserve. Infine gli stress test sulle banche Usa, nè troppo belli nè troppo brutti, hanno confortato il mercato: un quadro troppo rosa avrebbe indotto scetticismo, una quadro troppo nero avrebbe riproposto l’allarme credit crunch. Infine non vanno dimenticate le trimestrali. Non poche «corporate» hanno sorpreso in positivo. Il risultato? Anche i ratio di Borsa, come price/earning e dividend yield (vedi tabella) appaiono piuttosto attraenti.

WALL STREET. Vale perciò la pena continuare la caccia al tesoro fra gli oltre cento Etf azionari quotati a Piazza Affari. Sapendo che la campanella che decide tutto sta sempre a Wall Street. E anche stavolta è così: in due mesi il Dow Jones è salito del 22%, ma resta negativo del 6,73% da gennaio. Il Nasdaq100 invece da gennaio mette a segno un +14%. Il p/e sembra ora troppo elevato (18,2) ma è sotto la media storica e, fatto più importante, è tra i più bassi di quelli in circolazione tra le Borse Usa. Un assist per i due Etf Lyxor Nasdaq 100 e Powershares eqqq. Il tutto sperando in un aiutino dal dollaro. Anche perché se l’America uscirà prima dell’Europa dai guai, il biglietto verde farà la sua parte.

Naturalmente anche la scelta del Nasdaq comporta l’assunzione di un rischio cambio e una buona dose di volatilità. Per evitare entrambi una soluzione esiste: rivolgere l’attenzione a panieri di azioni ad alti dividendi, meno ballerini rispetto al resto del listini, anche se meno brillanti in fasi di rimbalzo.

E veniamo così all’Europa. Basti dire che il Dj Eurostoxx50, su cui sono costruiti diversi Etf, presenta un dividend yield del 6,40% a fronte di un p/e di 10,5. Numeri affascinanti in un’ottica di lungo periodo. E si può fare anche meglio puntando sul Dj Eurostoxx Utility: finora è rimasto ai margini del grande rimbalzo di questi mesi, ma il rendimento è di ben il 6,58%, il triplo del Bund tedesco, con la convenienza data dal rapporto prezzo/utili scivolato sotto 10. E l’ultima fiche? Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Anche un po’ di S&P/Mib può andar bene.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

  E’ troppo presto per parlare di ripresa

May 5th, 2009 by editor - di Mario Seminerio - Liberal Quotidiano

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Il forte rally delle quotazioni azionarie globali, in atto da alcune settimane, ed alcuni dati macroeconomici meno peggiori delle attese, stanno contribuendo alla formazione di aspettative di stabilizzazione del quadro economico. Si tratta di attese diffuse anche in Europa, dove fino a non molto tempo addietro si riteneva che la congiuntura fosse destinata ad aggravarsi significativamente rispetto agli Stati Uniti, essenzialmente per il minore impiego di risorse fiscali nello stimolo della congiuntura, per i limiti statutari e politici ai margini di manovra della Banca Centrale Europea, oltre che per la prossimità con un’area (quella dell’Europa Orientale) che rappresenta un fondamentale mercato per i paesi Ue, e che sta vivendo una crisi drammatica causata dal deflusso di capitali occidentali e da indebitamento di famiglie ed imprese in valute forti (euro e franchi svizzeri).

Riguardo il nostro paese, l’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia ha evidenziato un rallentamento della velocità di caduta congiunturale, ma si è (ovviamente e correttamente) ben guardato dal preconizzare una eventuale ripresa. Di fatto, quanto sta accadendo sembra più il frutto di un orientamento psicologico che di effettiva svolta di mercato. I mercati azionari, come noto, tendono ad anticipare la congiuntura, anche di parecchi mesi, e certamente il recente rialzo è stato significativo, per vigore e portata. Ma giova ricordare che anche durante la Grande Depressione si verificarono alcuni vistosi recuperi, all’interno di una tendenza di più lungo periodo che è rimasta depressa. In altri termini, la volatilità resta la caratteristica dominante dei mercati, e ciò suggerisce immutata cautela.

Anche il recente violento rimbalzo delle quotazioni azionarie delle banche statunitensi appare una reazione a quotazioni storicamente depresse, oltre che la probabile conseguenza di alcuni eventi, tra i quali gli annunci di alcuni tra i maggiori istituti di una ripresa di redditività operativa, o l’attenuazione delle regole di mark-to-market, che consentiranno alle banche di valutare secondo propri modelli (spesso fantasiosi) i titoli iscritti all’attivo dei propri bilanci. Anche gli ultimi dati macroeconomici appaiono caratterizzati da una singolare particolarità: una forte correzione statistica per la stagionalità che migliora dati grezzi particolarmente negativi. Tra i dati di mercato che sembrano giustificare maggiore ottimismo vi è invece l’andamento degli indici delle materie prime, segnatamente del rame, che appare aver ormai consolidato i minimi ed avviato una visibile ripresa di prezzo. Dietro questo fenomeno vi è la Cina, che da tempo sta incettando materie prime, al punto da integrare verticalmente il settore acquisendo quote di fornitori, come suggerisce la ricapitalizzazione dell’australiana Rio Tinto per opera di Chinalco. Malgrado dati sulla crescita del credito bancario cinese in forte crescita non è scontato che tali recuperi di prezzo delle materie prime possano derivare da una effettiva svolta congiunturale e non dalla ricostituzione del livello di scorte.

In sintesi, e considerato che nessuna crisi può indefinitamente produrre una costante caduta dei livelli di attività, occorrono altre evidenze prima di poter affermare che la congiuntura si è stabilizzata. Ed anche in quel caso, data la necessità del consumatore americano di risparmiare per rimborsare i propri debiti, è difficile immaginare la ripresa di una crescita robusta e durevole.
 

Fonte - Liberal Quotidiano

 

 

 

 

  Venerdì 08 Maggio 2009   Domenica 10 Maggio 2009   Giovedì 14 Maggio 2009  
       
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GR1 RAI - 07 MAG ore 22:00

   

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GR1 RAI - 11 MAG ore 22:00

   

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GR1 RAI - 14 MAG ore 22:00

   

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TASSI: PEGGIO E' PASSATO MA BCE SI PREPARA AL 7° TAGLIO

06 Maggio 2009 09:03 ROMA - di Beda Romano
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Da Washington e da Bruxelles i segnali dell'establishment politico si vogliono ottimisti. La caduta della produzione sembra in rallentamento e il peggio è passato. Domani tuttavia la Banca centrale europea dovrebbe tagliare nuovamente il costo del denaro e introdurre misure non convenzionali per aiutare i mercati e l'economia.
Il tasso di riferimento dovrebbe scendere dall'1,25 all'1 per cento: si tratterebbe del settimo allentamento in poco più di sei mesi per un totale di 325 punti base. La scelta non sorprende: le ultime previsioni economiche fanno temere la peggiore recessione dagli anni Trenta.
Nelle loro previsioni di marzo, gli economisti della Bce prevedono un calo del Pil del 2,7 per cento. Ma proprio nei giorni scorsi sia la Commissione Europea che il governo tedesco hanno ridotto drasticamente le loro stime per il 2009: le autorità comunitarie si aspettano una contrazione dell'attività del 4% nella zona euro, l'Esecutivo del 6% in Germania.
Il timore di molti osservatori è che la stima della Bce possa essere stata superata dagli eventi, anche se la proiezione è in realtà una forchetta piuttosto ampia che va da -3,2% a -2,2. Al di là della nuova riduzione del costo del denaro, il consiglio direttivo dovrebbe annunciare anche nuove misure per aiutare mercati ed economia.
Il tema è stato discusso dai banchieri per settimane. Come ha spiegato in un recente discorso a Ginevra Lorenzo Bini Smaghi, membro del comitato esecutivo della Bce, l'istituto non vuole prendere decisioni dalle quali è difficile tornare indietro. Molti banchieri sostengono che le scelte inglesi o americane di allentamento quantitativo sono rischiose. L'ipotesi più accreditata è che la Bce annunci un allungamento delle operazioni di rifinanziamento. Attualmente, l'istituto effettua pronti contro termine della durata di sei mesi e ad ammontare indefinito. La durata potrebbe essere portata a un anno o addirittura a due anni. L'obiettivo è di offrire alle banche massime garanzie sul fronte della liquidità.
Il consiglio direttivo potrebbe inoltre permettere alla Banca europea degli investimenti (Bei) di partecipare anch'essa ai pronti contro termine della Bce, in modo da facilitare il suo rifinanziamento. Da un punto di vista politico questa decisione potrebbe essere vista come un passo in avanti nella collaborazione tra le istituzioni europee.
Infine, i banchieri dovranno decidere se e come acquistare obbligazioni sul mercato. Il tema è controverso nel consiglio direttivo. Non basta: c'è chi pensa che la Bce debba concentrarsi sull'acquisto delle sole obbligazioni private e chi invece non esclude l'acquisto di titoli pubblici.
A Francoforte l'acquisto di obbligazioni statali non piace, meglio piuttosto quelle private, tanto che uno dei tanti piani messi a punto dalla Bce prevede l'acquisto sul mercato per un periodo di sei mesi di obbligazioni bancarie garantite e di società non finanziarie con maturità relativamente brevi. Molti banchieri nazionali hanno invece l'opinione contraria.
Il tema è argomento difficile, ma secondo alcuni osservatori ormai urgente. I prezzi alla produzione nella zona euro sono scesi del 3,1% annuo in marzo, un record negli ultimi 22 anni, tanto che ieri il governatore austriaco Ewald Nowotny ha spiegato che «nel futuro prevedibile i rischi sono di deflazione, non di inflazione».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Raccolta, l'emorragia rallenta

07/05/2009 14.52 - di Marco Caprotti
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Rallenta la fuga dai fondi di investimento. Ad aprile, secondo gli ultimi dati di Assogestioni, i deflussi si sono fermati 826 milioni rispetto a un risultato negativo per oltre 5 miliardi nel mese precedente. Nonostante i riscatti, grazie all’attività di gestione e al favorevole andamento dei mercati, il patrimonio è tornato a crescere passando dai 386 miliardi dello scorso mese agli attuali 397 miliardi.
Da sottolineare il ritorno in territorio positivo dei prodotti azionari e flessibili. Per i primi il saldo è pari a 373 milioni (-490 milioni a marzo). La categoria si è presentata con una crescita del patrimonio ancora più consistente, passando dai 64 miliardi di marzo agli attuali 73 miliardi di euro (18,3% degli asset investiti in fondi aperti). Per i secondi la raccolta è stata di 477 milioni (-701 milioni il mese precedente). Questo dato ha contribuito alla crescita degli asset detenuti dalla categoria che si posizionano nuovamente sopra quota 51 miliardi (12,9% degli asset complessivi)
Prossimi alla parità anche i bilanciati che hanno comunque un saldo negativo di 106 milioni rispetto ai -420 milioni di marzo. Il patrimonio, il 4,2% del totale, è invece in crescita e si è collocato poco sotto i 17 miliardi di euro.
I fondi di liquidità hanno registrato riscatti complessivi per 193 milioni (-139 milioni il mese prima). Sul fronte del patrimonio la situazione è pressoché stabile: la categoria ha chiuso il mese con 87 miliardi di euro, equivalenti al 22% del patrimonio complessivo.
Netta la frenata dei deflussi dagli obbligazionari. La categoria è passata dai -2,7 miliardi, rilevati a marzo, agli attuali -403 milioni. Variazione positiva invece per il patrimonio che, da poco meno di 151 miliardi, è arrivato a oltre 152 miliardi. Una quantità di denaro che ammonta al 38,3% degli asset totali.
La maglia nera va ai fondi hedge che hanno registrato riscatti per 975 milioni (rispetto ai -592 milioni di marzo) e, al termine del periodo di rilevazione, detengono asset, in diminuzione, inferiori a 17 miliardi di euro, pari al 4,2% delle masse complessive.
Anche ad aprile i maggiori deflussi sono stati registrati dai fondi di diritto italiano promossi da gruppi italiani ed esteri che hanno avuto riscatti per circa 2 miliardi.

Positiva, invece, la raccolta degli esteri. I sottoscrittori, infatti, hanno fatto pervenire nelle casse di questi prodotti somme per circa 1,2 miliardi di euro.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

Soldi (tanti) per le banche Usa

08/05/2009 - di MIAECONOMIA
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Alla fine e' arrivata la versione ufficiale, dopo le anticipazioni da ambienti dell'amministrazione Obama della mattina di ieri. Il tantissimo atteso "stress test" sulle 19 maggiori banche statunitensi, ha mostrato che nessuna di loro rischia la bancarotta ma che pr rinforzarsi dovranno dotarsi di 74,6 miliardi di nuovo capitale.

Soldi che dovrebbero garantire una certa tranquillita' se la tempesta economica e finanziaria dovesse di nuovo peggiorare, anche se dai corridoi della Casa Bianca si guarda ai risultati come una conferma di una svolta dalla crisi.
Tra le 19 banche sotto esame, dieci sono quelle che dovranno darsi da fare per rastrellare capitali, anche se pochissime, forse una sola, dovra’ chiedere un nuovo aiuto pubblico. Non a caso, nel giro di pochi minuti dalla pubblicazione dei dati, le banche in questione hanno fatto sapere subito come agiranno.
Ad esempio, Bank of America - che da sola dovra' raccogliere 33,9 miliardi di dollari in nuovi capitali, quasi la meta' del totale - ha dichiarato che provvedera' a vendere asset, ad aumentare il capitale con nuove azioni oridnarie per 17 miliardi, oltre ad altre azioni minori.
Cifre nettamente minori a carico di Citigroup (dovra' trovare 5,5 miliardi di nuovo capitale), di Fitfth Third Bank (1,1 miliardi), situazione piu' pesante per GMac (qui si tratta di 11,5 miliardi) che forse chiedera' un aiuto pubblico in questa direzione ma sara' tra le pochissime a farlo.

E ancora Morgan Stanley, che dovra' raggranellare 1,8 miliardi di dollari, altri 2,2 miliardi per SunTrust Banks. Infine piuttosto gravoso anche il compito per Wells Fargo, secondo il test dovra' cercare 13,7 miliardi di nuovo capitale.
Al contrario, tra le banche che si giudicano abbastanza a posto e che non dovranno intervenire sul capitale, spiccano i nomi di State Street, MetLife, JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Capital One, Bank of New York Mellon, American Express.
Qualche perplessita’ tra gli analisti, pero’. Qualcuno ha fatto notare che lo stress test non e’ certo stata una vera revisione contabile, altri avvertono che gli ultimi dati sul mercato del lavoro e immobiliare spingono a uno scenario molto peggiore rispetto a quello su cui e’ stato basato il test.
Dall’altra viene visto bene il fatto che i nuovi capitali verranno cercati tra i privati e che, anzi, parecchie banche stanno iniziando a voler restituire i fondi pubblici avuti dal governo Usa per fronteggiare il disastro economico negli scorsi mesi.
 

Fonte - MIAECONOMIA

 

 

 

 

 

  Ripresa: non fatevi prendere in giro

10 Maggio 2009 15:50 MILANO - di Giuseppe Turani

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L´ottimismo, comprensibilmente, trionfa in Borsa e nei discorsi delle Autorità. I mercati stanno dimostrando una voglia incontenibile di andare su, dopo tanto andare giù, che si stanno prendendo in giro da soli. Ogni notizia è buona per mettere a segno un altro due per cento di aumento. E se poi la notizia è un po´ taroccata, va bene lo stesso. L´importante è andare su, poi si troverà anche il modo di rimanerci. O di cadere con un bel tonfo.

Fra le opinioni delle Autorità spicca quella di Ben Bernanke, il capo della Federal Reserve, cioè della banca centrale americana. Quello di Bernanke è un curioso destino. Come professore ha studiato per decenni le crisi finanziarie, arrivato poi alla testa della Fed gli è toccato gestire la più grande crisi finanziaria mai verificatasi.
All´inizio, dicono i suoi critici, non ha capito niente. Pensava di trovarsi di fronte solo allo scoppio della bolla immobiliare. E aveva anche calcolato che si sarebbero rovesciate sul mercato perdite per un centinaio di miliardi di dollari. Cifra che il mercato avrebbe potuto assorbire senza troppe scosse. Quando poi capi che di ben altro si trattava, si è mosso con tutta la velocità possibile, ma ormai, come direbbero a Tortona, i buoi erano scappati dalla stalla e siamo finiti nei guai che sappiamo.
Adesso Bernanke tenta, come tutte le altre Autorità, di produrre un po´ di ottimismo. E quindi spiega che la ripresa è ormai alle porte e che gli Stati Uniti (la più grande economia del mondo) cresceranno del 2,5 per cento nel 2010 e addirittura del 4 per cento nel 2011. Insomma, l´anno prossimo cominciamo a sentire il sapore del ritorno al futuro (a prima della Grande Crisi) e poi nel 2011 facciamo festa davvero. Con gli Stati Uniti che corrono al ritmo del 4 per cento, il resto del mondo non potrà che gettare la parola crisi nel cestino e mettersi a volare. Boom di Borsa, boom dei consumi, boom di tutto.

Ma sarà davvero così?
C´è da dubitarne, e molto seriamente. Intanto, se si vuole, per una ragione molto semplice. Il potenziale di crescita degli Stati Uniti (in condizioni normali e di pieno impiego dei fattori) è di poco superiore al 3 per cento. E quindi che nel 2011 si possa arrivare al 4 per cento, con ancora milioni di disoccupati in giro, con il sistema bancario, forse risanato, ma certo non a posto, pieno di veleni e di diffidenze reciproche, appare un po´ strano.
A questo si aggiunga che a quel punto tutti gli stati (dall´America in giù) dovranno cominciare a fare i conti con i loro bilanci, che sono stati disastrati da questa crisi a causa delle spese fatte per sostenere le banche e le altre situazioni di difficoltà. Per cui da un certo momento in avanti, tutti gli stati dovranno chiudere la fase delle politiche super-espansive (come è stato fino a oggi), fatte di sconti fiscali e di aiuti a chiunque ne avesse bisogno, per passare a una fase di politiche molto restrittive per cercare di mettere in salvo i loro stessi bilanci.
In sostanza, oggi dentro l´economia mondiale romba il motore della finanza pubblica (fatto di risorse quasi illimitate), ma è un motore che presto dovrà essere spento.

L´Italia, che ha fatto poco, sta andando ad esempio verso un debito pari al 120 per cento del Pil: è ovvio che si dovrà rientrare.
Una volta spento il motore della finanza pubblica, le economie dovranno viaggiare con i soli propri mezzi. E quindi quella americana non volerà al 4 per cento, ma farà molto meno.
In sostanza, dalla crisi stiamo per uscire, forse alla fine di quest´anno o forse all´inizio del 2010. Ma non si uscirà proiettandosi nell´iper-spazio della crescita come in Star Trek e raggiungendo in pochi istanti livelli di attività che erano già eccezionali prima della crisi (quando c´era, fra l´altro, molta finanza facile). Si uscirà pedalando molto e sudando anche un po´.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

GM: SEMPRE PIU' PROBABILE IL FALLIMENTO

11 Maggio 2009 20:05 NEW YORK - di APCOM
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Quando mancano poco piu' di due settimane alla scadenza dell'ultimatum imposto dal governo Usa, la soluzione della bancarotta si fa sempre piu' vicina per il colosso dell'auto. Azienda aggrappata ad un filo di speranza.
Quando mancano poco piu' di due settimane alla scadenza dell'ultimatum imposto dal governo degli Stati Uniti, la soluzione del fallimento si fa sempre piu' probabile per General Motors, la maggiore casa automobilistica del Paese.
Lo ha riconosciuto oggi l'amministratore delegato dell'azienda, Fritz Henderson, precisando che il compito che si trova davanti la societa' e' certamente difficile. Ciononostante l'AD non ha abbandonato ogni speranza di poter presentare, entro il primo giugno, un piano di ristrutturazione che soddisfi le richieste della task force dell'auto scelta dall'amministrazione Obama.
La casa di Detroit, ha spiegato sempre Fritz Henderson, sta valutando le operazioni Paese per Paese, nel tentativo di stabilire dove poter presentare istanza fallimentare e dove invece non ce ne sara' bisogno. Fare ricorso a tale soluzione negli Stati Uniti non significa infatti necessariamente che la societa' seguira' la stessa procedura in altre regioni.
"Sicuramente il compito che abbiamo davanti e' grande", ha detto Henderson nel corso di una conference call. "Ma c'e' ancora l'opportunita' e la possibilita' di portare a termine tale compito fuori da un'aula di tribunale".
General Motors ha ottenuto un prestito federale da 15,4 miliardi di dollari e ha tempo fino al primo giugno per presentare un piano di ristrutturazione completo, altrimenti dovra' fare ricorso al Chapter 11 di protezione dai creditori.
Tuttavia la societa' deve ancora tagliare migliaia di concessionarie auto, chiudere stabilimenti, tagliare altri posti di lavoro, raggiungere un accordo con i sindacati, convincere migliaia di creditori ad accettare l'offerta che prevede la conversione in azioni del debito complessivo da 27 miliardi di dollari. Un'operazione di questo tipo consentirebbe agli obbligazionisti di entrare in possesso di una quota del 10% della societa'.
Henderson non ha escluso l'eventualita' che la societa' sposti di citta' la sua sede, ma ha precisato che "non e' in cima alla lista delle preoccupazioni", aggiungendo che molti dipendenti di GM sono a Detroit e che la societa' e' orgogliosa di risiedere in quella citta'.
Henderson ha preferito non commentare le notizie secondo cui la quota dell'80% delle operazioni europee di Opel che fa capo a GM sarebbe finita nel mirino di Fiat. L'AD si e' limitato a precisare che qualsiasi accordo deve soddisfare le necessita' di entrambe le parti.
Il manager ha fatto sapere che GM ha un urgente bisogno di ricevere un prestito dal governo tedesco per quanto riguarda le operazioni in Europa, di conseguenza qualsiasi partner scelto in futuro dovra' rispettare le esigenze del governo.
"Al momento abbiamo bisogno di finanziamenti nelle nostre attivita' in Europa. Un tale sostegno economico e' fondamentale e di massima urgenza e il governo tedesco non ha espresso la volonta' di gestire le nostre attivita'", ha puntualizzato Henderson. "Pertanto ci assicureremo che tutti i partner scelti in questo business incontrino il parere favorevole del governo. Ovviamente se abbiamo bisogno del loro appoggio, vogliamo che reputino ragionevole e accettabile la scelta di qualsiasi partner".
Henderson ha inoltre smentito le notizie che danno per imminente la cessione delle operazioni in America Latina, rendendo noto che hanno sempre offerto ingenti ritorni all'azienda. "Questo e' un business che conosciamo bene e che ci piace molto", ha detto il manager.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

Il futuro di GMAC

Monday, 11 May, 2009 at 10:49 - by phastidio - Macromonitor
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Gli esiti dello stress test condotto dal Tesoro degli Stati Uniti sulle holding bancarie con attivi superiori a 100 miliardi di dollari, comunicati giovedì 7 maggio, hanno evidenziato la condizione di particolare debolezza di GMAC. Mentre le grandi banche avrebbero bisogno di capitale aggiuntivo compreso tra zero e l’1,4 per cento in percentuale degli attivi ponderati per il rischio, GMAC, con 189 miliardi di dollari di attivi necessita di ben 11,5 miliardi di dollari di nuovo capitale, circa la metà dei suoi attuali mezzi propri. Ciò a causa di perdite attese nell’ordine di 9,2 miliardi di dollari nel biennio 2009-2010, sotto lo scenario più sfavorevole previsto dallo stress test, di cui ben 4 miliardi ricadono nella categoria “altro”, che comprende “altri prestiti a consumatori e non consumatori”.
La fragilità di GMAC risiede negli scarsi livelli di accantonamento a perdite ma soprattutto nella sostanziale assenza di linee di business profittevoli, a differenza delle altre holding bancarie. Ciò determina, nell’attuale congiuntura, la progressiva erosione dei mezzi propri della società, malgrado dati del primo trimestre apparentemente confortanti (liquidità a 13,3 miliardi di dollari, capitale azionario ordinario a 15,7 miliardi, un quoziente di tangible common equity su tangible assets dell’8 per cento). GMAC dovrà quindi presentare entro l’8 giugno un piano che indichi come raccogliere gli 11,5 miliardi di dollari.
Per quasi 90 anni della propria storia, GMAC è stata la finanziaria di General Motors, fornendo credito ad acquirenti di auto e concessionari. Ma al momento della vendita da parte di GM del pacchetto di maggioranza di GMAC a Cerberus (all’epoca controllante di Chrysler), la divisione Residential Capital di GMAC deteneva anche miliardi di dollari di mutui subprime. Tra il collasso del mercato immobiliare e il crollo delle vendite di auto, GMAC ha iniziato ad accumulare perdite, inclusi i 675 milioni di dollari nel primo trimestre di quest’anno. L’azienda è stata costretta a tagliare il credito erogato, perdendo quote di mercato nel proprio core business, i prestiti auto di GM.
La crisi di credito in azioni ha minacciato di tagliare la capacità di GMAC di finanziarsi, forzandola ad assumere lo status di holding bancaria per poter accedere all’indebitamento a basso costo presso la Federal Reserve. Cerberus e GM hanno quindi dovuto accettare di veder diluire le proprie quote azionarie. Nell’ambito di questa trasformazione, all’azienda è stato imposto di convertire in azioni il 75 per cento dei suoi 38 miliardi di dollari di obbligazioni. Nel tentativo di persuadere gli obbligazionisti, tra i quali Pimco riveste un ruolo di rilievo, a consegnare i titoli per la conversione, GMAC ha ripetutamente posposto la scadenza dei termini di esercizio della conversione. L’operazione è riuscita solo in parte, pari a 21,2 miliardi di dollari (il 52 per cento), ma la Fed ne ha accettato comunque l’esito, votando 4 a 1 nel proprio board a favore della trasformazione in holding bancaria.
Scenari per gli obbligazionisti GMAC – Oggi, dopo che l’Amministrazione Obama ha designato GMAC come prestatore di riferimento per Chrysler, molti analisti si dicono convinti che all’azienda non verrà consentito di fallire, anche se ciò dovesse determinarne la nazionalizzazione più o meno surrettizia. Anche l’ipotesi di conversione in azioni di ulteriore debito obbligazionario, che sarebbe necessaria per ridurre ulteriormente la leva finanziaria, ad oggi pare avere poche possibilità di realizzarsi, visto l’atteggiamento negativo di Casa Bianca e Tesoro verso questa forma di interventi di ricapitalizzazione delle aziende di credito. Il rischio per gli obbligazionisti resta quello di riorganizzazione di GMAC in nuova entità aziendale, perché ciò potrebbe determinare evento di default.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Analisti pessimisti. Il rally non può continuare

11 Maggio 2009 16:40 NEW YORK - di Bloomberg

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Un terzo delle azioni dell'S&P scambia sopra il target price. Dal 7 aprile l'indice ha guadagnato il 14%, mentre nelle ultime nove settimane si e' visto il rally piu' ampio dal 1930. Ma il mercato e' destinato a prendersi una pausa.
Un rally cosi' durante la stagione delle trimestrali non si vedeva dal 2002. L'accelerazione dell'S&P 500 e' stata tale da spingere il 34% delle societa' componenti il paniere allargato oltre i prezzi obiettivi fissati dagli analisti per il prossimo anno, alimentando di conseguenza le preoccupazioni circa la durata e la consistenza del recupero.
Dopo aver guadagnato il 14% da quando il 7 aprile scorso Alcoa ha riportato i conti fiscali, l'S&P 500 si e' portato la settimana passata al 5% di distanza dalla quota prevista in media da oltre 1.700 analisti di borsa (970.21). Caterpillar, principale produttore mondiale di macchine movimento terra, e Citigroup, la banca salvata dal governo con un intervento da 45 miliardi di dollari, figurano tra le 170 societa' che scambiano su livelli superiori alla media dei target price fissati dagli esperti.
Tuttavia per il momento gli analisti hanno scelto di non aumentare i prezzi obiettivo e le stime sugli utili fiscali, dopo che l'S&P 500 ha accumulato guadagni pari a +37% dalla prima settimana di marzo, quando era scivolato sui minimi di 12 anni. Cio' ha alimentato le preoccupazioni degli investitori circa la durata e la consistenza del rally, con molti operatori che ritengono che sia andato troppo lontano e sia stato troppo veloce.
"Sarebbe irrealistico aspettarsi che il mercato continui a salire da questi livelli", sostiene Leo Grohowski, chief investment officer di Bank of New York Mellon Wealth Management. "Per il mercato sarebbe salutare prendersi una pausa e permettere ai fondamentali di assestarsi".

Oltre un terzo delle aziende che compongono il benchmark dell'azionario americano sono sopravvalutate rispetto al prezzo obiettivo di riferimento. Questo fa si che il valore di mercato dell'S&P 500 sia pari a 970.21 punti, cifra che si confronta con i 929.23 punti della chiusura dell'8 maggio.
Nella sola settimana conclusasi venerdi' scorso, l'S&P 500 ha guadagnato il 5.9%, cancellando le perdite accumulate sino a quel momento dall'inizio dell'anno. A sostenere il listino sono stati i risultati degli stress test condotti sulle 19 banche principali del Paese, che hanno rassicurato gli investitori circa lo stato di salute del sistema finanziario. Ha contribuito a rasserenare gli animi anche il rapporto del Dipartimento di lavoro sulla situazione occupazionale, da cui e' emerso che le perdite di posti di lavoro hanno sono diminuite in aprile. Guardando all'andamento settoriale, a guidare i rialzi sono stati ancora una volta i finanziari, con un balzo del 23%.
Oltre 200 aziende hanno guadagnato almeno il 50% dai minimi toccati il 9 marzo scorso. I prezzi di quasi la meta' delle societa' si trovano a meno del 5% di distanza dal loro obiettivo per quanto riguarda il valore di mercato.

La rimonta di cui l'S&P 500 si e' reso protagonista di recente e' anche il rally piu' consistente mai registrato nell'arco di nove settimane dagli anni trenta. Tutto e' cominciato quando alcune delle principali banche del Paese in difficolta', tra cui Citigroup e Bank of America, hanno annunciato il ritorno alla redditivita' nel primo trimestre. A contribuire alla corsa agli acquisti sono stati inoltre il piano complessivo da $787 miliardi tra spese e tagli fiscali annunciato dal Presidente Obama e il programma da $1.000 miliardi messo a punto dal Tesoro con l'obiettivo di rilevare gli asset tossici degli istituti finanziari.
"Le stime suggeriscono che non c'e' la forza sufficiente per proseguire oltre, perche' le azioni scambiano ormai sui valori di mercato", dice Hayes iller di Baring Asset Management. "La crescita degli utili nel 2009 e 2010 non puo' sostenere prezzi molto piu' elevati di quelli attuali".
 

Fonte - Bloomberg

 

 

 

 

  Martedì 19 Maggio 2009   Giovedì 21 Maggio 2009   Venerdì 22 Maggio 2009  
       
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GR1 RAI - 18 MAG ore 22:00

   

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GR1 RAI - 20 MAG ore 22:00

   

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GR1 RAI - 21 MAG ore 22:00

   

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  Le borse e il segreto di Star Trek

13 Maggio 2009 09:29 ROMA - di *Robert J. Shiller

*L'autore è professore di economia all'Università di Yale.

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Dopo i minimi toccati ai primi di marzo, tutti i principali mercati azionari del pianeta hanno risalito prepotentemente la china. In alcuni casi, in Cina e in Brasile in particolare, hanno toccato il fondo lo scorso autunno e poi di nuovo a marzo, prima di realizzare un rimbalzo spettacolare, con il Bovespa brasiliano in crescita del 75% rispetto a fine ottobre 2008 e lo Shanghai Composite cinese su del 54% più o meno nello stesso periodo. Ma praticamente ovunque, da marzo a oggi, il mercato azionario ha riservato buone notizie.
È un segnale della fine imminente della crisi economica mondiale? Tutti stanno ridiventando ottimisti nello stesso momento, accelerando la fine dei nostri problemi?

I boom speculativi sono alimentati da una retroazione psicologica. Il rialzo dei prezzi delle azioni crea storie d'investitori abili che riescono a diventare ricchi. La gente, guardando con invidia ai successi altrui, comincia a domandarsi se questo rialzo non ne preannunci altri in futuro ed è tentata di mettersi a giocare in Borsa, anche quelli che in fondo non credono che il boom continuerà. E dunque il rialzo delle azioni produce a sua volta altri rialzi, e il ciclo va avanti così per un po' di tempo.
Durante un periodo di boom delle azioni, chi è tentato dall'idea di giocare in Borsa mette su un piatto della bilancia la paura di pentirsene se non lo fa, e sull'altro la sofferenza di una possibile perdita economica se lo fa. Non esiste una risposta affidabile su quale sia la decisione "giusta", e non c'è unanimità tra gli esperti su quale sia un adeguato livello d'esposizione rispetto ai mercati azionari. Trenta per cento di azioni e 70% di immobili? O il contrario? Nessuno lo sa. E pertanto la decisione ultima deve dipendere dal peso relativo di questi fattori emotivi discordanti. In una situazione di boom, i fattori emotivi pendono dalla parte del giocare in Borsa.

In questo momento, però, è il caso di chiedersi che cosa vi sia alla base di questa tendenza. Non sembra che da marzo a oggi vi sia stata nessuna notizia significativa che la giustifichi, se non il rialzo stesso. La tendenza umana a reagire agli incrementi dei prezzi è sempre in agguato, pronta a generare bolle speculative e crescite improvvise. La retroazione è solo un meccanismo d'amplificazione per altri fattori che predispongono la gente a lanciarsi nel gioco di Borsa.
Il mondo non riuscirà a recuperare tutto l'entusiasmo di qualche anno fa solo con la retroazione, perché siamo di fronte a un colossale problema di coordinamento: non siamo tutti ricettivi agli incrementi dei prezzi nello stesso momento, e dunque prendiamo le nostre decisioni d'acquisto in momenti molto diversi. Il risultato è che le cose succedono lentamente e nel frattempo possono venir fuori altre cattive notizie.

La fiducia il mondo potrà recuperarla appieno solo se avrà modo di prendere ispirazione da qualche storia che non sia il semplice incremento dei prezzi delle azioni.
Nel libro che ho scritto insieme a George Akerlof, Animal spirits, sono descritti i pregi e i difetti di una macroeconomia trainata sostanzialmente dalle storie. Simili narrazioni, in particolare le storie di persone concrete, storie con cui ci si può relazionare, sono i virus intellettuali che stimolano l'economia attraverso il contagio. Il tasso di contagio delle storie dipende dal loro rapporto con la retroazione, ma le storie devono essere plausibili fin dall'inizio. La forza delle narrazioni deriva dalla loro capacità d'influenzare il nostro modo di vedere le cose.

La storia che ha gonfiato la bolla azionaria che ha raggiunto il suo picco nel 2000 era una storia complessa, ma ridotta in termini grossolani suonava così: una serie d'individui brillanti e aggressivi ci stanno guidando verso una nuova era di gloria capitalistica, in un'economia in rapida globalizzazione. Queste persone diventavano i nuovi imprenditori che viaggiavano da un capo all'altro del mondo sulla via della prosperità. Era una narrazione che appariva plausibile all'osservatore occasionale, perché era legata a milioni di piccole storie di persone concrete, storie dei successi evidenti di amici, vicini e parenti che avevano la capacità di visione necessaria per prendere parte con slancio al contesto nuovo.

Ma oggi è difficile ricreare una narrazione del genere di fronte a tutte queste storie d'insuccessi e fallimenti. Il rimbalzo dei mercati azionari da marzo a oggi non sembra costruito intorno a storie edificanti come quelle prima descritte, semmai intorno alla pura e semplice assenza di notizie più cattive, e intorno alla consapevolezza che tutte le recessioni del passato prima o poi sono giunte a termine. In un'epoca in cui i quotidiani traboccano di foto di case pignorate in vendita, e addirittura di case in eccedenza demolite, è difficile vedere dietro al rimbalzo dei mercati motivazioni che non siano la storia del "tutte le recessioni presto o tardi hanno fine".

Anzi, la storia dei "capitalisti trionfanti" ormai è screditata, e così la nostra fiducia negli scambi internazionali. E dunque ecco il problema: non c'è nessun fattore trainante plausibile in grado di alimentare una ripresa degna di questo nome.

Mettere in moto una ripresa economica è come lanciare un nuovo film: nessuno sa come reagirà il pubblico fino a quando il pubblico non ha effettivamente modo di andare a vedere il film e discuterne. Il nuovo Star Trek, basato sull'ennesimo remake di un telefilm di oltre quarant'anni fa, ha sorpreso tutti portando a casa 76,5 milioni di dollari nel suo primo week end.

Una vecchia storia che grazie a questo nuovo film è tornata a far parlare di sé. Allo stesso modo dobbiamo sperare che alcune di quelle vecchie storie che in passato ci hanno proiettato in avanti - l'ascesa del capitalismo e la sua internazionalizzazione fino ad abbracciare l'intera economia mondiale - possono essere rispolverate e riportate in vita per rinvigorire gli spiriti animali che sono alla base della ripresa economica. I nostri sforzi per stimolare l'economia dovrebbero tendere a migliorare il copione di quelle storie, a renderle di nuovo credibili.
E questo significa far funzionare meglio il capitalismo e mettere in chiaro che non esiste nessun rischio di protezionismo. Ma lo scopo dev'essere tirar fuori l'economia mondiale dall'attuale situazione di rischio, non catapultarci in un'altra bolla speculativa.
 

 

Fonte originale - Project Syndicate

 

Traduzione - Fabio Galimberti

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

Finanza sostenibile per ricostruire la fiducia

13/05/2009 11.57 - di Valerio Baselli
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Non solo questione di cuore. Ormai appare chiaro che etica e finanza possono convivere senza doversi snaturare l’una con l’altra. Anzi, con l’aggravarsi della crisi finanziaria, che ha messo in discussione tanti assiomi e certezze sul libero mercato e su una certa maniera di fare finanza, il tema dello sviluppo sostenibile torna più che mai alla ribalta.
Di questi temi (e di molto altro) si parlerà giovedì 21 maggio al convegno “Finanza responsabile per ricostruire il ciclo della fiducia” e il giorno successivo all’incontro dal titolo “Gli aspetti sociali, ambientali e di governance che entrano nelle valutazioni degli investimenti socialmente responsabili: protagonisti, prodotti e trend prospettici” che si terranno all’ITForum di Rimini, la fiera sugli investimenti e il trading promossa da Morningstar, Traderlink e Trading Library.

I due convegni, spiega Davide Dal Maso, amministratore delegato Vigeo Italia, hanno obiettivi diversi. Il primo è di carattere introduttivo e generale; punta ad esporre l’importanza del tema nel contesto attuale. Il secondo ha un taglio più tecnico e presenta dei casi concreti.
Lo svuluppo sostenibile, definito dalle Nazioni Unite come “uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”, è un concetto applicabile (ma poco applicato) al mondo delle imprese, in particolare a quelle che operano nei settori industriali. Invece, l'adozione esplicita dello sviluppo sostenibile come obiettivo strategico per le imprese che operano nel settore dei servizi, di cui le istituzioni finanziarie fanno parte, è relativamente più recente. Questo è dovuto alla crescente importanza che il settore finanziario ha acquisito nei Paesi occidentali, dove l’economia reale è ormai strettamente legata alle politiche creditizie.
In questo senso, i temi di cui si occupa la finanza responsabile sono la relazione tra attività finanziaria e sviluppo locale, la lotta alla disoccupazione, l’integrazione degli immigrati, la protezione dell'ambiente e soprattutto la ricerca di un sistema adeguato di corporate governance. Quando si parla di governance adeguata, commenta Dal Maso, si fa riferimento ad una serie di analisi che riguardano la composizione del board direttivo, il grado d’indipendenza dei sindaci e amministratori, l’esistenza di obiettivi sostenibili, la trasparenza informativa e l’assenza di conflitti d’interesse. Ecco quindi che l'esercizio dell'attività finanziaria è legato a doppio filo con il dibattito sullo sviluppo sostenibile.
Qualcuno potrebbe però chiedersi chi possa stabilire quali siano le imprese veramente etiche su cui investire ed in base a quali parametri possano essere definite sostenibili. Ebbene la garanzia che un impresa sia veramente quello che dice di essere o un fondo investa con certezza in attività sociali ed eticamente compatibili, viene data da alcuni Istituti internazionali che svolgono attività di analisi, verifica e certificazione etica.
Ma a quale grado di sviluppo e penetrazione è arrivata la cultura di una finanza sostenibile in Europa e in Italia in particolare? Il nostro Paese è tuttora indietro rispetto all’Europa, afferma l’ad di Vigeo Italia, ma esistono le condizioni per lavorarci. L’ostacolo principale è nella struttura dell’industria del risparmio gestito italiano. Infatti, uno sforzo delle società di gestione è necessario, ma le Sgr di piccole dimensioni si trovano in difficoltà di fronte a questo tipo d’investimento. Sono i grandi gruppi che dovrebbero trainare.
Ma l’investimento etico può davvero farci uscire dalla crisi? Beh, se si parla di sistemi finanziari e prodotti d’investimento che hanno bisogno di maggiore trasparenza, di fiducia collassata tra risparmiatori, banche e mercati finanziari. Se si parla di necessità di controllo e si ipotizzano nuove autorità sovranazionali, se si parla di stretta ai paradisi fiscali (per adesso solo annunciata durante l’ultimo G20 a Londra), se si parla di nuove regole per le agenzie di rating. Se si parla, come ha fatto l’Abi (Associazione bancaria italiana), di reputazione come asset fondamentale per creare valore, allora la finanza responsabile sembra essere una delle vie (non certo l’unica) da percorrere per rivedere e ripensare in che modo cercare la crescita economica e per non commettere gli stessi errori del passato.
 

Fonte - Morningstar.it

 

 

MUTUI: TASSI GIU', E' L'ORA DEL VARIABILE

13 Maggio 2009 17:06 NEW YORK - di Marco Letizia
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Per ora, è l'unico effetto positivo della crisi. Accendere un mutuo infatti non è mai stato così conveniente come oggi. Lo certificano i continui record al ribasso dell'Euribor a tre mesi, il tasso a cui generalmente vengono indicizzati i mutui (oggi sceso all'1,281%). E anche la Banca d'Italia che nel suo ultimo Bollettino ufficiale sottolinea che il tasso medio su un mutuo di durata superiore ai 10 anni, è sceso a marzo al 5,01% (contro il 5,13% a febbraio) confermando la flessione iniziata dall'agosto scorso quando i valori si aggiravano intorno al 6,10%. Anche il Taeg (tasso annuo effettivo globale) su tutti i nuovi mutui accesi a marzo scende al 4,42%, rispetto al 4,70% di febbraio ed al 6,11% di agosto 2008.

CRESCE LA VOGLIA DI VARIABILE - Indebitarsi per l'acquisto di un immobile oggi conviene, visto che le ultime rilevazione di Mutuionline, uno dei principali operatori nel mercato italiano della distribuzione di mutui ed altri prodotti di credito, evidenziano come sia in ripresa soprattutto la domanda di mutui a tasso variabile. Nei primi 4 mesi del 2009 infatti le domande di mutui a tasso variabile in Italia sono salite dal 17,2% del secondo trimestre 2008 al 44,8% dei primi 4 mesi del 2009. Merito di offerte in alcuni casi decisamente convenienti: in questo momento un mutuo variabile ventennale di 100mila euro per l'acquisto di una prima casa del valore di 200mila euro a Milano da parte di un lavoratore dipendente di 35 anni si può trovare anche al tasso variabile del 2,10%, che si traduce in una rata mensile di 511 euro.

SERVE PRUDENZA - Ma attenzione. I provvedimenti varati prima dal governo Prodi e poi da quello Berlusconi su portabilità dei mutui e surroga, culminati con il celebre tetto del 4% alla crescita dei mutui a tasso variabile, in momenti in cui la crescita dell'importo delle rate sembrava inarrestabile, devono far riflettere che la scelta di accendere un mutuo a tasso variabile deve essere sempre vista in una prospettiva di lungo termine e non solo guardando alle condizioni attuali.
«Per chi vuole accendere un mutuo a tasso variabile - spiega Roberto Anedda direttore marketing di Mutuionline - è necessario tenere conto che come nel giro di pochi mesi i tassi sono scesi, in un tempo altrettanto breve possono risalire. Il potenziale acquirente farà bene quindi a concentrarsi non solo sul tasso di riferimento, ad esempio, l'Euribor, ma sullo spread (si tratta del ricarico che ogni banca decide di aggiungere al tasso di base quale proprio ricavo ndr) praticato dalle banche. Tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009 gli spread sono aumentati e ciò ha ridotto il risparmio complessivo per chi possiede un mutuo. Per lo più gli aggiustamenti sono stati di alcuni decimi di punto, ma in alcuni casi sono raddoppiati o hanno toccato anche il punto percentuale». Ma di cosa altro deve tenere conto il potenziale acquirente? «Premesso innanzitutto - continua Anedda - che è bene confrontare via web o di persona le condizioni praticate da diverse banche prima di scegliere quella che fa per noi, è bene saper che difficilmente ci troveremo in crisi per altri 20 o 30 anni e che quindi la situazione attuale , che vede un forte gap tra fisso e variabile, è decisamente atipica. Chi accende un mutuo a tasso variabile deve quindi pensare che si troverà a fronteggiare un aumento del tasso di 2 o 3 punti percentuali nel giro di pochi anni. Quindi, pensando a quella che è la rata massima che siamo in grado di pagare, non dobbiamo soffermarci sulla rata attuale, ma piuttosto guardare a quella che si paga ora per un tasso fisso, perché è quella che probabilmente ci troveremo a pagare nel giro di qualche anno».

QUALE TASSO - Quindi adesso è meglio optare ancora per un tasso fisso o riscoprire il variabile? Prendendo ad esempio il caso citato precedentemente infatti, un mutuo equivalente a tasso fisso per lo stesso tipo di acquirente viene a costare 655 euro al mese , 144 euro al mese in più rispetto al variabile. «Dipende - spiega ancora Anedda - se la rata prospettica, quella che mi troverò a pagare in futuro, per me è sostenibile. Se sì posso scegliere il variabile. Se invece voglio la tranquillità futura posso approfittare di tassi fissi come quelli attuali che offrono un'opportunità irripetibile. Senza contare i prodotti atipici come ad esempio quello offerti dal Monte dei Paschi Siena che ha un'offerta di un variabile il cui tasso non può salire oltre ad un tetto prefissato pari al 5,5%, un livello quest'ultimo vicino a quello dei migliori tassi fissi attuali».

LE CONDIZIONI - La crisi però nel settore dei mutui qualche effetto negativo per il consumatore lo ha prodotto. Le banche sono diventate infatti ancora più attente a chi e quali condizioni concedere l'accensione di un mutuo. «C'è un'attenzione molto maggiore da parte degli istituti per quanto riguarda l'istruttoria - spiega Anedda -. Si fanno delle perizie dell'immobile più conservative in quanto non si pensa ad un incremento a breve dell'immobile come nel recente passato in cui il mercato immobiliare cresceva vorticosamente. Ci sono anche dei limiti più stringenti nei confronti delle somme prestate. Sono sempre meno gli istituti che finanziano il 100% del valore dell'immobile. Inoltre i lavoratori atipici trovano più difficoltà ad accedere un mutuo, anche se a dire il vero nel loro caso il problema principale è costituito da un reddito troppo basso».

CAMBIARE MUTUO - I tassi bassi però possono fornire anche l'occasione per cambiare il proprio mutuo. Ma conviene? «Occorre sapere - sottolinea Anedda - che su un mutuo tipo da 100mila euro ogni punto percentuale in meno sul tasso applicato implica una rata più bassa di 70 euro al mese. Inoltre la pratica della portabilità del mutuo sta diventando meno complessa e con procedure più chiare anche se permangono sicuramente delle vischiosità del sistema da parte di banche che non vogliono perdere il cliente».

 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

Gestori, il rally arriverà nella 2° metà dell’anno

13/05/2009 16.26 - di Sara Silano
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Il mercato non è completamente guarito. E’ debole, di conseguenza soggetto a ricadute. È la diagnosi dei gestori interpellati da Morningstar nell’ultimo sondaggio condotto tra 20 delle principali case di investimento che operano in Italia. Colpa dell’economia, che fatica a rimettersi in marcia e difficilmente riuscirà a disegnare una ripresa a V, cioè molto rapida. I fund manager pensano ci sia stata troppa euforia negli ultimi due mesi, ma sono anche convinti che nella seconda parte dell’anno partirà un rally più duraturo.
Europa, in calo i pessimisti
Da alcuni mesi, il numero di gestori che prevedono una discesa delle Borse europee nel prossimo semestre è in calo. Dopo il picco di pessimismo toccato a marzo, la percentuale si è attestata al 20% in maggio. I mercati hanno reagito bene ai piani di aiuto all’economia varati dai governi e a livello sovranazionale. Tuttavia, il quadro macroeconomico è ancora debole e i segnali di miglioramento difficilmente arriveranno prima della fine del 2009. Di conseguenza, il 40% dei fund manager prevede un trend laterale nel breve. Esiste però un altro 40% che è più ottimista, dal momento che considera le valutazioni azionarie più attraenti di altri tipi di investimento.

Consumi, spina nel fianco di Wall Street
Negli Stati Uniti, le vendite al dettaglio sono in calo e l’aumento della disoccupazione non favorisce la ripresa. Inoltre, il sistema finanziario non è ancora del tutto guarito e continua a destare preoccupazione tra gli operatori di mercato. I gestori, comunque, sono convinti che Wall Street stia scaldando i motori per il rally. Il 45% stima un apprezzamento nei prossimi sei mesi, mentre il 40% prevede un’oscillazione attorno agli attuali livelli. Solo il 15% si attende un ribasso, contro il 20% del mese scorso.

Il Far East aiuterà il Giappone?
L’economia del Sol Levante continua a deludere a causa anche della recessione che ha colpito i principali mercati di sbocco. Le esportazioni sono scese e i consumi interni rimangono stagnanti. La maggior parte dei gestori è convinta che la ripresa arriverà dopo rispetto all’Europa e agli Stati Uniti. Nonostante il debole quadro macro, l’indice Nikkei ha guadagnato oltre il 5% da inizio anno e per il 45% dei gestori potrebbe continuare a salire nei prossimi mesi, grazie in particolare alla domanda asiatica. Il Far East, infatti, ha un potenziale di crescita economica migliore rispetto ad altre aree.

Ancora tagli dei tassi nell’Ue
Gran parte dei gestori prevede ulteriori riduzioni dei tassi di interesse da parte della Banca centrale europea nei prossimi mesi. I titoli governativi possono trarre beneficio da questa situazione, soprattutto se continuerà la ricerca di qualità e sicurezza da parte degli investitori. Le parti lunghe della curva dei rendimenti, tuttavia, potrebbero essere penalizzate da politiche di emissione aggressive.

Forze opposte sui bond Usa
I titoli di Stato statunitensi hanno rendimenti prossimi allo zero, di conseguenza sono poco remunerativi. Essi sono mossi da due forze opposte, la spinta a salire dovuta all’aumento dell’offerta e le pressioni al ribasso dovute alla scarsa crescita economica. Per il 60% dei gestori i prezzi rimarranno stabili nel breve. Inoltre, finché l’economia americana non migliorerà visibilmente l’abbondanza di emissioni non dovrebbe generare problemi.

Fine corsa per il dollaro
Molti gestori sono convinti che il rally del dollaro sia terminato. Il graduale ritorno dell’appetito per il rischio dovrebbe favorire l’euro. Inoltre, si sono attenuati i timori legati alle economie emergenti dell’est Europa. Infine, il biglietto verde è penalizzato dalla massiccia emissione di titoli governativi americani. Di conseguenza, il 35% dei fund manager prevede un apprezzamento della divisa comunitaria contro il 25% che è positivo sul dollaro.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 4 e l’11 maggio, 20 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa il 85% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Banca Ifigest, Banca Profilo, Bipiemme Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr, Credit Suisse Am, Ersel Sgr, Eurizon Capital, Euromobilare Sgr, Fideuram Investimenti, Ing IM, Investitori Sgr, JC&Associati, Julius Baer, Mps Am, Pioneer Im, Soprarno Sgr, Standard Chartered Bank, Vontobel.

 

Fonte - Morningstar.it

 

 

ASSICURAZIONI: TESORO USA INTERVIENE PER EVITARE ONDATA PANICO

15 Maggio 2009 10:07 NEW YORK - di MPS Capital Services
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Il Wsj scrive che, secondo fonti vicine all’operazione, il Tesoro starebbe preparandosi ad iniettare fino a 22Mld$ di fondi del Tarp (Troubled Asset Relief Program) nelle assicurazioni vita. Il Tesoro ha annunciato di avere raggiunto un accordo già con sei assicurazioni (tra cui una è Prudential Financial). Un deterioramento delle condizioni finanziarie delle assicurazioni vita potrebbe provocare un’altra ondata di panico, così il Tesoro ha deciso di intervenire per prevenire l’eventualità. Sul fronte macro la giornata odierna è ricchissima di dati, tra i quali segnaliamo la produzione industriale di aprile attesa in calo su base mensile, il Cpi di aprile atteso negativo per il secondo mese consecutivo e la fiducia dei consumatori del Michigan attesa in rialzo a maggio. Sul decennale i supporti si collocano a 3,07% e successivamente al 3%.
 

Fonte - MPS Capital Services

 

 

LONDRA, NELLA CITY I PREZZI TORNANO INDIETRO DI 18 ANNI

15 Maggio 2009 20:20 LONDRA - di Bloomberg
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Mercato immobiliare colpito dalle massicce perdite di posti di lavoro e da un boom edilizio intempestivo, che hanno depresso il valore degli affiti degli uffici. Enormi spazi rimangono vuoti nell'area finanziaria della capitale.
I prezzi per affittare un ufficio nel quartiere finanziario della capitale britannica non sono mai stati cosi' bassi dal 1991, dopo che le ingenti perdite di posti di lavoro e un boom edilizio intempestivo hanno depresso il valore degli immobili.

Al momento nella City sono disponibili circa 855 mila metri quadrati di aree edificabili e tale cifra potrebbe aumentare di un terzo entro la fine del 2009, stando al broker immobiliare CB Richard Ellis Group. L'anno prossimo quasi il 19% degli uffici londinesi potrebbero essere vacanti, sempre secondo gli analisti della societa' CB Richard Ellis.

"Siamo nell'occhio del ciclone", ha detto Bryan Higgins, chief investment officer della societa' irlandese di costruzioni immobiliari Menolly Group, che per 150 milioni di sterline, equivalenti all'incirca a $227 milioni, ha comprato l'edificio 107 Cheapside nella capitale britannica. Ma il palazzo non ha inquilini. "L'offerta supera nettamente la domanda", ha sintetizzato Higgings.

Gli affitti scivoleranno a 40 sterline per piede quadrato entro la fine dell'anno, il livello esatto in cui si trovavano nel 1991, stando alle stime diffuse dagli analisti dalla societa' londinese King Sturge International LLP. Nel corso del primo trimestre dell'anno i prezzi nella City sono gia' scesi a 46.50 sterline per piede quadrato, in netto calo dai massimi di 65 sterline toccati a meta' del 2007.

La zona della City si trova in cattive acque dopo il boom che si e' verificato in seguito alla costruzione di oltre 10 grattacieli nell'area da 97 acri di Canary Wharf, lungo il fiume Tamigi. La City, anche nota come "il miglio quadrato" (the Square Mile) in riferimento alle sue dimensioni, ospita piu' banche, compagnie assicurative e altre aziende di servizi finanziari di qualunque altra citta' in Europa. Sono circa 300 mila le persone che lavorano nell'area.

Canary Wharf e' stata fin dall'inizio percepita come una minaccia, secondo Colin Hargreaves, che affita uffici a Londra per Jones Lang LaSalle, il secondo broker nel settore immobiliare commerciale del Paese. "Si sentiva il bisogno di avere una alternativa credibile a Canary Wharf", ha detto Martin Jepson, numero uno delle attivita' londinesi di Hammerson Plc. Di questi tempi "c'erano problemi fondamentali enormi per le banche", ha proseguito Jepson, facendo riferimento alle perdite creditizie record che il settore ha subito dal 2007 a oggi. "C'e' cosi' tanto spazio nell'area da non crederci", ha commentato Alex Wilson, che ha lavorato come guardiano degli uffici del distretto finanziario per sei anni.

Il primo grattacielo costruito nell'area, Tower 42 al numero 25 di Old Broad Street, ha aperto i battenti nel 1980. Dieci anni piu' tardi ha visto la luce il palazzo da 50 piani di One Canada Square, nell'area di Canary Wharf. La City ora conta circa 115 milioni di piedi quadrati di spazio libero per gli uffici, paragonato ai 15 milioni del celebre complesso finanziario di Canary Wharf, secondo Jones Lang LaSalle.

La crisi del credito ha provocato diversi ritardi nei progetti di costruzione edilizia. Esemplificativo a questo proposito il caso del "Cheesegrater", che British Land doveva far sorgere al numero 122 di Leadenhall e che sarebbe dovuto diventare l'edificio piu' alto dell'area, con i suoi 738 piedi di estensione. Da parte sua Land Securities Group Plc ha posticipato la costruzione della torre "Walkie Talkie", al numero 20 di Fenchurch Street.

Ad agosto dell'anno scorso British Land, la seconda societa' di investimento immobiliare della Gran Bretagna, ha completato la costruzione della Broadgate Tower, un grattacielo che sorge sul margine orientale della City. Ma meta' dei 30 piani dell'edificio sono vuoti. Alla porta accanto si puo' vedere il 201 Bishopsgate: British Land ha affittato l'85% degli uffici del palazzo, quasi interamente al gruppo attivo nella gestione di fondi Henderson Group Plc.

British Land conta di completare la torre da 586 mila piedi quadrati Ropemaker nel terzo trimestre di quest'anno. Circa il 38% del progetto e' stato prenotato dall'istituto Bank of Tokyo-Mitsubishi UFJ, che pero' non paghera' l'affitto per i primi quattro anni.

"Ora la domanda da porsi e' quando l'economia della City riemergera' dai livelli attuali, con le persone che torneranno ad occupare gli spazi vacanti", osserva Peter Damesick, capo delle ricerche in Gran Bretagna per CB Richard Ellis. "Non credo che nessuno abbia pronta una risposta a quella domanda", ha chiosato Damesick.
 

Fonte - Bloomberg

 

 

 

 

 

 

  «Con le nuove regole un mercato più piccolo e operatori meno avidi»

16 Maggio 2009 11:52 MILANO - di Mario Margiocco

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La finanza aveva più glamour prima del settembre 2008. Capire che cosa sta maturando sui mercati finanziari resta comunque di vitale importanza, soprattutto ora che c'è grande attesa per due fenomeni convergenti: una graduale riduzione della volatilità, e il varo di nuove regole per i mercati.

Robert F. Engle, 66 anni, Nobel 2003, ha legato il suo nome al modello statistico Arch (Autoregressive conditional heteroskedasticity), ampiamente utilizzato per misurare la volatilità a breve sui mercati, e che è in grado d'indicare l'aumento del nervosismo e delle oscillazioni, non la portata del fenomeno. Molto usati dagli operatori, questo e analoghi modelli si sono rivelati utili come "bandierine" che segnalano il livello di pericolosità della spiaggia - bandiera azzurra, gialla, o rossa – ma non possono prevedere le condizioni del mare nei prossimi giorni, né fornire una previsione meteo completa.
Nel dibattito che si tiene in molte sedi accademiche e politiche al momento, in America in Europa e nel mondo, e che sul Sole24 Ore è stato definito dalle due tesi presentate da Guido Tabellini e da Luigi Zingales, il professor Engle è più vicino alle posizioni di Tabellini, editorialista del Sole e rettore della Bocconi: quanto accaduto in autunno e inverno sui mercati è un grave incidente di percorso, ma recuperabile, del sistema finanziario. Per Zingales invece, docente alla Business School dell'Università di Chicago, il 2008-inizio 2009 è qualcosa di più. Ci sarà la ripresa, ci sono già segnali, ma non sarà più come prima.
«Avremo ancora volatilità sui mercati, anche parecchia, sia pure meno di quanto successo in autunno. Ma la crisi sta gradualmente rientrando - dice Engle -. Siamo fuori dalla rianimazione». Da alcuni anni professore alla Stern school of business della New York University, Engle dà un giudizio sostanzialmente positivo sulla linea adottata dal ministro del Tesoro, Timothy Geithner. Ma insiste sul fatto che le nuove regole dovranno essere scritte e coordinate con grande attenzione, insieme severe ed elastiche, per evitare che i grossi protagonisti che non possono fallire facciano danni, e per lasciare che i piccoli, che invece possono fallire, possano anche innovare.

A che punto siamo nella crisi: banche meno insolventi, nuove regole in arrivo, governi meno attivi, oppure no?
Sono stati fatti passi avanti. Il paziente è fuori dal reparto di cure intensive.

Possiamo avere nuove regole e mercati grandi ed efficienti?
È un passaggio delicato. Le regole vanno concordate e formulate bene. Si è visto che il mercato non si autoregola. Ma occorre fare appello anche a incentivi, non solo a divieti.

C'è un nuovo business model per le banche?
La crisi finanziaria ha messo in evidenza due realtà nefaste. Da un lato una valutazione inadeguata del rischio, praticamente da parte di tutti: management, regolatori, banche centrali, agenzie di rating e altri. Dall'altro, molti, troppi incentivi nel sistema bancario ad ignorare una corretta valutazione del rischio. Occorre ricordare che ci sarà sempre la spinta all'innovazione finanziaria, e che le banche avranno personale meglio addestrato e meglio pagato di chi dovrà controllarle, e quindi occorre costruire un insieme di regole che servano non solo a evitare gli errori del passato, ma anche a imbrigliare le spinte nuovamente rischiose del futuro.

Ci sono molte banche a rischio insolvenza?
Lo stress test dell'amministrazione Obama dice che fra le grandi ve ne sono due, negli Stati Uniti. Non so la situazione fra le banche minori. Ma qui la Federal deposit insurance corporation (Fdic) ha metodi collaudati d'intervento e ripulitura. Per l'Europa penso vi sia maggiore incertezza, perché non è stata fatta ancora una valutazione chiara delle perdite. E quindi se la crisi dei mercati finanziari continua, potrebbero esservi effetti. Magari anche la necessità d'iscrivere fra le ammalate qualche banca che tutti ritenevano sana.

Lei è per un ritorno a qualche forma del vecchio Glass-Steagall Act?
No, non credo sarebbe efficace. Quella legge degli anni 30 era, al nocciolo, una separazione fra banca commerciale e banca d'affari. Ma il problema oggi non è di separare le due entità. Sono state le banche d'affari di Wall Street a diventare too big to fail, a gonfiarsi a dismisura. Quindi un qualche ritorno allo Glass-Steagall non risolverebbe il problema.

Come dovrebbero essere le nuove regole?
Prima di tutto frutto della cooperazione internazionale. Globali. Comprensive di tutte le istituzioni finanziarie, quindi anche degli hedge fund, oltre una certa dimensione. Dovrebbero avere una metodologia chiara su come ci si coordina a livello internazionale. E su come s'identifica un rischio sistemico. C'è poi al momento un flusso di ricerche molto interessanti che indicano come le regole andrebbero usate in modo nuovo, ad esempio sposandosi alla fiscalità, per cui le banche maggiori dovrebbero essere in proporzione più tassate perché più rischiose per il sistema, e dovrebbero contribuire di più in proporzione a un fondo di garanzia, come avviene adesso per quello gestito dalla Fdic. Poi la logica dovrebbe essere anticiclica, stringere cioè le viti e le regole e i controlli quando le cose vanno bene, allentarli quando vanno peggio. Un po' il modello spagnolo, che a qualcosa è servito.

Ci sarà meno finanza?
Credo di sì. Le nuove regole imporranno degli incentivi negativi. Il mercato sarà più piccolo. E attirerà meno giovani ambiziosi. Ma certi passaggi sono inevitabili. In questi giorni Geithner ha annunciato ad esempio che ci saranno nuove regole per il mercato Otc (Over the counter), con l'obiettivo di centralizzare i contratti fra due controparti, come avviene per i futures, in modo che vi sia trasparenza su chi ad esempio vende un servizio - penso ai cds ad esempio - e che, si deve sapere, è in grado di far fronte all'impegno che si assume. Il meccanismo di prezzo servirà a riflettere la solvibilità.

È d'accordo con chi dice che oggi Washington è la vera capitale finanziaria d'America, e del mondo?
No, ma la trovo un'immagine suggestiva.

Quando Wall Street avrà ritrovato il suo equilibrio?
Quando la volatilità sarà rientrata nella norma. Adesso è dimezzata rispetto ai momenti critici d'autunno. Ha incominciato a declinare in dicembre. Ma è sempre alta. Poi penso nasceranno altri protagonisti del credito, attraverso fusioni e acquisizioni. Questo aiuterà Wall Street.

Ci saranno ancora balzi di volatilità?
È molto probabile. Vari mercati nazionali danno segni di nervosismo, penso al Messico in questo periodo. La volatilità diminuisce quando diminuisce l'incertezza macroeconomica, quando c'è sufficiente consenso e sicurezza su come sarà il quadro nel futuro.
Lei ha appena pubblicato uno studio sulle correlazioni. Fino all'estate scorsa i mercati non erano correlati, l'immobiliare era in crisi negli Usa ma l'export andava bene, ad esempio. Poi, improvvisamente, tutto al ribasso.
Volatilità e correlazioni sono direttamente proporzionali. Fino a questa crisi, ad esempio, non si era capito bene che la correlazione tocca anche le senior tranche dei titoli cartolarizzati, quelle che dovrebbero essere più protette. E difatti non lo sono state. Non si era capito bene come funziona la cartolarizzazione.

IL GURU DELLA VOLATILITÀ
Robert F. Engle
Premio Nobel nel 2003 per l'economia
Il Volatility Institute della New York University diretto da Robert F. Engle (nella foto) studia analisi e previsioni per i mercati. Il suo modello misura quanto la volatità a un tempo "t" dipenda da quella passato.
 

Fonte - ILSOLE24ORE.COM

 

 

 

 

  Martedì 26 Maggio 2009   Mercoledì 27 Maggio 2009   Giovedì 28 Maggio 2009  
       
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GR1 RAI - 26 MAG ore 22:00

   

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GR1 RAI - 28 MAG ore 22:00

   

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Moody’s declassa il Giappone: e gli USA?

Tuesday, 20 May, 2009 at 7:08 - by John Christian Falkenberg
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Moody’s declassa il Giappone: e gli USA?
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L’agenzia di rating Moody’s ha declassato il debito giapponese in divisa estera di due notch, da AAA ad Aa2. Preparazione per un downgrade degli USA o favore fatto all’amministrazione Obama?
Il Giappone ha pochissimo debito estero e quindi la mossa ha un impatto minimo dal punto di vista degli oneri per il Tesoro giapponese o per il suo impatto diretto sul mercato del reddito fisso; non si vedrebbe neppure l’urgenza di un’azione del genere: le motivazioni addotte per il declassamento riguardano la pessima performance macroeconomica, i cambiamenti demografici e l’andamento del debito pubblico, ma esistono da anni e sono sicuramente più acute in altri crediti tripla A (come gli USA). Ad essere maliziosi, si potrebbe intravedere un favore fatto al governo, che si ritrova un potenziale concorrente in meno per il piazzamento di bond AAA in un momento in cui ha bisogno di emettere cifre colossali. Ad essere ancora più maliziosi, visi potrebbe leggere un segnale in codice per l’amministrazione Obama: i prossimi siete voi, quindi state attenti.
via Zero Hedge
 

Fonte - Macromonitor

 

 

Il piano inclinato

Thursday, 21 May, 2009 at 12:25 - by phastidio
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Il piano inclinato
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L’agenzia di rating Standard&Poor’s ha oggi confermato il rating sovrano del Regno Unito al livello massimo di AAA, ma ha ridotto l’outlook a negativo, da stabile, a causa del crescente peso del debito che grava sul paese, ed ha affermato che vi è una probabilità su tre che il merito di credito venga ridotto. In conseguenza, la sterlina ha subito la maggior perdita contro dollaro da quasi un mese, azioni e obbligazioni sono arretrate, e il costo di assicurarsi contro il default è cresciuto. Se il negative outlook venisse risolto in un effettivo declassamento, il Regno Unito diverrebbe il quinto paese europeo occidentale a subire un downgrade a causa della crisi economica, dopo Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna. Nell’anno fiscale, che termina a marzo 2010, il Regno Unito prevede di emettere 220 miliardi di sterline in titoli di stato, a causa del crollo di gettito e dell’aumento di spesa pubblica indotti dalla recessione. S&P afferma di aver rivisto l’outlook del Regno Unito a negativo ritenendo che, anche assumendo un’ulteriore stretta fiscale, il peso del debito pubblico sul prodotto interno lordo potrebbe toccare il 100 per cento e restare nel medio termine prossimo a quel livello. Il governo ha già assunto iniziative di consolidamento fiscale, che tuttavia appaiono piuttosto timide, anche per la relativa imminenza delle elezioni generali che dovrebbero tenersi al più tardi nel giugno 2010. Un’eternità, per i mercati e l’evoluzione della congiuntura. Poco dopo il comunicato di Standard&Poor’s, sia Moody’s che Fitch hanno confermato rating ed outlook sovrano del Regno Unito.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Fondi sovrani, pirati e regole

23 Maggio 2009 10:13 MILANO - di *Lamberto Cardia

*L'autore è presidente della Consob

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L'insolvenza di Lehman Brothers, nel settembre 2008, ha segnato una cesura nel mondo finanziario. La deflagrazione della crisi subprime che ne è scaturita ha posto all'attenzione delle autorità di vigilanza, dei governi e dei parlamenti problemi che i gruppi dirigenti di oggi non avevano mai dovuto affrontare prima: sfiducia generalizzata, Borse in caduta libera. Chi ha responsabilità di governo o di vigilanza ha dovuto approntare qualcosa che nella vecchia cassetta degli attrezzi non c'era, nel tentativo di padroneggiare una situazione che rischiava di sfuggire di mano.
L'emergenza ha sgretolato certezze che sembravano granitiche. Governi ultra-liberisti hanno ammainato la bandiera del liberismo, per issare quella del dirigismo statalista. Autorità di vigilanza che avevano fatto del "tocco leggero" il loro credo hanno compiuto un'inversione a U, recitando il "mea culpa".

Da più parti sono comparsi programmi d'interventi pubblici, con connotazioni protezionistiche, finanziati dai contribuenti. Concetti caduti in disgrazia - le nazionalizzazioni o gli aiuti di Stato - sono tornati in auge. I valori della libera concorrenza e della trasparenza delle informazioni sono stati a volte sacrificati in nome della stabilità, posta come obiettivo prioritario.
In questo contesto l'Italia - in posizione periferica rispetto all'epicentro della crisi a New York e a Londra - ha dovuto affrontare le sue emergenze. La Borsa di Milano è stata penalizzata, specie nei primi mesi, assai più che non Wall Street o la Borsa di Londra, dove la crisi si è generata.
Dopo lo scossone Lehman Brothers, lo scenario che si è presentato da noi è analogo a quello che si è presentato altrove: indici di Borsa ai minimi; economia in recessione. Ma nel nostro paese questo scenario si è sovrapposto a un paesaggio preesistente, segnato da debolezze storiche. Da una parte un tessuto sociale sfilacciato, caratterizzato in aree del territorio da fenomeni d'illegalità diffusa, cui si contrappone una presenza delle istituzioni e dello Stato che, sia pure attiva, non sempre si dimostra adeguata; dall'altra un sistema economico-finanziario articolato su tre pilastri: il capitalismo familiare, con strutture finanziarie talvolta fragili; una mano pubblica un tempo onni-pervasiva e oggi più circoscritta; l'universo polverizzato delle piccole e medie imprese.

Sono questioni vecchie, che nel contesto post-Lehman Brothers pongono problemi nuovi. Il sistema istituzionale ne è consapevole al massimo livello. Nelle settimane scorse il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha levato un grido d'allarme sul rischio che la criminalità organizzata approfitti delle attuali eccezionali opportunità d'investimento per acquisire in tutto il Paese il controllo d'imprese in difficoltà. Alte cariche della magistratura condividono queste preoccupazioni. Il procuratore nazionale anti-mafia, Piero Grasso, va da tempo segnalando questo pericolo. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha rilanciato l'allarme. Prendo atto di non essere il solo nel paese a nutrire questi timori. Il senso dei contributi di pensiero che ho avanzato nei mesi scorsi per modificare il Testo unico della finanza va cercato anche in questa preoccupazione di fondo.

Quando, nell'ottobre scorso, ho rappresentato al Parlamento l'ipotesi di conferire alla Consob il potere d'abbassare temporaneamente e in circostanze d'emergenza la soglia delle comunicazioni obbligatorie in materia di partecipazioni rilevanti, intendevo dotare il sistema di un meccanismo di rilevazione dei movimenti nell'azionariato delle società quotate più sensibile di quello che avevamo. Abbassare la soglia dal 2% fino all'1% consente un monitoraggio più tempestivo dei movimenti di Borsa e può fornire indicazioni utili anche nell'azione di contrasto delle infiltrazioni criminali nella finanza "pulita". Questa era l'idea a monte della mia richiesta, come ho anche esplicitato in vari interventi sulla stampa. Era e resta un contributo a titolo personale sulla base delle mie esperienze passate e presenti, espresso non a nome dell'Istituto.

Governo e Parlamento hanno ritenuto di accogliere quel suggerimento e di trasformarlo in norma di legge. Di questo sono loro grato. Hanno dato ascolto, in parte, anche ad altri miei contributi: l'innalzamento dal 10% al 20% del limite posto per legge all'acquisto di azioni proprie in società quotate; l'innalzamento dal 3% al 5% della soglia massima per l'acquisto di azioni rilevanti ai fini della cosiddetta "Opa incrementale". Sono due provvedimenti tecnici, che favoriscono il rafforzamento degli azionisti di controllo o di riferimento. Su questi ultimi due punti è andata persa, nel recepimento in legge, l'ipotizzata temporaneità delle misure che in più occasioni avevo indicato. Governo e Parlamento potranno, se lo riterranno, introdurre anche per questi provvedimenti lo stesso carattere temporaneo previsto per l'abbassamento della soglia sulle partecipazioni rilevanti. Nel dibattito pubblico questo pacchetto di misure ha trovato fredda accoglienza. Tuttavia il senso di questi provvedimenti va cercato nel contesto di crisi post-Lehman Brothers. Oggi più che mai le debolezze strutturali che caratterizzano il sistema del governo societario nel nostro paese possono esporre diverse imprese italiane, anche di rilievo, al rischio di scalate ostili da parte di soggetti istituzionali. Penso al fenomeno dei fondi sovrani che, a mio parere, va monitorato con attenzione. Con le loro scorte di liquidità, i fondi sovrani possono svolgere una funzione di stabilizzazione in fasi in cui la liquidità scarseggia. Ma il loro intervento può assumere forme diverse, amichevoli o anche ostili e aggressive. In un sistema storicamente vulnerabile come il nostro, è utile un meccanismo di difese da attivare all'occorrenza per la salvaguardia degli interessi strategici nazionali. Il cosiddetto "pacchetto anti-scalate" va in questa direzione.

Rispetto alla metà degli anni 90 del secolo scorso, in cui si colloca la genesi del Testo unico della finanza, tante cose sono cambiate. Il Tuf ha il merito di aver svecchiato il nostro sistema finanziario. I principi cardine del Tuf - contendibilità delle imprese, ricambio del controllo societario, tutela delle minoranze - sono un patrimonio che ha arricchito la cultura finanziaria italiana. Il Tuf resta un saldo punto di riferimento, in base al quale orientarsi anche in mezzo alla tempesta. Tuttavia non si può non tener conto del fatto che nel frattempo il mondo è cambiato. La direttiva comunitaria in materia di Opa (2004) ha di fatto aperto la strada in Europa a tendenze protezionistiche. La crisi dei mutui subprime ha accelerato questo processo. Benché condannato a parole, il protezionismo è oggi la cifra caratterizzante delle politiche economiche di paesi con cui ci dobbiamo confrontare.

Può piacere o non piacere. Ma questo è il mondo in cui viviamo. Dobbiamo prenderne atto. E affrontare il mondo di oggi andando a frugare nella cassetta degli attrezzi di ieri potrebbe rivelarsi penalizzante per chi non sa adeguarsi ai segni del proprio tempo. In nome di valori che gli altri si sono buttati alle spalle, l'Italia potrebbe trovarsi a fare il vaso di coccio tra i vasi di ferro. Fermi restando i valori fondamentali del Tuf come stella polare, una correzione di rotta, almeno temporanea, può dare utili risultati. Non è in discussione il bene prezioso, cioè la trasparenza necessaria. Ma solo regole certe, chiare e da tutti in ugual modo applicate costituiscono il presupposto di un mercato effettivamente libero.
 

Fonte - SOLE24ORE

 

 

 

  Trovate un Marchionne per le banche

25 Maggio 2009 15:50 ROMA - di Luigi Zingales

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Questo processo di 'distruzione creatrice' - scrive l'economista austriaco J. A. Schumpeter - è la vera essenza del capitalismo.Questa distruzione creatrice è certamente all'opera nel settore automobilistico. Dalle ceneri della bancarotta di Chrysler e della crisi finanziaria di General Motors nascono nuove opportunità per consolidare un'industria malata di eccesso di capacità produttiva.
In genere io non sono un grosso sostenitore delle grandi fusioni. Le uniche vere 'sinergie' derivanti dalla stragrande maggioranza delle fusioni vengono dall'aumento del potere di mercato (a danno dei consumatori) o del potere politico (a danno dei contribuenti). A fronte di queste, ci sono enormi costi di integrazione: dai sistemi informativi alla cultura manageriale. Ma l'ardita operazione progettata da Sergio Marchionne sembra essere un'eccezione.

L'accordo con Chrysler permette alla Fiat di entrare sul mercato americano con una struttura capillare di distribuzione. L'acquisto della Opel facilita il consolidamento del settore auto in Europa. Entrambe queste operazioni consentono alla Fiat di ammortizzare i costi di ricerca e sviluppo su una produzione molto maggiore. Non ultimo, questa espansione avviene a prezzi stracciati. Anche se il successo non è garantito, questa operazione di sicuro ridisegna l'industria dell'auto nel mondo, creando importanti guadagni di efficienza. E non sarebbe mai avvenuta se l'industria automobilistica americana fosse state tenuta in vita artificialmente dai sussidi statali.

A fronte di queste profonde ristrutturazioni nel mondo dell'auto, nel settore del credito prevale l'immobilismo. Abbiamo assistito, è vero, a delle fusioni (JP Morgan ha comprato Bear Stearns, Wells Fargo si è presa Wachovia, Bank of America ha messo le mani su Merrill Lynch). Ma si è trattato di matrimoni di convenienza, forzati o favoriti da una Federal Reserve ansiosa di stabilizzare il settore, anche a costo di renderlo meno efficiente.

Basti pensare all'acquisto di Merrill Lynch da parte di Bank of America. Non solo quest'ultima ha strapagato, ma ora si trova a perdere la maggior parte dei migliori talenti della banca d'investimento, non abituati a operare all'interno della burocrazia di una banca commerciale.

Come è possibile che nulla si muova proprio nel settore che ha innescato la crisi? Forse non abbiamo realizzato l'inettitudine dei sistemi di controllo del rischio delle principali banche? L'inefficienza delle procedure di concessione del credito? Le sinergie negative tra l'attività di trading e quella di raccolta di depositi? L'incapacità della maggior parte dei sistemi informativi bancari di incrociare le informazioni sui depositi con quelle sui prestiti dello stesso cliente? Non è un caso che Citigroup sia stata sull'orlo della bancarotta in tre delle ultime quattro recessioni: il modello del supermercato finanziario non funziona. Ma allora perché non assistiamo a una profonda trasformazione?

A ostacolare questo processo di 'creazione' nel settore bancario è proprio l'intervento statale. Non esiste creazione senza distruzione. Fermando con i suoi sussidi il processo di distruzione, lo Stato inevitabilmente ostacola anche il processo di ricerca di alternative: il processo creativo. Parafrasando Schumpeter, è proprio dal 'trial and error' che nascono i nuovi modelli organizzativi, perché nessuno sa oggi con certezza quale sia la ricetta giusta per il futuro. Di sicuro sappiamo solo che, mantenendo artificialmente in vita le imprese esistenti, il supporto statale ostacola la ricerca di alternative migliori.

Questo è vero in generale, ma è maggiormente vero nel settore bancario, dove la protezione offerta dallo Stato alle istituzioni considerate 'troppo grosse per fallire' non solo ostacola la ricerca di alternative, ma va nella direzione opposta, sussidiando la creazione di giganti del credito che sappiamo essere inefficienti. Tanto negli Stati Uniti come in Italia, se vogliamo l'emergere di un Marchionne del credito dobbiamo porre fine ai sussidi a favore della Geronzocrazia.
 

Fonte - L'espresso

 

 

 

 

 

G8 Energia, preoccupa il prezzo troppo basso del petrolio

25 Maggio 2009 16:21 MILANO - di Federico Rendina
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Il prezzo del petrolio? E' tutto un problema di "equilibrio". Guai se è troppo basso, come nelle scorse settimane. Deprime gli investimenti energetici, già frenati dalla recessione, e rischia di creare un effetto boomerang, con prezzi altissimi e fonti insufficienti, una volta riagganciata la ripresa mondiale che stimolerà di nuovo i consumi. Ed è questo l'allarme con il quale l'Agenzia Internazionale per l'energia (IEA) ha accompagnato qui a Roma l'apertura del G8 energia, che tra oggi e domani dovrebbe delineare una nuova strategia comune dei grandi. Guai, dunque, se il greggio comincerà di nuovo a decollare senza controllo. Ed ecco, intanto, il grande desiderio dei manovratori dei paesi sviluppati ma anche di quelli poveri. Un "equilibrio" valutato dal presidente dell'Eni Roberto Poli "tra i 60 e i 70 dollari al barile". La lavorazione del petrolio "difficile", come le sabbie bituminose del Canada, tornerà ad essere plausibile. I comunque costosi incentivi alla rinnovabili non saranno oltremodo dolorosi. Il nucleare non rischierà (come sta accadendo, avverte la IEA) di vedere bloccare le sue ambizioni di nuovo rilancio.
Poli ammette che "mantenere il prezzo a questo intervallo non è un compito né semplice né immediato". Ma se non esercitiamo il massimo impegno molti obiettivi di politica energetica e ambientale nell'agenda del G8 in corso a Roma rischiano di diventare - avverte il Presidente dell'Eni - solo un inutile esercizio di pensieri e auspici.
Preoccupa davvero il rapporto dell'AIE sulla contrazione degli investimenti energetici conseguente alla crisi, anticipato sabato scorso nelle pagine del Sole 24 Ore (e che ora pubblichiamo integralmente). Incalza Nobuo Tanaka, direttore esecutivo della IEA: al trend attuale il 2009 potrebbe registrare una riduzione del 21% degli investimenti globali nella capacità estrattiva (upstream) e addirittura del 38% sul fronte delle rinnovabili.
Elementi che, secondo Tanaka, rischiano di mettere a rischio gli obiettivi internazionali sul taglio delle emissioni.
Dall'Italia, che ha problemi di squilibrio energetico particolarmente pressanti, viene però un segnale meno drammatico. I nostri operatori giurano che nonostante la crisi globale i loro investimenti non stanno, almeno per ora, rallentando. «L'Eni non riduce i suoi investimenti. Stiamo agli stessi livelli dell'anno precedente» dice Poli. E non frena l'Enel, neanche sugli impegnativi piani di sviluppo del nucleare che il nostro operatore elettrico è costretto per ora a esercitare al'estero. il gruppo ha mantenuto inalterato i suoi programmi e «sta costruendo due centrali (una in Slovacchia l'altra in Francia con Edf) e sta per costruirne altre due in Romania e sempre in Francia» rimarca l'amministratore delegato Fulvio Conti, augurandosi (e augurando alla politica) di consentire la partenza delle macchine nucleari al più presto anche in Italia.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

BANCHE USA: IN ROSSO PER LA PRIMA VOLTA DAL 1990

27 Maggio 2009 16:47 NEW YORK - di WSI
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E' accaduto negli ultimi tre mesi del 2008. Riscontrate difficolta' enormi, utili aziendali ai minimi di 18 anni. Il numero degli istituti presenti nella "lista nera" della Fdic sale del 47%.
Il settore bancario statunitense ha registrato la prima perdita trimestrale dai tempi della crisi degli anni novanta, con gli utili aziendali che sono sprofondati sui minimi di 18 anni.
Stando ai dati di un rapporto sullo stato di salute del sistema finanziario a cura della Federal Deposit Insurance (FDIC), le banche hanno perso 26,2 miliardi di dollari negli ultimi tre mesi dell'anno scorso. Si tratta del primo rosso trimestrale dal quarto trimestre del 1990.
Il numero di banche facenti parte della "lista nera" e' aumentate del 47% a 252 unita' nel periodo preso in esame, conclusosi il 31 dicembre scorso.
Nel primo trimestre 2009 tale cifra e' salita ancora, registrando un incremento del 21% a quota 305 dai 252 precedenti. Si tratta del numero piu' alto degli ultimi 15 anni.
"Non c'e' dubbio che questo sia uno dei periodi piu' difficili che abbiamo mai visto nel corso dei 75 anni di storia della Fdic", ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa Sheila Bair, presidente dell'agenzia federale americana di garanzia dei depositi bancari.
Alle prese con la peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione, dal 2007 le banche statunitensi hanno annunciato oltre 762 miliardi di dollari di svalutazioni da perdite creditizie.
Il tracollo senza precedenti dei profitti aziendali e' l'effetto delle "massicce perdite di alcuni istituti" e dell'incremento dei costi per via dei prestiti risultati insolventi, ha spiegato la Bair. "Il fatto che quasi un istituto su tre abbia archiviato il trimestre in perdita, da' la misura delle enormi difficolta' che il settore si trova a dover affrontare".
Con le banche impegnate a risanare i propri bilanci, sui conti ha gravato il contemporaneo incremento degli accontonamenti e delle svalutazioni derivanti dalle perdite creditizie, oltre alle ingenti somme perse nel settore degli investimenti finanziari.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

Est Europa, una storia per i più audaci

27/05/2009 11.06 MILANO - di Marco Caprotti
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Nonostante le speranze che sembravano emerse all’inizio dell’anno, l’Europa dell’est resta una storia per i forti di cuore. La crescita dell’indice Msci dell’area, che nell’ultimo mese (fino al 27 maggio e calcolato in euro) ha guadagnato il 12,4%, secondo gli operatori in questo momento è legata al generale clima di fiducia che, nonostante la volatilità, si respira sui mercati mondiali e sui Paesi in via di sviluppo in genere. A livello regionale, infatti, ci sono ancora troppe incognite: sia di carattere economico-finanziario, sia politico. Per quanto riguarda la congiuntura, la situazione resta difficile. Gli uffici studi delle maggiori banche internazionali, ad esempio, stanno abbassando le loro stime sull’andamento della Russia (la maggiore economia della regione) per quest’anno. Se prima si parlava di una contrazione del 2,1%, ora si prevede una frenata che potrebbe avvicinarsi al 5%. Colpa della recessione globale che ha tagliato la domanda di energia (di cui è il maggior esportatore mondiale), contribuendo al calo del Pil del Paese del 9,8% nei primi tre mesi del 2009 (il dato peggiore degli ultimi 15 anni). L’andamento viene anche confermato dalla diminuzione delle importazioni di auto che, da gennaio a marzo, sono scese del 74% circa.
Gli altri Paesi dell’area non stanno meglio. In Romania, ad esempio, la vendita di case nuove, ad aprile, è scesa del 6,7% rispetto al mese precedente. Anche in questo caso la colpa è della crisi economica mondiale che ha lasciato meno soldi nelle tasche delle famiglie. A questo si aggiunge il crollo costante dei prezzi che fa vedere il comparto immobiliare come un cattivo investimento. A niente peraltro sono serviti gli incentivi del governo, che ha messo sul tavolo un pacchetto da 1 miliardo di euro per aiutare la sottoscrizione di mutui. Il Pil, intanto, nel primo trimestre ha registrato una contrazione del 6,4%. Stesso risultato per l’Ungheria, dove però a maggio l’indice sulla fiducia economica è salito per la prima volta dal 2006.
La trama si complica quando entrano in scena le banche. Gli istituti di credito che lavorano nella regione hanno detto ufficialmente (durante l’ultima riunione della Banca europea per la ricostruzione) che non forniranno prestiti fino a quando anche la Bce non metterà mano al portafoglio. In pratica, vogliono soldi dall’istituto centrale in cambio dei loro bond. Un diktat che non piace all’autorità monetaria guidata da Jean-Claude Trichet. “Sarà molto difficile rimettere in moto la macchina senza l’intervento della Bce”, ha detto senza mezzi termini Herbert Stepic, amministratore delegato di Raiffeisen International, una delle banche più attive in Europa dell’est. In compenso, ha però aggiunto di non aver ritirato un singolo centesimo dall’area.
L’ultimo elemento è la questione politica. Il presidente russo Dimitri Medvedev ha avvertito ufficialmente l’Unione europea di non stringere legami troppo stretti con i Paesi dell’ex Unione Sovietica. “In alcuni stati dell’ex Urss le iniziative di avvicinamento dell’Ue vengono interpretate come partnership contro la Russia”, ha detto durante una riunione ufficiale. “E questo per noi è inaccettabile”. A nulla sono valse le rassicurazioni del numero uno dell’Unione Manuel Barroso che ha parlato di “iniziative contro nessuno e tese a migliorare la prosperità e la stabilità della regione”. Il pericolo è che si arrivi a una situazione di tensione simile a quella che ha portato alla guerra fra Russia e Georgia nel 2008 e alla crisi del gas con l’Ucraina all’inizio di quest’anno.
In ogni caso, secondo alcuni analisti, resta inalterato il processo di avvicinamento fra i vari Paesi dell’area. “Nel lungo termine ci aspettiamo che il processo di convergenza e l’avvicinamento economico nell’Europa Orientale, nonostante le attuali difficoltà, continuino il loro percorso”, dice una nota di Raiffeisen Capital Management. “Tenendo questo in mente, bond e azioni dell’est Europa dovrebbero rimanere un investimento interessante anche per il futuro”.
 

Fonte - MorningStar.it