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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Borse & Mercati - Sentiment

Scervellarsi per capire quando sarà toccato il fondo

Borse - Analisi

Borse: il guadagno è già +25% dai minimi

Materie Prime - Analisi

Con le commodity torna la speranza

Auto - Fiat/Chrysler

Auto: Fiat può aspettare, subito GM-Chrysler

Immobiliare USA

Immobili a Manhattan: un'opportunità che non si verificava da anni

Borse & Mercati - Sentiment

La riscossa delle Borse é ancora lontana

Borse & Mercati - Analisi

Come si possono conciliare Borse in rialzo e PIL striminziti?

Borse - Analisi

Mercati: ancora un +25% per ammazzare l'orso

Borse & Mercati - Analisi di portafoglio

Metà bond e metà azioni. Finché la nebbia non si dirada

Borse & Bilanci - Analisi

Mercati e trucchi contabili, lo scandalo continua

Borse & Mercati - Analisi di portafoglio

Sono titolini, ma vanno come razzi

Borse & Mercati - Medio Oriente

Il toro ha traslocato in Medio Oriente

   
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+++   ANSA   +++   Gio. 09 Apr. 2009   +++   Ws: GRAN RIALZO CON WELLS FARGO E QUINTA SETTIMANA POSITIVA   +++   Mar. 21 Apr. 2009   +++   Ws: CHIUDE IN RIALZO SPINTA DA GEITHNER   +++   Mer. 29 Apr. 2009   +++   Ws: BALZO CON FED NONOSTANTE PESSIMO PIL   +++   ANSA   +++
 
  Giovedì 02 Aprile 2009   Venerdì 03 Aprile 2009   Lunedì 06 Aprile 2009  
       
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GR1 RAI - 02 APR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 06 APR ore 22:00

   

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  Scervellarsi per capire quando sarà toccato il fondo

01 Aprile 2009 17:13 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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E’ cambiato davvero il mondo in queste ultime due settimane? Sì, è cambiato e i mercati sono stati nel complesso efficienti nel cogliere il nuovo. La difficoltà, adesso, sta nel capire la vera dimensione delle novità da una parte e quanto tempo occorrerà per il loro dispiegamento dall’altra.
Partiamo dalle novità macro. I consumi continuano a tenere, soprattutto negli Stati Uniti. Naturalmente tengono sulle posizioni basse che hanno seguito il crollo di ottobre e novembre, ma è meglio di quello che ci si aspettava. C’è ancora l’effetto positivo della benzina che costa la metà di un anno fa, ci sono gli sconti ufficiali o sottobanco su qualsiasi cosa, dalle auto ai vestiti o ai viaggi. Fra poco ci sarà l’effetto dei minori esborsi per i mutui, perché i tassi stanno cominciando a calare sul serio.
Poco più in là si profilano gli sgravi fiscali. Non sono enormi, ma tutto fa, al punto che un piccolo segno positivo, sui consumi americani, potrebbe perfino restare per tutto il resto dell’anno. Con i consumi che tengono e la produzione che continua a scendere, le scorte stanno esaurendosi più rapidamente del previsto. Una volta normalizzate le scorte, la produzione di beni di consumo si stabilizzerà e, verso fine anno, potrebbe tornare a crescere. A non dare ancora segni di stabilizzazione sono gli investimenti, che rimarranno depressi anche l’anno prossimo.
Mettendo insieme il tutto, il Pil americano sembra destinato a una rapida perdita di velocità della sua caduta da qui all’estate. Toccato il fondo, nella seconda parte dell’anno potrebbe anche registrare una debolissima ripresa. Dopo mesi di dati terribili l’arrivo di qualche dato più normale va salutato con gioia, ma non significa necessariamente un’inversione radicale di tendenza. Molto più probabilmente è solo l’inizio di una fase di stabilizzazione, che nel resto del mondo, in particolare in Europa e in Giappone, è ancora di là da venire.

Sul piano dei provvedimenti di policy le novità sono importanti e tutte di segno positivo. La ricapitalizzazione del Fondo Monetario appare sicura. Ppif e Talf, fino a poco tempo fa ectoplasmi che non scaldavano i cuori, prendono forma e corpo e si trasformano in un trilione di dollari che possono comprare 1.5 trilioni di nominale di asset tossici. Nel frattempo, il trilione e rotti di easing quantitativo da parte della Fed si prepara a entrare gradualmente in circolazione.
Nota Brad DeLong di Berkeley che dei 4 trilioni di asset tossici 2 sono già in via di sistemazione (almeno sulla carta, osserviamo). DeLong, che è molto vicino all’amministrazione, aggiunge che in settembre ci potrebbe essere un altro stimolo fiscale per il 2010, mentre nel Tarp rimangono ancora 200 miliardi, su cui naturalmente si può creare leva.
Il dibattito che infuria su piano Geithner e Talf, in particolare sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite che ne deriverebbero, è il segno che il mercato li sta ora prendendo sul serio. Tesoro e Fed stanno marciando insieme. John Berry, un influente columnist considerato molto vicino alla Fed, ha attaccato negli ultimi giorni, in due articoli molto duri, i due fronti che si oppongono in diverso modo ai piani di sistemazione degli asset tossici, ovvero da una parte la destra congressuale repubblicana (che vuole lasciare tutto al mercato) e dall’altra i professori radicali (vengono in mente Roubini e Krugman) che invocano estese nazionalizzazioni delle banche e punizioni esemplari per i loro azionisti.
La posizione repubblicana è giudicata totalmente sterile e quella dei nazionalizzatori, pregati senza mezzi termini di smetterla, dannosa per i mercati. Nelle ultime ore, per inciso, tanto Roubini quanto Krugman hanno ammorbidito parecchio le loro posizioni.
Nella polemica, il disegno complesso del piano Geithner è stato oggetto di distorsioni. Non è vero, ad esempio, che il contribuente non parteciperà alle rivalutazioni future degli asset tossici. Non è vero che il contributo dei privati, essendo assimilabile all’acquisto di una call su questi asset, sia in pratica inesistente. Nessuno, normalmente, compra opzioni per passatempo (come fossero biglietti della lotteria), tanto meno quando deve metterci 30 miliardi di dollari. In più, senza l’intervento dei privati in competizione tra loro, il vero prezzo di titoli che ora sono completamente illiquidi resta impossibile da scoprire.
Infine, notiamo che i nazionalizzatori che favoleggiano di immensi guadagni per i privati compratori di asset tossici sono spesso gli stessi che affermano che questi asset sono praticamente carta straccia.
Un timore diffuso nel mercato è che le banche non venderanno questi titoli per non evidenziare minusvalenze ancora inespresse nei bilanci. Si dimentica però che dopo lo stress test in corso, la Fed obbligherà le banche poco patrimonializzate a liquidare titoli fino a che non si saranno rimesse in regola. Il fatto che nel piano Geithner ci siano incentivi ai privati non deve scandalizzare. E’ normale quando si vuole avviare un processo virtuoso. Quando ad esempio si colloca la prima tranche di una privatizzazione a un prezzo molto vantaggioso, si prepara il terreno per futuri collocamenti a prezzi crescenti e alla fine il contribuente ne esce bene.

Il piano Geithner, per inciso, appare timidissimo di fronte ad altre idee circolate di recente. Ricardo Caballero del Mit, ad esempio, suggerisce da qualche tempo un piano suggestivo per cui il governo, invece di tirare fuori soldi per le banche, si impegna a comprare le loro azioni fra cinque anni a un prezzo quadruplo rispetto a quello corrente. In questo modo le azioni esistenti si rivalutano immediatamente e le banche possono emetterne di nuove e riequilibrare il loro bilancio. Dopo cinque anni il corso dell’azione sarebbe con ogni probabilità al di sopra del prezzo d’esercizio della put. In questo modo, alla fine, nessun capitale pubblico verrebbe sborsato e nessuna nazionalizzazione sarebbe necessaria.
Troppo bello per essere politicamente realizzabile. Forse nella prossima grande crisi, fra qualche decennio. L’insieme di dati e di misure di policy di cui abbiamo parlato rende il rialzo di borsa di questi giorni qualcosa di più di un semplice rimbalzo tecnico.
Si diceva la settimana scorsa che l’essere definito dal mercato, unanimemente, come bear market rally (e non come, incredibile a dirsi, l’inizio di un bull market) rendeva il rialzo più solido.
Così è stato, finora. Oggi siamo però incappati in uno studio di Barclays significativamente intitolato "Arrivano i primi germogli". Una parte del mercato sta dunque cambiando le sue aspettative. Il fenomeno è ancora poco esteso (in una tavola rotonda tra loro, tutti gli strategist e gli economisti di Morgan Stanley si dicono certi che questo è solo un bear market rally) ma merita attenzione.
L’azionario può difendersi bene fino a fine trimestre e poco oltre, ma il graduale mutare delle aspettative lo rende più vulnerabile ai dati di bilancio che le società cominceranno a pubblicare da metà aprile. In generale, può essere giusto passare per i prossimi mesi dalle strategia di vendere su rialzo a quella di comprare su ribasso, ma ora siamo su rialzo e non è quindi il momento di comprare.
Il fatto che ci siano in fioritura germogli primaverili non deve indurre a sottovalutare la fragilità del quadro strutturale, non solo per quest’annoma anche per i prossimi. Jan Hatzius di Goldman prova a disegnare un percorso virtuoso (uno scenario best case) in cui i redditi americani crescono del 3 per cento all’anno e i consumi dell’uno per cento da qui al medio termine. In questa ipotesi si riesce a conciliare un aumento graduale dei risparmi verso il 10 per cento con una crescita del Pil, sia pure molto bassa.

E’ chiaro che un mondo in cui l’America cresce così poco è fragile e molto esposto a qualsiasi shock esogeno. Né c’è molto da aspettarsi dal resto del mondo. Il rilancio dei consumi interni (per compensare il calo strutturale delle esportazioni) sarà lento in Asia e lentissimo in Europa. Le borse devono poi tenere conto degli utili. Le attese sul 2009 e sul 2010 appaiono ancora troppo alte.
In pratica appare difficile, almeno al momento, ipotizzare che nei prossimi due-tre anni parta il grande treno del bull market. Per questo, ripetiamo, anche se l’aria è oggi più respirabile è meglio evitare di rincorrere i rally e aspettare i momenti di debolezza.
Venendo ai bond, il mercato sta vivendo una fase decisamente più nervosa rispetto all’azionario. Il quantitative easing crea un profondo disagio in quella parte del mercato che si sente già proiettata verso l’iperinflazione, ma il fatto di avere dall’altra parte le banche centrali come soggetto compratore gela le pulsioni allo short.
Continuiamo a pensare che il mercato sopravvaluti i rischi d’inflazione, quanto meno per questo e per il prossimo anno. Lo scenario di base indicherebbe semmai deflazione, anche se è sensato ipotizzare per i prossimi mesi costanti ed energici interventi di contrasto da parte delle banche centrali. Mettendo insieme lo scenario di base con i probabili interventi, il risultato per il 2009 e per il 2010 dovrebbe essere un’inflazione con segno positivo ma molto bassa.
L’impressione è che le banche centrali puntino ora a una curva con moderata inclinazione positiva. Gli acquisti, soprattutto da parte della Fed, saranno soprattutto nella parte tra i 2 e i 5 anni, anche per evitare perdite nel momento in cui si profilerà una ripresa economica e ci sarà da smontare le posizioni (la Fed si limiterà a fare scadere i titoli senza rinnovarli).
Questo non significa che si voglia lasciare libero il decennale di salire di rendimento. Una parte del mercato pensa che si punti a ricreare la curva piuttosto ripida dei primi anni Novanta. In quel periodo, successivo alla crisi delle Savings and Loans, le banche si ricapitalizzarono lentamente indebitandosi a breve e tenendo titoli lunghi. Questa volta si ha l’impressione che le banche centrali non vogliano incentivare le banche a starsene pigramente adagiate in posizioni di carry senza rischio. L’urgenza, adesso, è quella di indurre le banche ad aumentare gli impieghi.
In generale, la Fed ci pare orientata verso una reflazione moderata e ordinata, senza strafare. Anche l’indebolimento del dollaro, come conseguenza, dovrebbe mantenersi modesto.
L’Europa non appare per nulla ansiosa di adottare il quantitative easing. Ha del resto ancora mezzo punto da spendere sui tassi. Una volta tagliato, secondo tradizione, vorrà aspettare qualche mese per vedere gli effetti e solo allora, nel caso, si deciderà al grande passo. In pratica l’Europa cercherà di mettersi sulla scia degli Stati Uniti per sfruttare la loro reflazione. Pagando il prezzo di sempre, ovvero un euro troppo forte.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

 

Il rally che non lo era

01 April 2009, at 15:48 - by phastidio
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Appunti della scorsa settimana di David Rosenberg, il bravo chief economist di Merrill Lynch che sta per lasciare la compagnia e tornare a casa, in Canada:
«L’indice S&P 500 è cresciuto del 7,1 per cento lunedì scorso. Non avevamo un giorno così dal…24 novembre. E prima di allora…dal 21 novembre! E prima di allora…dal 13 novembre! E prima di allora…chi può scordarsi del 28 ottobre (ricordate quel balzo del 10,8 per cento)? E prima di allora…il 13 ottobre! E prima di allora…il 30 settembre. Questa è la quindicesima volta negli ultimi sei decenni che abbiamo visto un rialzo di oltre il 5 per cento nello S&P500, e tutti si sono verificati in un bear market (2007-09; 2001-02) o subito dopo il crash azionario dell’ottobre 1987. In realtà, due terzi di quei rialzi superiori al 5 per cento si sono verificati in questo bear market!»
«E sono sempre, sempre accaduti in coincidenza di qualche importante annuncio o notizia. Ci sono state settanta sedute con rialzi superiori al 5 per cento e ventinove con rialzi superiori al 7 per cento negli Anni Venti. I migliori 45 giorni nella storia del mercato si sono verificati nel mercato orso di inizio Anni Trenta. Tornando indietro nel tempo di oltre 80 anni, è dolorosamente ovvio che spasmi di questa magnitudine si verificano nel contesto di mercati ribassisti.»
Un altro motivo per fare oh…
 

Fonte - Macromonitor

 

 

COME INVESTIRE? GLI HI-YIELD VOLANO AL 18%

01 Aprile 2009 00:11 NEW YORK - di Corriere della Sera
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«Gli hi yield volano al 18% Per inseguirli serve l’air bag» I rendimenti delle obbli¬gazioni societarie a bas¬so rischio (investment grade) battono i titoli go¬vernativi di almeno 3¬4 punti percentuali. Nel mondo delle emissioni ad alto rischio (hi-yield) non è raro che la cedola raggiunga punte del 16-18%».
Il quadro del mercato del reddito fisso tratteg¬giato da Gibson Smith , re¬sponsabile delle gestioni obbligazionarie e hi yield (alto rischio e alto rendi¬mento) del gruppo ameri¬cano di asset manage¬ment Janus Capital , ha colori rosa e oro.
E questo perché «per ef¬fetto della crisi finanzia¬ria che si sta lentamente ri¬solvendo sul mercato del reddito fisso si sono create occasioni di guadagno irri¬petibili, quasi mai rintraccia¬bili in periodi di normalità».
Natural¬mente i titoli ad altissimo rendimento sono come materiale radioattivo. E i piccoli risparmiatori pos¬sono avvicinarsi a questo tipo di investimento uni¬camente attraverso i fon¬di specializzati se non vo¬gliono correre il rischio di vedere incenerito il capi¬tale. «Anche per noi gesto¬ri il problema più delica-to consiste nell’evitare i ti¬toli di quelle società che rischiano il default , quin¬di di non rimborsare il de-bito », avverte. Ma con gli strumenti matematici e previsionali di cui dispon¬gono gli specialisti questo pericolo viene tenuto sot¬to ragionevole controllo.
Ma quali sono stati i principali effetti della cri¬si finanziaria sul mercato del reddito fisso? «In que¬sti mesi sono scomparse intere classi di investi¬mento, ad esempio le ob¬bligazioni collegate ai mu¬tui ipotecari, che sono sta¬te al centro del proble¬ma », dice Smith. «Ma le categorie obbligazionarie sopravvissute, i corporate bond e le emissioni hi yield, appunto, hanno mi¬gliorato notevolmente il loro grado di convenien¬za.
Dal punto di vista geo¬grafico il gestore non ha dubbi: «le migliori occa¬sioni di investimento si trovano in questo mo¬mento sul mercato statu¬nitense ». Anche i paesi emergenti offrono buone opportunità, «ma noi sce¬gliamo sem¬pre le singole aziende, non facciamo scommes¬ se-paese», pre¬c isa. Se si guarda invece ai settori indu¬striali il fund manager con¬ferma grande cautela verso le obbligazioni bancarie.
Piacciono invece i titoli di debito emessi dalle azien¬de di quei settori meno ci¬clici e parzialmente im-muni ai rischi di crisi, co¬me l’alimentare. Seguono le obbligazioni emesse dalle società specializzate nella logistica e nei tra¬sporti. Quindi le telecom, la cui cedola non teme ce¬dimenti.
«Un suggerimento, per gli investitori in euro, è sempre quello di sceglie¬re fondi specializzati co¬perti dal rischio di cam¬bio », aggiunge Smith. Le onde prodotte dalle oscil¬lazioni valutarie potrebbe¬ro infatti cancellare le per¬formance. (M. SAB.)

 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

USA: BANCHE, POLEMICHE SULLE REGOLE PIU' MORBIDE

03 Aprile 2009 17:10 NEW YORK - di Il Sole 24 Ore
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Fa discutere la decisione della Fasb (il board della contabilita' Usa), di varare nuove regole relative all'applicazione del 'mark-to-market', ovvero la valutazione a valori presunti di mercato per gli asset i cui scambi su mercati si sono prosciugati.
Fa discutere la decisione della Fasb (Financial Accounting Standards Board), il board della contabilità americana, di varare nuove regole, più morbide, relative all'applicazione del mark-to-market, ovvero la valutazione a valori presunti di mercato per attività finanziarie i cui scambi su mercati regolamentati si siano di fatto prosciugati. Insomma, la nuova strada imboccata negli Stati Uniti ha come obiettivo la garanzia per le banche di valutare con maggiore libertà gli asset tossici. Ma per i critici questo è il sistema più sicuro per invitare i banchieri a insabbiare le perdite.
Secondo quanto dichiarato dalla stessa Fasb, per la stragrande parte delle società Usa i cambiamenti normativi (intervenuti sul Financial Statement 157, principio contabile che regola il fair value e l'applicazione del mark-to-market) dovrebbero essere efficaci a partire dal secondo trimestre - ma in qualche caso potrebbero iniziare ad essere applicate già per il primo trimestre. Viene così ampliato il margine nella valutazione degli attivi e delle perdite, fornendo una potenziale spinta ai bilanci.
Positiva la reazione dei titoli bancari (giovedì in rally - ben oltre le ragioni dell'ottimismo di facciata emerso dalle conclusioni del G-20 a Londra -, oggi in tenuta), anche se per alcuni operatori il cambiamento è stato varato con notevole ritardo, dopo che lo shock finanziario ha prosciugato il mercato delle collateralized debt obligations e di tutte le obbligazioni con sottostanti mutui. Frittata fatta, quindi, anche se qualche beneficio dovrebbe arrivare: tra gli operatori c'è chi calcola un possibile rialzo degli utili del 20%, altri smorzano gli entusiasmi e parlano di «un penny o due».
A favore dei cambiamenti c'è chi sostiene che aver forzato le banche a svalutare a prezzi di saldo questi asset in un mercato in stallo abbia esacerbato la crisi finanziaria con svalutazioni, crollo di utili, penalizzazione dei coefficienti patrimoniali e una limitata capacità di credito. Le autorità hanno dato ancora una volta più credito ai banchieri che a Main Street.
Se la boccata di ossigeno accordata alle banche può sembrare una decisione deprecabile ma tutto sommato saggia (un male minore, di questi tempi: potrebbero esserci meno alibi sul stretta del credito), resta da vedere come una gestione più lassista dei bilanci possa riportare la fiducia sui mercati e tra gli investitori. E con che bilanci "reali" ci si sveglierà dopo che sarà finito il lungo incubo della recessione.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Borse: il guadagno è già +25% dai minimi

05 Aprile 2009 22:34 BIELLA - di *Maurizio Milano

*Maurizio Milano e' responsabile dell'Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

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I mercati azionari archiviano la quarta settimana consecutiva di sostenuti rialzi, come non capitava più dalla scorsa estate. Le prese di beneficio ad inizio di ottava non hanno incrinato il sentiment decisamente positivo degli operatori. Il rally in essere dai minimi del 6 marzo gode di ottima salute, archiviando guadagni di oltre il 25% sui principali indici azionari mondiali. L’S&P500 supera marginalmente la forte resistenza a 835; il Dow Jones Industrial si porta al test della resistenza in area 8000/300; il Nasdaq raggiunge la forte resistenza in area 1600/50; il DJEurostoxx50 raggiunge la forte resistenza in area 2200/50; l’S&PMib si porta con uno strappo rialzista in direzione della resistenza a 17300; il Nikkei225 si riporta al test della resistenza in area 8750/850.
Il rally in essere dal 6 marzo ha determinato il raggiungimento dei primi obiettivi indicati nelle rubriche a partire dal 9 marzo, ma ha ancora davanti a sé spazi di salita importanti. Anche se ci troviamo di fronte ad un bear-market rally, una risalita sui livelli di fine settembre 2008, precedenti il crash di ottobre-novembre, vorrebbe dire un recupero di un ulteriore 30% dai livelli correnti. Confermiamo quindi gli obiettivi indicati, e cioè: 935/45 per lo S&P500, 9000/100 per il Dow Jones Industrial, 1900 per il Nasdaq Composite, 2360-2400 per l’Eurostoxx50, 9600 per il Nikkei225, 21000 per l’S&PMib. Gli obiettivi "ultimi" del bear market rally in essere rimangono i livelli precedenti al crash di ottobre-novembre, che rappresenteranno un "muro" difficilmente superabile per molti mesi a venire.
Prima che possa iniziare un bull market vero e proprio dovranno verosimilmente passare molti mesi di riaccumulazione. Nel frattempo, se il rally proseguirà, cavalchiamo l’onda pronti ad alleggerire al raggiungimento degli obiettivi. Per mantenere un’impostazione tonica è necessario che eventuali correzioni non si discostino troppo dai livelli correnti. Un calo della volatilità implicita (Vix sotto 40-41) farebbe scattare il semaforo verde per la partenza di questa ipotizzata seconda gamba del rally. I settori che dovrebbero trainare il rialzo rimangono il bancario e l’automobilistico, ma ottimi segnali arrivano anche dai semiconduttori (indice Sox), dai trasporti e dia consumi durevoli. Meno sensibili dovrebbero essere invece i rialzi dei settori meno volatili e più difensivi, come utilities ed alimentare.
Sul fronte valutario, dopo l’accelerazione rialzista con il picco del 19 marzo a 1,3738 (successiva alla fuoriuscita dalla parte alta della banda laterale tra 1,2330-1,2450 e 1,3000-1,3300 in cui il cambio si era mosso negli 2 mesi precedenti), l’euro/dollaro è ripiegato verso 1,3115 per poi riportarsi verso 1,3500. Prevedere l’andamento del dollaro per le prossime settimane rimane particolarmente difficile, perché molto dipenderà da come la Fed scaglionerà i propri interventi di quantitative easing (stampa di banconote e acquisto di titoli obbligazionari, sia governativi che societari). Il "quando e quanto" di tali interventi "non convenzionali" di politica monetaria – e la misura in cui anche la BCE vorrà o potrà imitarli – determineranno l’evoluzione del cambio euro/dollaro. Sembra comunque da escludere un dollaro in caduta libera, perché non sarebbe funzionale agli interessi Usa, e lo scenario più probabile rimane quello di un dollaro debole/laterale.
Sul comparto obbligazionario, dovrebbe proseguire la fase laterale del Treasury e del Bund. Finché le Banche centrali stamperanno banconote per acquistare titoli obbligazionari, governativi e corporate, i tassi di interesse a lunga rimarranno schiacciati, e di conseguenza i corsi dei titoli rimarranno elevati: l’impressione che si stia formando una bolla, tuttavia, rimane (anche se potrebbe continuare per molti mesi a venire).
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di positività in essere da fine dicembre – che interrompe una forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua anche per le prossime settimane. Apprezzamenti marcati del petrolio (il crude quota a ridosso di 52 $/barile) e delle altre materie prime (l’indice CRB quota a ridosso di 223) scatterebbero solo nel caso prosegua con forza il rimbalzo dell’azionario. Il forte rialzo dell’oro, sostenuto dal clima di generale incertezza, ha portato al test dei massimi del marzo 2008 a ridosso dell’area 1000-1033, per poi ripiegare verso 884-900. La perforazione di tale supporto segnalerebbe una diminuzione delle tensioni, con possibili correzioni verso 845: solo un assestamento al di sotto di tale supporto (prematuro) fornirebbe però un segnale distensivo affidabile. Nuove tensioni al di sopra di quota 1000 (poco probabile). Un rimbalzo dell’azionario dovrebbe comunque togliere interesse agli investimenti in oro, per lo meno per i prossimi mesi.
 

Fonte - Gruppo Banca Sella

 

 

 

  Martedì 07 Aprile 2009   Martedì 07 Aprile 2009   Mercoledì 08 Aprile 2009  
       
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GR1 RAI - 07 APR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 08 APR ore 22:00

   

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  Con le commodity torna la speranza

09 Aprile 2009 11:56 ROMA - di Arturo Zampaglione

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Mentre il presidente cinese Hu Jintao partecipava a Londra ai lavori del G20 e mentre, proprio alla vigilia del vertice di Londra, incontrava per la prima volta Obama, Pechino continuava a fare incetta di metalli non preziosi, a cominciare dal rame, di cui è già il maggiore acquirente mondiale. Sempre la settimana scorsa la China Minmetals ha raggiunto un accordo per rilevare, sborsando 1,2 miliardi di dollari, le operazioni della società mineraria australiana Oz Minerals, seconda produttrice mondiale di zinco. E altre acquisizioni del genere dovrebbero essere annunciate tra breve. L’attivismo cinese ha contribuito a una sorprendente ripresa delle commodities, a cominciare dai metalli industriali. I prezzi del rame, sono saliti del 31% dall’inizio dell’anno, quelli dello zinco del 9,3 e del piombo del 27. La fiammata si è riflessa nelle quotazioni azionarie. Nel primo trimestre del 2009, mentre il Dow Jones faceva le bizze e toccava i minimi degli ultimi 12 anni, le società che operano nei metalli non ferrosi hanno registrato sulla piazza americana una crescita del 16,1%, e il comparto minerario è aumentato del 9,8. Qualche analista ha interpretato questi movimenti come segnali di una svolta nella crisi.

Non c’è dubbio che gli investitori aspettino con ansia, dopo una tempesta economica così lunga che i mercati raggiungano il bottom da cui ripartire. E se Obama ha accennato i "primi dati incoraggianti", il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia ha dichiarato la settimana scorsa che un miglioramento della situazione globale è possibile sin dalla fine di quest’anno. In questo contesto i movimenti in atto nelle commodity offrono uno scorcio interessante. E’ un mercato che funge da barometro non solo delle aspettative del mondo delle imprese, ma di giochi strategici a livello di grandi investitori e di governi, come quello cinese, per meglio posizionarsi nei nuovi equilibri che verranno a determinarsi con la ripresa. I metalli potrebbero diventare uno strumento privilegiato per chi vuole difendersi – comprando futures, etf, etc dai pericoli di una inflazione provocata dalle maximanovre di stimolo economico e dall’alto indebitamento pubblico. E potrebbero essere un modo per la Cina e altri paesi di diversificare le loro riserve valutarie.
Il campo delle commodity è ampio. Vi figurano comparti che rispondono a logiche diverse: com’è il caso del petrolio, dominato dall’Opec, da interessi politici e dalle decisioni, a volte bizzarre, di qualche dittatore; o dei metalli preziosi, a cominciare dall’oro, che è il bene rifugio per eccellenza; o anche delle derrate agricole. Per il settore dei metalli di base, cioè quelli industriali, il boom è cominciato relativamente tardi. All’inizio del millennio, in coincidenza con l’esplosione industriale asiatica, e in particolare della Cina, si è vista una domanda crescente di queste materie prime che si è poi intrecciata con la progressiva "finanziarizzazione" delle commodity". Pechino, che fino alla fine degli anni ‘90 era un esportatore di metalli, ne ha fatto incetta in Africa e in Australia. Ha superato gli Usa come importatore di rame cileno. Intanto, facendo leva sui futures scambiati a Chicago, gli hedge fund e le banche di Wall Street come la Goldman Sachs, hanno avviato operazioni speculative in grande stile. Investitori minori, spaventati dalla volatilità dei futures, si sono invece serviti negli Usa degli Etf (Exchange traded funds) e in Europa dei Etc (Exchange traded commodities) per diversificare il loro portafoglio con fondi specializzati in singole commodity.
Tutto questo ha portato a una crescita impetuosa delle quotazioni. «Alla fine del 2007 c’è stata una tragica inversione di tendenza», ricorda Mario Quarti, excountry manager per l’Italia della Bank of America e conoscitore del mercato delle materie prime. «La consapevolezza che i prezzi dei metalli industriali erano legati a proiezioni irrealistiche di crescita economica ha portato a un crollo delle quotazioni». Mentre le industrie riducevano le scorte, la bolla si è sgonfiata: alcuni metalli hanno perso tre quarti del prezzo, altri addirittura due terzi. Il fondo, è stato toccato tra novembre e dicembre 2008. A differenza però di tutte le altre categorie di asset, che ancora languono, i metalli di base stanno registrando nel 2009, dopo due trimestri di flessioni sensibili (25 e 35%), un inaspettato risveglio. Come interpretarlo?
La prima spiegazione può essere che, a dispetto degli allarmi sulla disoccupazione, della stasi dei consumi e delle difficoltà nel credito, gli operatori vedono le prime speranze di una ripresa e vogliono approfittare dei bassi prezzi. Una seconda ragione coinvolge il mondo della finanza che vede i metalli come una delle poche opportunità di investimento. Il paladino di questo indirizzo è Jim Rogers, 56 anni, cofondatore insieme a George Soros del celebre Quantum Fund: Rogers ha sempre avuto il pallino delle commodity, guadagnando miliardi e creando un suo indice (Rogers international commodities index). In questa fase è uno strenuo difensore degli investimenti nei metalli e continua a fare proseliti, anche per il timore di un risveglio dell’inflazione.

Per il momento i prezzi non accennano a salire. Ma a dispetto delle analisi tranquillizzanti di molti economisti, tra cui Luca Paolazzi della Confindustria, che vedono il permanere di un clima deflazionistico, c’è inquietudine tra gli investitori sui rischi delle misure per stimolare la ripresa economica. Gli Usa, oltre a varare la legge da 787 miliardi per difendere l’occupazione, proseguono nel quantitative easing, lo stampare soldi aumentando la circolazione della moneta. Ciò aumenta il debito pubblico americano, che è già di 11mila miliardi di dollari. Il rischio? Che inneschi la spirale inflazionistica. Di qui la maggiore attenzione con cui gli investitori, anche piccoli, guardano ai metalli come difesa, garanzia e opportunità di profitto. Il terzo elemento per qualcuno il più importante che spinge in alto i prezzi dei metalli è la strategia della Cina. Pechino, che potenzia a ritmi sostenuti gli stock strategici di rame e altri minerali, ha due obiettivi: garantirsi canali di approvvigionamento stabili (e a lungo termine) per le sue industrie e per il fabbisogno interno (il rame è molto importante nelle nuove costruzioni). Il secondo obiettivo cinese riguarda il futuro del dollaro. La Cina ha accumulato, grazie ai surplus commerciali, certificati del tesoro americano per mille miliardi di dollari e guarda con preoccupazione alle prospettive delle valute e dell’inflazione. Prima del G20 aveva lanciato l’ipotesi di usare i diritti speciali di prelievo dell’Fmi come base di una nuova valuta per le riserve mondiali. Molti osservatori ritengono che Pechino stia ora perseguendo una diversificazione rispetto ai titoli del Tesoro americani rame e altri metalli alle sue riserve valutarie.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

Prossima fermata, le assicurazioni vita?

Monday, 13 April, 2009 at 12:49 - by phastidio
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Nei giorni scorsi il Tesoro statunitense ha annunciato l’intenzione di utilizzare una frazione degli ormai esigui fondi rimasti al TARP per infusioni di capitale alle assicurazioni vita, perlomeno a quelle che possono ricevere tali fondi, ad esempio perché controllano un istituto di credito. L’importo a cui pensa il governo è molto esiguo, dell’ordine di 1-3 miliardi di dollari, ma i problemi dei life insurers potrebbero essere ben maggiori. E’ noto che le assicurazioni vita sono state, nel recente passato, avide acquirenti di prodotti strutturati, tali da garantire significative maggiorazioni di rendimento “senza rischio”. Questa descrizione, fino a non molto tempo fa, corrispondeva ai Collateralized Debt Obligation (CDO), agli Abs e a tutte le strutture beneficiate dal rating massimo. Come purtroppo abbiamo appreso, nel mondo della finanza strutturata la tripla A non è garanzia di alcunché. E’ quindi lecito sospettare che le assicurazioni vita abbiano fatto il pieno di carta tossica o perlomeno problematica. Solo che, a differenza delle banche, gli assicuratori non hanno alcun obbligo di mark-to-market, limitandosi a contabilizzare le perdite sui propri investimenti solo al momento in cui si verifica un default.
Immaginate cosa accadrebbe se, soprattutto negli Stati Uniti, gli assicurati maturassero il convicimento (non necessariamente fondato) che i loro premi assicurativi sono finiti in carta straccia. Partirebbero massicce richieste di rimborso delle polizze, che costringerebbero le assicurazioni a liquidare il proprio portafoglio di attivi, con una grave sfasatura temporale tra passività a breve (le richieste di rimborso) ed investimenti a lungo termine, non prontamente liquidabili. Anche in questo caso, ci troveremmo di fronte all’amletico dubbio: è una crisi di liquidità o di solvibilità? Se valesse la prima ipotesi (cioè gli strutturati in cui le assicurazioni-vita hanno investito sono solidi e pagheranno regolarmente interessi e capitale), il Tesoro potrebbe intervenire come fornitore di liquidità, ad esempio riassicurando le polizze-vita. In quel caso, il ricorso ai fondi del TARP per emettere le solite azioni privilegiate non avrebbe molto senso. Se invece gli attivi delle assicurazioni sono effettivamente finiti in CDO e Abs con speranze di recupero prossime allo zero, ci sarà bisogno di ben altro che una iniezione di capitale per 1-3 miliardi di dollari, ed anche le eventuali garanzie pubbliche sulle polizze non sarebbero delle passività non troppo contingenti ma maledettamente tangibili. Il tempo dirà, ma fin d’ora possiamo trarre la conclusione che, se i flussi di cassa sottostanti ad un titolo non esistono, non attuare il mark-to-market serve solo a rinviare la resa dei conti.
 

 

Fonte - Macromonitor

 

GM, bancarotta vicina?

14/04/2009 - di MIAECONOMIA
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Secondo quanto riportato dal New York Times di ieri il governo statunitense ha detto al colosso auto di prepararsi a essere dichiarata in fallimento, una mossa che dovrebbe pilotare il gruppo fuori dai debiti, nonostante GM abbia dichiarato di essere in grado di portare avanti e concludere una sua ristrutturazione.

Istruzioni in tal senso sarebbero state trasmesse dall'unità di crisi dell'amministrazione Obama, avviata per seguire il collasso dei big statunitensi del settore auto. I responsabili dell'unità avrebbero avuto ripetuti incontri con i vertici della GM a Detroit la scorsa settimana, sottolinea il New York Times, che cita come fonti persone vicine al caso, mentre non hanno rilasciato commenti né i vertici GM né gli esponenti del governo Usa.

Il quotidiano dice che si tratterebbe di un fallimento chirurgico e veloce, nel caso in cui GM non sia in grado di trovare una solida via d'uscita da qui ai primi di giugno. L'ipotesi che si fa strada - riporta la stampa americana - è di dividere in due il colosso di Detroit, riversando in uno le parti che non funzionano e in un altro le attività ancora in salute.

A quel punto la parte sana di GM non resterebbe che appena un paio di settimane sotto la protezione della legge federale sui fallimenti, anche perché riceverebbe una nuova iniezione da 5-7 miliardi di dollari da parte del governo, mentre le altre società verrebbero liquidate in tempi successivi, operazione che potrebbe costare allo Stato americano sui 70 miliardi.

Va ricordato del resto che GM ha già incassato 13,4 miliardi di aiuti pubblici, mentre solo le pressioni dello staff di Obama hanno convinto Rick Wagoner, lo storico leader del gruppo auto, a levare le tende e lasciare la poltrona di ad. Sullo sfondo, però, ci sono anche altre tensioni, perché gli obbligazionisti che hanno sottoscritto bond di GM si troverebbe con più classico dei cerini accesi in mano, per questo si stanno pronunciando contro una operazione di questo tipo.

Non è per niente escluso che, a mali estremi, possano arrivare a lanciare una causa legale per tutelarsi contro possibili perdite, alleandosi in questo senso ai creditori che bussano alla porta del gruppo.
 
 

Fonte - MIAECONOMIA

 

 

BANCHE: GOLDMAN SACHS TORNA ALL'UTILE

14 Aprile 2009 09:47 ROMA - di Il Sole 24 Ore
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A Wall Street c'è una banca che inizia a vedere la luce in fondo al tunnel della crisi. Si tratta della blasonatissima ex banca d'affari Goldman Sachs che ha archiviato il primo trimestre 2009 con utili per 1,81 miliardi di dollari o 3,39 dollari per azione, decisamente al di sopra delle attese degli analisti. L'ultimo trimestre del 2008 aveva registrato perdite per 2,12 miliardi.
Decisivo l'incremento del 13,1% del giro d'affari che ha raggiunto quota 9,43 miliardi. Forte di questi buoni risultati Goldman Sachs ha annunciato un aumento di capitale con un nuovo collocamento di titoli per 5 miliardi di dollari per restituire più facilmente i 10 miliardi di aiuti ricevuti nell'ambito del Tesoro tramite il Tarp (Troubled Asset Relief Program). Lo scorso settembre Goldman Sachs, fondata nel 1869, ottenne assieme a Morgan Stanley di mutare natura da banca d'affari a istituto tradizionale per salvarsi dalla bancarotta.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

David Copperfield è un dilettante

Tuesday, 14 April, 2009 at 14:44 - di Macromonitor

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Stellare performance del primo trimestre per Goldman Sachs, che ha letteralmente stracciato le stime di consenso sugli utili attesi. Con un impressionante contributo del trading su reddito fisso, materie prime e valute, l’utile netto del trimestre tocca 1,8 miliardi di dollari, più 20 per cento sullo stesso trimestre dello scorso anno: il doppio delle stime di consenso, pari a 3,39 dollari per azione, contrio attese per 1,59 dollari. Occhio a questo numero, ci servirà tra poco. La società procede ad un aumento di capitale per 5 miliardi di dollari, che contribuirà al rimborso dei 10 miliardi ottenuti dal TARP (l’altra metà verrà presumibilmente da utili non distribuiti). Tutto bene, quindi? Quasi, perché il diavolo si nasconde nei particolari.
Abbiamo detto di utili doppi rispetto al primo trimestre 2008. Peccato che quel primo trimestre corrisponda a mesi differenti: fino allo scorso esercizio, infatti, Goldman chiudeva i conti a novembre, pertanto il primo trimestre dell’anno era quello dicembre-febbraio. Da quest’anno primo quarto coincide col primo trimestre solare. Già questo indica che il confronto non è limpidissimo. Soprattutto considerando che il mese “orfano” (dicembre 2008) è stato il peggiore per entità delle perdite operative, pur considerando i pagamenti miliardari ricevuti da AIG sui contratti di credit default swap in essere. La nota al bilancio del primo trimestre 2009 segnala un dato inclusivo del mese orfano, e realizza un assai meno eclatante utile per azione di 1,24 dollari sul quadrimestre, frutto di una perdita di 2,15 dollari ad azione in dicembre, per complessivi 1,3 miliardi di dollari ante-imposte.
In pratica, il primo quadrimestre dell’esercizio è stato spostato in avanti di un mese, il confronto col primo trimestre dell’anno precedente è “strabico”, e il mese di maggiori perdite (dicembre 2008) è stato annegato nell’eccellente trimestre successivo. E la società è pure riuscita ad aumentare il monte retribuzioni e bonus, sottraendo 20 centesimi per azione rispetto alle stime di consenso! Ora manca solo l’assenso del Tesoro per il rimborso dei 10 miliardi del TARP. In astratto Geithner potrebbe cavillare e sostenere che tutti i dieci miliardi devono venire da mezzi propri freschi, soprattutto per un’azienda che riesce ad emettere debito solo ed esclusivamente grazie alle garanzie federali. Ma questi sono sofismi: il futuro è così luminoso che dobbiamo mettere gli occhiali da sole.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Auto: Fiat può aspettare, subito GM-Chrysler

15 Aprile 2009 20:21 MILANO - di Elysa Fazzino

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Invece di favorire l'ingresso di Fiat come azionista di minoranza di Chrysler, il governo Usa farebbe meglio a incoraggiare una fusione tra Chrysler e General Motors: è quanto suggerisce un'analisi di "Breakingviews", cuore dei commenti finanziari del New York Times. In un pezzo intitolato «Una fusione automobilistica potrebbe dare frutti», Rob Cox e Antony Currie sostengono che una fusione tra le due case automobilistiche americane, accompagnata da un taglio dei costi, rafforzerebbe in modo significativo il loro potenziale valore patrimoniale, con maggiore soddisfazione per i creditori.
Per Fiat «non tutto sarebbe perduto»: potrebbe prendersi qualche fabbrica Chrysler e un po' di lavoratori licenziati per costruire Alfa Romeo e Cinquecento, scrive il New York Times. «E non c'è ragione per cui l'ad di Fiat, Sergio Marchionne, non possa fare un'alleanza con la società nata dalla fusione Gm-Chrysler. Chissà? Potrebbe perfino avere una chance di fare il capo».
L'analisi di "Breakingviews" parte dalla constatazione che il governo Usa sta facendo pressione sui creditori di Gm e Chrysler perché aiutino a risanare i due produttori scambiando debito contro azioni. «Potrebbe funzionare se i creditori pensassero che le azioni valessero qualcosa. E così potrebbe essere – se le due aziende si fondessero ed eliminassero costi sostanziali».
«Il problema è che il governo sembra favorire l'ingresso di Fiat» in Chrysler. L'opzione è allettante perché lascerebbe Chrysler come un'azienda a sé, «in teoria preservando molti più posti di lavoro». «Ma nonostante i punti di forza di Fiat, che comprendono la competenza del management, c'è un modo migliore per arrivare a un'industria automobilistica americana» che sia in grado di operare in maniera soddisfacente. «Invece di prolungare il dubbio futuro di Chrysler come impresa indipendente, il governo dovrebbe fare il suo meglio per unire Gm e Chrysler». Nonostante i tagli compiuti finora, scrive il New York Times, resta il problema che i produttori automobilistici Usa producono troppe auto, ne vendono troppo poche e continuano a perdere quote di mercato. Una partnership tra Chrysler e Fiat, «non cambierebbe» questa situazione. Secondo il New York Times, mettere insieme Chrysler con Gm potrebbe invece cambiare le cose, con un risparmio di circa 30 miliardi di dollari, ben più dei 23 miliardi che Chrysler deve ai creditori di primo grado, governo e dipendenti.
Contrariamente al New York Times, il Washington Post sembra appoggiare l'orientamento dell'amministrazione Obama: «Gli Stati Uniti sperano che la rinascita Fiat possa essere un modello per Chrysler e contano sull'aiuto del Ceo italiano», ha titolato ieri il quotidiano della capitale Usa, che ha dedicato un ampio articolo a Marchionne. Il Washington Post cita una fonte dell'amministrazione, secondo cui l'ad di Fiat è un manager «non convenzionale, ma funziona»; «crediamo che sia l'uomo giusto in questo momento» per Chrysler. La Casa Bianca «è convinta che Marchionne possa fare per Chrysler quello che ha già fatto per Fiat».
«Raggiungere l'accordo entro la fine del mese è uno sforzo sovrumano», prosegue sul Washington Post Maryann Keller. «Le necessità finanziarie di Chrysler sono immediate, mentre l'introduzione di auto Fiat richiederà tempo». Le auto Fiat infatti dovranno essere riviste per rispettare le normative americane e gli stabilimenti Chrysler dovranno essere modificati. Le auto Fiat potrebbero non arrivare negli showroom americani prima del 2011. Secondo alcuni analisti, scrive ancora il Washington Post, «Marchionne sta posizionando la Fiat per farle rilevare asset di Chrysler nel caso in cui la società finisse in bancarotta».
Gli ostacoli del negoziato in corso con i creditori di Chrysler sono da giorni alla ribalta sui siti della stampa statunitense. «Il debito Chrysler potrebbe far deragliare l'accordo con Fiat, i fondi di salvataggio», titola oggi UsaToday. Il tempo stringe: Chrysler si sforza dir convincere i creditori a convertire la maggior parte del debito in azioni. E' un grosso ostacolo, che potrebbe far «ritardare o deragliare la partnership proposta», che il governo Usa ha ordinato sia completata per il 1.mo maggio. Il Chicago Tribune e altri media americani riportano sui loro siti il susseguirsi di titoli Ap: i colloqui con i creditori accelerano, in stallo Gm; i creditori di Chrysler preparano una controfferta dopo avere rifiutato l'offerta iniziale di tagliare il debito. Sulle controproposte attese questa settimana da parte dei creditori di Chrysler avevano scritto ampiamente ieri il Wall Street Journal e il New York Times. Quest'ultimo – e molti altri - ha registrato anche le indiscrezioni di Automotive News secondo cui, tra le opzioni in discussione tra Chrysler e Fiat, ci sarebbe la designazione di Marchionne come Ceo di Chrysler.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Immobili a Manhattan: un'opportunità che non si verificava da anni

16 Aprile 2009 22:19 NEW YORK - di *Andrea Danese

*Andrea Danese e' Managing Partner di Fifth Avenue Advisors LLC.

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Dopo alcuni anni di rapida crescita a ritmi del 10%-20% all’anno, il mercato residenziale di Manhattan e’ entrato in una nuova fase ricca di opportunita’. A fronte di uno sviluppo edilizio basato su proiezioni di crescita elaborate negli anni del boom ci si e’ trovati in un mercato che non ha mantenuto le aspettative entrando in un periodo recessivo con un significativo ribasso dei prezzi.

Analisi del Mercato
Al fine di comprendere il mercato immobiliare di Manhattan, vanno tenuti presenti alcuni fattori che ne differenziano il comportamento rispetto al mercato del resto degli Stati Uniti. La insularita’ di Manhattan e la conseguente mancanza di siti atti alla costruzione di nuovi edifici fa si’ che la domanda tenda ad eccedere l’offerta. Il limitato stock di investment properties (Condo), il grande afflusso di capitali dovuto alla presenza di professionisti altamente retribuiti, i tassi di interesse particolarmente bassi, fanno comprendere le ragioni del boom immobiliare degli ultimi anni.
Alcuni elementi hanno pero’ frenato la crescita dei prezzi e successivamente dato vita ad una crisi del mercato di ampie proporzioni. La crisi del credito e l’impossibilita’ di finanziare l’acquisizione di assets di qualsivoglia natura (inclusi quelli immobiliari) ha creato grossi problemi per un mercato abituato ad un uso della leva finanziaria fino al 90% del valore dell’immobile. La stretta creditizia (le banche ormai rararmente prestano piu’ del 65% del valore dell’immobile e per ammontari relativamente modesti) ha reso estremamente complesso l’acquisto di immobili per investitori che richiedono il finanziamento di una parte del prezzo di acquisto.
Un ulteriore elemento di preoccupazione e’ il numero di nuove unita’ abitative in costruzione (circa 35.000 tra il 2008 ed il 2010) e che non riescono ad essere assorbite da una domanda che negli anni del boom era pari a circa 12.000 unita’ all’anno e che oggi e’ scesa a circa 7.000 unita’. Questi fattori formano un quadro negativo dell’andamento dei prezzi a breve (6–12 mesi) e fanno prevedere un periodo di 3-4 anni prima che la domanda possa eccedere nuovamente l’offerta esaurendo l’inventario esistente.
Nel quarto trimestre del 2008 in numero di compravendite e’ sceso del 10% rispetto a quarto trimestre del 2007 ed il numero di immobili sul mercato e’ salito del 40%.
E’ importante chiarire che il mercato immobiliare di Manhattan resta isolato da quello che e’ l’andamento dei mercati suburban degli Stati Uniti. I pignoramenti di immobili e le vendite fallimentari sono praticamente inesistenti nell’area di Manhattan. Qui l’investitore acquista in un mercato che e’ in difficolta’ ma che al tempo stesso gode di un livello di ricchezza nettamente superiore a quello delle grandi citta’ come Miami o Las Vegas (mercati in larga parte fatti di seconde o terze case) o di zone prevalentemente abitate da ceti sociali medio bassi.
Questo deve rassicurare ulteriormente l’investitore che acquista in un mercato che sia dal punto di vista economico che da quello geografico (un isola con limitate opportunita’ di ulteriore sviluppo immobiliare), offre un limitato downside e speranze di ripresa.

Opportunita’ di Investimento
La significativa discesa dei prezzi degli ultimi 12 mesi (ormai le transazioni su immobili residenziali avvengono ad uno sconto del 30% rispetto ai picchi del mercato del 2006–2007) offre un’opportunita’ di investimento che non si presentava da parecchio. Il crollo dei prezzi ed una sostanziale tenuta degli affitti offrono una combinazione estremamente interessante per l’investitore di medio–lungo termine.
Sia nel caso di acquisto di immobili rivenduti da privati sia nel caso di immobili di nuova costruzione i parametri da utilizzare per determinare la validita’dell’investimento sono molto simili. Si tenga conto che il compratore beneficia da un lato della debolezza negoziale di venditori in difficolta’ e dall’altro di costruttori con inventario invenduto (in quest’ultimo caso acquisti in blocco di 2 o piu’ appartamenti posso essere fatti a prezzi molto vantaggiosi).
Elementi di valutazione dell’opportunita’ di investimento
1) Possibilita’ di acquistare al di sotto del valore medio per piede quadrato (ad oggi circa $1.250 per il mercato in generale e $1.900 per il mercato luxury) (11 piedi quadri equivalgono ad 1 metro quadro).
2) Stabilita’ del mercato degli affitti (i rendimenti lordi si aggirano intorno al 6%).
3) Possibilita’ di crescita di aree specifiche rispetto all’andamento generale del mercato immobiliare.
4) Durata dell’investimento (dai 5 ai 7 anni).
5) Finestra di opportunita’ tra i 12 ed i 18 mesi.
Conclusioni
Il congelamento del mercato con la marcata diminuzione del numero di transazioni offre una opportunita’ di investimento che non si verificava da anni. L’orizzonte temporale per gli investitori e’ di medio-lungo termine con aspettative di un recupero a partire dal 2011 e di un significativo upside in particolare per immobili in aree con un potenziale di crescita indipendente dall’andamento generale del mercato. All’apprezzamento del mercato si aggiunga l’attuale cambio Euro/Dollaro che ancora mantiene l’investitore in Euro in una posizione di favore.
 

Fonte - La Borsa & Finanza

 

 

 

  Sabato 11 Aprile 2009   Martedì 14 Aprile 2009   Venerdì 17 Aprile 2009  
       
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Il mercato dei cambi è influenzato dai fondamentali

Venerdì 17 Aprile 2009, 16:44 - di Giuseppe Ficara
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Il mercato dei cambi, ora come non mai, è influenzato dai fondamentali e quindi dalla condizione dell'economia a stelle e strisce e dalle decisioni future dei vertici della BcE per far fronte alla crisi nell'Unione Europea.
La conclusione a cui si arriva guardando gli eventi di questa settimana vede un mercato che non riesce ancora a prendere una direzione precisa e che resta in balia dei dati macroeconomici giorno per giorno; dopo il discorso del capo della BcE riguardante le prossime decisioni da prendere nel meeting di maggio.
Trichet ha confermato che al meeting del prossimo mese la Bce annuncerà le proprie decisioni in materia di "misure non standard" per rilanciare l'economia europea; queste le parole del numero uno della BcE “è importante non creare o incoraggiare aspettative, ma siate sicuri - ha aggiunto - che le nostre decisioni prenderanno pienamente in considerazione la struttura di finanziamento dell'economia della zona dell'euro e sarà pienamente in linea con la nostra strategia a medio termine”.
Dello stesso avviso il numero uno di Bundesbank Weber, che ha dichiarato che in Germania il primo trimestre potrebbe essere peggiore del quarto trimestre 2008, andamento che dovrebbe continuare per tutto l'anno, per poi tornare a crescere nel corso del 2010 confermando la sua posizione sul tema tassi e manovre non convenzionali: la Bce dovrebbe fissare una sorta di livello di medio termine del tasso di riferimento e contestualmente annunciare (già nel prossimo meeting di maggio) un pacchetto di manovre non convenzionali che includerebbero le modalità di funzionamento delle operazioni di rifinanziamento oltre all'allungamento delle relative scadenze.
La reazione del mercato valutario non si è fatta attendere e le parole di Trichet hanno dato una forte spinta a ribasso alla valuta unica europea che ha perso posizioni in tutti i cross più importanti; non ha fatto eccezione a questa tendenza neanche l'Eur/Usd che ha testato quota 1,3065 confermando il rafforzamento della valuta statunitense che da fine marzo ha cominciato un ritracciamento che potrebbe arrivare nei prossimi giorni a testare le resistenze poste a 1,2980.
Dando una rapida occhiata alle altre valute conferma il proprio periodo di recupero la Sterlina che, soprattutto contro Euro e Franco Svizzera ha continuato a guadagnare posizioni, portandosi rispettivamente a 0.8795 e 1,7301.
Se dovessero essere rotti i supporti a 0,8792 e 1,7347 allora potremmo assistere ad un movimento fortemente ribassista; per quel che riguarda lo Yen gli ultimi giorni sono stati abbastanza interlocutori ed i cross interessati non sembrano voler prendere una direzione precisa, emblematico il caso del cross Eur/Jpy che si trova di fronte ad un possibile scenario ribassista nel breve-medio periodo con un forte tendenza rialzista invece in un orizzonte temporale più lungo.
Nonostante la volatilità sul mercato sia diminuita nelle ultime settimane rimangono comunque molte occasioni per aprire posizioni intra-day grazie alla grande quantità di dati macroeconomici in agenda; per la prossima settimana segnaliamo la pubblicazione dell'indice ZEW tedesco e il CPI britannico martedì, la disoccupazione ed il settore immobiliare statunitense giovedì e l'indice IFO europeo venerdì.
 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

Bernanke: «Supervisionare i prodotti finanziari complessi»

18 aprile 2009 - di Il Sole24Ore
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Gli effetti dello scoppio della "bolla" del credito, conseguenza della crisi dei subprime, «si faranno sentire a lungo» negli Stati Uniti a livello di minor benessere delle famiglie, peggioramento della solvibilità e perdita della proprietà immobiliare. Lo ha detto il presidente della Riserva Federale Usa, Ben Bernanke, in un discorso concentrato sulla tutela dei consumatori. Il presidente della Fed sostiene che occorre supervisionare quei prodotti finanziari che sono diventati troppo complessi. «La sfida per le autorità di regolamentazione - dice - è quella di trovare il giusto equilibrio: sforzarsi di ottenere il più alto standard di protezione dei consumatori senza eliminare i benefici effetti di una responsabile innovazione nelle scelte dei consumatori e nell'accesso al credito». «In certi casi - aggiunge - una regolamentazione diretta, inclusa la proibizione di certe pratiche potrebbe essere la sola strada percorribile per fornire un'appropriata protezione».

In pratica Bernanke difende l'innovazione in campo finanziario, ma condanna e invita a regolare quelle prassi che mirano a confondere i consumatori e a creare ad arte una confusione che in realtà serve solo a mascherare le alte parcelle di chi emette i prodotti finanziari. Tra prodotti iniqui ed ingannevoli Bernanke cita alcune pratiche adottate sul mercato dei subprime e quelle carte di credito che prolungano deliberatamente alti tassi d'interesse. «La regolamentazione - dice - non deve impedire l'innovazione ma deve assicurare che l'innovazione sia sufficientemente trasparente e comprensibile per consentire ai consumatori di scegliere buone rendite di mercato». In sostanza la regolamentazione va introdotta «quando la complessità arriva al punto di ridurre la trasparenza, di impedire la concorrenza e di indurre i consumatori a scelte sbagliate. E anche, in alcuni casi, quando la complessità serve solo a nascondere pratiche che sono inique ed ingannevoli». «Il danno - conclude Bernanke - in termini di perdita di benessere, perdita di abitazioni e perdita di credibilità per le istituzioni creditizie è destinato a durare a lungo».
 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

CARTE DI CREDITO, CASA BIANCA CONTRO OGNI ABUSO

20 Aprile 2009 16:39 NEW YORK - di WSI
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Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama rivolgera' presto la sua attenzione agli alti tassi di interesse delle carte di credito, aumentando gli sforzi del Congresso diretti a imporre dei limiti all'industria.
Obama "si concentrera' molto, nel brevissimo termine, su tutte le questioni che riguardano gli abusi legati alle carte di credito", ha dichiarato domenica in un'intervista alla NBC il consulente economico Larry Summers. Per abusi, Summers ha precisato di riferirsi, tra gli altri, all'applicazione di "interessi straordinariamente alti, che i consumatori non avrebbero pagato se solo avessero saputo in cosa andavano incontro". Giovedi' Summers e' atteso ad un incontro alla Casa Bianca con i capi di una serie di societa' statunitensi delle carte di credito.
I deputati Democratici hanno gia' iniziato a mettere a punto una legge per porre delle restrizioni ad alcune delle tariffe sulle carte di credito e ad altre pratiche. Non e' pero' ancora chiaro se e come gli sforzi compiuti dalla Casa Bianca potrebbero differenziarsi da quelle misure proposte dal Repubblicano Carolyn Maloney dello stato di New York e dal senatore Christopher Dodd del Connecticut.
La portavoce della Casa Bianca Jen Psaki si e' rifiutata di entrare nel dettaglio, evitando di segnalare quali iniziative specifiche potrebbero essere prese dall'amministrazione. "Combattere gli abusi che avvengono nell'industria delle carte di credito e schierarsi in difesa dei consumatori e' una priorita' del presidente e del suo team di economisti, e non vediamo l'ora di lavorare con il Congresso su questi temi".
Nelle ultime settimane le banche sono state sottoposte ad un numero sempre maggiore di pressioni per interrompere i progressivi aumenti degli interessi sulle carte di credito. I gruppi in difesa dei consumatori hanno chiesto che la legge limiti gli incrementi dei tassi di interesse sui bilanci esistenti e che obblighi le societa' ad offrire informazioni piu' dettagliate sui loro tassi.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

Effetto "maquillage" sui bilanci bancari

18 aprile 2009 - di Morya Longo
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Se esistessero chirurghi estetici per bilanci bancari, quest'anno avrebbero certamente fatto fortuna. Dall'America all'Europa, alcuni big del credito hanno infatti cercato di abbellire i conti di questo anno di crisi. Goldman Sachs ha fatto miracolosamente "sparire" il disastroso mese di dicembre (che ha registrato 780 milioni di perdite) sia dal bilancio 2008, sia dalla prima trimestrale 2009. Una magia? No: è bastato cambiare l'anno fiscale di riferimento. Deutsche Bank, come d'incanto, ha invece ridotto la leva finanziaria da 69 a 28 volte nei conti 2008. Un'altra magia? No: è bastato passare dai principi contabili europei, con cui è redatto il bilancio, a quelli Usa. Jp Morgan e Wells Fargo hanno invece inventato – e messo in bella mostra – gli utili «prima delle tasse e prima degli accantonamenti»: indicatore mai divulgato prima e non previsto dai principi contabili. Piccoli trucchi, potrebbe pensare qualcuno. Informazioni aggiuntive date in modo trasparente, replicano le banche. Tutto lecito, certo. Ma di fatto nei bilanci 2008 e nei conti trimestrali 2009 alcune banche hanno mostrato il più possibile il famoso «bicchiere mezzo pieno». Che dire: nei mesi in cui i manager sono messi sotto tiro per i loro lauti compensi, un po' di sano lifting non fa male.

Il caso più eclatante è quello di Goldman Sachs. Se si legge il comunicato stampa sui conti, si scopre che la banca ha chiuso il primo trimestre del 2009 (cioè il periodo gennaio-marzo) con 1,81 miliardi di dollari di utili. Il quarto trimestre 2008 (che la banca chiude il 28 novembre) era invece terminato con una perdita di 2,1 miliardi. Una domanda sorge spontanea: se il quarto trimestre 2008 è terminato a novembre e il primo del 2009 è iniziato a gennaio, che fine ha fatto dicembre? Sparito. Anzi: relegato nelle tabelle a pagina 10 del comunicato, in cui si scopre che in un solo mese Goldman Sachs ha perso 780 milioni di dollari. Ecco cosa è successo. La banca americana ha sempre chiuso i bilanci a novembre, perché aveva un anno fiscale sfasato rispetto all'anno solare. Proprio quest'anno, dopo aver terminato l'esercizio 2008 regolarmente a novembre, ha però pensato di cambiare. Il calcolo della trimestrale è dunque ripartito da gennaio. Così i 780 milioni di dollari persi a dicembre sono usciti sia dal bilancio, sia dalla trimestrale. Ma sono entrati in un mini-bilancio di un solo mese, passato probabilmente inosservato al mercato. Insomma: Goldman ha creato una sorta di «bad bank» per il mese di dicembre. «Il Sole-24 Ore» ha contattato la banca, nella sua sede americana. Ma la portavoce non ha dato spiegazioni. Al «Wall Street Journal» qualche giorno fa aveva però detto che il cambio di anno fiscale è legato alla trasformazione da investment bank a banca commerciale.

Deutsche Bank il bicchiere mezzo pieno è andata a cercarlo in America. A febbraio il gruppo tedesco ha comunicato i conti di fine 2008, redatti con i principi contabili europei. Ovvio, si dirà: Deutsche Bank è una banca europea. Peccato, però, che la leva finanziaria – un importante indicatore per capire la solidità di una banca – l'ha calcolato con i ben più favorevoli principi americani. Morale: la leva, che sarebbe stata di 69 volte, è calata a 28. Ma nel comunicato stampa sui conti, questo cambio di principi contabili non è evidenziato. Anzi: il numero uno di Deutsche Bank, Joseph Ackermann, si vanta di aver ridotto la leva «ben oltre gli obiettivi preventivati».
Diverso ancora il caso di Jp Morgan e Wells Fargo. I due istituti hanno inserito nel comunicato sui conti – oltre ai tradizionali utili netti – anche i profitti «prima delle tasse e degli accantonamenti». Peccato che gli accantonamenti, nell'anno della crisi dei mutui subprime, siano il peso principale per i bilanci bancari: comunicare gli utili prima delle rettifiche, insomma, è un po' come definire un uomo obeso «un magro prima di ingrassare di 100 chili». Ma il portavoce di Jp Morgan spiega il motivo: «L'idea è di essere più trasparenti sulla capacità di generare utili della banca». Insomma: Jp Morgan vuole dare un'informazione in più al mercato, per far vedere quanti utili è effettivamente riuscita a generare. E in effetti non aveva bisogno di "abbellire" il bilancio trimestrale, chiuso con 2,1 miliardi di dollari di utili netti. Come, in fondo, non ne aveva bisogno Goldman Sachs. Forse, dunque, questi "aggiustamenti" sono solo casuali. Certo è che, per gli investitori, sono difficili da scovare.
 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

 

 

 

 

  La riscossa delle Borse é ancora lontana

20 Aprile 2009 01:45 MILANO - di La Repubblica

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Quando nel 1919 Charlie Chaplin e alcuni suoi amici fondarono la United Artists per fare in proprio i film a cui tenevano, i capi delle case di produzione commentarono acidi: «Poveri noi, i matti si sono impossessati del manicomio». Qualcosa del genere si potrebbe dire, oggi, a proposito dell´attuale rally di Borsa: i matti si sono impadroniti del mercato.

Per rendersene conto, bastano poche riflessioni. Fra i protagonisti più accesi del rialzo ci sono tutti i vecchi shortisti di ieri. Presi in contropiede (perché pensavano che i listini sprofondassero sottoterra), adesso sono costretti a ricomprare in fretta i titoli che avevano venduto per ricoprirsi: in caso contrario rischiano di saltare per aria (ma forse qualcuno salterà lo stesso). E´ tutta gente, insomma, che sta lì in un equilibrio abbastanza instabile e che quindi, non appena se ne presentasse l´occasione, regolerebbe i conti con questo mercato che li ha traditi, mandandolo a picco nel giro di appena un paio di sedute. Questo rialzo, cioè, è un po´ come quel tale che attraversava il fiume su una barca, ma in compagnia dell´elefante: non è detto che arrivi dall´altra parte.
La seconda categoria di persone (e istituzioni) che si distingue in questo rialzo è quella fatta dai soggetti che, avendo perso tutto quello che potevano perdere nel ribasso precedente, adesso hanno paura di arrivare troppo tardi sul rialzo e quindi si affrettano a comprare qualsiasi cosa.
Il tutto, infine, sta appoggiato su mezze verità e palesi bugie. Queste ultime sono rappresentate dai bilanci delle grandi banche americane (protagoniste, a suo tempo, del crac). Banche che oggi si presentano (miracolosamente) con bilanci in utile e in qualche caso addirittura smaglianti, cosa che ha fatto da carburante all´ottimismo dei mercati (e che ha preso in contropiede gli shortisti). Peccato che quei bilanci così fascinosi siano tutti falsi, dal primo all´ultimo. Frutto non tanto di una buona e rinnovata gestione, ma semplicemente di nuove regole contabili. Regole fatte apposta per consentire ai banchieri di chiudere un occhio sulle loro recenti malefatte.
In realtà, le grandi banche americane non si sono affatto risanate, fa solo comodo dire che è così. E sembra che dentro abbiano ancora tonnellate di roba marcia, di titoli tossici. Inoltre, continua il traffico sui tanto deprecati titoli derivati: insomma, più o meno come «prima» dello scoppio del caos. Infine, si dice che la Grande Crisi ha ormai i giorni contati. E questa è un´altra mezza bugia. La recessione non durerà ancora dieci anni, questo no. Ma parecchi mesi sì. Per l´Italia, ad esempio, è quasi certo che la produzione industriale continuerà a calare almeno fino a agosto. Dopo, forse, arriveranno piccoli segnali di inversione di rotta, ma niente di clamoroso. La disoccupazione rimarrà alta (e i consumi bassi).
E l´economia italiana, invece, volerà bassa per anni. E questo perché il nostro principale partner in affari (la Germania) crescerà molto poco per un certo numero di anni, grosso modo sotto la linea del 2 per cento. Insomma, è vero che stiamo uscendo dalla crisi, ma non lo stiamo facendo puliti e lindi come si dovrebbe. Ci trasciniamo dietro un bel po´ dello sporco accumulato negli anni passati e non stiamo correndo verso un nuovo Eldorado, ma verso una stagione che nei primi anni sarà difficile e faticosa, deludente. E, dietro le quinte, ci sono gli shortisti di ieri, sempre pronti a dare una botta in testa a questo mercato e a sistemare i conti una volta per tutte. C´è chi dice che il momento buono arriverà verso maggio-giugno, e c´è chi sostiene che lo stop è ancora più vicino.
I mercati sono bizzarri e imprevedibili per loro natura, e quindi non resta che stare a vedere. Ma questi non sembrano proprio tempi per una lunga e orgogliosa riscossa dei listini.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Come si possono conciliare Borse in rialzo e PIL striminziti?

20 Aprile 2009 02:06 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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Se è lecita la festa del Rallentamento (della caduta), lo saranno ancora di più la festa della Stabilità e quella della Ripresina. Se la festa del Rallentamento in corso da otto settimane fa un altro piccolo sforzo le borse si riportano al livello di inizio anno.
Se la festa del Rallentamento si salda senza soluzione di continuità con la festa della Stabilità (che quest’anno cadrà d’estate) e questa a sua volta prosegue in fase rave nel party della Ripresina le borse chiudono il 2009 in forte rialzo.
Il Pil mondiale, però, a fine anno sarà più piccolo in quasi tutto il mondo rispetto a inizio 2009, anche se il secondo semestre avrà segno positivo. Si possono avere insieme un Pil rimpicciolito e borse in forte rialzo? Tutto è possibile, naturalmente, ma sembra più ragionevole ipotizzare che il recupero delle borse si fermi a un 10-15 per cento dicembre su gennaio.
Perché un rialzo se il Pil va nel senso opposto? Per due motivi. Il primo è il venire meno di quell’enorme premio per l’incertezza richiesto dai mercati nei mesi più bui della crisi. Ci si dimentica in fretta delle cose, ma una ventina di settimane si riteneva possibile non rivedere mai più i soldi depositati in banca. Una quindicina di settimane fa si pensava impossibile riuscire a rifinanziare l’enorme montagna di debiti in scadenza delle banche e delle grandi imprese. Una decina di settimane fa si discuteva del possibile tracollo del sistema, del default dell’Est Europeo e di metà degli stati dell’Europa occidentale.
Oggi non tutto è risolto, molte cose sono anche più fragili di come appaiono (con il perfido Buiter che insinua che gli swap valutari tra banche centrali d’inizio aprile sono serviti a salvare dall’insolvenza il Regno Unito), ma i mercati adesso sono angosciati per l’inflazione prossima ventura.
Come dire che chi si vedeva sul punto di morire di fame è ora preoccupatissimo di doversi mettere a dieta. E chiede ansiosamente titoli rigorosamente indicizzati all’inflazione anche su scadenze di 12-18 mesi, quando dell’inflazione non si vedrà neanche l’ombra e quando i trentennali se ne stanno tranquillissimi con i loro alti rendimenti e il sostegno esplicito delle banche centrali.
C’è angoscia e angoscia, insomma. Quella di oggi è un’angoscia poco angosciosa. La seconda ragione per cui borse in rialzo sono conciliabili con un Pil più piccolo è che gli utili (o quanto meno i margini) potrebbero non essere così orribili come si era pensato.
Si dice sempre che i tagli di occupazione, di produzione, di scorte e di investimenti da parte delle imprese (così come i tagli di consumi decisi dai privati) hanno conseguenze drammatiche a livello di sistema. Si è però detto di meno che questi tagli, per le singole imprese, significano difesa dei margini. Ricordiamo quello che successe dopo l’11 settembre. Le imprese, sotto shock per il terribile nuovo mondo che sembrava profilarsi, cessarono istantaneamente di assumere e di investire e licenziarono parecchio. La produttività esplose e i margini si difesero meglio che nelle crisi precedenti. Quando iniziò la ripresa, le imprese assunsero pochissimo. Fu la seconda jobless recovery (la prima fu quella che costò la rielezione a Bush padre e la terza sarà la prossima). Il risultato della ripresa senza nuovi posti di lavoro fu un nuovo massimo dei margini di profitto.
Negli anni del dopobolla, 2001 e 2002, era diventato un luogo comune dire che mai più si sarebbero rivisti gli alti margini di fine anni Novanta (così come qualsiasi persona civile doveva affermare che le borse non avrebbero rivisto i massimi per moltissimi anni). In realtà i margini negli anni successivi risalirono verso i massimi molto velocemente.
Nella crisi attuale la reazione delle imprese è stata ancora più violenta che all’indomani dell’11 settembre. Il motivo non è stato filosofico (l’adozione generalizzata del divieto di produrre per il magazzino), ma il fatto terribilmente concreto che qualunque direttore finanziario abbia provato in questi mesi a chiedere alle banche qualche soldo in più per finanziare le scorte si è sentito rispondere che i soldi, semmai, doveva restituirli lui. Il credit crunch ha costretto le imprese a una reazione fulminea che da una parte ha fatto precipitare la crisi economica, ma dall’altra ha salvato il conto economico.
Molti economisti e strategist sostengono che il fatto che i margini siano oggi più alti rispetto alla media di lungo periodo (in tempi di crisi sono simili ai margini in tempi di espansione di gran parte del dopoguerra) significa che non potranno che scendere. A noi sembra invece che, con punti di pareggio abbassati drasticamente grazie alle ristrutturazioni, alla prossima ripresa potremo vedere di nuovo, tra le imprese sopravissute alla crisi, livelli di marginalità molto buoni.
Molti dicono che senza leva questo sarà impossibile. Dopo tutto, sostengono, il miglioramento dei margini degli ultimi 15 anni non è stato dovuto alla particolare abilità dei manager ma al banale fatto che hanno usato più leva. Senza leva non c’è Mba a Harvard che tenga e i grandi manager tornano comuni mortali.
Ora non è vero che le grandi imprese tradizionali abbiano tutte usato leve lunghissime. Qualcuna l’ha fatto, molte no. Guardando ai colossi per capitalizzazione (nella tecnologia e nell’energia, ad esempio) si scopre che quasi tutti hanno sempre tenuto molta cassa, non molto debito. Quanti bond Microsoft ci sono in giro?
Chi ha usato e abusato della leva del debito sono come è ben noto le banche. Da qui il discorso che ogni persona per bene deve fare di questi tempi e cioè che il Roe delle banche mai e poi mai ritornerà ai livelli gonfiati dagli steroidi degli anni scorsi. In realtà il caso vuole che tra le grandi banche che hanno già riportato gli utili ve ne siano di quelle che hanno oggi una leva ridotta a un terzo rispetto agli anni scorsi e un Roe di 14, non lontano da quello dei tempi d’oro. Volendo si può.
Venendo ora ai limiti che conterranno il rialzo di borsa in proporzioni contenute, il primo, già citato, è il Pil. La festa del Rallentamento celebra il passaggio dal meno 5 per cento annualizzato del primo trimestre (America ed Europa, in Giappone è molto peggio) al meno 3 del secondo. La festa della Stabilità celebrerà la crescita zero del terzo trimestre e la festa della Ripresina canterà il più uno o più due del quarto.
Di per sé non è materiale euforizzante. Le feste, quindi, dovranno essere intervallate tra loro con periodi di consolidamento. Con un Pil a meno tre la festa del Rallentamento non può proseguire a lungo. Potremo vedere i mercati restare per qualche tempo ai livelli attuali, ma il flusso di dati (come le vendite al dettaglio di ieri o la produzione industriale di oggi) riporterà tutti con i piedi per terra e prima o poi produrrà una correzione. Molto probabilmente non vedremo più nuovi minimi e nemmeno testeremo quelli di marzo. Un ritracciamento di un terzo del rally di queste settimane potrebbe essere sufficiente.
A fine anno, poi, gli ardori saranno contenuti da un 2010 che partirà più debole dell’ultima fase del 2009. Lo stimolo fiscale, infatti, a un certo punto verrà meno. C’è però una speranza. Nuovi ulteriori pacchetti fiscali potrebbero essere varati in autunno a valere sull’anno prossimo. Non sarà facile, in un clima di ripresina, convincere opinioni pubbliche e classi politiche già oggi spaventate dai disavanzi pubblici in crescita veloce a decidere altre spese, ma da qui ad allora il vento populista (niente soldi ai banchieri e alle imprese) e virtuoso (torniamo al rigore fiscale) sarà forse calato.
Operativamente continuiamo a confidare nella possibilità di comprare azioni a un prezzo più basso dell’attuale. Ma non molto più basso.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

  Mercati: ancora un +25% per ammazzare l'orso

20 Aprile 2009 20:02 BIELLA - di *Maurizio Milano

*Maurizio Milano e' il responsabile dell'Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella.

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I mercati azionari archiviano la sesta settimana consecutiva di sostenuti rialzi. Dai minimi del 6-9 marzo, i recuperi messi a segno dai principali indici azionari mondiali sono stati superiori al 30%, con picchi per alcuni indici – come l’italiano S&PMib – attorno al +50%. Il calo della volatilità implicita, ridiscesa sui livelli di fine settembre 2008, precedenti al crash di ottobre-novembre, conferma il sentiment positivo del mercato. Va sottolineato, oltre al calo del Vix (volatilità S&P500) sotto il supporto critico in area 35-37 (a fine ottobre aveva toccato un massimo storico a 89,53), sia l’assestamento in atto da inizio aprile del Vix stesso al di sotto del Vxn (volatilità Nasdaq). Ciò conferma il rasserenamento del settore finanziario – le cui difficoltà sono all’origine della crisi in atto – condizione essenziale per un recupero stabile anche del resto del listino.
I rialzi da record dei settori che erano stati più penalizzati, come l’auto ed il bancario (negli Usa rispettivamente +118% e +126% dai minimi) confermano il miglioramento del quadro tecnico, almeno in ottica tattica. Dopo rialzi così forti, sembra probabile l’inizio di una fase di consolidamento/riaccumulazione, che le prese di beneficio in apertura di ottava lasciano intravedere. Anche se è prematuro affermare che i minimi di inizio marzo sono stati "il" minimo del bear market, il rally in corso sembra comunque non avere ancora espresso pienamente tutte le proprie potenzialità. Terminata la pausa di assestamento in corso, gli acquisti dovrebbero poi riprendere, verso i livelli di fine settembre 2008, cioè un 25-30% al di sopra dei livelli correnti. Solo il superamento di tali livelli chiave di resistenza consentirà poi di dire che l’orso è davvero morto.
Al momento l’ottimismo in ottica tattica si inserisce infatti in un quadro tecnico ancora fragile ed incerto in ottica strategica. A breve, per le prossime settimane, c’è ancora spazio di salita, ma al raggiungimento degli obiettivi sarà quindi opportuno tener conto del quadro tecnico più ampio e prendere beneficio degli utili realizzati. Finché gli indici continuano a sviluppare massimi e minimi crescenti, il rimbalzo continuerà comunque ad auto-alimentarsi: prezzi via via crescenti "costringono" i gestori, anche quelli più prudenti o scettici, a ridurre la sottoesposizione rispetto al benchmark di riferimento ed a comprare.
Fino a quando? Non è possibile indicare un limite di tempo, ma è ragionevole pensare che i livelli di fine settembre rappresenteranno un muro difficilmente superabile dal mercato per molti mesi a venire. Se però da quei livelli le prese di beneficio non riporteranno gli indici al di sotto dei prezzi raggiunti nell’ultima ottava – corrispondenti alla prima "gamba" del rally – potremo poi affermare che i minimi di inizio marzo sono davvero da considerarsi come "il" minimo del mercato azionario.
Per le prossime sedute, al fine di mantenere un’impostazione tonica, gli indici azionari devono mantenersi sopra i seguenti supporti: 1600 (estensioni 1550) per il Nasdaq Composite; 7750 (estensioni 7500) per il Dow Jones Industrial; 840 (estensioni 800/15) per l’S&P500; 2200/50 per il DJEurostoxx50; 17000/200 per l’S&PMib. Gli obiettivi della seconda "gamba" del rally, nelle settimane a venire, sono individuabili a: 1900, 9650/800, 935/45, 2500-2625 e 21000, rispettivamente.
Se il rally azionario proseguirà nelle prossime settimane, è probabile che sarà accompagnato da prese di beneficio sul comparto obbligazionario. Sul decennale, sia in Europa che negli Usa, esauritasi la fase di consolidamento in atto sull’azionario potremmo poi assistere ad un calo dei corsi obbligazionari di un 2-3% dai livelli correnti, e tale flusso in uscita potrebbe alimentare il rimbalzo azionario. Correzioni più marcate sono però improbabili, visto il supporto ai corsi fornito dalle politiche di quantitative easing perseguite dalle principali Banche centrali.
A livello valutario, per le prossime settimane il dollaro dovrebbe rimanere in una situazione laterale/moderatamente positiva, con possibili movimenti, contro euro, verso la parte bassa dell’intervallo 1,2700 – 1,3400. Contro yen, l’apprezzamento del dollaro in atto da circa 3 mesi incontra una prima resistenza a 101,50 e quindi una forte resistenza in area 103,75-104.
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di stabilizzazione/moderata positività in essere da fine dicembre – che interrompe una forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua anche per le prossime settimane. Apprezzamenti marcati del petrolio (prezzo corrente crude: 48; forte resistenza a 55) e delle altre materie prime (prezzo corrente indice CRB: 225; resistenza 246) scatterebbero solo nel caso riprenda il rally dell’azionario. Uno storno dell’azionario potrebbe invece portare a prese di beneficio, che non dovrebbero comunque essere marcate. Per l’oro (prezzo corrente oro spot 877), uno storno dell’azionario potrebbe consentire un rimbalzo verso 930/40, ma un segnale di maggiori apprezzamenti si avrebbe solo sopra 960/67 (poco probabile); al di sotto di 860 continuerebbe la correzione in atto, con obiettivo 845 ed estensioni verso il supporto critico ad 800.
 

Fonte - Gruppo Banca Sella

 

 

 

  Metà bond e metà azioni. Finché la nebbia non si dirada

20 Aprile 2009 22:42 NEW YORK - di *David Kotok

*David Kotok e' stato tra i fondatori, nel 1973, della società Cumberland Advisor, dove dall’inizio ricopre il ruolo di responsabile degli investimenti. I suoi articoli e commenti sono apparsi su «The New York Times», «The Wall Street Journal» e «Barron’s». Cumberland Advisor (www.cumber.com) ha sede a Vineland, New Jersey (Usa).

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Ci sono diversi segnali favorevoli per giustificare la tenuta del rally: alcuni settori del mercato del credito (i tassi dei commercial paper piuttosto che l’andamento dei fondi monetari) stanno migliorando. E quando la politica della Fed è stata applicata con la dovuta precisione, i risultati sono stati molto efficaci. C’è ragione di credere che Ben Bernanke, con la stessa strategia, si concentri sul credito al consumo e sui mutui. Non mancano nemmeno le note negative. Il Libor a tre mesi resta 100 punti base sopra l’Ois (Overnight Index Swaps). Ovvero le banche continuano a non fidarsi l’una dell’altra, al punto che molti istituti preferiscono posteggiare la liquidità presso la Fed allo 0,25% piuttosto che prestarla ad altre banche all’1,25 per cento.
Un altro segnale negativo riguarda la forbice tra i prestiti corporate. Gli spread nei tassi dei corporate bond sono un termometro molto sensibile, che ha anticipato tra l’altro la crisi del 2007-08. Ora lo spread segnala l’aumento della disoccupazione. In effetti, le previsioni ci dicono che, prima della fine della recessione, si perderanno altri sette milioni di posti, oltre ai cinque milioni già sfumati. È quanto sostiene un eccellente lavoro di Simon Gilchrist e Vladimir Yankov pubblicato sul Journal of Monetary Economics.

È un testo che mi ha molto preoccupato. Di solito, le statistiche sul lavoro sono considerate un «indicatore ritardato»: la disoccupazione cresce anche dopo che è stato toccato il fondo e che la ripresa è partita. Allo stesso modo, il numero dei senza lavoro tocca il suo minimo dopo che l’economia ha già perso velocità. Qualcosa del genere capita ai profitti: la crescita più rapida si verifica al momento dell’uscita dalla recessione e all’avvio della ripresa: le aziende sopravvissute sono più snelle e flessibili, pronte a sfruttare le opportunità del mercato.
Ma prima di riassumere i lavoratori allontanati, le società puntano a investire per aumentare la produttività dei dipendenti rimasti. È il motivo per cui la tecnologia emerge così bene in tempo di recessione. Ed è il motivo per cui noi di Cumberland puntiamo sul settore tech, con un occhio di riguardo particolare al software.
La storia ci dirà se quello del 9 marzo è stato proprio il minimo assoluto. E se il termometro dei posti di lavoro è un indicatore tardivo o meno. La mia impressione, però, è che la situazione sia ben diversa. Noi stiamo investendo come se questo rally fosse solido e capace di correre sulle proprie gambe: una ripresa a V, insomma, in cui il punto più basso è stato toccato il 9 marzo. Ma il timore è che si stia piuttosto vivendo un movimento a W. Insomma, la gamba ascendente della V può essere la seconda discendente della W. Per questo motivo è di rigore stare molto attenti, pronti a cambiar strategia se dai dati lanceranno l’allarme.
Il tasso di disoccupazione in Usa è oggi dell’8,5%. E sta salendo. La maggior parte delle previsioni indicano che crescerà ancora fino al 9,5-10%, tra sei mesi o un anno. Dopo, il numero dei senza lavoro comincerà a scendere lentamente. Non dimenticate che questi dati sono raddoppiati in un anno solo. Non molto tempo fa il tasso di disoccupazione Usa era del 4%. Lo shock, insomma, è stato violento, ed è quel che mi preoccupa di più. Anche perché se l’indicazione degli spread dei corporate bond è corretta, la disoccupazione dovrebbe salire oltre il 10%.
Certo, esiste il lavoro nero. Si parla di una cifra tra i 7 e i 12 milioni di occupati clandestini nell’edilizia o nei servizi. Sappiamo dei trucchi per aggirare le norme sull’occupazione, sia nei momenti di boom che di depressione, cosa che toglie parte del valore alle statistiche. Ma, anche a tener conto dei vari correttivi (tipo quelli adottati da Ned Davis Research) emerge una situazione molto difficile.
Il tasso reale di sottoccupazione, poi, si aggira sul 16%, un record assoluto. C’è una bella differenza tra un posto di manager di medio livello, a 80mila dollari e un impiego in un ufficio da 15 dollari l’ora. È un fenomeno, questo, che sta avendo un forte impatto sui redditi familiari.
Insomma, a tirar le somme emerge che il rally iniziato il 9 marzo può essere sia a V sia a doppia W. Non saprei dire: ci sono segnali a favore sia dell’una che dell’altra tesi. Perciò resto bilanciato a metà: 50% azioni, 50% in bond. Nel breve l’umore è a favore delle azioni. E i T-bond, a questi prezzi vanno venduti. Meglio i corporate a rating elevato e i bond municipali.
 

Fonte - La Borsa & Finanza

 

 

 

  Sabato 18 Aprile 2009   Lunedì 20 Aprile 2009   Giovedì 23 Aprile 2009  
       
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FREDDIE MAC: IL CFO SI E' IMPICCATO

22 Aprile 2009 16:27 NEW YORK - di APCOM
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David Kellerman, a capo del settore finanze della societa' americana di mutui ipotecari Freddie Mac, e' stato trovato morto nella sua abitazione, in quello che secondo la polizia sarebbe stato un suicidio. Stando alle ultime indiscrezioni, riportate dall'emittente statunitense Cnbc, l'uomo si sarebbe ammazzato impiccandosi.
Freddie Mac e' una società a controllo governativo che insieme a Fannie Mae elargisce la maggior parte dei mutui per la casa delle famiglie americane, pari in totale a oltre 5.000 miliardi di dollari. Le due societa' sono considerate l'epicentro della crisi immobiliare e finanziaria che ha provocato la recessione negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Mary Ann Jennings, direttore delle relazioni con il pubblico del Dipartimento di polizia di Fairfax County, in Virginia, ha reso noto che il manager e' stato trovato morto nella sua casa nello stato del Virginia. La polizia non ha fatto sapere se Kellerman ha lasciato un messaggio prima di togliersi la vita.
Kellerman, 41 anni, viveva a Hunter Mill Estates, un quartiere periferico caratterizzato da grandi case familiari dotate di ampio giardino interno. La casa di proprieta' del manager vale 900 mila dollari. L'uomo, alla guida di Freddie Mac da settembre, quando il governo ha assunto il controllo dell'azienda finanziaria per salvarla dal fallimento, lavorava nella societa' da 16 anni.
Freddie Mac ha perso oltre 50 miliardi di dollari l'anno scorso, e Washington ha versato nelle sue casse 45 miliardi di dollari di aiuti per mantenerla a galla. La societa' controllata dal governo, che gestisce circa 3 milioni di mutui, e' stata criticata per i suoi affari nei mutui ad alto rischio, alla base della bolla immobiliare scoppiata nel 2007.
La notizia della morte di Kellerman giunge come uno shock per i dipendenti della societa' dello stato del Virginia, con quelli che conoscevano personalmente l'uomo che sono a pezzi. Stamattina, Sharon McHale, portavoce di Freddie Mac, ha riferito che i top manager dell'azienda sono venuti a conoscenza della notizia dalla radio locale prima di recarsi al lavoro. "E' tutto semplicemente terribile", ha commentato la donna.
John Koskinen, amministratore delegato ad interim, ha dichiarato in un comunicato che Kellermann "era un uomo dal grande talento... La sua straordinaria etica lavorativa e integrita' sono state fonti di ispirazione per tutte le persone che hanno collaborato con lui".
Freddie Mac e la societa' gemella Fannie Mae sono finite entrambe nell'occhio del ciclone dopo che hanno espresso l'intenzione di pagare oltre 210 milioni di dollari di bonus da qui al prossimo anno ai propri dipendenti, in modo da dare loro un incentivo per continuare a mantenere il proprio posto di lavoro in seno all'azienda. Se da un lato Fannie Mae ha reso noto i nomi dei manager che avranno diritto ai compensi, Freddie Mac non lo ha ancora fatto.
 

Fonte - APCOM

 

 

Metalli preziosi contro la crisi

22/04/2009 10.52 - di Valerio Baselli
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La crisi finanziaria fa ancora male e la tentazione di rifugiarsi nell'oro è forte. Secondo un’analisi di Etf Securities, i flussi diretti agli Etc (Exchange traded commodities) sul metallo prezioso hanno registrato un andamento record. A livello mondiale, l’aumento è stato pari a 1,3 milioni di dollari (3,7 volte in più rispetto all’ultimo trimestre 2008). Sono andati bene anche gli Etc petroliferi che hanno segnato un incremento di 916 milioni (2,6 volte in più in confronto con gli ultimi tre mesi dell’anno passato).

Gli Etc (Exchange traded commodities) sui metalli preziosi sono stati i top performer, in termini di rendimento, nei primi 3 mesi dell’anno, seguiti a ruota dagli Etc sui metalli industriali. Il paniere relativo alle materie prime DJ AIG Commodity Index, ha segnato un rendimento trimestrale pari al -4%, contro il -12% dell’indice Msci World e il -14% del Msci Europe (elaborazione Morningstar Direct, dal 1º gennaio al 31 marzo 2009, in dollari). Scendendo nel dettaglio delle commodity, i comparti positivi sono stati i metalli industriali (+5%) e soprattutto quelli preziosi (+7%), mentre i settori energetico e agricolo hanno performato negativamente (rispettivamente -19% e -4%).

Il trend positivo delle commodity dura da anni. Secondo i dati elaborati da Etf Securities, nell’ultima decade (dal 31 marzo 1999 al 31 marzo 2009, in dollari) l’indice DJ-AIG-F3 Commodities Index ha avuto un rendimento del 239%, con una volatilità del 15%. All’interno delle varie materie prime, sono stati proprio i metalli preziosi a performare meglio (201%, con una volatilità del 19%, sempre in dollari). Nello stesso periodo temporale, invece, l’indice azionario MSCI AC World ha ottenuto un risultato pari al -16% (17% di deviazione standard), il DJ Euro Stoxx 50 del -35% (22% la volatilità) e l’indice obbligazionario Barclays Capital Bond Composite Global ha performato positivamente di 72 punti percentuali (in dollari), registrando un 4% di rischiosità.

I numeri riflettono l’esigenza degli investitori di abbandonare in periodi di crisi la sponda equity per navigare verso lidi più sicuri. Infatti, la forte domanda per Etc che hanno come sottostante il metallo fisico (e non il derivato) sembra essere stata guidata dalla richiesta degli investitori di asset liquidi e di rifugio, senza rischio di credito e per investimenti che difendano in generale dall’inflazione nel lungo periodo.

 

Fonte - MorningStar.it

 

 

ASTE DI ARTE, SVENDITA E STRESS TEST

22 Aprile 2009 13:31 MILANO - di Paolo Manazza
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Nei cataloghi di arte moder¬na, impressionista e contem¬poranea di Christie's e Sotheby’s del 5 e 6 maggio a New York alcune opere a stime inferiori anche del 50% rispetto a due anni fa.
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
Ha il sapore anacroni¬stico di una svendita per nababbi. Due Pi¬casso a soli 24 milio¬ni. E per giunta di dollari non euro. L'offerta — reclamizza¬ta da Christie's e Sotheby’s — riguarda opere presenti nelle aste di «Impressionist & Mo¬dern » in calendario a New York il 5 e il 6 di maggio.
Mancano pochi giorni al¬le attesissime e consuete auc¬tion primaverili della Big Ap¬ple. E l’atmosfera che circola riporta alla memoria il titolo del pamphlet di Kierkegaard: «Timore e tremore». Se è vero che il mercato dell’arte sem¬bra in qualche modo eccitarsi per la spasmodica ricerca di asset alternativi da parte di in¬vestitori depressi e sfiduciati, all’orizzonte aleggia il fanta¬sma di cattivi ricordi.
Ottant’anni or sono, duran¬te il tracollo del ’29, il mercato dell’arte sembrò per alcuni mesi presentarsi come un’iso¬la felice. Tanto che nel mag¬gio del ’30 un Matisse — paga¬to 20 mila franchi francesi nel 1926 — fu aggiudicato a 165 mila. Ma poi cominciò un lun¬ga e verticale caduta delle quotazioni.
Nel ’28 a Parigi un capolavo¬ro di Monet valeva anche 481 mila franchi. Mentre nel 1934 «Le Parlament de Londre au crépuscole» fu battuto a 35 mi¬la. Nel ’37 un Picasso che die¬ci anni prima costava quasi 10 mila sterline, venne battu¬to a 157. Anche Braque, De¬gas e perfino Turner passaro¬no di mano a cifre ridicole e decapitate. Certo allora non c’era la globalizzazione. Ma la paura rimane.

La strategia che le due major dell’arte stanno metten¬do in campo è fortemente con¬servativa.
Ma anche di stimo¬lo per rinnovare la fiducia. Nei cataloghi di arte moder¬na, impressionista e contem-poranea vengono presentate poche opere a stime inferiori anche del 50% rispetto a due anni fa. Mentre crescono di volume le aste che presenta¬no Old Master e alto antiqua¬riato.
Claudia Dweek, co-Chair¬man di Sotheby’s Italia è di po¬che ma sintetiche parole: «Questa è una crisi strutturale che va ben oltre l’arte. Noi cer¬chiamo di affrontare il nostro mercato in modo realista e mi-surato. C’è da dire che forse proprio a causa delle turbo¬lenze finanziarie oggi molti os¬servano con più interesse e fi¬ducia gli investimenti in arte, rispetto a dieci anni fa».
Il Picasso in asta da Chri¬stie’s, il prossimo 6 maggio, ha una storia curiosa. Collega¬ta direttamente alla débacle fi¬nanziaria vissuta negli States.
Viene dalla collezione del ric¬co e famoso artista contempo¬raneo Julian Schnabel. Il qua¬le, pressato dai debiti, ha pu¬re ipotecato alcune sue opere all’Art Capital Group (una sor¬ta di moderno «Monte di pie¬tà ») in cambio di 8 milioni di dollari. In America la moda di ipotecare opere d’arte sta ri¬scuotendo successo. A San Francisco un’altra società del genere, la ArtLoan, chiede si¬no al 24% di interessi prestan¬do per soli diciotto mesi un terzo del valore stimato del be¬ne. Chi non rientra perde il quadro. In asta l’unico rischio ovviamente è che vada inven¬duto e torni a casa.
Il quadro di Schnabel si inti¬tola «Femme au chapeau» ed è stato dipinto da Picasso nel¬l’agosto del 1971, due anni pri¬ma della sua morte. Gli esper¬ti di Christie’s l’hanno stima¬to tra 8 e 12 milioni di dollari.
Per la cronaca, nel maggio del 1990 una versione simile (ese¬guita nel luglio dello stesso an¬no) fu venduta per 3,2 milio¬ni.
Quest’anno il catalogo di Sotheby’s presenta 36 capola¬vori. Tra cui un bellissimo Pi¬casso del 1938, «La fille de l’ar¬tiste à deux ans et demi avec un bateau», stimato tra i 16 e i 24 milioni. Mentre una «Natu¬ra morta» sempre di Picasso, del 1944, è valutata 5-7 milio¬ni.
Che accadrà? Molti scom¬mettono sulla capacità media¬tica di Picasso, sul low profile delle case d’asta e sul ritorno all’ordine dei prezzi per attrar¬re investitori allo sbando. Ora nel valore di un dipinto conta solo la massima qualità e la storia.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 


 

 

 

  Mercati e trucchi contabili, lo scandalo continua

22 Aprile 2009 13:48 TORINO - di Alberto Bisin

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Molti osservatori economici tirano il fiato in questi giorni: il peggio della crisi finanziaria sembra finito, le maggiori banche americane addirittura segnano profitti per il primo trimestre. Alcuni si estendono fino a prevedere una ripresa economica a partire dall’estate.

In verità previsioni di questo tipo sono statisticamente così imprecise da essere poco più di un esercizio divinatorio. Possiamo però analizzare una delle ragioni principali di tale ottimismo: i risultati positivi delle banche, Citigroup e Bank of America in particolare. Purtroppo, così facendo, ci accorgiamo che i loro risultati trimestrali positivi sono in parte fittizi, dovuti a trucchi contabili.

Le nuove norme istituite dall’istituto preposto alla definizione delle regole contabili delle società (il Financial Accounting Standards Board) hanno permesso alle banche di contabilizzare le attività «tossiche» ancora nei propri bilanci, non al valore di mercato, ma ad un valore che le banche stesse ritengono accurato in presenza di una crisi di liquidità. In sostanza le banche hanno una certa libertà nel sopravvalutare rispetto al mercato le proprie attività.

Un altro trucco contabile permette alle banche di sottovalutare le proprie passività, come il debito obbligazionario. Il valore di mercato delle obbligazioni di una società in crisi, a rischio di fallimento, è basso - proprio perché il mercato attualizza il rischio di fallimento. Permettere alle banche di contabilizzare il proprio debito al valore di mercato, come accade in questi giorni, significa in un certo senso permettere loro di cancellare buona parte dei propri debiti dal bilancio con un tratto di penna. In altre parole, nel caso estremo di una società in fallimento non ci sono debiti, ma questo ovviamente non significa che la società sia in buona salute. Insomma, non è difficile segnare profitti se le regole contabili permettono di sopravvalutare le attività e sottovalutare le passività.

Questi trucchi sono purtroppo parte di una generale tendenza alla mancanza di trasparenza del governo americano in materia finanziaria. Il Tesoro ha infatti direttamente favorito, se non richiesto, l’istituzione di queste nuove norme contabili. Esso sembra inoltre intenzionato addirittura a cambiare le condizioni del proprio intervento nei mercati finanziari, da azioni privilegiate a ordinarie, per manipolare i risultati dello stress test delle banche che esso stesso sta conducendo. La misura del capitale delle banche utilizzata nello stress test infatti include azioni ordinarie ma non azioni privilegiate. Il Tesoro finirà quindi per addossare ai contribuenti un’altra significativa frazione di rischio del sistema finanziario e finirà per sottomettere l’attività delle banche a maggiore controllo politico (le azioni ordinarie, a differenza di quelle privilegiate, hanno diritto di voto). Tutto questo solo per manipolare un indice contabile e controllare l’informazione finanziaria da rendere pubblica?

Questa mancanza di trasparenza è estremamente deleteria per l’andamento dei mercati finanziari. I risparmiatori e gli investitori non hanno modo di distinguere chiaramente le buone notizie dalle cattive. Alcune banche infatti hanno certamente migliorato la propria situazione, ad esempio approfittando della liquidità iniettata dalla Fed nel sistema, ma in queste condizioni è difficile se non impossibile capire quali di esse lo abbiano fatto. La volatilità del mercato riflette anche e soprattutto questa incertezza di fondo.

A questo proposito gravissima è anche la versione italiana dei trucchi contabili americani, insita nelle recenti norme che permettono alle società quotate di riacquistare fino al 20 per cento delle proprie azioni e che esentano dall’Offerta Pubblica di Acquisto l’azionariato di controllo (che passasse dal 30 al 35 per cento). L’unica funzione di queste norme è quella di mantener saldi i gruppi di controllo delle imprese quotate ad azionariato diffuso. In un mercato azionario come quello italiano, già caratterizzato dalla concentrazione del controllo e da un certo sprezzo per gli interessi degli azionisti di minoranza, queste norme vanno nella direzione opposta a quella desiderabile. Tendono infatti ad inibire quello sviluppo e quella competizione nei mercati dei capitali che sono necessari per sostenere una duratura crescita dell’economia italiana una volta che quella mondiale sia ripartita.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

 

BANK OF AMERICA: PRESSIONI DAL TESORO PER L'OPERAZIONE MERRILL

23 Aprile 2009 17:18 NEW YORK - di APCOM
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Bernanke e Paulson non volevano che l'accordo fallisse. A dichiararlo e' l'amministratore delegato di BofA, Kenneth Lewis, al procuratore generale dello Stato di New York, Andrew Cuomo.
L'amministratore delegato di Bank of America Kenneth Lewis ha detto al procuratore generale dello Stato di New York di avere buoni motivi per credere che l'ex segretario del Tesoro Henry Paulson e il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke non volevano che trapelassero tutti i termini dell'accordo per l'acquisto di Merrill Lynch da parte della banca, altrimenti, secondo quanto riportato oggi dal Wall Street Journal, il deal avrebbe rischiato di saltare.
L'ufficio della procura dello Stato di New York conta di consegnare oggi l'udienza alle autorita' federali e ai sovrintendenti responsabili di monitorare le banche e il piano di salvataggio, secondo quanto si apprende dal testo dell'udienza, ottenuto in anteprima dal quotidiano.
L'udienza di Lewis si e' tenuta in febbraio, nell'ufficio di Andrew Cuomo, che sta tentando di determinare se Merrill e BofA hanno intenzionalmente evitato di fornire informazioni corrette ed esaustive agli azionisti sulle perdite superiori a 15 miliardi di dollari registrate da Merrill nel quarto trimestre del 2008 e sui bonus previsti per i top manager. Nel caso fossero venuti in possesso di tali informazioni, i soci azionisti di BofA avrebbero con tutta probabilita' votato contro l'accordo.
Secondo quanto si legge nell'edizione odierna del quotidiano finanziario, Lewis non sarebbe stato intimato direttamente di tralasciare alcuni dei problemi di Merril. Ma nella sua audizione Lewis avrebbe precisato che "non spettava a me" riferire tali informazioni, aggiungendo di essere stato avvertito da Paulson e Bernanke che il fallimento dell'operazione di acquisto di Merrill avrebbe "rappresentato un fattore di rischio enorme per il sistema finanziario".
Citando una persona vicina ai fatti, il giornale fa sapere che il mese scorso Paulson avrebbe detto all'ufficio della procura che Lewis, anziche' attenersi semplicemente agli obblighi della sua banca, ha interpretato male una parte delle richieste del Tesoro.
Nello stesso fine settimana di settembre che ha visto la banca d'affari Lehman Brothers fallire e il gigante assicurativo AIG ricevere il suo primo aiuto governativo, Washington ha contribuito a orchestrare l'acquisto di Merrill da parte di BofA. in un momento critico sia per il governo che per Wall Street, impegnati a fare tutto il possibile per scongiurare il collasso finanziario.
 

Fonte - APCOM

 

 

Fmi, Strauss-Kahn: «Niente ripresa senza bilanci puliti»

23 Aprile 2009 18:21 WASHINGTON - di Sole 24 Ore
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«Senza una pulizia dei bilanci non ci sarà una ripresa». Lo ha detto a Washington il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ribadendo l'invito ad agire rapidamente per pulire i bilanci delle banche, condizione essenziale per una ripresa.
«La ripresa nel 2010 - ha spiegato Strauss-Kahn - è legata a questo: chiedo ancora ai governi maggiori sforzi in questa direzione. Non sottovaluto la difficoltà di assumere decisioni in questo senso. Ma il fatto che sia difficile non significa che sia meno necessario».
Il direttore generale dell'Fmi ha poi sottolineato la «contraddizione» nell'atteggiamento dei leader mondiali sulla necessità di rafforzare le capacità di "early warning" del Fondo monetario internazionale, ovvero la capacità di individuare in anticipo i fattori di criticità di un singolo paese rilevanti per tutto il sistema internazionale. «Tutti ci chiedono un migliore early warning - ha aggiunto ancora Strauss Kahn - ma poi alle autorità non piacciono i nostri controlli».
«Su questo punto c'è una contraddizione dei leader mondiali - ha proseguito Strauss Kahn - tuttavia quello di provvedere a fornire un sistema di early warning è il nostro ruolo, ed è quello che faremo nei prossimi mesi».
 

Fonte - Sole 24 Ore

 

 

FMI: LA CRISI NON E' FINITA MA LA RIPRESA E' POSSIBILE

23 Aprile 2009 19:58 NEW YORK - di APCOM
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C'è qualche spiraglio, c'è una possibile ripresa il prossimo anno, ma al momento il quadro dell'economia resta negativo: "La crisi è lungi dall'esser finita". E' con questo messaggio che il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ha aperto la conferenza stampa di presentazione dei consueti incontri primaverili a Washington con la Banca Mondiale. "Iniziamo a vedere alcune luci - ha detto - alcuni dati stanno mostrando miglioramenti, ma sono veramente pochi". "Abbiamo ancora lunghi mesi di tensioni davanti a noi. La buona notizia - ha proseguito - è che continuano a prevedere che nel 2010 ci possa essere la ripresa".
Ma è una previsione su cui gravano "alcuni se", ha sottolineato Strauss-Kahn, che individua due grandi questioni. La prima riguarda le contromisure messe in campo dai governi; per quest'anno sono di una portata in linea con quanto richiesto dallo stesso Fmi, circa il 2 per cento del Pil, ma bisognerà fare di più per sostenere la domanda nel prossimo anno. L'altra questione è sul settore finanziario, dove bisognerà "completare la pulizia dei bilanci delle banche", specialmente negli Usa e in Europa, ha detto, e in misura minore in Giappone.
Intanto la Banca Mondiale annuncia un rafforzamento dei suoi programmi di investimento a favore dei paesi poveri, stanziando 45 miliardi di dollari per strade e infrastrutture sul prossimo triennio. Sono 15 miliardi in più rispetto a quanto speso nei passati tre anni e con il contributo dei finanziamenti privati l'ammontare totale potrà salire a 55 miliardi, secondo quanto spiegato dal presidente della World Bank, Robert Zoellick. Ma intanto le previsioni delle istituzioni internazionali continuano a peggiorare. Le ultime, diffuse ieri dall'Fmi con il World Economic Outlook, indicano ora una recessione dell'1,3 per cento del Pil mondiale nel 2009.
Solo lo scorso gennaio stimavano un andamento comunque positivo, sebbene limitato allo 0,5 per cento. "Non è che le stime non siano abbastanza accurate - ha spiegato Strauss-Kahn- è che l'economia globale si sta evolvendo molto rapidamente". Il commercio internazionale ha subito una pesante contrazione e questo pesa al ribasso sulle prospettive, ma allo stesso tempo sono stati lanciati molti interventi e questo pesa in positivo. Strauss-Kahn ha invece rilevato una "contraddizione" nell'atteggiamento dei leader mondiali sulla necessità di rafforzare le capacità di 'early warning' dell'Fmi, ovvero la capacità di individuare in anticipo i fattori di criticità di un singolo paese rilevanti per tutto il sistema internazionale. "Tutti ci chiedono un migliore early warning, ma poi alle autorità non piacciono i nostri controlli".
Ma quello di provvedere a fornire un sistema di early warning "è il nostro ruolo - ha detto - ed è quello che faremo nei prossimi mesi". Intanto dall'area dell'euro oggi sono giunti dati contrastanti. Da un lato, per tutta l'Ue-16 i valori preliminari dell'indice dei responsabili per gli acquisti delle imprese (Pmi) ha segnato ad aprile un nuovo miglioramento. E' risalito a 40,5 punti dai 38,3 del mese precedente, secondo quanto riferisce il centro studi Markit Economics.
Ma intanto i maggiori centri studi della Germania, prima economia dell'area, sfornano nuove previsioni secondo cui quest'anno il Pil teutonico crollerà del 6 per cento: la peggiore caduta dal 1949. Nelle stime pubblicate ieri, per l'area euro l'Fmi prevede un generale meno 4,2 per cento nel 2009 per il Pil, e un ulteriore meno 0,4 per cento nel 2010.
 

Fonte - APCOM

 

 

STRESS TEST: BANCHE "BEN CAPITALIZZATE", NON SARA' PERMESSO FALLIMENTO

24 Aprile 2009 20:19 NEW YORK - di APCOM
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La Federal Reserve ha rilasciato alcuni dettagli sui criteri secondo cui sono stati condotti gli "stress test" sui 19 principali istituti finanziari statunitensi.
Dall'analisi del governo e' emerso che le banche sotto osservazione godono di riserve "in eccesso" o di "buoni livelli di capitalizzazione". Alcune misure potrebbero comunque essere necessarie per coprire le perdite previste per il 2011. Non e' stata rilasciata alcuna indicazione sul valore di riferimento.
La Federal Reserve ha affermato che il governo americano e’ pronto al salvataggio di qualsiasi istituto sottoposto agli "stress test", dichiarato "vulnerabile" nel caso di un forte inasprimento della recessione.
La Banca Centrale americana ha aggiunto che le 19 societa’ che detengono circa la meta’ dei prestiti totali del sistema bancario statunitense non saranno lasciate fallire, anche nel caso di un esito particolarmente negativo emerso dall’esame.
Gli "stress test" sono stati voluti dall’amministraizone Obama per identificare gli istituti a rischio nel caso di un’ulteriore contrazione dell’economia.
 

Fonte - APCOM

 

 


 

 

 

  Sabato 25 Aprile 2009   Martedì 28 Aprile 2009   Mercoledì 29 Aprile 2009  
       
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GR1 RAI - 28 APR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 29 APR ore 22:00

   

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  Sono titolini, ma vanno come razzi

28 Aprile 2009 11:19 NEW YORK - di Gianluigi Raimondi

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Tempi difficili, anzi duri. Ma le occasioni non mancano: «Alle quotazioni attuali - dice Rory Hammerson - il mercato sconta uno scenario macroeconomico a dir poco depressivo, almeno nei prossimi 18 mesi». E proprio il pericolo di nuove e pesanti correzioni dei listini tiene gli investitori sottopesati sulle big cap. «Il mercato sta premiando le piccole storie e anche noi riteniamo si debba puntare sui titoli a bassa capitalizzazione. Del resto lo insegna la storia». Hammerson è il direttore responsabile del settore azionario europeo per Scottish Widows Investment Partnership (le famose Vedove Scozzesi) e gestore del fondo Pan European Smaller Companies, che recentemente ha ottenuto un rating AA da Standard & Poor’s. In particolare, il gestore rientra nelle prime posizioni della classifica di Citywire dei migliori 100 asset manager europei e ha conquistato il primo posto in Svezia.
Si aspettava il forte recupero messo a segno dai listini azionari mondiali? A suo avviso può ancora proseguire?

L’ultimo rally non ha certo colto di sorpresa gli investitori istituzionali. Dall’analisi delle serie storiche risulta che durante il crollo di Wall Street, negli anni Trenta, la tendenza ribassista di fondo è stata interrotta da ben cinque trend rialzisti. Anche se poi nel medio-lungo termine si sono rivelati dei meri falsi segnali. Tra l’altro, come nel biennio 1932-1933, anche allora con l’economia in piena recessione, il neo-eletto presidente Usa, Franklin D. Roosevelt, aveva proposto un pacchetto di stimoli e incentivi fiscali. Una situazione che aveva spinto gli indici al rialzo di circa il 50 per cento. Il vero denaro, in quell’occasione, si riversò sulle small cap, che in media raddoppiarono il loro valore. Guarda caso, anche ora i cosiddetti titolini stanno sovraperformando le blue chip.

Secondo lei, chi ha più benzina: i listini europei o quelli statunitensi?
Ritengo estremamente improbabile che i mercati europei possano anticipare quello statunitense, caratterizzato da uno scenario economico molto più dinamico e flessibile. Nell’area euro ci sono alcuni Paesi con profili e situazioni economico-finanziarie specifiche, legati solo dalla moneta unica e da un’unica Banca centrale che decide per tutti sul costo del denaro. Ma, per il resto, tende a prevalere la disomogeneità del trattamento fiscale e dell’indebitamento tra i diversi Stati dell’Ue. Perciò risulta piu difficoltoso che negli Stati Uniti adottare politiche economiche realmente efficaci a livello comunitario.
Un quadro che molto probabilmente si rifletterà anche in futuro, provocando performance differenti tra i diversi listini dei singoli Paesi.

Su quali metodi di analisi si fondano le vostre scelte di asset allocation? Ci sono interi settori su cui preferite puntare in Europa oppure solo singoli titoli?
Il nostro processo di selezione che determina i titoli da inserire in portafoglio si basa su un approccio di tipo «bottom up», legato cioè ai fondamentali delle società sulle quali si decide di investire. Così, oltre i due terzi del rischio di ogni stock picking dipende dalla situazione della specifica azienda. Nel processo decisionale viene ovviamente analizzata la situazione delle singole società rispetto ai loro competitor.

Quali sono, in base alle sue analisi, i titoli al momento trattati con uno sconto più elevato?
Per procedure di policy aziendale, non possiamo rendere noti i risultati dei nostri processi di selezione dei titoli. Posso tuttavia affermare che attualmente abbiamo scovato diverse «buone occasioni», soprattutto tra le mid e le small cap e qualcuna anche tra le blue chip.

Quali sono le performance del fondo da lei gestito?
Da inizio anno il fondo Swip Pan European Smaller Companies ha accusato un ribasso del 6,5%, pertanto è rimasto leggermente indietro rispetto all’indice di riferimento. Nonostante ciò, tutto il nostro team resta fermamente convinto che i titoli messi in portafoglio sono proprio quelli che ancora oggi consiglieremmo ai nostri clienti. Inoltre, confido nel fatto che i fattori esogeni che hanno influito negativamente sul recente andamento di questi titoli cesseranno molto presto di pesare sulle loro performance di Borsa. In altre parole, il nostro stile di gestione è molto orientato verso i titoli growth. Il mercato ha però ultimamente premiato maggiormente le società value, una situazione che, di conseguenza, non ha certo aiutato le performance del fondo.

Rimaniamo perciò fedeli alle tecniche adottate per il nostro processo di selezione, che individua titoli in ottica di investimento superiore ai tre anni. E sebbene i risultati ottenuti in passato non rappresentino necessariamente una garanzia per il futuro, siamo convinti della bontà delle nostre metodologie e confidiamo nell’esperienza maturata dal nostro team di analisti.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Il toro ha traslocato in Medio Oriente

28 Aprile 2009 13:34 NEW YORK - di Borsa&Finanza

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Si è già aperta la corsa a chi potrà dichiarare, per primo, di essere uscito dalla crisi globale più lunga ed estenuante dai tempi della Seconda guerra mondiale. Sempre che non abbiano ragione coloro che intravedono per le maggiori economie ancora una lunga traversata nel deserto, tutta da percorrere.

Il settore finanziario resta in crisi d’identità, zeppo di asset illiquidi, anche se vi è qualche piccola schiarita sul fronte degli utili. Ma, ancora una volta, sono i governi a dover far la parte del leone, dopo essere stati protagonisti, a fianco delle banche centrali, di un’opera di salvataggio all’ultimo respiro delle istituzioni di credito impantanatesi nelle sabbie mobili dei subprime loan e dei titoli di tutta la finanza derivata. La Cina è sicura di farcela, gli Stati Uniti giocano la carta cubana, ma inciampano nella questione iraniana, salvo attendere con la clessidra il conto alla rovescia degli stress test sulle banche.

Ed ecco che quindi, a sorpresa, sono i Paesi del Medio Oriente che rivendicano il diritto di un primato, riorganizzando i mercati finanziari, investendo pesantemente sui loro mercati domestici e stringendo nuove alleanze per consolidare il ruolo geopolitico dopo la recente ospitata alla riunione del G20. Ma è tuttavia una rincorsa fatta di luce e di ombre, come tutto lo scenario mediorientale. A dimostrarlo anche l’ennesima esternazione «inqualificabile» del presidente iraniano al Congresso Onu sul Razzismo, Durban II. Attacco del resto prevedibile e subdolo contro l’Occidente, e per questo da non sottovalutare per gli effetti di discredito che getta sulla stessa Onu. Ma il Medio Oriente non è l’Iran e vive di realtà eterogenee e che si affacciano ai mercati finanziari con grande entusiasmo.


VOLTARE PAGINA. L’Iraq, ad esempio, ha appena inaugurato un nuovo sistema di trading elettronico in Borsa, per ora soltanto su 5 delle 91 società quotate. Dopo tre anni dedicati al rafforzamento dell’impianto tecnologico, è finalmente così arrivato il debutto con i nuovi terminali e l’opportunità in tempi molto brevi a essere collegati ai circuiti internazionali, visto che a oggi gli investitori esteri sono presenti per una quota assai ridotta dei volumi.

Chi invece deve ringraziare un impianto organizzativo già ben rodato è la Borsa pakistana , al quarto posto nella classifica delle Top10 tra le principali Borse mondiali, che sfiora un 30% di performance da inizio anno e riprende la corsa verso i massimi toccati proprio un anno fa. Gli aiuti del Fondo monetario internazionale per 7,6 miliardi di dollari, unitamente a quelli dei «donors», per circa 15 miliardi di dollari, per la lotta contro Al Qaeda e gli altri gruppi militanti fondamentalisti operanti nel Paese sono ingenti, ma il governo di Islamabad deve ancora dimostrare il giusto impegno nelle riforme strutturali e nella lotta al terrorismo che si richiede. Si tratta in ogni caso di una montagna di soldi per arrivare a ricostruirsi un ruolo cruciale nell’area, forte ovviamente delle dotazioni belliche e del supporto americano.

A completare il quadro troviamo gli Emirati, che serrano le fila recuperando credito dopo i tentennamenti di Dubai sulla bolla immobiliare locale, rientrata grazie all’intervento di Abu Dhabi. Così gli investimenti della Dubai World, la General Electric del Medio Oriente, sono ripresi e adesso si estendono a livello globale, mentre in generale gli investitori del Golfo Persico si organizzano raccogliendo oltre 10 miliardi di dollari per lanciare una nuova banca islamica, la Istikhlaf Bank, che verrà quotata prossimamente alla Borsa di Bahrain.

D’altronde, in soli tre mesi, il boom delle Ipo in Medio Oriente ha raggiunto il totale dei volumi di tutto il 2008. In particolare, l’Arabia Saudita torna a cavalcare il potenziamento della finanza islamica a fianco degli altri Paesi islamici e lanciando un ponte verso l’Asia, in specifico verso Indonesia e Malesia, come ha dimostrato il successo della recente emissione sovrana «sukuk». Insomma, la rincorsa al sorpasso asiatico è iniziata ma nel prossimo meeting della Lega araba un monito severo all’Iran diventerà cruciale per gli equilibri dell’intera area mediorientale. Anche perché la differenza di razza è diventata la nuova arma politica, dopo le armi e il petrolio, sicuramente la più subdola e inaccettabile in quanto mina le fondamenta della convivenza civile e poco ha a che fare con un sano e virtuoso sviluppo economico sociale che dovrebbe guidare l’uscita dalla crisi.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

Winterkorn (Vw): «Resteranno solo 10 grandi case automobilistiche. Spero che Fiat sopravviverà»

29 aprile 2009 - di Il Sole24Ore
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Per il numero uno del gruppo Volkswagen Martin Winterkorn tra 5-10 anni sopravvivranno nel mondo più o meno una decina di gruppi automobilistici. Globalmente, secondo Winterkorn, tra i produttori che resteranno in vita nei prossimi 5-10 anni «avremo sicuramente un gruppo francese, forse due, 2-3 gruppi di tedeschi, in Giappone sicuramente ci saranno Toyota e la Honda e altri in Corea e Stati Uniti». E tra i sopravvissuti l'amministratore delegato della casa di Wolfsburg si augura che ci sia anche il gruppo Fiat.
«Spero che anche l'Italia continui ad avere un gruppo. Sarebbe un peccato per l'Europa - ha detto in occasione della consegna del premio 'World Top Manager 2008' di InterAutoNews - se la nazione automobilistica Italia non avesse un gruppo proprio. Io ne sarei veramente colpito perché in Italia si costruiscono ancora oggi molte bellissime automobili».
«Se Marchionne – ha proseguito il numero uno di Vw - si unirà con Chrysler e forse con Opel gli auguro buona fortuna, però non sarà un compito facile. Non so se riuscirà. Credo che con questa operazione Marchionne - ha proseguito il numero uno della casa di Wolfsburg - stia cercando di assicurare un futuro alla Fiat e, tramite una crescita dei volumi, ottenere un taglio dei costi. Strategia in linea con la sua analisi, che io condivido, che un'azienda automobilistica non potrà sopravvivere nei prossimi anni se non produrrà almeno 5 milioni di veicoli. Ma posso dire per esperienza - ha precisato Winterkorn - che gestire e guidare con successo più marchi e ottenere sinergie è una cosa veramente difficile».
Non basta la condivisione delle piattaforme o di componenti ma, «per trovare le sinergie è molto importante che i marchi abbiano anche la possibilità di svolgere una propria vita. Ecco perché - ha spiegato il numero uno della casa di Wolfsburg - da noi ogni marchio ha un proprio reparto di ricerca e sviluppo e un proprio reparto di marketing, a cominciare dalla Lamborghini».
Martin Winterkorn, sempre nell'ambito della consegna del premio World Top Manager 2008 del mensile InterAutoNews, ha puntualizzato anche sulla questione Opel. «La Opel per sopravvivere ha urgenza di un partner industriale che investa, che potrebbe essere la Fiat o la Magna, ma sicuramente avrà bisogno anche di continuare ad avere accesso alla tecnologia Gm». Lo ha detto in occasione l'amministratore delegato del gruppo Volkswagen Martin Winterkorn. Il numero uno della casa di Wolfsburg ha spiegato che «i veicoli venduti da Opel si basano su tecnologie sviluppate sì in Opel ma anche sviluppate all'interno di altre aziende che fanno parte del gruppo Gm. Quindi - ha proseguito Winterkorn - tagliando questo cordone ombelicale sicuramente Opel avrà difficoltà nel sopravvivere».
Infine, il numero uno del gruppo tedesco ha confermato che Luca De Meo, ex Marchionne Boys responsabile marketing del gruppo Fiat e responsabile di Alfa Romeo e Abarth, uscito dal Lingotto lo scorso gennaio, approderà nel gruppo Volkswagen. «Luca De Meo, con cui abbiamo avuto colloqui intensi anche alla presenza di Walter De Silva (direttore design del gruppo Volkswagen), approderà in Volkswagen - ha precisato ai giurati Winterkorn - perché riteniamo che sia uno dei migliori products marketing manager del mondo e quindi è perfettamente calzante per Volkswagen».
 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

Con Bank of America arriva il conto della crisi bancaria

29 aprile 2009 - di Mario Margiocco
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Oggi gli azionisti di Bank of America decidono la sorte dell'amministratore delegato. Costretto ad avallare a fine 2008 l'acquisto della disastrata Merrill Lynch in nome dei superiori interessi della nazione, Ken Lewis potrebbe perdere il posto. Saggiamente condotta al tempo dell'orgia da derivati, abs e cdo, Bank of America è il gigante di Charlotte, North Carolina, sorto nel 98 quando la Nations Bank acquistò Bank of America - base storica a San Francisco - e ne assunse il nome. Purtroppo due acquisizioni legate alla crisi, quella del gigante dei mutui Countrywide ad agosto e quella, molto sollecitata dalla Fed e dal Tesoro, di Merrill Lynch a settembre, hanno messo BoA nei guai. I 45 miliardi già versati di aiuti da parte di Washington non bastano a ridurre le perdite a dimensioni accettabili, perdite causate soprattutto da una Merrill Lynch più disastrata di quanto si pensasse.

Andrew Cuomo, il procuratore generale dello Stato di New York, ha costretto Lewis a raccontare come andarono le cose a fine 2008, quando il passaggio di Merrill Lynch, annunciato a settembre e che sarà formalizzato a gennaio, divenne chiaramente troppo oneroso, date le perdite molto più alte del previsto. Una clausola contrattuale poteva consentire di tirarsi indietro. Lewis ha raccontato che Henry Paulson, ministro del Tesoro di George W. Bush ancora in carica, gli annunciò che in caso di rifiuto sarebbe stato licenziato da Ben Bernanke, presidente della Federal reserve. e gli ordinò di stare zitto. Quella che era la migliore grande banca americana si trova così ora nella stessa categoria di Citigroup, il gigante disastrato.

Gli azionisti sono furibondi per le perdite subite sui mercati e per non essere stati informati del disastro che l'operazione Merrill Lynch avrebbe causato. Il caso BofA tuttavia è interessante perché pone ormai sul tavolo, e molto chiaramente, il nodo del "chi paga" nella crisi bancaria e finanziaria americana, un nodo che anche in Europa non sarà eludibile. È chiaro infatti che addossare tutti i costi al contribuente sarà impossibile. Gli azionisti sono già di fatto azzerati, e lo saranno definitivamente quando arriveranno gli aumenti di capitale, con la distribuzione di azioni ordinarie presumibilmente al Tesoro. Ma anche gli obbligazionisti saranno chiamati a sopportare parte delle pardite. Le teste di Ken Lewis e dei suoi colleghi del consiglio di amministrazione, se finiranno sotto la ghigliottina dell'azionariato furente, sono solo le prime a cadere.

 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

STRESS TEST: ALERT, 6 BANCHE USA DEVONO ESSERE RICAPITALIZZATE

29 Aprile 2009 16:09 NEW YORK - di APCOM
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In una lista totale di 19 grandi istituti di credito a rischio ci sono Bank of America e Citigroup. Atteso un incontro in settimana tra Bernanke (Fed), Geithner (Tesoro) e gli esponenti delle autorita' di controllo. Almeno sei delle 19 principali banche statunitensi avrebbero bisogno di un aumento di capitale, secondo i risultati preliminari degli stress test condotti dal governo. Lo riferiscono a Bloomberg persone informate sui fatti. Se e' vero che alcuni degli istituti potrebbero aver bisogno di iniezioni di capitale da parte del governo, fanno sapere sempre le fonti, la maggior parte dei finanziamenti dovrebbe tuttavia arrivare dalla conversione di azioni privilegiate in azioni comuni.

La Federal Reserve al momento sta ricevendo le obiezioni delle banche interessate, tra le quali figurano Citigroup e Bank of America, i due istituti che secondo le autorita' di controllo più avrebbero bisogno di un cuscinetto contro eventuali perdite. Optando per la soluzione della conversione di azioni, piuttosto che per il ricorso all'assistenza federale, il governo consentira' alle banche di aumentare le risorse di capitale senza rischiare di attirarsi critiche simili a quelle che sono piovute addosso a Wall Street e al Congresso dopo i dispendiosi piani di salvataggio del passato.

Il rischio è però che, oltre alla diluizione delle quote dei soci azionisti, le misure intraprese dal governo non appaiano abbastanza decise. I risultati definitivi dei test dovrebbero essere pubblicati la prossima settimana. Il Tesoro e le agenzie che stanno conducendo le analisi continuano a studiare quali e quante informazioni rendere pubbliche.

Il presidente della Fed Ben Bernanke, il segretario del Tesoro Timothy Geithner e altri esponenti delle autorità di controllo dovrebbero tenere un incontro in settimana per discutere proprio degli stress test. Oltre a Bank of America e Citigroup, anche alcune banche regionali potrebbero aver bisogno di un aumento di capitale, secondo quanto riferito da alcuni analisti. Tra queste, secondo uno studio di Morgan Stanley del 24 aprile scorso, le piu' papabili sarebbero SunTrust Banks, KeyCorp e Regions Financial.
 

Fonte - APCOM

 

 

La Ue fissa i paletti contro gli hedge fund

30 Aprile 2009 13:01 - di Miaeconomia
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SVOLTA ATTESA - Dopo una lunga maratona negoziale, Bruxelles ha trovato l'intesa anche sulla regolamentazione dei bonus e dei «paracadute»

BRUXELLES - «È il primo tentativo al mondo di creare una cornice giuridica complessiva per la regolamentazione diretta e la supervisione del settore dei fondi alternativi». Così, con una punta di enfasi, il commissario Ue al Mercato interno, Charlie Mc Creevy, ha presentato ieri la proposta di direttiva per vigilare in Europa sulla gestione degli hedge fund con oltre 100 milioni di portafoglio, presentata assieme a una raccomandazione per limitare bonus eccessivi e paracadute dorati ai manager.

E così proprio McCreevy, che in passato si era espresso contro la regolamentazione degli hedge fund, considerandoli non all'origine dell'attuale crisi, si è trovato a fare da battistrada sulle piste indicate dal G-20 per aumentare la vigilanza sulla gestione dei fondi speculativi. «Tutti i membri del G-20 – ha riconosciuto McCreevy – si sono espressi a favore di sottoporre tutti gli elementi dei mercati finanziari ad appropriata regolamentazione». Lo stesso commissario ha ammesso la difficoltà di muoversi su questo terreno, visto che c'è già «chi ci dice che ci siamo spinti troppo in là e chi ritiene che non ci stiamo muovendo abbastanza». In ogni caso spetterà a Consiglio Ue ed Europarlamento trovare un punto d'equilibrio nei prossimi mesi.

Dopo un acceso dibattito, prolungatosi per ore tra i capi di gabinetto della Commissione europea, nella proposta finale è stata abbassata la soglia per l'obbligo di vigilanza sui gestori di hedge funds, facendola scattare sui fondi con 100 milioni di portafoglio, rispetto ai 250 milioni della bozza iniziale (vedi Il Sole 24 Ore di martedì 28 aprile), e includendo tutti i fondi che facciano uso di leverage. In base alle stime di Bruxelles, rientrano nel raggio d'azione della direttiva circa il 30% dei manager di hedge fund, che gestiscono circa il 90% delle attività di fondi domiciliati in Europa. Una soglia più elevata, di 500 milioni, sarà applicata ai fondi di private equity che vincolano gli investitori per cinque anni.

Al di sotto delle soglie, Mc Creevy ha spiegato che le regole imporranno che «tutti i gestori, così come i fondi da loro gestiti, vengano notificati alle autorità», che «controlli stretti vengano attuati sui depositari di asset e sugli agenti che fanno valutazioni». Inoltre ai gestori verrà chiesto di dare regolarmente informazioni complete ai supervisori. Al bastone verrà accompagnata la "carota" di un passaporto europeo che permetterà agli hedge fund domiciliati in Paesi terzi anche off shore che si registrano e si adeguano agli standard europei di operare in tutto il Vecchio Continente. Le regole sui fondi extra-Ue scatteranno però tre anni dopo l'entrata in vigore del resto della direttiva (prevista nel 2011), perciò verosimilmente nel 2014. Diverse le prime valutazioni dei maggiori gruppi all'Eruoparlamento: la proposta sugli hedge fund «va nella giusta direzione» secondo il popolare francese Jean Paul Gauzés, mentre «manca d'ambizione» per il tedesco Martin Schulz, capogruppo dei socialisti. «Preoccupazione» è stata espressa anche dall'Aifi, associazione italiana del private equity, per una normativa che «potrebbe danneggiare gravemente lo sviluppo competitivo di lungo termine del settore».

La Commissione Ue ha dato anche il via libera alla raccomandazione che invita gli Stati europei a dare l'atteso giro di vite sui cosiddetti "paracadute dorati" dei manager delle società quotate. Il testo varato da Bruxelles prevede di fissare un tetto alle liquidazioni dei manager (massimo di due anni della parte fissa della retribuzione), negando il diritto alla buonuscita in caso di fallimento della società. Nella raccomandazione si suggerisce anche di legare la parte variabile della retribuzione ai risultati effettivamente conseguiti. «La remunerazione dei manager deve essere necessariamente legata ai risultati conseguiti, e non un premio al fallimento» ha osservato McCreevy, per il quale nel campo delle politiche retributive è più che mai necessario «promuovere una sana gestione del rischio». Evitando quei tipi di retribuzione che incentivano strategie miopi da parte dei manager orientate sul breve periodo, a scapito delle prospettive di lunga durata delle aziende.

LA PROPOSTA
Sugli hedge
La proposta di direttiva prevede una vigilanza in Europa sulla gestione degli hedge fund con oltre 100 milioni in portafoglio. La bozza iniziale aveva fissato il paletto a 250 milioni, ma poi la soglia è stata abbassata: secondo le stime di Bruxelles rientrano nel raggio d'azione della direttiva circa il 30% dei manager di hedge fund che gestiscono il 90% delle attività di fondi domiciliati in Europa.
I paracadute dorati
La Commissione ha dato via libera a una raccomandazione che invita gli Stati europei a un giro di vite sulla remunerazione dei manager.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

FIAT: MARCHIONNE, MOMENTO STORICO PER L'INDUSTRIA ITALIANA

30 Aprile 2009 20:03 NEW YORK - di APCOM
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Dopo la firma sull'accordo con Chrysler, "il Lingotto sara' piu' forte e internazionale, in grado di competere sui mercati di tutto il mondo". "Un importante passo avanti per il futuro".
"Credo che l`operazione appena conclusa rappresenti per la Fiat e per tutta l`industria italiana un momento storico". Così l'amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne commenta l'alleanza con Crhysler.

"E` un importante passo avanti nell`impegno di gettare nuove e solide basi per il futuro. Oggi è anche un giorno di grande soddisfazione per tutte le donne e gli uomini della Fiat. Il fatto che il know-how della nostra azienda sia stato apprezzato dai più alti livelli dei Governi americano e canadese - che desidero ringraziare a nome dell`intero management del nostro Gruppo - è per tutti noi un forte stimolo per il lavoro che ci attende. Siamo certi che da questa alleanza uscirà una Fiat più forte e più internazionale, con maggiore capacità di competere sui mercati di tutto il mondo".

"Quest`operazione - ha commentato Marchionne - rappresenta una soluzione costruttiva e importante ai problemi che da alcuni anni affliggono non soltanto Chrysler ma l'intera industria automobilistica mondiale. L`alleanza permetterà di mettere insieme la tecnologia Fiat, che è tra le più innovative e avanzate al mondo, le sue piattaforme e i suoi propulsori per vetture piccole e medie nonché la sua vasta rete di distribuzione in America Latina e in Europa con il grande patrimonio della Chrysler, che ha una forte presenza in Nord America e lavoratori pieni di talento e di impegno".

Tutto ciò - ha osservato Marchionne - darà vita ad "una nuova forte casa automobilistica e aiuterà a preservare, insieme ai posti di lavoro, un`industria manifatturiera di importanza cruciale per le economie statunitense e canadese".

"Da quando abbiamo iniziato le trattative con Chrysler quasi un anno fa, il nostro obiettivo è sempre stato quello di valorizzare i punti forti di entrambe le aziende per ottenere i volumi, le efficienze e i risparmi necessari per creare due costruttori più forti, in grado di competere in modo più efficace a livello globale.

Quest'operazione - ha aggiunto - è un passo importante verso il raggiungimento di questo traguardo. Il nostro lavoro è appena iniziato. Insieme ai nostri nuovi partner della Chrysler lavoreremo per valorizzare l`enorme potenziale di quest'alleanza e per reintrodurre sul mercato nordamericano alcuni dei nostri marchi più famosi, inclusa l'Alfa Romeo e la Cinquecento, che ha vinto numerosi premi".

Non saremmo qui oggi ad annunciare quest'accordo - ha osservato Marchionne - se non fosse stato per la costante dedizione, l'impegno e la creatività della Task Force automobilistica statunitense e dei loro colleghi canadesi. Mentre cercavamo di risolvere le difficoltà e superare gli innumerevoli ostacoli tipici di operazioni di questo genere, non hanno mai smesso di avere fiducia nel progetto".

Grazie a quest'operazione, "hanno posto le basi per il ritorno sul mercato automobilistico di una Chrysler forte e stabile". Anche le organizzazioni sindacali di entrambi i Paesi "hanno dato un apporto significativo, accettando una riduzione dei loro benefit e una partecipazione azionaria in cambio di alcune delle loro richieste. Vorrei ringraziare - ha detto l'ad della Fiat - i responsabili della United Auto Workers e della Canadian Auto Workers per tutto quello che hanno fatto e per la loro costruttiva partecipazione alla nostra sfida comune, che è quella di ricreare una grande Chrysler".

"Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, passerò molto tempo ad incontrare i lavoratori della Chrysler e visitare i suoi stabilimenti. Il nostro accordo è necessariamente soggetto alle procedure legali statunitensi che dureranno alcune settimane; nel frattempo Chrysler - ha aggiunto - si preparerà a ritornare in tempi brevi un costruttore affidabile e competitivo. Sono convinto che la società sia in grado di affrontare le sfide che le attuali difficili condizioni di mercato pongono ricorrendo al proprio spirito innovativo, facendo della qualità il punto di forza della propria gamma di prodotto e ascoltando i propri clienti per dar loro le automobili che desiderano.

Questo è il modello che abbiamo rigorosamente seguito in Fiat negli ultimi anni e sono convinto che possa essere adottato anche in questo caso per scrivere un nuovo capitolo nella storia della Chrysler".
 
 

Fonte - APCOM