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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Mondo - mercati finanziari

Alert catastrofe sistemica

Materie Prime - Petrolio

Vendere petrolio in Euro?

USA - Merger & Acquistition

Capitalismo da fusione

Macro USA e Mercato credito

La grande illusione dell'infinita liquidità

Borse e Mercati

Provocazioni: al toro piacciono i titoli da ricchi

Borse e Mercati

Derivati: negli USA oltre 100 trilioni di dollari

   

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+++  ANSA   +++   Le Banche centrali optano per politiche monetarie restrittive   +++   L'Iran avrà 10 bombe atomiche   +++   Disordini a Parigi, è un nuovo '68   +++   In Israele vince il partito di Sharon   +++   ANSA   +++

Giovedì  2  marzo  2006   Giovedì  9  marzo  2006   Mercoledì  29  marzo  2006
   
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   Alert catastrofe sistemica

7 Marzo 2006 0:55 NEW YORK - (di WSI)

La settimana del 20-26 marzo rappresentera’ l’inizio di una crisi politica che potrebbe sfociare in una crisi economica e finanziaria simile al 1929. Motivi: la borsa petrolifera di Teheran in euro e l'abolizione della M3 da parte della Fed.
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Il Laboratoire européen d’Anticipation Politique Europe 2020 (LEAP/E2020) stima, con una probabilita’ dell’80%, che la settimana del 20-26 marzo rappresentera’ l’inizio di una significativa crisi politica che potrebbe sfociare in una crisi economica e finanziaria simile a quella scoppiata nel 1929. Nel caso di un intervento militare da parte degli Stati Uniti o di Israele contro l’Iran, le probabilita’ dello scoppio della crisi ammonterebbero al 100%.
L’allarme e’ basato su due eventi fondamentali che si verificheranno nella settimana in questione. Il primo riguarda la decisione iraniana relativa all’apertura della prima borsa petrolifera prezzata in euro, che dovrebbe aprire il prossimo 20 marzo a Teheran e sara’ disponibile per tutti i produttori petroliferi della regione; il secondo riguarda la decisione della Federal Reserve americana di sospendere la pubblicazione dei dati relativi all’offerta di moneta M3 (che rappresenta uno degli indicatori piu’ affidabili per la stima dell’ammontare in dollari circolante nel mondo) a partire dal 23 marzo prossimo.

Gli analisti e ricercatori dell’associazione hanno identificato ben sette componenti che potrebbero indurre ad una crisi totale in cui sara’ coinvolto l’intero pianeta sia dal punto di vista politico che finanziario ed economico, nonche’ militare:

1. Crisi di fiducia nel dollaro
2. Crisi della stabilita’ finanziaria americana
3. Crisi petrolifera
4. Crisi della leadership statunitense
5. Crisi del mondo Arabo-Musulmano
6. Crisi della governabilita’ globale
7. Crisi della governabilita’ europea

Cerchiamo ora di spiegare come i primi 3 di questi eventi possono contribuire allo scoppio di una crisi globale.

Punto numero 1: “La creazione di una borsa petrolifera iraniana prezzata in euro”
Il verificarsi di tale evento rappresenterebbe la fine del monopolio del dollaro sul mercato petrolifero globale, con conseguenze immediate sui mercati internazionali della valute. In tal contesto, i Paesi produttori di greggio sarebbero in grado di prezzare il proprio output in valuta europea e, allo stesso modo, i Paesi europei sarebbero in grado di acquistare quantita’ di petrolio utilizzando la propria valuta, trascurando il cambio in dollari. In pratica, solo un minor numero di operatori avrebbe la necessita’ di un ammontare in valuta americana, con la conseguenza di una pesante svalutazione del dollaro. In uno scenario del genere, non sarebbe da escludere un cambio euro/dollaro di 1.70 entro la fine del 2007.

Punto numero 2: “La sospensione della pubblicazione dell’indicatore macroeconomico M3”
Con tale decisione, fortemente criticata dalla comunita’ degli economisti ed analisti finanziari, l’evoluzione della quantita’ di denaro denominato in dollari a livello globale perdera’ di trasparenza. Nell’ipotesi di un forte deprezzamento del dollaro, cosi’ come spiegato poco sopra, si potrebbe assistere ad una massiccia vendita dei bond del Tesoro americani detenuti nei Paesi asiatici ed europei e in quelli produttori di greggio. Cio’ permetterebbe agli Stati Uniti di “nascondere”, per il maggior tempo possibile, due decisioni, in parte imposte dalle scelte politiche ed economiche degli ultimi anni: la “monetarizzazione” del debito Usa e il lancio di una politica monetaria che possa sostenere l’attivita’ economica a stelle e strisce.

Punto numero 3: “L’intervento militare contro l’Iran”
L’Iran gode di significativi asset strategici e dell’abilita’ di intervenire direttamente sull’output di greggio, alterandone il livello globale. Numerose le possibilita’ da non trascurare, alla portata di uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo: il blocco delle stretto di Ormuz (situato tra il golfo Persico e quello di 'Oman e che separa l'isola di Ormuz dalle coste dell'Arabia), l’intervento nei conflitti in corso tra Iraq e Afghanistan, il ricorso al terrorismo internazionale nel caso estremo di un crollo dei rapporti con l’Occidente. Se gli Usa decidessero di intervenire militarmente contro l’Iran, potrebbero correre il rischio di rimanere privi del supporto degli europei, ancora titubanti sul modo in cui e’ stata gestita l’invasione dell’Iraq. Allo stesso tempo, il conseguente aumento dei prezzi petroliferi, potrebbe portare i Paesi asiatici, e la Cina in particolare, ad opporsi all’operazione, forzando gli Stati Uniti (o Israele) ad un intervento autonomo, senza l’appoggio delle Nazioni Unite.
Nella peggiore delle ipotesi, l’unione di tali componenti potrebbe causare un crollo del dollaro rispetto alle principali valute internazionali, un vertiginoso aumento dei prezzi petroliferi (oltre i $100 al barile), un peggioramento delle situazioni militari gestite da Usa e Gran Bretagna in Medio Oriente, una crisi economica e finanziaria paragonabile a quella scoppiata nel 1929, un improvviso stop del processo di globalizzazione, un collasso dell’asse transatlantico con conseguenti pericoli per il mondo intero.

Le conseguenze dell’ultima settimana di marzo saranno cruciali. Per gli investitori privati la scelta sembra essere forzata: e’ ormai chiaro che il dollaro non gode piu’ di quella fama di valuta “rifugio” che lo ha caratterizzato per cosi’ lungo tempo: il recente rally dell’oro potrebbe essere la spiegazione a tale evento, cosi’ come dimostrato dai numerosi operatori che hanno saggiamente anticipato tale trend.

Fonte - Laboratoire européen d’Anticipation Politique Europe 2020 per Wall Street Italia.com

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Persiana: ipotesi air strike sulle centrali

10 Marzo 2006  1:12  ROMA

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L’Iran è la priorità numero uno per il governo degli Stati Uniti. Ora è ufficiale, a confermarlo sono Condoleezza Rice e Donald Rumsfeld davanti al Congresso americano. «Il governo di Teheran - ha detto il segretario di Stato - deve riconoscere che resterà isolato se continuerà su questa strada». E mentre prevale la linea dura nella diplomazia internazionale, con il deferimento al Consiglio di Sicurezza da parte dell’Aiea, alcuni cominciano a pensare che presto una soluzione pacifica non sia più l’unica opzione.

Fonti dell’industria bellica europea rivelano al Riformista che negli ultimi tre mesi la domanda di produzione di armi è lievitata «follemente». Specialmente da Stati Uniti e Gran Bretagna. La massa di ordini di munizioni e pezzi di ricambio, ci raccontano, «non è assolutamente compatibile con una normale attività di riparazione e mantenimento » e che rappresenta una «forte crescita » rispetto agli ultimi anni, che pure hanno visto Usa e alleati impegnati sul fronte afgano e in Iraq.

Nelle settimane immediatamente successive alle esternazioni di Mahmoud Ahmadinejad sulla cancellazione di Israele dalle cartine geografiche,e sulle ambizioni nucleari della repubblica iraniana, sui giornali italiani e internazionali sono abbondati pareri di esperti e analisti che scongiuravano l’ipotesi di un intervento militare. L’atomica in mano agli ayatollah non piace a nessuno, spiegavano, ma di opzione militare non se ne parla: la possibilità di un’azione aerea mirata contro le centrali non esiste perché il dislivello tecnologico non è sufficiente a garantire l’operazione; e quanto a una vera propria occupazione è ancor meno fattibile per un paese delle dimensioni dell’Iran.

Ora però i venti di guerra sembrano quanto meno più vicini. Fonti militari Usa vicine al Congresso sostengono, tra l’altro, che uno strike aereo sarebbe «molto più facile di quanto non abbiano detto» e che pur senza distruggere tutte le centrali,un raid potrebbe «rimandare la produzione nucleare per anni». Infatti Teheran ha bisogno di «quasi cento edifici per arricchire l’uranio e dare forma al metallo», ma «basterebbe demolirne alcune per porre fine al programma ».Tra gli obiettivi possibili, ci sarebbe anche la “famosa” centrale di Natanz, «ben protetta», ma la cui architettura, basata su un progetto della Luftwaffe del 1939,«non è al passo con la capacita di penetrazione delle ultime bombe». Questo non significa che gli Usa vogliano bombardare a breve l’Iran, ma solo che, con l’esaurirsi delle opzioni diplomatiche, si tengono pronti.

«Credo che in realtà la volontà diplomatica ci sia - racconta Arie M. Kacowic, docente di relazioni internazionali presso l’Università ebraica di Gerusalemme - gli Usa e l’Europa, Italia compresa, sono tutti interessati a esplorare le soluzioni diplomatiche fino alla fine, solo che si comincia a credere sempre meno ». Parliamo di scenari. «A partire dal deferimento da parte dell’Aiea, che già di per sé è una mossa significativa, la partita si gioca al Consiglio di Sicurezza - racconta Kacowic - dove l’unico gioco che si può giocare è quello diplomatico. Non credo che si arriverà alle sanzioni, perché Cina e Russia si opporranno. Sembra che l’Iran voglia giocare la partita diplomatica verso la fine: non mi stupirei se proprio all’ultimo momento Ahmadinejad cedesse».

Però molti analisti dicono che più prosegue l’escalation, più Ahmadinejad è costretto al rialzo per non perdere la faccia davanti al mondo islamico. «Non credo sia tanto una questione di perderci la faccia, ma la possibilità che Teheran non si fermi c’è e dobbiamo tenerne conto. E una volta esaurita l’opzione diplomatica, gli Stati Uniti si troveranno davanti al dilemma di trasferire la crisi su un piano militare, quando la loro credibilità in Iraq è già in dubbio, oppure non trasferirla,nonostante abbiano invaso l’Iraq dove le armi non sono state trovate, mentre in Iran le armi ci sono e sembra anche che ci sia un secondo programma parallelo, sulla falsariga della strategia pachistana».

E Israele? «Militarmente, Israele è al di fuori del gioco: l’Iran del 2006 non ha nulla a che vedere con l’Iraq del 1981 (quando Israele bombardò il reattore di Tuwaitha). Gli americani ci stanno pensando, ma sanno che non gli conviene finché altre strade sono aperte. Circa sei mesi fa una simulazione di un’invasione iraniana ha dimostrato che costerebbe almeno il doppio di quanto finora è costata la guerra in Iraq. Condoleezza Rice è la prima a volere esaurire fino all’ultimo le opzioni diplomatiche, solo che a questo punto non c’è alcuna garanzia».

Ma a proposito di costi, una terza fonte suggerisce che il flusso anomalo di richieste di armi (specialmente di munizioni guidate) non sia altro che il risultato del prolungamento della guerra in Iraq. O, più precisamente, dell’incapacità di chi gestisce i sistemi di resource planning - programmi computerizzati analoghi agli e.r.p.(enterprise resource planning) aziendali, cui molti eserciti si rifanno per automatizzare le richieste di ricambi e rifornimenti quando le riserve di armamenti scendono sotto una data soglia x - di tenere il passo della richiesta di forniture: «E’ un problema già registrato durante la prima guerra del Golfo. Il fatto è che la soglia x è troppo bassa, specialmente per quel che riguarda le munizioni guidate che vanno per la maggiore, così può capitare che ci si trovi costretti a ordinare troppe armi tutte d’un colpo». Quindi sarebbe solo un errore numerico? «No, vuol dire che le previsioni erano sbagliate, che si sono consumate molte più armi di quanto ci si aspettava». O che se ne consumeranno.

 

 

Fonte - Il Riformista

 

 

 

 

 

   Vendere petrolio in Euro?

3 Marzo 2006 10:20 NEW YORK - (di Còilìn Nunan)
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Con le probabilità di un attacco all’Iran da parte di Stati Uniti e Israele in aumento, da più parti è stato suggerito che la vera motivazione dell’avversione statunitense verso la Repubblica islamica abbia poco a che fare con il fatto che Teheran sta costruendo armi nucleari.
Inoltre, alcuni commentatori hanno suggerito che la vera minaccia dell’Iran all’economia Usa – la vera sfida all’amministrazione Bush – consista nel tentativo di mettere in piedi da parte iraniana una “borsa petrolifera” entro il prossimo marzo, iniziativa che permetterebbe di commerciare il petrolio in euro. E che sposterebbe le vendite del greggio dalla loro attuale denominazione in dollari; ciò minerebbe la valuta americana, generando gravi ripercussioni economiche.
Il dibattito – nato sul web – è un retaggio di quanto accaduto prima dell’invasione dell’Iraq, quando molti osservatori, me incluso, ipotizzarono che la decisione di vendere petrolio in euro fosse una delle ragioni per cui l’America voleva una “svolta di regime”. La decisione di riconvertire il petrolio iracheno e le riserve di valuta straniera di nuovo in dollari (valori che prima della guerra erano espressi in euro), di sicuro ha sostenuto questa teoria.
In ogni caso, altri hanno sostenuto che dare importanza alla valuta con cui si commercia petrolio significa sapere poco di economia. Anche se le vendite di petrolio prescindessero dal dollaro, si sostiene, ciò non farebbe alcuna differenza per l’economia Usa; quindi non avrebbe niente a che vedere con la ragione per cui gli Usa hanno mosso guerra all’Iraq, e per cui hanno adottato una posizione di minaccia contro l’Iran.

Proverò di far riferimento all'argomento principale, dato che ritengo che la valuta con cui si vende il petrolio sia una questione importante e spesso non sufficientemente spiegata, nemmeno dal sottoscritto.
Coloro i quali sostengono che la denominazione della valuta sia cruciale per la forza del dollaro tendono a sottolineare come altri Stati siano costretti a risparmiare dollari per acquistare petrolio. I loro critici replicano affermando che non c’è bisogno di risparmiare in dollari per comprare greggio, dal momento che è possibile cambiare qualsiasi valuta su ogni mercato. Quello che conta, dicono gli stessi critici, è la moneta che la gente risparmia, più che quella usata per commerciare. Le persone che mettono da parte dollari o beni finanziari Usa generano alti investimenti negli Stati Uniti e in ultima analisi consentono agli stessi Usa di gestire il loro enorme deficit commerciale.
L’ultima osservazione è corretta, ma pone in secondo piano un punto fondamentale, cioè che la ragione per cui molti paesi decidono di risparmiare in dollari è il fatto che il greggio viene venduto in questa stessa moneta. È importante sapere in quale valuta estera gli Stati risparmiano, ma lo è anche sapere in quale valuta effettuano le loro operazioni commerciali.
Per comprenderne la ragione dobbiamo pensare al motivo per cui le banche centrali possiedono riserve di denaro estero. E inoltre chiediamoci: quali considerazioni determinano la scelta della valuta estera da risparmiare? La risposta alla prima domanda è che, se necessario, si può intervenire nei mercati per sostenere gli scambi della propria moneta. Se per esempio la valuta subisce un attacco da speculatori che la stanno vendendo sui mercati esteri, la banca centrale può usare la valuta estera per comprare la sua stessa moneta, sostenendo così il suo valore. Non si può ovviamente acquistare la propria valuta se prima non si è accumulata una certa riserva di moneta straniera. Quindi se una banca centrale conserva una buona quantità di valuta straniera, la prima preoccupazione non deve essere quella di investirla per un possibile ritorno, ma di proteggere la propria valuta per renderla stabile. Più riserve uno Stato possiede, meno frequentemente gli speculatori attaccheranno quella moneta.
Nessuno si sognerebbe di lanciarsi contro lo yen o lo yuan, perchè le relative scorte sono imponenti. Esattamente il contrario di ciò che riguarda molte nazioni povere, la cui moneta – dal momento che le loro banche centrali hanno ben poche scorte di valuta straniera e possono fare relativamente poco se il mercato decidesse di vendere – è facilmente svalutabile. In questo contesto, vale la pena ricordare come George Soros divenne famoso lanciando un attacco speculativo alla sterlina. La banca d’Inghilterra in quel periodo non era in grado di difendersi, dal momento che le sue scorte di valuta straniera stavano per finire: una chiara dimostrazione di come la forza della moneta dipenda dalla corrispondente abilità della banca centrale di difenderla.
Dunque, proteggere la propria valuta è la ragione principale del possedere scorte di moneta straniera. Ma quale moneta in particolare? La risposta a questa domanda dipende quasi interamente dalla risposta alla seguente: “Quale valuta estera danneggerebbe maggiormente la tua moneta in caso di un'improvvisa svalutazione?” Se la risposta fosse: “In questo momento il danno maggiore verrebbe da una caduta della mia moneta contro il dollaro”, allora avrebbe senso detenere la maggioranza delle tue riserve in dollari. Questo permetterebbe di acquistare la propria moneta utilizzando la valuta Usa. Se la maggior preoccupazione è una svalutazione contro il dollaro, allora non ha molto senso avere grosse scorte di yen o di euro.
Per la maggior parte delle nazioni, un’improvvisa svalutazione contro il dollaro potenzialmente potrebbe essere molto più svantaggiosa di una svalutazione contro l’euro, lo yen, o lo yuan. Questo perché la maggior parte dei beni e dei servizi commerciati internazionalmente sono prezzati e pagati in dollari, e perché tutte le materie prime più importanti, incluso il petrolio, sono denominate in dollari. Se la tua moneta è in ribasso rispetto al dollaro, allora i prezzi del petrolio per te saliranno; laddove la caduta fosse nei confronti dello yen, allora i prezzi di alcuni prodotti giapponesi importati aumenterebbero, senza che questo risulti essenziale per l’andamento dell’intera economia.
Inoltre, i prezzi di molti prodotti giapponesi sono espressi in dollari, quindi anche questi aumenterebbero. Dal momento che il valore di tutti i principali prodotti è espresso in dollari, ha completamente senso dal punto di vista economico che le banche centrali abbiano grosse riserve di dollari. Se la denominazione dei prodotti importati, in particolare il petrolio, si spostasse dalla valuta americana, gli stati ricchi del pianeta rifornirebbero le loro scorte con una diversa moneta estera, e di conseguenza il dollaro perderebbe valore.
Per le nazioni povere esiste un’altra ragione per cui è più conveniente risparmiare e commerciare in dollari. Spesso questi paesi si caratterizzano per un forte debito estero, e il debito estero viene espresso in dollari. Questo significa che se la loro moneta si svaluta contro il dollaro, il loro debito aumenta. Come risultato, le nazioni povere prezzano in dollari le merci che esportano, in modo da essere pagati con questa moneta ed evitare eventuali perdite valutarie. Ciò permette loro di pagare i debiti, di commerciare, di comprare il petrolio che non possiedono, e di proteggere la loro valuta. Dato che le esportazioni dei paesi in via di sviluppo sono spesso essenziali per l’economia mondiale (essendo composte da materie prime), la loro decisione di esprimersi in dollari ha un contro-effetto sull’economia dei paesi ricchi, i quali hanno un’ulteriore ragione per risparmiare dollari nelle banche centrali.
Possiamo quindi concludere che il listino prezzi iraniano in euro sia la vera causa della crisi corrente? Significherebbe saltare alle conclusioni. In questo momento, asserire che sicuramente l’Iran si muoverà in questa direzione è solo un'ipotesi. Io non ho ancora sentito Teheran dichiararsi apertamente sull’argomento. Ci sono buone ragioni per sospettare che il listino potrebbe essere in euro, dato che fonti governative ne hanno parlato a favore; inoltre, secondo una dichiarazione attribuita al vice governatore della banca centrale iraniana, l’Iran avrebbe cominciato a vendere greggio in euro all’Europa già nel 2003.
Nel gennaio 2004, Bijan Namdar Zangeneh, l'allora ministro iraniano del petrolio, si espresse negativamente sulla possibilità di un cambiamento verso l’euro, e recentemente – anche lo scorso settembre – il responsabile della borsa valori iraniana aveva smentito le voci di un eventuale cambio di valuta. Sappiamo anche che l’Iran era stato precedentemente coinvolto in discussioni con altri Stati islamici, come la Malesia, che tentavano di introdurre una nuova valuta, il “conio islamico d’oro”, da impiegare nel commercio internazionale, in particolare in quello del greggio. A favore dell’euro, d’altro canto, sta il fatto che ben poco si è sentito parlare l'anno scorso del conio islamico d’oro, e solo il mese scorso è stato riportato che il presidente della commissione per l’energia del Majilis (il parlamento iraniano) ha affermato di voler prendere “misure preliminari per cominciare a vendere il petrolio in euro anzichè in dollari”, e che “inizialmente l’Iran dovrebbe vendere in entrambe le valute, per poi commerciare solo in euro”. Comunque, fino al momento in cui non sentiremo sul tema fonti ufficiali iraniane, non sarebbe saggio giungere a conclusioni affrettate.
La possibilità che la borsa petrolifera iraniana non utilizzi l’euro non svilisce la sua importanza, e ci sono buone ragioni per credere che il governo americano, quello inglese e vari interessi economici internazionali vi si opporrebbero, al fine di continuare a esercitare il proprio controllo sul commercio del petrolio. Ma questa è un’altra storia.
 

Fonte: http://www.energybulletin.net/12463.html
Tradotto da Elena Cortellini per Nuovi Mondi Media

 

 

 

 

  Mercoledì  1  marzo  2006   Mercoledì  1  marzo  2006   Giovedì  3  marzo  2006  
       
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   Capitalismo da fusione

27 Febbraio 2006 8:01 LUGANO - (di *Alfonso Tuor)
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*Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in lingua italiana.

Le recenti notizie tendono a confermare che un vento «strano» spira nei paesi occidentali. Negli Stati Uniti, molti parlamentari (sia repubblicani sia democratici) si stanno scontrando con l’amministrazione Bush sulla vendita della società britannica che gestisce alcuni dei più importanti porti americani a una società che fa capo all’Emirato arabo del Dubai.
Strumentalmente invocano questioni di sicurezza, come era già accaduto nel caso del tentativo di scalata di una compagnia petrolifera cinese all’americana Conoco e come era accaduto nel riuscito acquisto del comparto dei computer dell’IBM da parte della cinese Lenovo. I parlamentari americani non si limitano a voler far deragliare la scalata araba, ma chiedono anche che vengano rese più severe e soprattutto sottoposte al Congresso le procedure che permettono l’acquisto di corporations americane da parte di interessi stranieri.

Al di qua dell’Atlantico, il governo francese ha varato recentemente delle norme (al vaglio dell’UE) per difendere le società transalpine da scalate ostili straniere. Altrettanto ha fatto il piccolo Lussemburgo, dove ha sede il gruppo siderurgico europeo Arcelor, che l’indiana Mittal vuole acquistare a suon di miliardi di dollari. In Italia si stanno studiando misure analoghe a quelle francesi, mentre il governo polacco sta impendendo la presa di possesso della banca polacca Pekao da parte dell’italiana Unicredito.
Questa lista potrebbe essere ancora allungata (basti pensare alla reazione francese a una possibile scalata della Suez da parte dell’italiana Enel), ma quello che conta è che molti stanno cercando di difendere (in svariati modi) quelli che considerano i loro «campioni nazionali». Queste reazioni ovviamente fanno a pugni con le leggi del mercato, secondo cui le scalate (anche se ostili) sono il frutto di una sottovalutazione della preda dovuta ad una cattiva gestione oppure a dimensioni di scala insufficienti. Quindi, la società cacciatrice svolge l’importante funzione di creare valore migliorando la gestione dell’azienda o sfruttando meglio le potenzialità inespresse della società grazie a dimensioni maggiori.
Dunque, secondo l’attuale ortodossia economica, tutto deve essere contendibile sul mercato (quindi, anche la proprietà di una società) e la discussione può unicamente riguardare il prezzo. In quest’ottica, la battaglia politica per la difesa dei «campioni nazionali» è sbagliata ed è di retroguardia. Secondo i puristi del mercato, queste considerazioni non vengono inficiate nemmeno dalle statistiche che rivelano che la stragrande maggioranza delle fusioni e delle acquisizioni si rivelano a distanza fallimentari. Non vengono nemmeno inficiate dal fatto che la presenza di centri decisionali economici sul proprio territorio è un fattore di capitale importanza per ogni iniziativa economica, come si sa bene in Ticino dove molti centri decisionali sono oltre San Gottardo.

È quindi legittimo interrogarsi su quali siano le cause di questa nuova grande ondata di fusioni e acquisizioni. Ebbene, le ragioni principali sono sostanzialmente due. Il primo motivo è che le grandi società nazionali (soprattutto in Europa) sono diventate società di medie dimensioni nell’attuale era dei mercati globali. Quindi, l’alternativa appare chiara: o crescere o morire. Questa spiegazione ne nasconde un’altra più preoccupante è che in molti settori economici si stanno imponendo cinque/sei società che sono dei global player ed attorno ad essi si sta creando il vuoto. In altri termini, nei diversi settori si assiste all’affermazione di pochi giganti che in prospettiva non assicurano che vi sia quella concorrenza necessaria per garantire la qualità migliore con i prezzi più bassi.
Questo processo è in corso nell’industria siderurgica, in quella automobilistica, in quella delle telecomunicazioni, in quella della distribuzione, dei trasporti aerei e così via. È significativo, in proposito, tener presente che la liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica in Europa porterà presto, secondo il numero uno del gruppo tedesco E.on, alla formazione di tre grandi gruppi europei che controlleranno l’intero mercato. In pratica, ciò vorrà dire che si passerà da monopoli pubblici nazionali a monopoli privati multinazionali con il rischio di trovarsi in una situazione peggiore di quella precedente.
Quindi, l’ondata di fusione ed acquisizioni è il frutto della ricerca di dimensioni di scala che però sono tali da mettere in discussione lo stesso funzionamento del mercato, come dimostra il moltiplicarsi delle scoperte di accordi illeciti sui prezzi tra le diverse società. Il secondo motivo di questa impennata di fusioni ed acquisizioni è che ci sono molti capitali in circolazione e quindi una perdita di valore dei soldi rispetto ai beni reali (materie prime, immobili, aziende, ecc.).
Infatti negli ultimi anni molte società hanno registrato utili notevoli (che spesso vengono utilizzati per programmi di riacquisto di azioni proprie) e hanno accumulato ingenti riserve di liquidità, che spesso usano per queste operazioni di acquisizione, che infatti oggi avvengono prevalentemente con pagamenti cash e non con concambi azionari, come accadeva in passato.
La fuga dal capitale liquido alla ricerca di rendimenti maggiori e soprattutto meno incerti è anche la causa della facilità con cui oggi le società di Private Equity (che sono le altre protagoniste di queste scalate) riescono a raccogliere enormi quantità di capitali dagli investitori privati. Quindi, una fuga dai capitali liquidi alla ricerca di beni reali. Tenuto conto di queste circostanze, l’ondata di acquisizione potrebbe essere vista come un segnale di malattia piuttosto che di salute dell’economia mondiale.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

Giovedì  9  marzo  2006   Martedì  14  marzo  2006   Sabato  25  marzo  2006
   
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   La grande illusione dell'infinita liquidità

13 Marzo 2006 14:29 MILANO - (di Francesco Arcucci)
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Passati sono i tempi - lontani - in cui le banche centrali (era più corretto parlare allora di istituti di emissione) trovavano un limite stringente alla creazione di moneta nell´obbligo di assicurare la conversione dei biglietti in oro.
E passati sono ancora i tempi – gli anni Settanta del secolo scorso – in cui, quando le banche centrali aumentavano la liquidità del sistema economico, l´inflazione rialzava immediatamente la testa senza che a ciò corrispondesse un´accelerazione del ritmo dell´attività produttiva. Allora si parlava di stagflation, di stagnazione con inflazione.
Oggi avviene il contrario: le banche centrali inondano il sistema di liquidità, l´economia si espande e l´inflazione rimane modesta. E´ lo sviluppo senza inflazione, l´Eldorado, il sogno dei banchieri centrali. Essi sono diventati il genio della lampada di Aladino, capaci di esaudire ogni desiderio, approfittando del fatto che Cina, India e Paesi del sud-est asiatico producono e vendono i loro manufatti e servizi all´Occidente industrializzato a prezzi molto contenuti.
Contrapponendo a questa spinta deflazionistica la controspinta della liquidità abbondante si è ottenuto un equilibrio straordinariamente propizio. Ed ecco salire i prezzi degli appartamenti e degli immobili in genere, dei terreni agricoli, dell´oro e dell´argento, delle pietre preziose, degli oggetti da collezione, dei titoli azionari e, addirittura, delle obbligazioni a lungo termine. L´abbondanza di liquidità copre tutto. Rende plausibile e accettabile dai mercati finanziari ogni anomalia.

Il prezzo del petrolio oltre 60 dollari al barile? Il deficit pubblico americano sopra 600 miliardi di dollari all´anno? La bilancia commerciale degli Stati Uniti in deficit di 800 miliardi di dollari? L´oro sopra 550 dollari l´oncia? La minaccia di nuovi attentati? I marines che muoiono come mosche in Iraq? Le tensioni in Medio Oriente sempre più acute? Le famiglie americane sempre più indebitate e non in grado di sostenere ulteriormente i consumi? Sono tutte cose che, anche prese singolarmente, in passato avrebbero fatto precipitare i corsi delle azioni e che oggi vengono accolte con una scrollata di spalle.
Ma in economia, prima o poi, i nodi vengono al pettine: questo rifiuto dei mercati, spinti dall´abbondanza di liquidità, di prendere sul serio i problemi sta generando un grande squilibrio fra i patrimoni (gonfiati) e i redditi di lavoro e di capitale (interessi e dividendi) che non crescono.
Le famiglie americane, ma anche quelle europee, sono ricche di patrimoni, ma povere di salari e di redditi derivanti da quei patrimoni. Continuano a scambiarsi i cespiti patrimoniali a prezzi gonfiati, ma, anche per la concorrenza dei salari cinesi, indiani, russi o polacchi, guadagnano poco e, comunque sia, non abbastanza per mantenere elevato il loro tenore di vita. Questo scollamento fra l´indice dei prezzi dei patrimoni e l´indice che esprime la variazione dei redditi è pericoloso. Quanto ancora può crescere la ricchezza rispetto ai redditi che languono?

Si è creato, cioè, un´enorme bolla speculativa senza che il tradizionale segnale di pericolo, cioè il rialzo del tasso di inflazione, induca le banche centrali a intervenire per portar via la boccia del liquore, visto che il party sta diventando selvaggio.
Il male si sta diffondendo, ma i sintomi tradizionali non si manifestano. Forse i banchieri centrali stanno prendendo a riferimento della politica monetaria l´indicatore sbagliato, come dice l´economista-filosofo Geminello Alvi, e cioè i prezzi del consumo e non quelli della ricchezza. Quando interverranno, non solo sarà troppo tardi, ma con il loro intervento il castello di carte rischia di crollare di colpo.
Novelli geni della lampada di Aladino hanno voluto, con una creazione di immane liquidità, esaudire ogni desiderio e hanno finito per rendere possibile ogni danno. In realtà tutto ciò deriva dal fatto che le banche centrali creano moneta dal nulla, senza trovare un limite nella convertibilità in oro o in altro bene reale.
Una creazione ad libitum che aveva nell´inflazione il suo incerto limite. Tutto questo meccanismo di creazione di moneta dal nulla, da un semplice atto di volontà delle banche centrali è una grande illusione e, in fin dei conti, un grande imbroglio. La storia e le leggi dell´economia sono lì a ricordarci che le monete senza valore intrinseco, prima o poi, fanno una brutta fine.
Diceva Henry Ford, il fondatore dell´omonima casa automobilistica: «Se il popolo americano venisse mai a sapere come funziona il sistema monetario degli Stati Uniti si scatenerebbe immediatamente una rivoluzione».
 

Fonte - La Repubblica - Affari & Finanza

 

 

 

 

 

 

Super America

17 Marzo 2006 18:31 MILANO
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La Borsa americana ha superato i massimi dal maggio 2001, con l’indice Standard & Poor’s 500 al di sopra di quota 1.300. I dati dell’economia reale sono altrettanto confortevoli: il pil cresce del 3-3,5 per cento, l’occupazione è in aumento, i salari sono in rialzo. L’inflazione è sotto controllo, gli investimenti in espansione. Anche il bilancio federale, che era in pesante deficit, a causa delle spese militari e dei tagli fiscali, sta migliorando perché le entrate registrano una crescita superiore al 10 per cento.
In questo quadro roseo, sostanzialmente corroborato dal Beige book della Federal Reserve, c’è però un “ma”, che può dare la sensazione che il quadro positivo sia illusorio. Infatti nel 2005 il disavanzo corrente della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti ha raggiunto gli 800 miliardi di dollari, con un aumento del 20 per centro sul 2004. Con un pil di 11.500 miliardi, il disavanzo corrente dei pagamenti statunitensi è il 6,9 per cento.
Dunque il benessere americano potrebbe essere un’illusione, derivante dal fatto che il paese s’indebita con l’estero, per controbilanciare l’eccesso di import sull’export. Ma il Wall Street Journal richiama l’attenzione su un fatto che le statistiche non mettono in luce: il rapporto fra gli interessi passivi che gravano sulla bilancia corrente americana, in relazione all’enorme ammontare di capitali esteri impiegati negli Stati Uniti, e gli interessi attivi e gli altri proventi delle imprese americane conseguiti all’estero, che, in gran parte, quando sono realizzati, ivi rimangono. Questo importo, secondo i calcoli che vengono forniti, supererebbe gli 800 miliardi, dando luogo a un attivo della bilancia degli Usa con l’estero di 40 miliardi.
Va notato che una parte dei frutti degli investimenti esteri rientra negli Stati Uniti, come afflusso di capitali, impiegati in dollari, generando l’illusione di un indebitamento che non c’è. Se tutto ciò è vero, trova una spiegazione anche il fatto che il dollaro non crolli, come sarebbe logico, dopo anni di disavanzi commerciali enormi, mentre non hanno fondamento certe preoccupazioni dei protezionisti. Ovviamente la chiave sta nell’enorme redditività della tecnologia e dei marchi degli Stati Uniti.
 

Fonte - Il Foglio
 

 

 

Quanti ribassisti sul Dollaro

21 Marzo 2006 22:32 MILANO
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Chi si aspettava indicazioni precise da Bernanke sul futuro dei tassi Usa è rimasto deluso. Le parole di ieri del nuovo numero uno della Fed sembrano infatti non aver destato particolari sorprese. Il mercato ha tuttavia guardato complessivamente con favore all'intero discorso del presidente della Fed il quale, commentando il basso livello dei rendimenti obbligazionario a lungo termine, ha spiegato che questa realtà non indica affatto un rallentamento dell'economia Usa e che non necessariamente riflette l'esigenza di avere tassi di interesse più bassi.

Queste parole, secondo la chiave di lettura del mercato, hanno rafforzato quindi le attese per un nuovo rialzo dei tassi di 25 punti base nel Fomc in calendario per la prossima settimana (al 4,75%). Per il futuro tuttavia si resta nella nebbia più totale. Anche se sono in diversi a pensare che la stretta monetaria americana sia molto vicina al capolinea.

Sulla scia di questa considerazione e sulla prospettiva invece che nel Vecchio Continente la Bce possa portare entro fine anno i tassi di riferimento al 3,25% (dall'attuale 2,25%), negli ultimi giorni alcune tra le maggiori banche d’affari hanno rivisto al ribasso le previsioni sul dollaro. Tra queste Goldman Sachs che si attende entro la fine dell'anno l'euro-dollaro a quota 1,30 e il dollaro-yen a 95 e Bank of New York che ipotizza un cambio 1,26 contro euro e a 110 contro yen.

Anche il multimiliardario Warren Buffett scommette su un indebolimento del biglietto verde chiamando però in causa il rosso record dei conti con l'estero totalizzato dagli Usa e l'assenza di politiche di governo atte a contenere il disavanzo di uno Stato dove "ogni giorno escono un paio di miliardi di dollari". La discesa delle quotazioni del dollaro – per Buffett – è inevitabile in quanto gli Stati Uniti "non hanno politiche governative in grado di controbilanciare il fatto che ogni giorno escono dal Paese un paio di miliardi di dollari".

Buffett, riferendosi all' andamento dell' interscambio Usa, ha precisato che gli americani "stanno comprando beni di consumo e vendendo beni capitali". Buffett negli ultimi anni aveva scommesso massicciamente a favore di una perdita di valore del biglietto verde, ma nel corso del 2005 a seguito del forte recupero messo a segno invece dal dollaro, ha dovuto mettere a bilancio ingenti perdite, pari a 955 milioni di dollari.

 

Fonte - La Lettera Finanziaria

 

 

 


 

 

 

 

   Provocazioni: al toro piacciono i titoli da ricchi

14 Marzo 2006 2:58 NEW YORK - (di WSI)
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Prezzi del petrolio alle stelle. Fiducia dei consumatori in ribasso. Tasso di risparmio degli americani ai minimi storici e record del deficit commerciale e della bilancia dei pagamenti. Questi quattro pezzi del puzzle dell'economia globale non fanno dormire di notte gli analisti più pessimisti, secondo cui la situazione è insostenibile e prima o poi il mondo precipiterà nella crisi finanziaria e nella recessione. C'è chi lo predica da quattro anni e non capisce perché il crollo non sia già avvenuto.

Una spiegazione semplice e tranquillizzante ce l'ha Ajay Kapur, responsabile delle Strategie azionarie globali di Citigroup, con 12 anni di esperienza sui mercati asiatici, che conosce da vicino essendo indiano con Mba della Delhi university. «La plutoeconomia è la chiave di lettura dell'attuale scenario globale - spiega Kapur -. Afferrato questo concetto, si può smettere di preoccuparsi di quei dilemmi e anzi seguire una strategia d’investimento ispirata dal "dominio della ricchezza", ottenendo molto più della media della Borsa». Un paniere di 24 azioni della «plutoeconomia», dalle italiane Bulgari e Tod's all'americana Tiffany, dal 1985 ha reso in media il 17,8% l'anno, 7,3 punti percentuali più dell'indice S&P500.
Kapur parte dall'osservazione che negli Stati uniti, in Gran Bretagna, Canada e Australia la plutoeconomia esiste da 20-30 anni: l'economia è trainata dalla domanda dei ricchi, diventati sempre più ricchi grazie a un trattamento fiscale favorevole e al boom del valore dei loro patrimoni, in Borsa, nel mattone e in altri impieghi. «La ricchezza netta del 10% più ricco degli americani equivaleva a 7,4 volte i loro redditi annui nel 2001 ed è cresciuta a 8,4 volte nel 2004, ultimi dati disponibili con l'inchiesta della Fed sulle finanze dei consumatori - cita Kapur -. I ricchi sono in ottime condizioni ed è normale che abbiano un livello di risparmi molto basso».
Kapur fa l'esempio di un amministratore delegato che possiede 1 miliardo di dollari in azioni dell'azienda per cui lavora e guadagna «solo» 1 milione di dollari l'anno: è ovvio che spenda più del suo salario. Oltre ai top manager pagati con stock-option, i nuovi ricchi dell'attuale plutocrazia sono i geni dell'high-tech diventati imprenditori e in generale coloro che beneficiano della globalizzazione.
La spesa dei ricchi sostiene i consumi, non importa se la benzina è più cara e se l'umore dei meno abbienti non è così ottimista. «Ma non è vero che parallelamente i poveri diventino sempre più poveri - puntualizza Kapur -. Anzi, i poveri di oggi hanno uno stile di vita comparabile a quello della classe media di un po’ di anni fa. Inoltre nel Paese plutocrate per eccellenza, gli Usa, i poveri pensano sempre di poter diventare ricchi un giorno: la controprova è che una larga maggioranza di americani vuole l'abolizione delle tasse di successione, anche se non ha patrimoni tassabili. Nei sistemi dove non sono percepiti ostacoli a diventare ricchi, alla gente non importano le diseguaglianze sociali».
L'alto livello dei consumi e quello basso dei risparmi dei ricchi americani sono una causa del profondo rosso della bilancia commerciale e dei pagamenti. «Un non problema, nè a breve nè a lungo termine - secondo Kapur -. E c'è un precedente storico a confermarlo. Dal 1870 al 1914 il mondo era già globalizzato, con i capitali che si spostavano dalla Gran Bretagna verso l'America dove finanziavano l'industrializzazione. In tutti quegli anni la Gran Bretagna ha registrato un deficit della bilancia dei pagamenti pari al 7-10% del suo Prodotto interno lordo, ma giustamente nessuno era preoccupato degli "squilibri globali". È naturale, in un mondo capitalistico, che i capitali vadano alla ricerca dei migliori impieghi, non importa se all'estero. Se a fine '800 era l'America che attirava risorse, oggi sono India e Cina che assorbono i maggiori investimenti da tutto il mondo». Azzerate le angosce sugli effetti catastrofici degli squilibri globali, si può scommettere su quelle società quotate che vendono beni e servizi ai plutocrati, perché hanno un buon controllo dei prezzi dei loro prodotti, per i quali la domanda è crescente. Le preferite dagli analisti di Citigroup sono le case del lusso Lvmh (Moët, Hennessy-Louis Vuitton) e Richemont (Cartier, Piaget, Baume & Mercier, Alfred Dunhill, Montblanc) e la boutique svizzera d'investimenti Julius Baer. «Ma per sfruttare il tema della plutocrazia - precisa Kapur - è bene diversificare su tutto il paniere».
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

 

Derivati: negli USA oltre 100 trilioni di dollari

30 Marzo2006 17:12 - ANSA

Nel quarto trimestre 2005 il totale nominale in derivati detenuti dalle banche commerciali Usa ha raggiunto negli Stati Uniti un nuovo record assoluto, con un volume che ha toccato i $101.5 trilioni; l'aumento e' di $2.7 trilioni nel trimestre, secondo i dati comunicati dallo U.S. Office of the Comptroller of the Currency.

Le prime cinque banche commerciali americane hanno guadagnato in totale $11.9 miliardi nel 2005, rispetto ai $7.3 miliardi del 2004. Nel quarto trimestre, le prime cinque banche Usa hanno totalizzato il 79% del totale del fatturato derivante dal trading di derivati, rispetto all'84% del terzo trimestre, secondo l'OCC. Le stesse banche (tra cui JP Morgan Chase, Bank of America, Citigroup) contano per il 96% del totale dell'ammontare nominale in derivati rispetto a tutto il sistema bancario degli Stati Uniti.

 

Fonte - ANSA

 

 

Derivati: il parere dell'Ufficio studi CFA

31 Marzo2006 08:56 - Studio CFA

Continua il nostro monitoraggio a scopo divulgativo su quanto accade nel mondo dei derivati a livello planetario.

Ribadiamo quanto andiamo dicendo da diversi anni: il sistema finanziario mondiale non può reggere di fronte al livello di crescita esponenziale di certi strumenti finanziari. Sebbene i derivati siano stati creati e utilizzati principalmente come strumenti di copertura da rischi di diversa natura, siamo convinti che i livelli globali raggiunti, testimonino come l'obiettivo primordiale, sia stato snaturato ai fini esclusivamente speculativi.

Presto o tardi la cifra abnorme investita in derivati collasserà con effetti destabilizzanti per tutto il sistema finanziario mondiale. Non a caso personaggi del calibro di Alan Greenspan e Warren Buffet hanno da tempo ammonito sulla pericolosità di questi strumenti.

Fonte - Ufficio Studi CFA