.

 
 

 
 

INDICE ARTICOLI di TESTA

 

PARTE  2

.

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Turani duetta con Fugnoli

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Azionario: ancora più rischi che opportunità

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Scenario mercati: da Vegas a Ordos

Derivati e speculazione

Ma la colpa non è dei CDS

Normativa - adeguamenti normativi post crisi creditizia

Derivati, la riforma che coinvolgeGoldman, JpMorgan, Citi e BofA

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Crisi: vi piace la tesi pessimista moderata, quella radicale o siete ottimisti?

Italia - Derivati e effetti collaterali

Ecco come la finanza creativa ha danneggiato gli enti pubblici

 
+++   ANSA   +++   Crisi, a Grecia servono 25mld euro   +++    Francia accusa Germania su gestione crisi graca   +++   Usa: Gensler (Cftc), Possibili Nuove Crisi Se Derivati Non Regolamentati   +++   Usa: Fed, Disoccupazione Restera' Alta e Limitera' Crescita   +++   Usa: Obama Vince sfida su assistenza sanitaria  +++   ANSA   +++ 
 
  Martedì 02 Marzo 2010   Mercoledì 03 Marzo 2010   Giovedì 04 Marzo 2010  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....
 
 
 

INDICE ARTICOLI - Seconda pagina e flash

   

Come Basilea 3 cambierà il modo di fare banca

I manager di Lehman hanno affondato Lehman

È partita la grande corsa all'oro nero nascosto

JP MORGAN E CITI DIETRO AL COLLASSO LEHMAN

Guadagnare con l’euro sotto attacco

DOLLARO: PIACE COME PRIMA DEL CRACK LEHMAN

Il Risparmio gestito si riscatta a fine 2009

Delusi dai mercati i risparmiatori si rifugiano in banca

Un decennio da dimenticare per i fondi comuni

La sveglia suona anche per il Giappone

GOLDMAN TEME I MEDIA: RISCHIO PER I BILANCI

Quelle tensioni geopolitiche che pesano sulle borse

Bond greci ottima opportunita’ d’investimento

CORPORATE BOND: UNA MINIERA D'ORO

BATTUTI DA BUFFETT

L’euro aspetta la soluzione greca

La risalita delle Borse a un anno dalla crisi

Corporate people

Investire dove Buffett non può (più) andare

Dubai World evita il default L'emirato converte i crediti

Europa? Meglio Usa e Asia

Il debito delle aziende spaventa gli Usa

   
Vai alla 1° parte della Rassegna Vai alla parte cronologica della Rassegna
 
 

 

  Turani duetta con Fugnoli

01 Marzo 2010 04:09 MILANO – di Giuseppe Turani

________________________________________

La nota settimanale di Alessandro Fugnoli, uno dei personaggi più attenti della finanza italiana, titola questa volta «Noia e Paura», sensazioni che, secondo lui, potrebbero essere le dominanti sui mercati di queste settimane.

Noia perché sembra che succeda poco: andamenti laterali su tutto. Paura perché ogni giorno c´è una Grecia, un deficit pubblico, un pericolo - improvviso o quasi - con cui fare i conti. E che spaventa, specie chi guarda le cose un po´ superficialmente.

La J. P. Morgan view della settimana sottolinea la fragilità del sentiment di mercato, non sembra dare gran peso ai problemi delle finanze degli stati, ammonisce più sul non spaventarsi troppo che su eventi evidentemente considerati non cosi gravi e, in fondo, conferma le sensazioni di Fugnoli. In realtà da mesi su queste colonne si ipotizzava un inizio d´anno prima più brillante, poi più soggetto a subire notizie negative, in definitiva pronto «fare ancora un giro al ribasso» di un altro cinque-dieci forse quindici per cento prima di prepararsi ad una seconda metà dell´anno che, tendenzialmente, dovrebbe essere buona. Almeno sui mercati azionari.

L´economia reale continua a non andar bene in buona parte del mondo, però la sensazione che nel corso del 2010 si tocchi il fondo é sempre molto marcata. E´ già partita la selezione delle aziende, con le migliori che hanno budget in crescita decisa rispetto al 2009 e le altre - specie quelle più indebitate - in sofferenza forte. Le banche giorno dopo giorno privilegiano giustamente coloro che assai probabilmente sopravvivranno e lasciano andare chi ha esagerato con il leverage e non ce la può fare.

Anche sulle ristrutturazioni dei debiti si comincia ad assistere a selezioni più drastiche e le banche più intelligenti, prima o invece di avallare piani di semplice allungamento dei rimborsi, spingono per facilitare aggregazioni, fusioni, rafforzamenti sul piano strategico e commerciale. In questo contesto i dati di crescita nei singoli paesi finiscono per avere poca importanza, perché saranno le singole società, in primis molte multinazionali, ad imprimere alle loro personali crescite i ritmi che il loro stato patrimoniale potrà permettere. E che il coraggio dei singoli manager consentirà di attuare.

Con ciò si assisterà ad un interessantissimo riposizionamento di gruppi in tutti i settori. Con vincitori e vinti non facilissimi da individuare oggi.
Chi avrebbe infatti pensato, ad esempio, che gruppi russi che fino a poco tempo fa acquistavano acciaierie, cementifici e società tecnologiche si ponessero ben presto nell´ottica - o si trovassero nella necessità - di dismettere? Proprio nessuno. Ed invece é quello che sta accadendo, con buon vantaggio di chi ha saputo aspettare.

Contrariamente a quello che tanti banchieri stanno raccontando, l´anno 2010 non sarà poi caratterizzato da tante quotazioni in Borsa, perché gli investitori hanno ormai deciso di puntare sui forti che si possono ancora rafforzare, piuttosto che scommettere su dei «new-comers». Per cui chi avrà progetti credibili potrà facilmente finanziare, anche con aumenti di capitale sul mercato, le proprie strategie di crescita, ma si dovrà aspettare un bel po´ per rivedere i lunghi elenchi di nuovi partecipanti ai listini. Ed é giusto, perché tra le esagerazioni degli ultimi anni c´è anche stata quella di voler far crescere troppo chi non aveva la forza intrinseca per farlo.

Non é infatti un caso che si stia già spegnendo quel fuoco fatuo delle emissioni obbligazionarie, anche di quelle ad alto rischio, che ha caratterizzato la seconda metà dello scorso perché non era logico dare troppi nuovi mezzi finanziari a chi veramente non li meritava. E così, mentre le varie Enel fanno il pieno di sottoscrizioni, tanti medi o fragili non riusciranno più a trovar soldi freschi. Lo si é detto più volte ed ogni giorno é più vero: é arrivata la selezione, c´è poco da fare.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

Come Basilea 3 cambierà il modo di fare banca

Monday, 1 March, 2010 at 8:30 - di Charles Dexter Ward
______________________________________________

La nuova regolamentazione del comparto finanziario avrà ripercussioni estremamente importanti sull’intero sistema economico: queste tematiche di carattere generale vengono normalmente lasciate ai forum di discussione tecnici mentre la gran parte degli operatori di mercato si concentrano nel commentare la singola trimestrale, la supposta bontà di un dato macro o un livello tecnico particolarmente importante. Con la spasmodica attenzione al dettaglio e al quotidiano guidata anche dal focus a volte miope sul mark-to-market giornaliero, si rischia di perdere di vista il quadro complessivo e le macro dinamiche che guidano l’economia globale e quindi i mercati. Basilea 3 sta riscrivendo in maniera profonda il modo di fare banca, con conseguenze dirette sugli impieghi delle istituzioni finanziarie, quindi sull’accesso al credito e in ultima istanza sulle aziende e sui loro fabbisogni finanziari.
Sempre sul fronte degli attivi ci saranno conseguenze sugli assets direttamente detenuti dal sistema bancario, con impatti evidenti nel pricing e nei flussi di tali strumenti. Non dimentichiamoci infatti che le banche stesse, oltre ad essere erogatori di credito, sono soggetti attivi sul mercato, soprattutto degli ABS e sulle obbligazioni finanziarie emesse da altre banche. Last but not least le banche sono entità che emetteno bond e il cui capitale è spesso quotato in borsa, rappresentando quindi il settore finanziario una percentuale molto elevata dei principali indici borsistici. Va da sé quindi che le proposte di Basilea 3 avranno impatti importanti nei prezzi a cui scambiano le azioni delle banche poiché i cambiamenti proposti avranno conseguenze sulla profittabilità delle banche medesime e sulla loro capacita di generare utili, sulle loro politiche di dividendi e sui loro livelli di capitale, sia in termini qualitativi che quantitativi. Nei prossimi interventi concentreremo invece il nostro focus sulle conseguenze ipotizzabili per le obbligazioni bancarie, avendo in questo breve intervento voluto semplicemente ricordare come le tematiche legate alla nuova regolamentazione delle istituzioni finanziarie hanno ripercussioni molto ampie ed estese che esulano dal pricing del singolo strumento.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

È partita la grande corsa all'oro nero nascosto

01 Marzo 2010 08:23 MILANO - di Paolo Migliavacca
______________________________________________

Il tesoro per cui è partita la caccia è potenzialmente enorme. Tanto da risollevare addirittura i fantasmi di una guerra, quella che la Gran Bretagna di Maggie Thatcher scatenò nella primavera del 1982 contro la giunta dei militari argentini che avevano invaso le isole Falkland (o Malvinas, come le chiamano a Buenos Aires, che le rivendicano fin dal 1833). Parliamo del petrolio, che 4 piccole compagnie di esplorazione hanno ripreso a cercare da alcune settimane nelle acque dell'arcipelago sperduto alle porte dell'Antartide: s'ipotizza la presenza di una gigantesca quantità di "oro nero", fino a 60 miliardi di barili (equivalenti, come termine di paragone, all'insieme delle riserve accertate residue di Usa e Canada), con una stima più prudente di 3,5 miliardi nel cosiddetto "Bacino Nord", secondo la compagnia di esplorazione indipendente Desire Petroleum (una ragione sociale molto eloquente...) che lo indagherà. «Potremmo anche non trovare nulla», ammette uno dei dirigenti di Desire. Cosa che del resto già accadde alle ben più illustri Shell e Lasmo, uscite «senza ritrovamenti commerciali significativi» dalla perforazione di 6 pozzi condotta in quelle acque nel 1988. L'attesa resta comunque carica di speranze.

L'avventura che si riapre nell'Atlantico meridionale ripropone all'attenzione mondiale una questione cruciale poichè appare sempre più difficile e costosa la ricerca di risorse aggiuntive d'idrocarburi da affiancare a quei 1.258 miliardi di barili di greggio e 185mila miliardi di m³ di gas che costituiscono le riserve ufficiali mondiali accertate all'inizio del 2009, secondo lo "Statistical Review of World Energy" della Bp, ritenuta una delle fonti più attendibili in materia. La sete inesauribile di petrolio e gas – la domanda mondiale di greggio dovrebbe salire dagli attuali 86 milioni di barili/giorno (mbg) a 106 mb/g nel 2030 – spinge economisti, pianificatori e Cancellerie a chiedersi quanto greggio e gas, oltre al citato totale "ufficiale", sia ulteriormente ritrovabile ("undiscovered") per le favorevoli caratteristiche geologiche del sottosuolo e attenda solo le migliori condizioni del mercato (prezzi e livelli della domanda) per essere esattamente individuato ed estratto. Ma, soprattutto, dove queste nuove Falkland si trovino.

Sul "quanto", il grafico a lato, elaborato sui dati forniti dall'Usgs (United States Geological Survey), fornisce cifre confortanti. Vi sono, individuati e stimati con ragionevole probabilità, altri 662 miliardi di barili di petrolio, il 52% in più rispetto alle riserve ufficiali, cui vanno sommati altri 207 miliardi di barili di Ngl (condensati), mentre per il gas le cose vanno addirittura ancora meglio, con 191mila miliardi di metri cubi aggiuntivi (+103%). Tradotti in anni di durata delle riserve ai livelli di consumo attuali (42 anni per il petrolio e 60 per il gas), portano il totale globale rispettivamente a 64 e a 122 anni: una quantità molto più tranquillizzante rispetto agli sfracelli che la teoria del cosiddetto "picco di Hubbert" (l'inizio dell'inesorabile declino della produzione d'idrocarburi, fissato per l'inizio di questo decennio) minaccia di causare a breve.
Tutto dipende, ovviamente, dai livelli di prezzo delle due risorse, che possono giustificare (o meno) l'avvio della ricerca, della definizione esatta delle quantità contenute nei giacimenti e della loro messa in produzione. Non a caso - sempre restando all'esempio dei giacimenti delle Falkland, Shell e Lasmo abbandonarono le loro ricerche "anche" per il corso del greggio di quel periodo (poco più di 10 dollari), che non giustificava affatto la messa in valore di risorse così "difficili".

Resta il fatto che l'attività di ricerca per la mappatura dei giacimenti sia fondamentale, in primis per accertare l'effettiva presenza d'idrocarburi (per evitare sorprese spiacevoli, come quelle ricordate nell'articolo sottostante) e per definire le effettive quantità presenti ed estraibili.
Sul "dove" queste risorse si trovino, la mappa accanto chiarisce bene come la variabile geopolitica diventi un fattore decisivo nella scelta delle priorità delle risorse da valorizzare. E come, quindi, una collocazione "difficile" possa risultare penalizzante su quantità e qualità per il resto molto appetibili. È il caso, ad esempio, delle risorse poco note ma (pare) cospicue e di ottima qualità racchiuse nella piattaforma continentale di Cuba. Lo stesso Usgs stimava un paio di anni fa la presenza di 9 miliardi di barili, elevati dall'autorevole mensile Oil & Gas Journal a ben 21 miliardi: una quantità in grado di cambiare la vita dei cubani oppressa da quasi mezzo secolo di sanzioni economiche e le sorti del traballante regime castrista. Anche se non appare facile per l'Avana mobilitare le ingentissime risorse finanziarie necessarie al loro sviluppo.

Discorso analogo vale per le risorse (più modeste e, pare, in prevalenza metanifere) che si vanno rinvenendo sui fondali del Golfo del Bengala, nelle acque mal delimitate tra Bangladesh e Birmania. O quelle, ancor più ipotetiche, che si troverebbero (ma la mappa di Usgs non le conferma) nel Mar cinese meridionale, rivendicate dalla Cina da un lato e da Filippine, Brunei, Malaysia e Vietnam dall'altro. O, ancora, nelle acque del mar Nero, sulla piattaforma continentale che collega Timor all'Australia, lungo le coste della Somalia (mentre il paese è ridotto a "stato fallito") e nell'Ogaden, da decenni conteso tra Somalia ed Etiopia.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Guadagnare con l’euro sotto attacco

01/03/2010 - di miaeconomia.leonardo.it
______________________________________________

La strategia di aiuto alla Grecia da parte dell’Unione europea ha subito una improvvisa accelerazione nel finale della scorsa settimana, quando e’ uscita l’indiscrezione che un paio di settimane fa un gruppo di gestori di Hedge Funds si era riunito per mettere a punto un attacco concentrico all’euro. Per fare capire che la minaccia non e’ velleitaria, alla riunione ha partecipato anche il Soros Fund Management. Fu’ di Soros l’attacco che mise in ginocchio la sterlina e poi la lira nel 1992 e che gli permise di guadagnare un miliardo di dollari.

Cosi’ per evitare che la debolezza della Grecia possa diventare una falla nella diga di sostegno alla moneta unica, improvvisamente la Germania, la piu’ titubante finora nel concedere sostegno alla Governo ellenico, si e’ fatta promotrice di un piano di salvataggio da 30 miliardi di euro, mettendo a disposizione le sue due maggiori banche, la privata Deutsche Bank e la pubblica Kfw. Infatti, il default della Grecia anche su uno solo dei bond in scadenza, si ripercuoterebbe immediatamente come un’onda di tsunami sulle altre economie deboli dell’Eurozona, ovvero Spagna e Portogallo. La diga dell'euro sarebbe messa a dura prova e le finanze di tutte le economie dell'eurozona sarebbero messe sotto pressione, a partire dalla magore, ovvero la Germania.
Ma l’attacco alla moneta unica e’ iniziato gia’ da due mesi. A fine dicembre il rapporto col dollaro ha toccato un massimo a 1,54 e oggi viaggia all’incirca attorno a 1,36. In due mesi la moneta unica ha ceduto contro la valuta Usa oltre il 10%, tutto il terreno guadagnato in 8 mesi, ovvero da maggio alla fine dell’anno. E da gennaio l’economia americana non ha avuto una forza tale da spingere il rafforzamento del dollaro contro l’euro. Anche il biglietto verde e’ debole, ma l’euro lo e’ ancora di piu’.
Il punto pero’ e’ che tutto sommato alle autorita’ europee un euro debole non dispiace perche’ nel breve periodo aiuta le merci esportate ad essere piu’ competitive, con una boccata di ossigeno per bilancia commerciale e fatturato derivante dall’export, molto importante per la Germania ma anche per l’Italia, controbilanciando la carenza di domanda interna. Un euro a 1,2 contro il dollaro potrebbe essere un rapporto di equilibrio accettabile dalla Bce. Quindi la moneta unica ha ancora margini di deprezzamento contro il dollaro di un ulteriore 10%, che potrebbero essere sfruttati in chiave speculativa dai risparmiatori per puntare sul ribasso dell’euro nelle prossime settimane, con gli adeguati strumenti messi a disposizione da Borsa Italiana, dai covered warrant ai certificati. La soglia da tenere d’occhio e’ di 1,35 dollari

 

Fonte - miaeconomia.leonardo.it

 

 

 

 

 

  Azionario: ancora più rischi che opportunità

02 Marzo 2010 08:39 BIELLA – di Maurizio Milano

________________________________________

Dopo che gli indici azionari Usa avevano raggiunto gli obiettivi del rimbalzo, la scorsa settimana sono prevalsi i realizzi a conferma di un quadro tecnico che rimane strutturalmente debole.

Sul finale di ottava sono tornati nuovi acquisti ma solo il superamento dei massimi del 22 febbraio darebbe nuovo fiato al mercato, altrimenti si rischia una ripresa delle vendite. La situazione di stallo in cui si trovano gli indici dovrebbe comunque risolversi in tempi brevi.

Lasciando perdere la seduta positiva di ieri di Wall Street, guardando a come la situazione si è presentata alla fine della scorsa settimana, si vede come il Nasdaq Composite non sia riuscito a superare la resistenza a 2265 e abbia ripiegato verso 2200. Discese sotto 2175 riproporrebbero il ritorno sui minimi del 5 febbraio, a ridosso di 2100; il tono migliorerebbe solo su assestamenti sopra 2265.

Il Dow Jones Industrial ha raggiunto la resistenza a 10400 per poi ridiscendere verso 10200. Al di sotto di 10100 si aprirebbe la strada per un nuovo test dei minimi a 9835: solo un assestamento sopra 10400 allontanerebbe questa ipotesi.

Anche l’S&P500 ha raggiunto l’obiettivo del rimbalzo, la resistenza a 1015, per poi scendere verso il supporto a 1080, sotto cui si rischierebbe un calo verso i minimi a 1045; solo un consolidamento sopra 1115 darebbe un segnale distensivo convincente.

Dalla metà di gennaio l’umore degli operatori non è più sicuramente ottimistico come nei mesi precedenti. La consapevolezza che lo straordinario bear market rally partito dai minimi del marzo 2009 era dovuto non tanto ad un effettivo miglioramento del quadro economico ma soprattutto all’effetto trainante del fiume di liquidità immesso nel sistema finanziario dalle Banche centrali, è oramai di dominio comune.

La finanza da sola non crea ricchezza né può indurre rialzi sostenibili delle Borse. Passata la grande paura di fine 2008-inizio 2009 legata agli asset tossici – e cioè all’effettivo valore degli attivi patrimoniali, in specie di banche e assicurazioni – i riflettori sono puntati ora sulle incertezze circa tempi e forza della ripresa del ciclo economico, sulla sua capacità di generare occupazione e quindi di stimolare i consumi.

Dagli stati patrimoniali l’attenzione si sta spostando sui conti economici, perché senza utili reali nessun rialzo sano sui mercati azionari è possibile.

Il rimbalzo del dollaro costringe a smontare posizioni di carry-trade che avevano contribuito a far lievitare i corsi azionari ed i prezzi delle materie prime.

Per di più, i segnali di maggiore attenzione agli aggregati monetari, non solo da parte della Cina ma ora anche della Fed, fanno pensare che se è ancora prematura l’exit strategy, è però certo che il picco di espansione monetaria è dietro le nostre spalle.

Con un quadro economico ancora molto difficile, le Banche Centrali rimarranno sicuramente accomodanti, ma ciò servirà ad evitare forti cali delle Borse, a far "galleggiare" il mercato, non già a spingerlo ancora all’insù.

Sui livelli correnti sembrano quindi esserci ancora più rischi che opportunità. A parte operazioni di trading veloce, al superamento dei massimi del 22 febbraio, sembra quindi opportuno attendere ancora pazientemente prima di ipotizzare nuovi acquisti: nei prossimi mesi non dovrebbero infatti mancare occasioni a prezzi più interessanti.
 

Fonte - Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

 

 

 

 

 

Il Risparmio gestito si riscatta a fine 2009

03 Marzo 2010 08:39 MILANO - MIAECONOMIA
______________________________________________

Il Risparmio gestito si riscatta a fine 2009
03 Marzo 2010 08:39 MILANO - MIAECONOMIA
E’ stato un terzo trimestre positivo per il risparmio gestito che ha permesso di portare la raccolta complessiva nel 2009 a 35 miliardi di euro che permette al settore di arrivare a un patrimonio di complessivi 950 miliardi di euro. La raccolta e’ stata favorita dalla ripresa dei listini azionari in rimbalzo da marzo e in crescita fino a dicembre. Lo dimostra il fatto che l'afflusso di risparmio si e’ fatto sempre piu’ positiva con lo scorrere dell’anno, ovvero con la progressiva consapevolezza da parte dei risparmiatori che le Borse stavano recuperando terreno.
Secondo la rilevazione di Assogestioni, alla fine dell’anno tra flussi in uscita, disinvestimenti, e flussi in entrata, nuove sottoscrizioni le Gestioni collettive, che comprendono fondi comuni e Sicav, hanno realizzato un consuntivo annuale negativo per soli 25 milioni, se si considera che nell’ultimo trimestre la raccolta e’ stata per 6,5 miliardi, portando il patrimonio oltre 476 miliardi. Per quanto riguarda i fondi comuni di investimento aperti la raccolta trimestrale e’ stata di 6,4 miliardi ma non sufficiente a portare in positivo la raccolta netta annuale che segna un valore negativo di 683 milioni e che fa scendere il patrimonio totale gestito da i fondi aperti a 438 miliardi di euro. Tra questi Azionari, Bilanciati, Obbligazionari, Immobiliari e Non classificati chiudono l’anno con una raccolta positiva. Raccolta negativa invece per Flessibili, Monetari ed Hedge.
Se non stupisce la raccolta di 23 miliardi degli obbligazionari, normale in un mercato azionario difficile, colpiscono invece i 18 miliardi raccolti nel corso dell’anno dai fondi Flessibili il quadruplo rispetto ai 4,4 miliardi degli azionari. Lusinghiero il dato dei 9 miliardi raccolti dai Bilanciati e interessante la raccolta positiva per 613 milioni della categoria Immobiliari, in un mercato, quello della casa che nel 2009 ha conosciuto una delle stagioni piu’ brutte degli ultimi 20 anni. Invece sono in coma profondo gli Hedge Funds, un tempo acclamati e conclamati. Nel 2009 il deflusso del risparmio su questa categoria totale e’ stato di 5,5 miliardi.

 

Fonte - Niaeconomia

 

 

Un decennio da dimenticare per i fondi comuni

giovedì, 4 marzo 2010 - 10:36 - di BlueTG.it
______________________________________________

La prima decade del XXI secolo è stata certamente poco felice per i mercati finanziari e per i fondi comuni, che ovunque nel mondo hanno bruciato valore salvo rare eccezioni.
Dalla debacle non si sono salvati nemmeno i nomi più noti, come evidenzia oggi un articolo pubblicato su Marketwatch.com (del gruppo Wall Street Journal) che riprendendo i dati di uno studio di Morningstar evidenzia come Janus Capital Group abbia bruciato circa 58,4 miliardi di dollari di valore dal 2000 al 2009, pari ad un rendimento complessivo ponderato negativo per l’1% su base annua.
Ma il caso di Janus non è unico: altri nomi celebri che hanno distrutto valore, anziché crearlo, sono stati AllianceBernstein Holdings (11,4 miliardi bruciati nel decennio) e Invesco Aim (una controllata del gruppo Invesco, che ha distrutto 10,1 miliardi).
A livello di categoria la peggiore del decennio è stata quella dei fondi investiti in azioni tecnologiche e a crescita (62,8 miliardi bruciati) e tra questi quelli che hanno puntato su titoli a crescita di grande capitalizzazione (107,6 miliardi persi).
 

Fonte - BlueTG.it

 

 

GOLDMAN TEME I MEDIA: RISCHIO PER I BILANCI

04 Marzo 2010 16:30 NEW YORK - di WSI
______________________________________________

Per la prima volta nella storia di Wall Street una banca ha aggiunto alla lista dei possibili rischi un fattore insolito: la cattiva pubblicita', ovvero l'attenzione indesiderata dai media (web al primo posto). La banca e' sempre piu' isolata.
Qui non si parla di catastrofi naturali o di turbolenza dei mercati. La banca d'affari Goldman Sachs avverte una minaccia inconsueta per il proprio business: la campagna pubblicitaria denigratoria degli organi media, con in testa le testate internet (certamente in Italia WSI, vedi sotto). Secondo gli esperti e' la prima volta che succede.

Nel suo report annuale il colosso newyorchese ha precisato che "la cattiva pubblicita' potrebbe avere un impatto negativo sulla nostra reputazione e sul morale e la performance dei nostri dipendenti, finendo per influire negativamente sul business e sui risultati delle operazioni".

L'insolita motivazione, presente nella sezione di 12 pagine riservata ai "fattori di rischio", che vanno dai turbolenti mercati finanziari ai disastri naturali, e' un segnale dello stato di isolamento della banca, che sta traballando sotto i colpi dei rivali, dei politici e degli americani, che continuano a non digerire gli ingenti profitti incassati dal gigante finanziario soprattutto grazie ad aggressivi speculazioni su vari mercati.

"Goldman e' diventata una gigantesca pignatta da percuotere", ha dichiarato Charles M. Elson, direttore del centro di corporate governance John L. Weinberg all'Universita' del Delaware, aggiungendo di non ricordarsi una dichiarazione del genere, in cui una societa' cita la cattiva pubblicita' come un rischio per le proprie attivita'. "Questo da' un'idea del clima politico abbastanza bizzarro che si e' venuto a creare e nel quale ci troviamo a dover operare".

Secondo alcuni esperti di corporate-governance l'iniziativa non deve sorprendere, se si considera l'enorme e indesiderata attenzione che Goldman ha ricevuto da quando la crisi finanziaria e' scoppiata.

A luglio un articolo del settimanle Rolling Stone paragonava la banca a "un enorme calamaro vampiro avvinghiato alla faccia dell'umanita'". La frase e' stata riportata e citata piu' volte da altri organi media, cosi' come avvenuto per i commenti, ritenuti da molti fuori luogo, dell'amministratore delegato Lloyd Blankfein, che in novembre ha dichiarato ad un quotidiano britannico che la banca "sta svolgendo il lavoro di Dio".

"Ritengono che questo tipo di storie potrebbero avere un impatto materiale sui corsi dei titoli in Borsa e hanno pertanto pensato di dover fare qualcosa per mettere al corrente gli investitori", ha detto al Wall Street Journal Michael Ryan, presidente della societa' di consulenza Proxy Governance.

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

  Sabato 06 Marzo 2010   Martedì 09 Marzo 2010   Giovedì 11 Marzo 2010  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....

 

 

 

  Scenario mercati: da Vegas a Ordos

05 Marzo 2010 15:57 MILANO – di Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR

________________________________________

Un anno fa, il 9 marzo, qualcuno vendette l’SP 500 a 666. Forse fu un trader che si coprì subito, ma forse fu qualcuno che apparteneva a quella scuola di pensiero che sosteneva che ci fosse ancora ampio spazio per scendere. Giravano obiettivi da fare rizzare i capelli, 500 e anche sotto, e non erano solo strategist deflazionisti alla Albert Edwards (peraltro sempre stimolante e intellettualmente onesto) ma anche economisti brillanti come Barry Eichengreen che non indicavano target ma si limitavano a sovrapporre i grafici di produzione industriale, occupazione e borsa del 1929-1930 a quelli del 2008-2009, pressoché identici, e mostravano quanto ancora si poteva scendere se si continuava a seguire quello schema.

La svolta del 9 marzo fu accolta da scetticismo e perfino investitori veloci come i fondi hedge attesero un mese intero di rialzi per coprire gli short. Al secondo mese di rialzo si parlava ancora di sucker’s rally. Più tardi si sarebbe andati avanti altri mesi con l’idea del bear market rally in attesa dell’immancabile double dip.

La parte più costruttiva del mercato si consumò per sei mesi in discussioni sulla ripresa a U, oppure a V o a radice quadrata. Il consenso era che il recupero sarebbe stato molto debole. Solo Michael Mussa provò a dire qualcosa di diverso, sostenendo che la crescita poteva arrivare al 5-6 per
cento. L’argomentazione di Mussa non era però particolarmente robusta e si basava sulla constatazione che in passato a una forte caduta era sempre seguito un forte recupero.

Alla fine tutti hanno avuto la loro parte di ragione e tutti hanno avuto più o meno torto. L’intreccio tra una crisi che, con qualche errore di policy in più, avrebbe potuto davvero trasformarsi in depressione e interventi pubblici che, dopo Lehman, sono stati all’altezza della situazione, ha prodotto un esito originale nel quale ora ci troviamo a vivere.

La ripresa non è stata a U, perché siamo passati da una velocità di meno 6 a una di più 5, con un’escursione di ben 11 punti tra marzo e ottobre. Non c’è stata però nemmeno la V violenta alla Mussa. Se fossimo in una classica fase di ripresa, come ad esempio quella dei primi anni Ottanta, oggi staremmo crescendo a una velocità annualizzata dell’8 per cento e invece siamo grosso modo al 4 negli Stati Uniti e all’1.5 in Europa.

La ragione per questa V decente, ma non brillante, è che da decenni il primo anno di ripresa è trainato tipicamente da case e automobili (oltre che dalla ricostituzione di scorte in generale). Questa volta, però, le case non partecipano perché ce ne sono ancora troppe vuote, mentre le auto sono la vittima d’elezione della nuova (e corretta, a lungo termine) propensione a risparmiare. Insomma, l’insieme dei consumi tiene bene, anche meglio del previsto, ma si aspetta di più per cambiare la macchina e magari si rinuncia per sempre, in America, alla seconda o alla terza vettura.

Case e auto, in frenata strutturale, peseranno sulla crescita americana per parecchi anni. Gli incentivi fiscali a contrarre mutui hanno toccato il loro massimo storico e da qui in avanti verranno cautamente ridotti. Anche se questo non dovesse avvenire, le banche finanzieranno meno l’acquisto di case perché cercheranno di diversificare di più il loro attivo.

Meno case e meno auto significheranno per l’America una destinazione più produttiva dei capitali e lasceranno risorse da dedicare alle esportazioni. In prospettiva l’America riequilibrerà i suoi conti con l’estero con una riduzione strutturale ulteriore del disavanzo delle partite correnti.
E’ affascinante vedere come il riequilibrio macro tra Stati Uniti e Cina abbia un esatto corrispettivo micro. Meno case in America e più case in Cina. Meno auto in America e più auto in Cina. Miglioramento della produttività del capitale in America e peggioramento in Cina.

Quando si fanno paragoni tra America e Cina molti storcono ancora il naso perché le due economie hanno dimensioni molto diverse. I 5 trilioni della Cina, per quanto crescano veloci, non possono bilanciare i 14 degli Stati Uniti.

Questo è vero se guardiamo alle grandezze monetarie, ma se correggiamo il cambio tra dollaro e renminbi e se sgonfiamo il Pil americano dai servizi (o gonfiamo quello cinese di servizi che un giorno non lontano verranno fatturati) le due economie sono comparabili. Quindici milioni di auto in Cina e undici negli Stati Uniti.

Si è parlato molto, negli ultimi due anni, delle cittadine nuove, le edge towns, costruite negli anni del boom nel Mojave o intorno a Las Vegas e rimaste vuote. Ora ovviamente non se ne costruiscono più, mentre piano piano si vendono a metà prezzo quelle degli anni scorsi.

In Cina, in compenso, si sta ancora costruendo a Ordos, nel deserto della Mongolia interna. Le edge towns americane sono costruite per poche migliaia di abitanti, ma Ordos è una metropoli programmata per un milione e mezzo di persone. Per tre quarti è già pronta, ma è quasi completamente vuota e non ci vuole andare a vivere nessuno. C’è un filmato su YouTube che la mostra in tutta la sua bellezza metafisica.

Il riequilibrio del mondo si fa anche così. Molti sono preoccupati per questo stato di cose e pensano con apprensione alla salute delle banche che hanno finanziato le varie Ordos e al collasso inevitabile di un modello di sviluppo basato sulla costruzione ossessiva di capacità produttiva per la quale non è chiaro se ci sarà mai una domanda.

Dal punto di vista cinese, però, il finanziamento che preoccupa di più non è quello per le varie Ordos (che un giorno verranno in qualche modo popolate) ma quello erogato agli Stati Uniti, quel trilione abbondante di cambiali del Tesoro americano che intasa più della metà delle riserve cinesi. I mattoni di Ordos sfideranno il vento e la sabbia del deserto meglio di quanto le cambiali sfideranno la svalutazione del dollaro.

La Cina, dunque, non collasserà necessariamente per le sue Ordos e per le sue immense mall, come quella di Guangzhow, la più grande del mondo e praticamente vuota da cinque anni. L’America uscì dalla depressione con le spese per la seconda guerra mondiale e gli economisti non l’accusano per questo di essersi data a investimenti improduttivi per colmare l’output gap.

Anche le auto che i cinesi comprano e parcheggiano davanti a casa per farle vedere ai vicini e senza mai usarle sono una spesa improduttiva, ma nessuno ha niente da ridire.

Insomma, tutti vorremmo che l’allocazione del capitale fosse efficiente economicamente e magari anche indirizzata verso obiettivi extraeconomici nobili (meglio finanziare la ricerca contro il cancro che costruire stadi di calcio), ma è sempre meglio colmare male l’output gap che non colmarlo affatto e precipitare in una spirale di deflazione.

A un anno dai minimi del ciclo e dei mercati le fragilità del mondo sono evidenti e la crisi greca, mettendo in luce i rischi di crisi fiscale, ci ha resi tutti ancora più consapevoli. Meno evidenti, a volte, sembrano però i punti di tenuta (e perfino di forza) del sistema. Come ha scritto efficacemente David Bowers di Absolute Strategy Research, a furia di modellizzare un cigno nero dietro l’altro, rischiamo di essere impreparati all’eventualità, per quanto remota, di un cigno bianco.

A un anno dai minimi, il mondo nel suo insieme sta crescendo a una velocità superiore al 4 per cento che potrebbe mantenersi per tutto il 2010 e anche per il 2011.

E’ esattamente la stessa velocità dell’età dell’oro 2003-2007. Eppure oggi ci sentiamo a pezzi e con i manuali di macro da riscrivere, mentre allora eravamo tronfi di orgoglio e convinti di avere capito tutto.

In Europa ci sentiamo ancora peggio degli altri, perché nel 2008 e 2009 abbiamo licenziato meno che in America e ora ci troviamo a essere meno leggeri di loro. In più, la più grande industria europea, l’automobile, è stata sussidiata pesantemente per tutto il 2009 (mentre il Cash for Clunkers è durato quattro settimane esatte) e ora non riceve più un euro. A ben guardare, però, avere l’auto che arretra in tutto il continente e riuscire lo stesso a crescere dell’uno e qualcosa non è così disprezzabile come appare.

Per l’America possiamo dire che il ciclo delle scorte, che secondo alcuni doveva esaurire i suoi effetti positivi già in ottobre, ha ancora molta strada davanti a sé. I consumi tengono bene, le esportazioni vanno bene e tutta questa domanda non potrà continuare a essere soddisfatta svuotando i magazzini. L’ultimo ISM manifatturiero ci dice che quasi tutti i clienti finali delle fabbriche (grandi magazzini e negozi) hanno scorte troppo basse.

Tra gli emergenti, a compensare una Cina che sta provando a frenare, ci sono Africa, Russia, Brasile, Corea e India che vanno solidamente bene. L’India, in particolare, si propone di diventare nei prossimi anni il paese a più alta crescita del mondo e vuole superare il 10 per cento annuo.

Nelle scorse settimane abbiamo fatto indigestione di Grecia. Tra le idee più ascoltate c’era quella dell’impossibilità di fare sacrifici per un paese occidentale senza scatenare chissà quali rivoluzioni. Avendo un minimo di esperienza di paesi molto più poveri che avevano fatto (e fanno) sacrifici molto più duri senza avere i carri armati per le strade a garantire l’ordine non eravamo molto convinti che la Grecia non potesse tirare un po’ la cinghia anche lei. Ora vediamo una correzione fiscale greca di 4 punti tondi di Pil.

Buon segno. Ma ancora più incoraggiante è guardare a chi i sacrifici veramente duri li ha già fatti e vedere che dopo due anni di lavoro arrivano risultati lusinghieri e ammirevoli. L’Estonia, che era arrivata a un passivo delle partite correnti del 17 per cento (le partite correnti sono ancora più significative del disavanzo pubblico, perché includono anche il settore privato), è oggi in attivo. Senza avere svalutato di un centesimo, senza manifestazioni di protesta nel centro di Tallinn e con aiuti dall’estero più avari di quelli che arriveranno alla Grecia. Oggi l’Estonia è pronta a cogliere la ripresa della domanda internazionale e a tornare a crescere rapidamente.

Per chi investe in titoli di stati sovrani è molto importante, soprattutto in questa fase storica così fluida, verificare il grado di flessibilità (del cambio nominale e reale, della struttura politica e sociale) dei vari paesi. Se rimaniamo strategicamente molto ottimisti sull’Europa orientale (Balcani e Ucraina inclusi) anche se il 2010 sarà un altro anno impegnativo, è perché sotto la superfice apparentemente stagnante la ristrutturazione procede veloce grazie alla flessibilità di quei sistemi.

L’alleggerimento delle paure sulla Grecia e l’abbandono completo di quelle tentazioni populiste cui l’Amministrazione Obama era sembrata per un momento disposta a cedere tolgono ai mercati due delle tre ragioni che hanno prodotto la correzione tra metà gennaio e metà febbraio. La terza, l’ipercomprato di breve, si è rapidamente trasformata in un significativo ipervenduto. La linea di minore resistenza è ora verso l’alto.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Kairos Partners SGR

 

 

 

 

 

Bond greci ottima opportunita’ d’investimento

05/03/2010 - di miaeconomia.leonardo.it
______________________________________________

Quando il presidente della Bce ha preso a parlare nella conferenza che ha seguito la decisione della Banca Centrale Europea di mantenere fermo il costo del denaro in Eurolandia all’1%, molti operatori hanno iniziato a seguire con molta attenzione quanto avrebbe detto di li' a poco. Non erano tanto interessati alla motivazioni che hanno portato la Bce a mantenere fermi i tassi. Oramai in Europa la situazione e’ chiara, con una ripresa debole, penalizzata da una disoccupazione alta, con un inflazione sotto l’1%, la meta’ del limite massimo del 2% oltre il quale la Banca di Francoforte non vuole fare salire il costo della vita. In uno scenario simile mantenere i tassi all’1% era scontato.

Gli investitori istituzionali erano attenti soprattutto a quanto Trichet avrebbe detto riguardo la situazione della Grecia, perche’ nella stessa mattinata il Tesoro ellenico aveva offerto al mercato 5 miliardi di titoli di stato a 10 anni, al tasso di interesse annuo del 6,37%, con un incremento dello 0,32% rispetto all’ultima emissione di bond a scadenza decennale. Considerata la grave difficolta’ finanziaria della Grecia, le valutazioni del Presidente della Bce riguardo l’efficacia delle misure appena prese dal governo greco per ridurre di 4 punti percentuali il deficit entro la fine dell’anno, fatte di tagli di spesa e aumento dell’imposizione fiscale indiretta, avrebbero impattato notevolmente sulla decisione di acquistare i bond di Atene emessi.

Appena Jean Claude Trichet ha manifestato apprezzamento su quanto deliberato in questi giorni da Atene, escludendo categoricamente la possibilita’ di un’uscita del paese dall’euro, la risposta dei mercati e’ stata chiara con una corsa all’acquisto dei bond, tanto da fare dire a Petros Christodoulou, direttore dell’Agenzia greca per la gestione del debito pubblico, che la Grecia presto si potrebbe apprestare a una o due nuove operazioni di collocamento di titoli di stato per investitori istituzionali
 

Fonte - miaeconomia.leonardo.it

 

 

BATTUTI DA BUFFETT

05 Marzo 2010 17:30 NEW YORK - di WSI
______________________________________________

La logica di lungo termine dell'Oracolo di Omaha premia: un investimento da $10.000 nel 1965 frutterebbe ora $80 milioni. I migliori fondi ne avrebbero garantiti soltanto nove. Vittime delle pressioni sui risultati.
Molti investitori non possono che provare invidia quando Warren Buffett dice che gli azionisti della sua conglomerata hanno visto guadagni annualizzati del 20% negli ultimi 45 anni. Nemmeno il miglior fondo comune di investimento puo' reggere il confronto.

Soltanto due fondi possono vagamente competere. Stando alle analisi di Morningstar, Fidelity Magellan Fund e Templeton Growth Fund hanno garantito ritorni rispettivamente del 16.3% e del 13.4%.
Se si guarda ai valori di mercato, le azioni di Classe A di Berkshire Hathaway hanno garantito guadagni del 22% all'anno a partire dal 1965. Se il calcolo viene fatto sulla base delle valutazioni a libro, come preferisce fare l'oracolo di Omaha, si ha un +20.3%.

Utilizzando il primo criterio, confrontato con quanto messo a segno dai fondi comuni di investimento, e' facile capire quanto possano dirsi soddisfatti coloro che hanno deciso di scommettere sul gruppo guidato da Buffett e invidioso chi, invece, si e' lasciato sfuggire questa opportunita'. Quegli azionisti che il primo ottobre del 1964 hanno puntato nella conglomerata $10.000 (pari a $60.000 ai nostri giorni), oggi si ritrovano con un incasso di $80 milioni.

La stessa somma puntata sul fondo Fidelity avrebbe garantito $9.1 milioni, di piu' di quanto non avrebbe reso quello di Templeton, pari a $2.9 milioni. Scommettendo sull'S&P 500 invece, nell'arco degli ultimi 45 anni il guadagno sarebbe stato di $560.000, considerato un incremento del principale benchmark di Wall Street del 9.3% nel periodo considerato. La dice lunga il fatto che i due suddetti casi siano i migliori tra i 145 disponibili sul mercato nel 1965.

C'e' chi fa notare che il confronto tra Buffett e fondi non sia sostenibile. Il primo ha margini di manovra piu' ampi dei gestori. Ma le differenze che ne emergono mettono in risalto i limiti dei secondi, in modo particolare le pressioni cui sono sottoposti.

"Da sempre spinge gli investitori a considerare se stessi come parte dell'azienda piuttosto che semplici azionisti, fattore che e' calzante con un approccio di lungo termine", ha detto Jonatyhan Rahbar, analista di fondi in Morninstar riferendosi all'Oracolo di Omaha. "I gestori di fondi sono incentivati a ottenere risultati su base annuale. Se in quell'arco temporale non hanno raggiunto determinati risultati rischiano il posto", ha aggiunto l'esperto.

C'e' un altro fattore da considerare: il funzionamento dell'industria dei fondi rende piu' difficile investire secondo le modalita' tipiche di Buffett. "I fondi di investimento devo vendere i loro prodotti a istituzioni che di fatto tengono in agguato i money manager: sono tenuto sott'occhio di trimestre in trimestre e possono determinare il loro futuro (professionale) ogni anno", ha commentato Tomothy Vick, senior portfolio manager in Sanibel Captiva Trust.

Il fiato sul collo dei gestori li spinge ad agire con logiche di breve periodo, esattamente l'opposto dell'approccio utilizzato dal numero uno di Berkshire Hathaway. Timothy Vick, autore del libro "How to pick stocks like Warren Buffett", riporta che l'oracolo di Omaha generalmente esige un turnover di non piu' del 10-15% mantendo in portafoglio un titolo per 8-10 anni. Una media del 100% voluta nell'industria dei fondi sembra essere "un gioco d'azzardo", ha concluso.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

La risalita delle Borse a un anno dalla crisi

07 Marzo 2010 15:14 MILANO - di Walter Riolfi
______________________________________________

Cos'è che fa dire a qualcuno: adesso basta? Cosa mai avrà fatto scattare nella mente degli investitori di Wall Street la sensazione che 20 mesi di pesantissimi ribassi potevano bastare e che la Borsa aveva toccato il fondo? Succedeva esattamente un anno fa: lunedì 9 marzo 2009, l'S&P500 (e pure lo Stoxx) toccarono il minimo, scendendo a livelli che non s'erano più visti dal settembre '96. E i titoli bancari, le stelle dei precedenti 4 anni, quasi avessero ereditato l'insana euforia del 1999-2000 per i titoli Internet e tecnologici, erano addirittura crollati ai minimi degli ultimi 16 anni, dopo aver perso l'88% del loro valore quelli americani e l'83% quelli europei. Il peggior ribasso delle Borse dopo quello degli anni Trenta aveva fatto perdere il 57% a Wall Street, oltre il 60% ai mercati europei e il 72% alla fragile borsa italiana.

Ma martedì 10 marzo i listini invertirono decisamente rotta guadagnando oltre il 6% con quella tipica reazione che segnala la chiusura precipitosa delle posizioni allo scoperto. A dire il vero, qualcosa di nuovo s'era già visto tre giorni prima, il 6 marzo, quando le banche americane accennarono al primo rialzo dopo lunghi mesi: e nella seduta successiva, videro esplodere del 12% le loro quotazioni in una frenetica corsa a ricomprare i titoli che per mesi erano stati venduti allo scoperto. Come osserva Alessandro Fugnoli di Kairos, vi fu qualcuno che ancora il 9 marzo «vendette l'S&P500 (il future, ndr) a 666 punti» e «forse vi fu un trader che si coprì subito». Ma in un clima di cupo pessimismo come si respirava in quei giorni, con analisti che pronosticavano ulteriori tracolli di Wall Street sotto i 500 punti e con Robert Prechter, assurto al ruolo di guru per aver indovinato il venerdì nero dell'87, a pronosticare l'S&P a 370 come all'inizio degli anni 90, e con economisti del calibro di Nouriel Roubini che prospettavano una depressione pari a quella degli anni Trenta, il fatto che qualche investitore di prestigio dichiarasse il minimo del mercato poteva suonare come un segnale d'allerta.

E ve ne fu uno che in quei giorni "chiamò" il minimo di Wall Street: Doug Kass fondatore dell'hedge fund Seabreeze PM, uno dei personaggi più noti nella finanza Usa. Il «Sole 24Ore» del 14 marzo riportò il suo ragionamento, avanzando per primo, tra il pessimismo di quasi tutta la stampa internazionale, l'ipotesi di una inversione di tendenza. Kass, confutando un'analisi di Robert Shiller, sostenne che prendendo gli utili attesi e normalizzati (ossia depurati dalle componenti straordinarie) per l'S&P e confrontandoli con quelli degli ultimi 70 anni, si sarebbe individuata una sostanziale sottovalutazione della Borsa. «Abbiamo toccato il fondo», dichiarò, e le sue parole si diffusero rapidamente a Wall Street.

In realtà furono pochissimi gli investitori convinti dell'inversione di tendenza. Già erano stati scottati nel novembre 2008, quando per qualche giorno montò la sensazione che le precipitose cadute degli indici dopo il fallimento Lehman si stessero esaurendo. Nelle 3-4 settimane successive a quel 9 marzo, la rapida ascesa dei listini fu guidata quasi esclusivamente dalle ricoperture. Se il gioco dei sei mesi precedenti era stato quello di vendere tutto, perché la crisi del credito dopo i tracolli settembrini di Lehman, Aig, Fannie Mae, Freddie Mac e via dicendo avrebbe inevitabilmente portato alla recessione, la nuova impellente necessità era invece di ricomprare tutto quello che era stato venduto allo scoperto: soprattutto i titoli bancari che, come per Citigroup, Rbs, Bank of America, s'erano quasi azzerati. Ma perdite vicine al 90% le avevano patite anche istituti relativamente solidi come UniCredit, nella irrazionale convinzione che sarebbe fallito l'intero sistema finanziario occidentale.

Dal 10 marzo gli indici hanno corso quasi ininterrottamente, salendo a Wall Street di oltre il 68% e in Europa del 63%. Strepitosa l'ascesa dei bancari che si misura in un 184% per quelli Usa e nel 143% per quelli europei: cosicché adesso saremmo sotto i massimi storici del 2007 appena del 27% per l'S&P e del 36% per lo Stoxx. Ma quell'«appena» è illusorio: per rivedere i massimi, l'America dovrebbe salire ancora del 40% e l'Europa del 56%. E le banche? Di quasi il 200% quelle Usa. Approssimativamente saremmo a metà strada. Ma anche questa immagine è piuttosto illusoria, giacché i mercati, dopo crolli di queste dimensioni, sono soliti "sparare" verso l'alto nella prima fase del rialzo e rallentare la corsa in seguito.
La crisi finanziaria e la recessione dalle quali siamo appena usciti prospettano tuttavia uno scenario un po' più complicato di quelli sperimentati nei cicli economici degli ultimi 30 anni. Per le mature e indebitate economie occidentali la ripresa si annuncia più difficile e il percorso delle borse assai più tortuoso. Più lineare dovrebbe essere quello dei mercati emergenti ai quali manca ancora un buon 37% per rivedere i massimi del 2007.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Venerdì 12 Marzo 2010   Sabato 13 Marzo 2010   Lunedì 15 Marzo 2010  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....

 

 

 

 

  Ma la colpa non è dei CDS

March 9th, 2010 – di Mario Seminerio

________________________________________

Cosa c’è di meglio, per la classe politica, che trovare un capro espiatorio eclatante come la speculazione? E’ perfetta, si porta in tutte le stagioni, crea un discreto ricompattamento del campo domestico, anche in caso di adozione di misure impopolari. Ecco spiegato il motivo della caccia alle streghe nei confronti dei Credit Default Swap (CDS), lo strumento più citato (e meno capito) da media ed eletti, in questo periodo.
Nei giorni scorsi vi è stata una vasta chiamata alle armi contro i CDS, responsabili (secondo alcuni) dell’aggravamento della crisi greca, in termini di maggiori oneri di servizio del debito, tali da soffocare nella culla ogni tentativo di risanamento fiscale. Il grido di battaglia di George Papandreou e del governo di Atene è “la Grecia deve indebitarsi sui mercati allo stesso costo degli altri paesi europei“. Proposito lodevole, che tuttavia prescinde dal fatto che il costo del debito è legato alle prospettive di rimborso, cioè al rischio di credito. Quest’ultimo ha fatto irruzione in Eurolandia come un elefante nella cristalleria, ed è destinato a restarvi. Papandreou ha finito col credere, non è dato sapere se in buona fede o meno, che ogni differenziale nel costo del debito greco rispetto al resto della zona Euro sia imputabile all’attività degli “speculatori”, segnatamente di quelli in CDS. Per qualche giorno anche gli altri governi europei hanno fatto mostra di credergli, ed hanno minacciato neppure troppo velatamente di bandire il trading sui CDS.

L’operazione, che fosse studiata a tavolino o meno, è servita nel breve termine perché molti “speculatori” hanno deciso di chiudere le posizioni ribassiste sul rischio sovrano greco, vendendo cioè la protezione che avevano in precedenza acquistato. In parallelo a ciò (vedremo tra poco il flusso causale), anche il cosiddetto mercato cash, cioè i titoli di stato greci, sono stati interessati da correnti di acquisto e riacquisto, ed hanno visto stringere significativamente (pur se ancora su livelli molto elevati) il differenziale con i Bund tedeschi. Negli stessi giorni in cui in Eurolandia si discuteva del divieto di trading sui CDS “naked” (“nudi”,cioè quelle situazioni in cui si compra protezione su una entità creditizia senza possedere i titoli sottostanti), il Dipartimento della Giustizia statunitense si è messo ad investigare sulla possibilità che “alcuni hedge funds” (pare non più di quattro o cinque) abbiano “cospirato” per provocare un indebolimento dell’euro.
Questa tesi è quasi surreale: quanto può “muovere” un hedge fund, inclusa la propria leva finanziaria? Diciamo cinquanta miliardi di euro? Cento? Duecento? Moltiplicate per cinque, e riflettete sul fatto che ogni giorno, sui mercati valutari, vengono movimentate alcune migliaia di miliardi di euro. E’ realistico pensare che sia possibile “attaccare l’euro” orchestrando vendite per una frazione trascurabile dell’interscambio giornaliero del mercato valutario? E peraltro, indebolire la moneta unica avrebbe fatto solo un favore ai governi di Eurolandia, desiderosi di far respirare il proprio export. Forse non è un caso che l’indagine sia partita dagli Stati Uniti, che dall’indebolimento dell’euro hanno solo da perdere. Ma qui scadremmo nel cospirazionismo.

Tornando all’epica lotta dei greci contro i CDS, la criminalizzazione dei derivati creditizi deriverebbe dal fatto che gli stessi sono visti come driver delle discese di prezzo dei titoli di stato. Le cose non stanno così, spesso anzi accade il contrario: si inizia con correnti di vendita sul cash che innescano acquisti di protezione sul CDS, che a loro volta frenano la tendenza principale. E’ necessario, a questo punto, introdurre una tecnicalità: si dice base (basis, in inglese) la differenza tra il livello del CDS e quello del bond fisico. Quando la base è negativa (cioè lo spread del bond è più ampio di quello del CDS), gli arbitraggisti comprano il titolo e si coprono comprando protezione. Così facendo si blocca un profitto pari all’ampiezza della base. In natura le basi negative non durano molto, vengono cioè molto rapidamente arbitraggiate. Ciò che può durare indefinitamente sono invece le basi positive, cioè situazioni in cui il CDS è più largo dello spread sul bond sottostante. In questi casi per eseguire l’arbitraggio servirebbe vendere allo scoperto il titolo fisico e vendere protezione sul CDS. Ciò difficilmente avviene, perché non sempre è possibile vendere allo scoperto l’obbligazione sottostante: spesso la richiesta di prestito del titolo è talmente elevata che il medesimo diventa “special” sul mercato repo, ed il canale di arbitraggio salta.

Da un grafico pubblicato nei giorni scorsi da FT-Alphaville, si evince che i principali debitori europei hanno tutti la base positiva, in modo più o meno accentuato, in particolare Italia e Spagna, mentre la Grecia ha (o aveva, la scorsa settimana) una base nulla. In concreto, che significa? Che mentre è possibile guidare al rialzo il prezzo di un titolo in presenza di base negativa, la presenza di una base positiva non trasmette direttamente il movimento ribassista ai titoli sottostanti. In altri termini, nel caso greco il mercato ha cominciato a vendere i bond fisici, creando così una base negativa che è stata arbitraggiata dai trader, che hanno comprato protezione sui CDS. Senza questa operazione, la corrente di vendita dei titoli di stato greci non avrebbe trovato alcun elemento frenante. Detto in altri ed ulteriori termini, la magnitudine di una base positiva ha relativamente poco effetto sul livello dei bond sottostanti. Ciò significa che incolpare i CDS per la discesa di prezzo di titoli di stato di un paese con ampi e crescenti deficit e debito pubblico ha assai poco senso.

Ora anche il regolatore finanziario tedesco, BaFin, è giunto a concludere che i CDS non sono stati usati per condurre un attacco speculativo contro la Grecia (qualsiasi cosa significhi l’espressione “attacco speculativo”), ma George Papandreou non si arrende ed è tornato a chiedere al mondo un intervento di repressione contro il trading speculativo. Programma mediamente impegnativo . E’ possibile che si giunga a vietare l’operatività “nuda” sui CDS, cioè l’acquisto di protezione senza possedere i titoli sottostanti da proteggere. Lo stesso Mario Draghi, in sede di Financial Stability Board, ha detto che i CDS suscitano “disagio” (uneasiness); ma anche in questo caso non si eviterà l’allargamento degli spread su entità il cui merito di credito sta deteriorandosi.
Il governo greco, ed i politici di ogni latitudine, farebbero meglio ad acquisire questo concetto. Solo il risanamento e il ritorno alla crescita tengono lontana la “speculazione”. E mai come in questa circostanza le virgolette sono state più appropriate.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

 

Investire dove Buffett non può (più) andare

giovedì, 11 marzo 2010 - 13:39 - di Marco Caprotti
______________________________________________

Dimenticate il Warren Buffet che conoscevate. L'Oracolo di Omaha, famoso per la sua capacità di investire su società sottovalutate dagli altri che poi arrivavano alle stelle e per i suoi aforismi sulla finanza (“E' meglio comprare una meravigliosa società a un giusto prezzo che una società giusta a un prezzo meraviglioso”, tanto per citarne uno), potrebbe cambiare strategia.
A dare l'avviso ai mercati è stato lo stesso amministratore delegato e presidente della Berkshire Hathaway nella sua annuale lettera ai soci. La società tessile in fallimento da lui acquistata negli anni '60 e trasformata in una holding con interessi in un'ottantina di società che vanno dai servizi all'industria, alle assicurazioni, dalla biancheria ai jet privati passando per la Coca Cola non sarà più in grado di battere il mercato. “Gli investitori possono stare tranquilli”, spiega Jeremy Glaser, analista di Morningstar. “L'Oracolo non ha perso la sua capacità di scegliere le società migliori. Più semplicemente, si è reso conto che la sua creatura è diventata ormai troppo grande per occuparsi di società a piccola capitalizzazione. Per muoversi, deve ormai seguire i megadeal ”. L'ultimo in ordine di tempo è stato l'acquisizione della società ferroviaria Burlington Northern Santa Fe: un'operazione da 44 miliardi di dollari che segna anche il massimo mai sborsato da Buffet per una società.

Sulle dimensioni di Berkshire (e sulle capacità di Buffett) non si discute. Nel quarto trimestre del 2009 la società ha avuto un utile di oltre 3 miliardi di dollari, rispetto ai 117 milioni dello stesso periodo dell'anno precedente. Il risultato del 2008, peraltro, era stato condizionato da oltre 3 miliardi di dollari di cosiddette “perdite non realizzate” (questa condizione si verifica quando il valore delle azioni contenute in un portafoglio scende rispetto al prezzo di acquisto, ma l'investitore non le vende nella speranza che possano risalire). Il fatturato, intanto, è salito del 23%, superando i 30 miliardi di dollari. Numeri che non hanno risparmiato il titolo Berkshire da alcune revisioni al ribasso dei giudizi. Keefe, Bruyette & Woods, per esempio, ha portato il rating da outperform a market perform . Secondo Cliff Gallant (l'analista che ha firmato il report) la holding ha avuto “risultati buoni ma non spettacolari”.
Ma se dopo mezzo secolo di successi Buffett deve cambiare strategia, non è detto che i principi che per tutto questo tempo l'hanno guidato non siano più validi. Fra questi: la ricerca di società di alta qualità, che abbiano un vantaggio competitivo duraturo e che vengano trattate con uno sconto eccessivo rispetto alle loro potenzialità. “Molti investitori non hanno il problema del gigantismo che sta condizionando Berkshire”, dice Glaser di Morningstar. “Per questo possono cercare e trovare aziende che sarebbero interessanti anche per Buffett, ma che ormai per lui sono troppo piccole”.

Fra queste l'analista segnala Total System Services (TSS), una società che si occupa di pagamenti elettronici per le aziende. “Il settore in cui opera TSS si sta consolidando”, spiega l'analista che sul titolo ha un obiettivo di prezzo di 19 dollari (ora tratta intorno a 14,5 dollari). “Tuttavia la società è sempre riuscita ad avere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, grazie alle sue piattaforme tecnologiche che continua ad aggiornare”.
Un'altra azienda che potrebbe piacere all'Oracolo di Omaha è Landstar System (servizi logistici per l'industria dei trasporti). “Il gruppo è forte di 1.400 agenti, 25 mezzi e 8mila autisti”, dice Glaser che sul titolo ha un target price di 53 dollari (ora tratta poco sopra i 39 dollari). “I costi e i tempi per realizzare qualcosa che gli assomigli, costituiscono una forte barriera all'ingresso dei concorrenti. Negli ultimi 10 anni ha avuto un Roe medio (Return on equity, una misura della profittabilità, ndr) del 40%”.
 

 

 

Europa? Meglio Usa e Asia

giovedì, 11 marzo 2010 - 15:08 - di Sara Silano
______________________________________________

Non sono concordi le previsioni dei gestori per il prossimo semestre, ma su un punto c’è accordo: Europa, Stati Uniti, Giappone e resto dell’Asia non si muoveranno tutti allo stesso modo. In questo contesto, alcuni continuano a sovrappesare le azioni, altri preferiscono prendere profitto. E’ quanto emerge dall’ultimo sondaggio condotto da Morningstar tra le principali case di gestione italiane ed estere che operano in Italia.
Europa, la domanda interna non riparte Il Vecchio continente continua a fare i conti con una ripresa che non decolla. Secondo Eurostat, nel quarto trimestre 2009, il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Eurozona è salito dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti, mentre su base annuale è sceso del 2,1%. Secondo la Banca centrale, l’incremento sarà dello 0,8% nel 2010. Tuttavia, la domanda domestica rimane debole e la disoccupazione elevata, per cui molto dipenderà dalle esportazioni. I mercati finanziari non sono rimasti indifferenti a questa situazione. L’indice Msci Europa ha reso meno di quello mondiale nei primi mesi dell’anno e le Borse potrebbero continuare a muoversi attorno agli attuali livelli nei prossimi mesi. Ne è convinto oltre il 54% dei gestori interpellati da Morningstar, contro il 45,5% che prevede un rialzo (78,9% a febbraio).

Gestori in difesa con Wall Street Nella fase di incertezza che ha caratterizzato le Borse mondiali da gennaio, il mercato statunitense ha assunto una valenza difensiva e si è comportato meglio di quello europeo. Gioca a suo vantaggio l’essere la patria di aziende con alti livelli di corporate governance e disciplina finanziaria. Come si legge in una nota di M&G Investments, 94 società americane hanno aumentato i propri dividendi ogni anno per 25 anni. Inoltre, il mercato è ampio e diversificato e grandi investimenti vengono fatti in innovazione scientifica. Sul fronte congiunturale, la situazione sta migliorando, anche se la disoccupazione rimane un fattore critico. Per quasi il 60% dei gestori la Borsa americana salirà nei prossimi sei mesi e nessuno si attende un ribasso.
Yen versus Borsa E’ storicamente dimostrato che esiste una relazione inversa tra l’andamento della divisa giapponese e la Borsa di Tokyo. Secondo molti gestori, quindi, l’indebolimento dello yen, causato da politiche monetarie più espansive volte a contrastare la deflazione, gioverà al mercato, in quanto influirà positivamente sugli utili, in particolare delle aziende orientate alle esportazioni. Il mercato potrebbe anche beneficiare di un aumento della propensione al rischio degli investitori esteri. Per queste ragioni un gestore su due stima una crescita del Nikkei nei prossimi sei mesi (erano il 47% a febbraio).

I nuovi trend in Asia Nell’area del Pacifico, i gestori si concentrano sui nuovi trend di sviluppo. Le economie asiatiche, infatti, stanno passando da un orientamento prevalentemente alle esportazioni a uno improntato ai consumi interni. Le prospettive congiunturali rimangono buone, mentre i mercati azionari potrebbero soffrire per la fine delle politiche espansive. Rispetto a febbraio, la percentuale di ottimisti è tornata a salire passando dal 52,6 al 63,7%.
Gestori attratti dai corporate La Grecia ha portato al centro dell’attenzione il problema della sostenibilità delle finanze pubbliche. Infatti, i governi sono ricorsi a misure eccezionali per fronteggiare la crisi con conseguente aumento dell’indebitamento e necessità di fare nuove emissioni obbligazionarie. Le difficoltà dei Paesi periferici (oltre alla Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda) e la bassa inflazione obbligheranno la Banca centrale a rimandare il rialzo dei tassi di interesse. Negli Stati Uniti, invece, la Federal Reserve potrebbe agire nella seconda parte dell’anno. In questo contesto aumentano i gestori che preferiscono i bond societari, anche se non ripeteranno i risultati del 2009. Per quanto riguarda quelli governativi, i manager non si attendono sostanziali scostamenti rispetto ai prezzi attuali.

Euro ancora giù Il dollaro si è rapidamente apprezzato nei confronti dell’euro dall’inizio dell’anno. Nei prossimi mesi, secondo alcuni gestori, potrebbe esserci una pausa accompagnata da ampie oscillazioni del rapporto di cambio. Molto dipenderà dall’evoluzione della crisi greca e dall’andamento dell’economia americana. Quasi il 64% degli intervistati, comunque, prevede un ulteriore calo della divisa comunitaria. Meno del 10% si attende un’inversione del trend rispetto alla prima parte del 2010.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 3 e il 10 marzo, 22 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa il 90% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Asset Managers, Aletti Gestielle, Allianz Global Investors Italia, Banca Ifigest, Banca Profilo, Bnp Paribas Am Sgr, Credit Suisse, Eurizon Capital, Ing IM, Investitori Sgr, JC&Associati sim, MC Gestioni, M&G Investments, Nemesis Asset Management, Pictet, Pioneer Im, Prima Sgr, Schroders, Sella Gestioni, Swiss&Global AM Sgr, Threadneedle, VG.SA.
 

Fonte - Morningstar

 

 

 

I manager di Lehman hanno affondato Lehman

12 Marzo 2010 14:28 NEW YORK - di Vittorio Carlini
______________________________________________

Un documento di centinaia di pagine, il primo, che mette a nudo la storia del fallimento di Lehman Brothers. Un "paper" della corte fallimentare che ha investigato sui come e sui perché del crak finanziario che, nel week end del 13-14 settembre, ha fatto tremare l'intero sistema planetario della finanza.
Centinaia di pagine da cui emerge, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, uno spaccato della banca poco edificante. Di quella istituzione il cui ceo Richard Fuld si sentiva orgoglioso anche per la sua abilità nella gestione del rischio. Le cose, però, stavano un po' diversamente.

La manipolazione di bilancio
Nel report viene indicato che i top executive dell'azienda hanno manipolato i bilanci, hanno nascosto informazioni al consiglio d'amministrazione, e gonfiato il valore degli asset tossici immobiliari. Lehman decise di «non seguire corettamente il controllo del rischio in maniera sistematica», anche quando il mercato del credito e quello immobiliare davano segnali di irregolarità.

I mancati controlli
Nel maggio 2008, un vicepresidente di Lehman allertò, scrive sempre il Wall Street Journal, il management delle potenziali irregolarità contabili; un allarme che, secondo l'indagine condotta da Anton Valukas, fu ignorato dal revisore di Lehman Ernst&Young.
Ma come riusciva la banca a far apparire i conti migliori? Sempre secondo il report, bisogna focalizzarsi sul cosiddetto "repo" market, con cui un'azienda vende degli asset in cambio di cash per finanziare la sua operatività a breve. Ebbene, Valukas sottolinea che Lehman, nell'intento di mantenere un merito di credito favorevole, ha gestito un'attività di contabilizzazione interna, chiamata "Repo 50", per portare fuori bilancio circa 50 miliardi di asset.
Con questa mossa Lehman, ad occhi esterni, appariva meno oberata di debito e con libri contabili migliori. In una ordinaria transazione "repo", Lehman avrebbe realizzato il cash con la vendita degli asset, obbligandosi simultaneamente a riaquistarli in pochi giorni. L'operazione avrebbe dovuto essere contabilizzata come un finanziamento, e gli asset avrebbero dovuto rimanere iscritti a bilancio. Ma attraverso "repo 50" così non è stato.
E non è finita qui. Con il "repo 105 trensaction", sempre secondo l'inchiesta, Leham raggiunse lo stesso risultato, seppure attraverso una strada diversa. Solo perché gli asset interessati alla transazione rappresentavano il 105%, o anche di più, del cash ricevuto le norme contabili gli permettevano di trattarli come "vendite" e non come "finanziamento". Risultato? Gli asset in questione sparivano dal bilancio di Lehman, si riduceva l'ammontare del debito e gli investitori plaudivano all'efficienza dell'istituto finanziario.

La speculazione esterna
Ma non è solo l'attività interna. Ci sono stati anche, secondo l'analisi presieduta da Valukas, interventi esterni che hanno dato le "giuste" spinte alla banca per cadere. Diverse investment banking, tra cui Jp Morgan, hanno infatti richiesto garanzie e modificato gli accordi con Lehman, tanto da ridurre la sua liquidità e spingerla, così, verso la bancarotta. Insomma, se le indicazioni in arrivo dall'America saranno confermate e provate ancora una volta, a distanza di anni dal caso Enron, potremo dire che...nulla è cambiato.

 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

JP MORGAN E CITI DIETRO AL COLLASSO LEHMAN

12 Marzo 2010 16:21 NEW YORK - di WSI
______________________________________________

L'accusa e' di quelle pesanti: chiedendo garanzie e cambiando gli accordi in corso, i due istituti ridussero la liquidita' della banca, contribuendo in maniera decisiva alla piu' memorabile bancarotta della storia.
Le banche d'affari JP Morgan Chase e Citigroup hanno contribuito in maniera decisiva al fallimento di Lehman Brothers, il cui collasso due anni fa getto' nel panico il mondo della finanza, e lo avrebbero fatto chiedendo debito collaterale e modificando gli accordi in corso, tanto da ridurre la liquidita' dell'istituto.
E' quanto emerge da uno studio di centinaia di pagine del tribunale fallimentare che riporta il risultato delle indagini sulla maggiore bancarotta della storia della finanza e che fa tornare a Wall Street l'incubo dello scandalo Enron.
"Le richieste di debito collaterale da parte dei creditori di Lehman hanno avuto un impatto diretto sulla liquidita' dello stesso istituto", afferma in un documento consegnato ieri al tribunale federale di Manhattan Anton Valukas, incaricato di occuparsi delle indagini sulla bancarotta. "La liquidita' disponibile della banca e' uno dei fattori fondamentali per capire i motivi del fallimento di Lehman".
Stando sempre alle indagini, l'ex amministratore delegato di Lehman, Richard Fuld, l'ex direttore finanziario Erin Callan, l'ex vice presidente esecutivo Ian Lowitt e l'ex managing director Christopher O’Meara avrebbero affondato la banca, prendendo decisioni dannose e facendo dichiarazioni incongruenti sulle finanze dell'istituto. Fuld, 63 anni, e' stato "come minimo negligente in modo grossolano", secondo Valukas.
La banca d'affari di New York, che secondo il rapporto ha "ripetutamente ecceduto i limiti e i controlli interni sui livelli di rischio", e' collassata nel settembre del 2008 con $639 miliardi di asset.
Valukas, dello studio legale newyorkese Jenner & Block, e' stato scelto a gennaio 2009 dal tribunale fallimentare della circoscrizione meridionale di New York per esaminare e trovare i motivi del collasso di Lehman Brothers.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  Derivati, la riforma che coinvolge Goldman, JpMorgan, Citi e BofA

13 Marzo 2010 10:24 MILANO – di La Stampa

________________________________________

Dopo l'attacco alla Grecia via cds, governi e controllori hanno deciso di mettere mano al mondo dei derivati. Dal presidente del Financial stability forum Mario Draghi fino al cancelliere tedesco Angela Merkel il coro è unanime: ci vuole una stretta. Una concordia d'intenti confermata dall'incontro di ieri a Londra tra il premier inglese Gordon Brown e il presidente francese Nicolas Sarkozy.
Di fronte a tanta unanimità il mercato ha subito reagito: «I derivati non sono il male . Solamente, sono stati usati male». Ancora: «Pensare a regolare piattaformi globali è pura utopia». Di più: «Quando sono serviti, anche a stati ed enti locali, nessuno ha detto alcunché. Adesso li si vuole eliminare, troppo facile». E l'elenco delle critiche potrebbe continuare. Tanto che la domanda è inevitabile: chi ha ragione? Il tardivo risveglio politico è demagogia o chi critica le riforme è spinto da interessi di parte? Un primo passo per capirci qualcosa è sgombare il campo dalle molte mistificazioni.

L'obiettivo? Solo i derivati over the counter
La stretta riguarderebbe non i derivati tout court, bensì quelli scambiati sui mercati non regolamentati, i cosiddetti Over the counter (Otc). Verso i primi anni '80, negli Usa, i contratti standard erano praticamente la maggioranza. Talvolta, però, accadeva che questi titoli, scambiati nelle Borse tradizionali, non fossero adatti a difendere le società da particolari rischi: per esempio, dal rialzo dei tassi d'interesse. Ecco, allora, la necessità di creare un prodotto ad hoc.
Basta pensare ad una società che deve fare degli investimenti e si finanzia con obbligazioni a tasso variabile. Il tesoriere dell'azienda potrà decidere di pagare, rispetto alla cedola variabile, solo fino a un tetto massimo (il cosiddetto cap). Chiederà a una banca (o anche di più, per spuntare un costo minore) di "costruirgli" un derivato in cui, se la cedola andrà oltre il cap, la somma in più sarà sborsata dall'istituto di credito che emette il derivato, in cambio del pagamento di un premio. Insomma: è un un vestito di sartoria cucito su misura per l'azienda. E fin qui nessun problema. Ma allora, perché si è arrivati alle difficoltà odierne?

La mancanza di trasparenza permette la speculazione
La risposta è: un mix di cause. In primis, l'innovazione tecnologica, sia con la digitalizzazione dei prodotti sia attraverso la creazione di veloci network, ha abbassato i costi di negoziazione e facilitato le contrattazioni; poi, l'enorme liquidità che è stata immessa nei mercati negli ultimi anni (non solo durante l'attuale crisi) «ha permesso di assorbire - spiega Andrea Resti, direttore di FinMonitor alla Bocconi - l'offerta di protezione del rischio» creata dagli intermediari, «mantenendone allo stesso tempo basso il suo prezzo».
In questo modo, si è creato un mercato molto liquido: i contratti costruiti su misura per l'azienda si sono, nei fatti, anch'essi standardizzati e hanno iniziato ad essere scambiati nelle piattaforme Otc come singoli titoli, slegati dal sottostante per cui erano nati. In un simile habitat i grandi broker hanno capito che potevano guadagnare parecchi soldi: o con le commissioni, o con gli arbritaggi. Non va infatti dimenticato che, grazie alla deregulation del settore (fondamentale è il "Commodity Futures Modernization Act" del 2000), la mancanza di trasparenza sulla formazione dei prezzi ha dato vita alla creazione di buoni spread denaro/lettera. Una situazione in cui, per i trader, portare a casa profitti è molto facile.

Il caso di Aig...
«Così - ricorda Gary Gensler, presidente della Commodity Futures Trading Commission - il valore nominale dei derivati Otc negli Usa ha raggiunto i 300 trilioni di dollari, cioè circa dieci volte quello dei derivati regolamentati». Si dirà ancora: ma che male c'è? Niente, se non fosse che, sottolinea Gensler: «Gli Otc derivates sono stati, per esempio, al centro del fallimento di Aig». Il colosso assicurativo ha sfruttato a piene mani i cds, vendendoli a clienti intenzionati a coprirsi dal rischio di fallimento di certi titoli. Erano ben 60 i miliardi di dollari di questi derivati nei sui bilanci, con spesso a garanzia i tristemente famosi subprime. Tutti sanno com è andata a finire.

...e quello della Grecia
E poi come dimenticare che, qualche anno fa, i derivati (in particolare uno swap) hanno permesso «alla Grecia - dice Gensler- di falsificare i conti pubblici; per, poi, mettere sotto pressione la sua stessa stabilità finanziaria, con i cds, quando» il trucco è saltato fuori. Insomma, «nati per proteggere dal rischio adesso sono usati per sfruttarlo» al fine di accrescere il proprio utile. E non importa se la conseguenza è una crisi di sistema che può mettere in ginocchio l'economia di uno stato. A questo punto, conclude Gensler, non si può fare a meno«di regolamentare il settore».
Una proposta di legge presentata al Congresso Usa prevede l'obbligo, per le grandi banche che vendono i derivati, di spostare gli scambi su piattaforme pubbliche e trasparenti. «Un'idea insensata - ribatte l'International Swap and Derivatives Association, la "confidustria" di settore -. Provocherebbe un abbandono dei mercati da parte dei grandi intermediari, con il conseguente calo della liquidità e il balzo dei costi». «Mi sembra un timore eccessivo - ribatte Andrea Beltratti, professore di economia politica alla Bocconi -. Una riduzione del profitto potrà creare qualche problema ma, di certo, non farà sparire gli operatori».

Le big four di Wall Street
Quel che è sicuro, invece, è che l'eventuale stretta coinvolgerebbe soprattutto alcuni big di Wall Street. Questa considerazione la si desume dai dati pubblicati dal Comptroller of the Currency. Secondo i numeri dell'agenzia americana, su circa 202 trilioni di dollari di derivati scambiati Over the counter oltre il 90% è intermediato da sole quattro banche: JpMorgan, Goldman Sachs, Bank of America e Citibank. Al di là dell'inevitabile "sospetto" su chi riesca a guadagnare con simili contratti, ciò che più rileva è il rischio insito in un mercato concentrato in poche mani. Se, infatti, una di queste banche dovesse avere dei problemi l'intero sistema potrebbe saltare. Finora non è successo perché Washington lo ha impedito: too interconnected to fail, è il mantra cui si aggrappa Wall Street. Ma è un circolo vizioso.

«A ben vedere - dice Beltratti - la soluzione sensata potrebbe essere l'istituzione di una controparte centralizzata, che garantisca il pagamento nelle contrattazioni. Insomma la creazione di una clearing house». Anche se non è solo questione di stanza di compensazione. «L'impostazione che sembra prendere forma in Basilea III - spiega Resti - di maggiori garanzie patrimoniali per chi opera con questi contratti mi vede favorevole. Io sono per il libero mercato, ma nel senso vero del termine». Vale a dire? «Bisogna che chi agisce si assuma lui il rischio delle suo operato. Se un'azienda inquina deve essere lei a pagare il costo del danno ambientale. Analogamente, le banche non possono esternalizzare il rischio della loro attività: al contrario, bisogna che lo riportino al loro interno».
Chi dubita dell'efficacia di una regolamentazione, però, sottolinea anche un altro elemento: avviare una stretta in un solo paese ha poco senso; se si vuole continuare la stessa attività, si può benissimo spostarla su altri prodotti o in altri stati. «In effetti - ammette Beltratti - la delocalizzazione è plausibile. Per questo c'è bisogno di una normativa il più possibile globale. Per raggiungere questo scopo, la promulgazione di una nuova legge negli Stati Uniti sarebbe importante: farebbe da apripista ad altri stati». Magari non si arriverà ad una norma globale, ma pensare ad un coordinamento maggiore, per esempio delle autorità di controllo, sulla base di maggiori requisiti di trasparenza ( «la simmetria informativa -afferma Beltratti - , oltre ad una maggiore cultura finanziaria del retail, è buona cosa») e di garanzie patrimoniali è un passo auspicabile.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

  Mercoledì 17 Marzo 2010   Venerdì 19 Marzo 2010   Sabato 20 Marzo 2010  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....

 

 

 

 

 

DOLLARO: PIACE COME PRIMA DEL CRACK LEHMAN

14 Marzo 2010 21:30 NEW YORK - di WSI
______________________________________________

La fiducia sul biglietto verde ai massimi di 18 mesi. Investitori convinti che gli States cresceranno piu' veloci di Europa e Giappone. Rendimenti dei titoli di stato in crescita.
Gli investitori non erano mai stati cosi' aggressivi sul dollaro dal fallimento di Lehman Brothers. Il perche' di tale ritrovato ottimismo? La convinzione che gli Stati Uniti torneranno a crescere a un ritmo piu' veloce di Europa e Giappone.

Stando al Professional Global Confidence Index monitorato da Bloomberg, e che misura le aspettative sull'outlook dell'economia globale, il biglietto verde e' destinato a correre nei prossimi sei mesi. Tra i 1612 partecipanti alla rilevazione, l'umore sulle condizioni degli States e' migliorato, ma le aspettative sulla ripresa mondiale sono calate per il secondo mese consecutivo.

Nel dettaglio l'indice ha toccato quota 66.39 questo mese contro 55.72 di febbraio. Si ricorda che il livello posto a 50 rappresenta lo spartiacque oltre il quale ci si aspetta un rafforzamento della valuta a stelle e strisce. Il massimo toccato a 68.86 risale al settembre 2008 quando gli operatori consideravano il dollaro come un porto sicuro dopo la bancarotta di Lehman Brothers.

Il rafforzamento del biglietto verde e' gia' in atto. Questo mese ha raggiunto il top dello scorso maggio contro l'euro. Tutta colpa dei timori legati allo stato di salute delle finanze della Grecia. Altro fattore da monitorare e' rappresentato dalle politiche monetarie delle principali banche centrali. Aleggia l'idea che la Federal Reserve ritocchera' all'insu' il costo del denaro prima di Bce e Bank of Japan. Questo tipo di speculazione non fa che sostenere la valuta americana.

"Gli Stati Uniti, magari non quest'anno, saranno i primi a rialzare i tassi di interesse", ha anticipato Fabian Eliasson, a capo della divisione dedicata alle valute di Mizuho Corporate Bank. Secondo quanto raccolto tra 75 economisti, Bloomberg riporta che nel terzo trimestre il governatore americano Ben Bernanke alzara' i tassi allo 0.5% dall'attuale range dello 0-0.25%. Nei tre mesi successivi sara' Trichet a stringere i cordoni portando il costo del denaro all'1.25%, 25 punti base piu' su di ora. La Banca centrale giapponese, invece, dovrebbe tenere le braccia incrociate fino a meta' del 2011.

"Differenze in termini di crescita e tassi di interesse", ha spiegato Meg Browne, vicepresidente della societa specializzata sul mercato dei cambi Brown Brothers Harriman & Co., "hanno aiutato il dollaro. La Grecia e' stato uno dei principali driver del suo rafforzamento".

Tra gli intervistati, pessimismo sul mercato dei titoli di stato. I rendimenti sono visti in crescita sul decennale americano. Stessa musica anche per Germania, Svizzera e Francia.

"La vicenda greca e' stato senza dubbio un elemento che ha permesso un'accelerazione del biglietto verde", ha aggiunto Shaun Osborne, capo strategist nel valutario in Toronto Dominion Bank. "Ha ripreso vita da solo. Ora il mercato sta aspettando di capire dove si spingera' rispetto agli attuali livelli".

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

Delusi dai mercati i risparmiatori si rifugiano in banca

15 Marzo 2010 08:40 MILANO - di Rossella Cadeo
______________________________________________

Bear Stearns, Fannie&Freddie, e poi il fallimento della Lehman Brothers, nel settembre 2008: un anno e mezzo è passato dal peggior crack finanziario dell'ultimo decennio, ma le ondate create dalla barca affondata allora non hanno ancora smesso di farsi sentire. Determinando, in questo arco di tempo, un profondo cambiamento nell'atteggiamento delle famiglie nei confronti del risparmio. Il 15 settembre 2008 ha segnato infatti uno sorta di spartiacque tra quello che si faceva prima con il denaro e quello che si è cominciato a fare poi. Un'ulteriore conferma viene dalla lettura delle statistiche provinciali di Banca d'Italia su depositi, prestiti e sofferenze delle famiglie: dall'elaborazione effettuata dal Centro studi Sintesi sull'evoluzione nel periodo pre-Lehman (gennaio-settembre 2008) e in quello post-Lehman (ottobre 2008-dicembre 2009), si nota un deciso cambio di passo nelle due "stagioni".

Prendendo come riferimento la variazione media per trimestre, i principali misuratori del risparmio delle famiglie segnalano un'accelerazione: i depositi sono cresciuti del 2,2% (contro l'1,5% nel periodo precedente) e i prestiti dell'1,5% (contro lo 0,2% di prima e sempre su base trimestrale). Le variazioni si sono differentemente declinate sul territorio, ma tranne in pochissimi casi l'incremento ha riguardato tutte le province.

Effetti da scudo fiscale a parte, il fenomeno trova spiegazione nella fuga della liquidità dai mercati più a rischio, l'azionario o l'obbligazionario. La serie di fallimenti di fine 2008 «ha innescato un ripiegamento del risparmio delle famiglie su forme più sicure – osserva Fabrizio Guelpa, responsabile Ufficio Industry & Banking del Servizio studi e ricerche di Intesa Sanpaolo – come il conto corrente e i certificati di deposito: su base annua i conti correnti nel 2009 sono cresciuti quasi del 12 per cento. Le banche, dal canto loro, in difficoltà sul fronte del mercato dei capitali, si sono concentrate sulla clientela retail per alimentare la raccolta». In crescita anche i prestiti, costituiti per la stragrande maggioranza da mutui per l'acquisto della casa.

«Considerati i tassi variabili a livelli così bassi e la propensione al mattone degli italiani – continua Guelpa – la dinamica non poteva che seguire un percorso di crescita. Va anche detto che i prestiti non sono un indicatore di povertà, dato che normalmente sono le aree più ricche a distinguersi per gli importi più alti». Maggiormente indicativo della crisi in atto è invece il dato delle sofferenze, cresciute più del 50% da ottobre 2008 a dicembre 2009 (l'incidenza sui prestiti del flusso annuale di nuove sofferenze è passata dallo 0,9 a oltre 1,33% ma in certe aree come Gorizia, Napoli, Crotone o Caserta va dal 2 a oltre il 3%).

«La crisi del 2008 ha immediatamente trasmesso lo shock dal settore finanziario a quello reale e questi dati ci dimostrano una sorta di "sciopero cautelativo della spesa" – commenta Luigi Campiglio, prorettore e ordinario di politica economica all'università Cattolica di Milano –. Un po' ovunque, nonostante lo scenario di difficoltà economiche e occupazionali, è aumentata la propensione al risparmio: le famiglie nel giro di brevissimo tempo si sono spostate sulla liquidità, cercando ove possibile di risparmiare di più. E il fatto che questa crescita perduri sta a significare che l'atteggiamento di cautela non è stato ancora abbandonato». Del resto i prestiti – l'altra faccia della medaglia – confermano questa prudenza delle famiglie: anch'essi in crescita, ma a un ritmo un po' meno sostenuto rispetto ai depositi e con la casa, investimento "sicuro", a far la parte del leone.

Sul territorio (si vedano le tabelle in pagina) raccolta e finanziamenti delle banche vedono svettare milanesi e romani come importi per famiglia (intorno ai 38mila euro i depositi e ai 23mila euro i prestiti, a fronte di una media italiana pari rispettivamente a 25mila e 16mila euro). Se invece si considerano le variazioni da ottobre 2008, spiccano Rimini nei depositi (+5,5% trimestrale e +28% in totale) e ben tre province pugliesi nei prestiti, Foggia, Lecce e Taranto (con crescite trimestrali intorno al 3-4% ma fino al +18 nella stagione dopo-Lehman).
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

La sveglia suona anche per il Giappone

lunedì, 15 marzo 2010 - 10:43 - di Marco Caprotti
______________________________________________

La sveglia della ripresa sembra essere suonata anche per il Giappone. Almeno, è la speranza che anima investitori quando guardano i grafici del Sol levante e li mettono in relazione con l'andamento del resto del mondo. L'indice Msci del Paese asiatico nell'ultimo mese (fino al 12 marzo e calcolato in euro) ha guadagnato quasi il 3%. Nel 2009, invece, aveva perso il 25,4%. Negli stessi periodi il paniere generale World ha segnato rispettivamente +6% e +23%.

A far bene alla Borsa nipponica è stato un mix di notizie macroeconomiche e finanziarie che ha ridato un po' di fiducia agli investitori. Il Prodotto interno lordo (Pil) nel quarto trimestre è salito del 4,6%, rispetto ai tre mesi precedenti. “Merito soprattutto della domanda domestica, anche se la richiesta dall'estero ha fatto la sua parte”, spiega un report firmato dalla società di consulenza Oxford Analytica (OA). “Al di là del dato positivo, comunque, bisogna sottolineare che le famiglie stanno tornando a spendere”.

A dare gas ai dati sul Pil sono stati soprattutto gli acquisti di auto e beni per la casa, anche grazie agli incentivi del governo per far comprare ai giapponesi beni ecocompatibili. “Un'altra motivazione è la caduta dei prezzi dovuta alla deflazione (l'opposto dell'inflazione, ndr)”, continuano da OA. “Una situazione nella quale il Giappone si trova a causa della forte concorrenza, dei magazzini pieni e della scelta degli acquirenti di orientarsi su prodotti a basso prezzo”.

In questo scenario, le aziende sono tornate a spendere soldi. Alla fine dell'anno scorso gli investimenti societari sono cresciuti del 4%, dopo un collasso del 25% nel giro di sei trimestri. Gli ordini di macchinari dall'estero sono cresciuti del 20%. “Un trend che dovrebbe continuare per tutto il 2010”, continua il report. Il mercato principale di sbocco per i prodotti made in Japan è l'Asia (+33%) ma sono in ripresa anche gli Stati Uniti (+13%) e l'Europa (+29%). Un altro segnale importante, secondo gli analisti, è il ritorno in territorio positivo dell'indice sulla fiducia dei consumatori. “Non siamo ancora ai livelli precedenti la recessione”, precisa lo studio di OA. “Tuttavia si tratta di un segnale sicuramente positivo”.

Per quanto riguarda il breve periodo, un dato da osservare attentamente è quello dell'occupazione. Soprattutto per quanto riguarda i salari che, dal triennio 2006-2008 sono scesi del 2,5%. “La ripresa delle vendite, tuttavia, entro la fine dell'anno dovrebbe ribaltare la situazione”, dice lo studio. “Bisogna comunque aspettare che le aziende esauriscano le scorte di magazzino e riprendano a produrre a pieno ritmo”.

Sul fronte operativo, molto dipenderà da come si comporteranno le aziende, sia dal punto di vista industriale, sia nei confronti dei propri azionisti. “Molte società al momento preferiscono non distribuire dividendi e utilizzare i capitali o come riserva o come fonte di investimento per aumentare la capacità produttiva”, conclude lo studio. “Anche questo, però, insieme ai bassi stipendi, rischia di influire sulla capacità di spesa delle famiglie e può allungare i tempi di uscita dalla deflazione”.
 

Fonte - Morningstar

 

 

 

 

 

 

  Crisi: vi piace la tesi pessimista moderata, quella radicale o siete ottimisti?

19 Marzo 2010 00:55 MILANO – di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR

________________________________________

Sulla crisi del 2008-2009 ha dominato a lungo una storiografia in tempo reale profondamente pessimista. Si è pensato sulla falsariga della Grande Depressione degli anni Trenta, dimezzata in durata e gravità grazie a imponenti misure di policy. Si è parlato della rottura completa di un modello di sviluppo e di distribuzione del reddito. Quel che più conta, si è teorizzata l’impossibilità di ripristinare quel modello di crescita.

C’è stata una lettura pessimista che definiremo moderata e ce n’è stata una radicale. Pessimismo moderato è la New Normal di El Erian e di Bill Gross. Il mondo ha finito di crescere del 3-4 per cento e si avvia a una lunga fase storica di crescita bassa, tra l’uno e il due, di pesante interventismo statale e di attacco fiscale e salariale ai profitti. Le borse dovranno scontare questo flusso strutturalmente più basso di utili e di dividendi posizionandosi molto al di sotto dei livelli pre-crisi.

Nella New Normal di Pimco la vita è stentata, ma almeno si vive. E’ una prospettiva di semistagnazione, non di deflagrazione. Più pessimista è invece la lettura di quanti mettono l’accento sulla pesante eredità della crisi, l’accumulo di uno stock di debito pubblico che non ha precedenti in tempo di pace. Come si è ben visto con la vicenda della Grecia, il deterioramento fiscale rende fragile e pericoloso l’attraversamento del prossimo decennio. Non solo si cammina lentamente e con fatica, come dice Pimco. Si cammina su un campo minato.

La storiografia radicale, dal canto suo, fa un altro passo verso il fondo della notte. Non si limita a considerare l’ultima crisi, ma sottolinea come dai primi anni Ottanta in avanti, dall’inizio cioè del ciclo secolare di Nuovo Ordine seguito alla parentesi caotica degli anni Settanta, le riprese siano state comprate con dosi crescenti di debito. Le crisi, di conseguenza, sono state (e continueranno a essere) sempre più pesanti e profonde. Il crash del 1987 appare oggi come un episodio tanto appariscente quanto superficiale. Più grave appare la crisi asiatica del 1997-1998, pesante ma ancora circoscritta.

Planetaria (Cina esclusa, a dire il vero) è invece la crisi seguita allo scoppio della bolla di Internet. Un nulla, se paragonata con il 2008-2009, a sua volta poca cosa se spingiamo lo sguardo alla prossima crisi, fatta di default sovrani su scala globale, di iperinflazione, protezionismo, collasso sociale, anarchia e tirannide.

E’ rinfrescante, in questo contesto, vedere emergere in nuce una storiografia non tragica della crisi. Jim O’Neill, personaggio dotato di una dose non comune di testosterone intellettuale, azzarda la tesi che la crisi non abbia ridotto in modo permanente e strutturale la capacità di espansione dell’economia globale. La media storica della crescita nel quarto di secolo che ha preceduto la crisi è stata del 3.7 per cento. Ci sono stati il 2008 e il 2009 che ben conosciamo, ma per il 2010 la stima di Goldman Sachs è del 4.6 e per il 2011 del 4.7. Il Fondo Monetario è ancora fermo al 4.2, ma leggendo tra le righe Strauss-Kahn è evidente che nel prossimo Outlook ci sarà una revisione verso l’alto.

Facciamo un passo oltre Jim O’Neill e avanziamo l’ipotesi, un semplice esperimento mentale, che la Grande Recessione non sia stata una crisi terminale, ma un provvidenziale incidente di percorso. Nelle numerose dimensioni dell’universo ne è concepibile una in cui, fra qualche anno o decennio, il 2008 e il 2009 verranno ricordati come un’increspatura che ha reso possibile, al prezzo di milioni di posti di lavoro distrutti, un’esplosione della produttività e un riequilibrio su basi molto più solide dell’economia globale.

La New Normal ipotizza una crescita bassa nel mondo sviluppato perché sostiene correttamente che in Europa, America e Giappone dovremo risparmiare di più e consumare di meno. La New Normal tende però a identificare il Pil con i consumi interni. Il Pil è però fatto anche di investimenti e di esportazioni.

Per molti, troppi anni l’America ha avuto una crescita della produzione del 3 per cento e un aumento dei consumi del 4. Da qui in avanti è possibile ipotizzare un aumento dei consumi del 2 mantenendo la crescita della produzione al 3. In altre parole, invece di importare quell’uno in più, lo può benissimo esportare.

Il mondo emergente, dal canto suo, ha tutta l’aria di essere uscito dalla crisi con una capacità di espansione ancora più forte. Cina, India e Brasile cresceranno nei prossimi dieci anni molto di più di quanto non si pensava nel 2007, prima della crisi. Il Brasile ha scoperto di essere un paese petrolifero. L’India ha apportato progressivi ritocchi alla sua politica economica e ha scoperto che può tranquillamente crescere del 10 per cento l’anno.

La Cina sta avanzando a una velocità annualizzata del 13 per cento e cercherà di rallentare, rimanendo però al di sopra del suo tradizionale 8 per cento. (A quanti si ostinano a parlare di dati cinesi truccati ricordiamo che la Cina ha costruito in due anni il doppio delle linee ferroviarie ad alta velocità, 7 mila chilometri, di quanto l’Europa dei Tgv, degli Ice e delle Frecce Rosse abbia fatto in vent’anni, mentre gli Stati Uniti, nonostante i piani obamiani, sono ancora a zero).

Ah, ma allora l’inflazione, penserà qualcuno. In realtà, nell’universo parallelo che stiamo esaminando, vale ancora la legge di Okun, una regoletta empirica semplice semplice. Perché la disoccupazione scenda dell’uno per cento in un anno occorre che il Pil cresca del doppio, cioè del due, oltre al suo livello tendenziale. Negli Stati Uniti la crescita tendenziale è stimata al 2.7 per cento l’anno. La disoccupazione è ora, arrotondata, al 10 per cento. Per passare dal 10 al 9 occorre che il Pil salga per tutto un anno del 2.7 più 2 per cento, ovvero del 4.7.

Pochi, nei mercati, scommettono per il 2010 su una crescita americana così alta, ma nel nostro universo parallelo certe cose succedono. Andiamo dunque mentalmente al 31 dicembre. Il Pil è cresciuto del 4.7 e la disoccupazione è al 9. E’ impellente la necessità di alzare i tassi? L’inflazione salariale è già tra noi?

Proseguiamo il nostro viaggio mentale e portiamoci al 31 dicembre 2011. L’economia è cresciuta un’altra volta del 4.7, non male, e la disoccupazione è scesa all’8. Il Nairu, il livello di disoccupazione che fa partire l’inflazione salariale, è molto più in basso (prima della crisi si pensava fosse il 4, ora forse è più vicino al 5). Dall’8 al 5 c’è spazio per altri tre anni al 4.7 di crescita senza inflazione salariale. Per prudenza i tassi vanno normalizzati prima, ma stiamo parlando di 2012, 2013 e 2014. Oggi siamo nel 2010.

Uno studio pubblicato la settimana scorsa dalla Fed di San Francisco sostiene addirittura che l’esplosione della produttività ha rallentato nel 2009 il funzionamento della legge di Okun. Il rallentamento, secondo gli autori, si protrarrà nel futuro prevedibile. Questo significa che occorrerà ancora più crescita per fare scendere la disoccupazione.

Abbandoniamo a questo punto questo strano universo parallelo e torniamo nel nostro, popolato da facce lunghe e stranamente turbato da ansie non per la disoccupazione, ma per l’inflazione in agguato, i default dietro l’angolo e la Fed che non vede l’ora di alzare i tassi.

Smettiamo di fantasticare ridicolmente su una riscrittura della storia della crisi del 2008-2009 e riassumiamo un’aria mesta e preoccupata, più consona allo spirito dei tempi. Torniamo soprattutto dentro un orizzonte di aspettative limitate, in cui il meglio che si può chiedere alla vita è un altro giorno senza default sovrani e senza che accadano cose strane all’euro e a Eurolandia.

Bene, pare effettivamente che queste aspettative limitate abbiano qualche chance, almeno per qualche settimana o addirittura mese. Feldstein, uomo intelligente ma anche parecchio cocciuto che si dice tuttora convinto che la Grecia non ce la farà e che l’euro imploderà, dovrà pazientare almeno fino alle grandi aste greche d’autunno, visto che le prossime sono di fatto già coperte da garanzie europee o, in caso estremo, dal Fondo Monetario.

Uno dopo l’altro, i semafori rossi che avevano bloccato il rialzo azionario a metà gennaio si sono girati al verde. L’atteggiamento aggressivamente antibusiness e antibanche dell’amministrazione Obama si è stemperato. La bomba greca è stata, salvo imprevisti, disinnescata. La crescita è più alta del previsto. L’inflazione è bassa e scende. La Cina non è esplosa. L’ipercomprato dopo nove mesi di rialzo è diventato ipervenduto. Una lunga teoria di semafori verdi e bond e azioni salgono insieme, tenendosi per mano. L’euro ha finito di scendere.

Qualcuno si chiede che cos’altro di positivo potrà sostenere i corsi azionari. I tassi non possono scendere, gli utili sono già scontati, i default sono già dati per rinviati e la liquidità dei fondi istituzionali è piuttosto bassa.

La risposta è che i flussi verso l’azionario riprenderanno quando verrà meno la prospettiva di capital gain sui bond. Comprare un bond è un’avventura che può farci percorrere un numero infinito di strade, ma queste strade si concludono tutte invariabilmente a 100. Ad un trader a leva questo non importa, ma l’investitore individuale finale prima o poi si rende conto che 100 è 100 e non c’è modo di cambiarlo, né con le buone né con le cattive.

Quanto dureranno le luci verdi? Se il traffico sarà regolare e se non ci saranno i soliti invasati che vogliono mettersi a correre qualche settimana di lentissimo rialzo è possibile. Le luci gialle non tarderanno troppo a comparire. Qualche indicatore anticipato comincia a segnalare piccoli rallentamenti in Asia. La Cina darà altri piccoli colpi di freno. Rivedremo
presto tra noi i bollofobi ad ammonirci. Un’asta obbligazionaria nell’Isola di Pasqua potrebbe andare male. Il dollaro più forte potrebbe ammaccare i risultati di qualche esportatore americano.

Insomma, in un mercato attentamente sorvegliato dai policy maker lo spazio di rialzo sarà molto modesto. In compenso è davvero difficile trovare al momento motivi seri per una nuova flessione.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Kairos Partners SGR

 

 

 

  Lunedì 22 Marzo 2010   Martedì 23 Marzo 2010   Venerdì 26 Marzo 2010  
       
..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF ..... Scarica in formato PDF .....

 

 

 

 

 

Quelle tensioni geopolitiche che pesano sulle borse mondiali

20 Marzo 2010 10:44 - di Walter Riolfi
______________________________________________

A chi, come chi scrive, si sentisse desolato per non avere idea di quel che succederà sui mercati finanziari nei prossimi mesi, viene in soccorso un bel sondaggio Reuters di tre giorni fa. Tra la sessantina di gestori, strategist e top dealer di Wall Street intervistati dall'agenzia, si arguisce che l'indice S&P dovrebbe finire il 2010 a 1.225 punti: dunque con un rialzo del 5,7% rispetto alla chiusura di ieri e di quasi il 10% da inizio anno. Per lo Stoxx le cose andrebbero un po' meno bene, mentre per i mercati emergenti si prevedono ovviamente rialzi superiori al 10%. L'effetto consolatorio di questi sondaggi sta semplicemente nella probabilità che l'evento si verifichi. E anche uno sprovveduto come lo scrivente ritiene che sia un po' più probabile che Wall Street salga del 10% in un anno piuttosto che del 20 o del 30%, oppure che scenda del 10%. Questi sondaggi misurano semplicemente l'umore degli investitori e quello che mediamente si respira è un moderato ottimismo, ben esemplificato nell'analisi mensile di Barclays. L'umore lo fa il mercato: cosicchè non ci stupiremmo nei prossimi mesi nel veder gli obiettivi sensibilmente alzati se le borse dovessero correre. E viceversa.

Tuttavia, la relativa modestia di queste cifre riflette una serie di preoccupazioni sul futuro dei mercati. Già gli analisti tecnici avvertono come il nuovo massimo (relativo) delle borse toccato mercoledì sia avvenuto con scambi in calo, creando una condizione di «ipercomprato». E gli strategist, più attenti ai problemi macroeconomici, temono una scivolata degli indici nella seconda metà dell'anno, quando verranno meno alcuni degli stimoli monetari creati dalle banche centrali: cosicchè, sempre secondo un altro sondaggio Reuters, il Nikkei e la gran parte degli indici europei si troverebbero nel dicembre 2010 a livelli più bassi di sei mesi prima.

Potrebbero aver ragione: i tecnicisti, perché sui mercati, come s'è sottolineato su queste pagine nei precedenti articoli, mancano i grandi attori e a fare gli scambi sono per lo più gli algoritmi quantitativi elaborati dalle macchine; gli economisti, perché ci sono almeno due grosse incognite a pesare sulla ripresa e sulla salute dei mercati finanziari. Sulla sostenibilità della ripresa economica s'è già discusso nelle scorse settimane e anche i recenti segnali sembrerebbero confermare un sensibile rallentamento della crescita. Sui rischi geopolitici occorre invece soffermarsi un poco, perché la crisi dei debiti sovrani, unita alle preoccupazioni sulle possibili bolle speculative in Cina, è destinata a diventare uno dei fattori dominanti in futuro. Non si tratta di fenomeni isolati ma della ideale continuazione della crisi del credito scoppiata nel 2007 e della recessione del 2008-2009: perché adesso sono gli stati, praticamente tutti, che si fanno farsi carico della montagna di debiti creata in precedenza dal sistema finanziario.

Le nuove tensioni sui credit default swap sui paesi del Sud Europa e dell'Irlanda e l'aumento degli spread (differenziali di rendimento) dei loro titoli decennali rispetto al Bund tedesco sono la dimostrazione che i problemi legati alla sostenibilità di ingenti debiti pubblici sono destinati a riproporsi per un lungo periodo, indipendentemente dall'esito della crisi greca. Ai prezzi di ieri, tutti i Cds erano sensibilmente più alti rispetto a una settimana fa: compresi quelli sull'Italia saliti a 85 punti e sulla Gran Bretagna a 70 punti. Lo spread dei Btp è aumentato di 7 centesimi a 84 e quello del Portogallo di ben 18 centesimi a 121. Parallelamente sono peggiorate anche le condizioni sul mercato del credito corporate (bond societari) e soprattutto l'euro ha subìto un nuovo attacco speculativo scivolando a 1,35 sul dollaro. Sul franco svizzero la valuta europea è precipitata al minimo storico di 1,43.
In settimana l'S&P è salito dello 0,9% (+0,3% il Nasdaq) e lo Stoxx dello 0,7% (+0,6% Francoforte e Milano, +0,4% Londra, -0,1% Parigi).
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

 

CORPORATE BOND: UNA MINIERA D'ORO

22 Marzo 2010 05:04 NEW YORK - di WSI
______________________________________________

Buffett ci vide giusto: le obbligazioni aziendali erano su livelli ridicoli rispetto ai Titoli di Stato. Cosi' il rally ha aiutato molti gestori a pareggiare i bilanci. Recuperando i salassi dovuti al crollo del mercato immobiliare e finanziario.
Seguendo il consiglio di Warren Buffett, l'anno scorso le compagnie assicuratrici Usa, detentrici di oltre $2200 miliardi di debito societario, hanno comprato i corporate bond con un'intensita' che non si vedeva da cinque anni, approfittando di un mercato che lo stesso oracolo di Omaha aveva definito una "pioggia d'oro".
La somma acquistata dalle societa' assicuratrici americane e' salita a $153 miliardi nel 2009: il periodo piu' attivo e' stato il primo trimestre. Allora i rendimenti si trovavano sui livelli piu' alti dell'anno, secondo i dati pubblicati da Bloomberg e presi da un rapporto della Federal Reserve.

Tale cifra si confronta con i 59 miliardi del 2008 e rappresenta l'ammontare piu' consistente dai $172 miliardi del 2004. La decisione di acquistare bond societari "ha decisamente dato i suoi frutti", ha commentato Judy Greffin, chief investment officer di Allstate Corp, in un'intervista rilasciata a Bloomberg.
Il poderoso rally del mercato del debito corporate ha aiutato compagnie di assicurazione come MetLife e Prudential Financial a recuperare le perdite in conto capitale subite a causa del crollo del mercato immobiliare e finanziario tra il 2008 e il 2009.
Buffett ci vide giusto a inizio 2009, quando dichiaro' che i bond comunali e societari avevano "prezzi ridicoli se confrontanti con i titoli di Stato Usa". Grandi opportunita' cosi' non capitano di frequente e "quando piove oro, bisogna raccogliere la pioggia con un secchio non con un palmo di mano".

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

L’euro aspetta la soluzione greca

lunedì, 22 marzo 2010 - 15:37 - di Valerio Baselli
______________________________________________

Il salvataggio greco è divenuto ormai un caso. In queste ultime settimane si è discusso molto sul come e sul quando implementare un piano di aiuti, ipotizzato inizialmente dai governi tedesco e francese. Si è discusso della creazione di un Fondo monetario europeo, del possibile ruolo del Fondo monetario internazionale e addirittura di una eventuale uscita dall’euro per i Paesi non virtuosi.

Atene tra Berlino e Washington Il punto di svolta, però, sembra essere dietro l’angolo. Lo scorso giovedì, il premier greco George Papandreou ha lanciato un ultimatum al Parlamento europeo: se il Consiglio dell’Ue non metterà sul piatto i 25 miliardi di euro che la Grecia ha bisogno, il ricorso all’Fmi diventerà inevitabile.

La Germania, che ha più volte espresso la propria posizione favorevole ad un eventuale intervento a favore della repubblica ellenica, sembra aver cambiato idea. Il consulente economico del governo tedesco Wolfgang Franz, ha infatti dichiarato in un’intervista all’agenzia Dow Jones , che Berlino sarebbe pronta a lasciare il compito al Fondo monetario internazionale presieduto da Dominique Strauss-Kahn.

“L’Unione europea è davanti ad una scelta”, afferma Ashraf Laidi, responsabile delle strategie di mercato di CMC Markets. “Deve scegliere se aiutare la Grecia rischiando di violare la “no-bailout clause” del Trattato di Maastricht, oppure accettare l’aiuto dell’Fmi, accogliendo una Washington solution e riducendo così il peso dell’Ue”. Il Trattato, infatti, vieta il salvataggio di un Paese della zona euro da parte delle altre nazioni.

Movimenti valutari “I mercati valutari sono restii a spingere l’euro sopra 1,38 dollari”, spiega Ashraf Laidi. “Gli operatori hanno realizzato che la recente diminuzione di 100 punti base nello spread tra i titoli di Stato greci e tedeschi si è basata sulle voci di un salvataggio piuttosto che su di un vero pacchetto di aiuti”. Sono passati tre mesi dal crack greco e ancora non si vedono soluzioni credibili. “Per questi fattori”, conclude Laidi, “è più probabile che l’euro scenda verso i minimi di febbraio (1,34 dollari) piuttosoto che risalga verso la soglia di 1,38”.

“Gli investitori sono comunque diventati più prudenti”, commenta Martin Arnold, senior analyst di Etf Securities. “I governi dell’Eurozona hanno bisogno di un intervento coordinato per mitigare i timori del mercato verso possibili default di alcuni Paesi. Il Fondo monetario europeo sembra essere un primo passo verso la giusta direzione”. Questo non riguardo solo la Grecia. “I governi devono cercare di tappare i buchi di bilancio, nel caso contrario la valuta dovrà sostenere il colpo della insoddisfazione degli investiotri”.

Quindi cosa ci si dovrà attendere nel 2010 dal punto di vista valutario? “Il 2010 sembra essere ancora più interessante del 2009”, risponde Arnold. “La stretta monetaria cinese, le preoccupazioni europee sulla Grecia e le incognite sulla ripresa globale hanno contribuito ad affievolire il sentiment positivo dell’anno passato. I Paesi che saranno in grado di implementare programmi di riduzione del debito credibili ed efficaci saranno probabilmente premiati, mentre gli altri puniti duramente”.
 

Fonte - Morningstar

 

 

 

 

 

 

  Ecco come la finanza creativa ha danneggiato gli enti pubblici

22 Marzo 2010 15:38 MILANO – di Sole 24 ore

________________________________________

Un mix di furbizia, incompetenza, superficialità e, se verrà dimostrata, anche volontà di truffare. C'è un po' di tutto nel mondo dei derivati che incontra quello degli enti pubblici. Certo, ci sono i casi in cui la finanza crativa ha portato dei benefici alle casse del comune di turno. Ma troppi sono gli esempi in cui l'incanto del guadagno immediato si è dissolto come neve al sole, lasciando solo costi insopportabili per la Pubblica aministrazione.

Il sole24ore.com ha visionato alcuni contratti stipulati da diverse municipalità, tentando di capire, al di là delle generiche denunce, cosa concretamente è accaduto, o accade ancora. Un derivato cui le amministrazioni ricorrono spesso è il cosiddetto Interest rate swap. Di cosa si tratta? Lo swap, in generale, è un contratto con cui due parti si impegnano a scambiarsi reciprocamente dei pagamenti di interessi calcolati su un determinato capitale.

Come funziona lo swap
In particolare, l'Interest rate swap serve a coprirsi, per esempio, dalla variazione del costo del denaro. Ecco come:
Il Comune contrae un debito a tasso variabile;
Per difendersi dalla volatilità del costo del denaro, l'ente si accorda con una banca;
La banca pagherà somme periodiche, legate all'andamento del tasso variabile, al Comune;
Il Comune, a sua volta, sborserà alla Banca delle cedole che sono però legate a un tasso fisso.
Alla fine, lo scambio (lo swap) tra i pagamenti permette di compensare gli eventuali sbalzi della rata variabile. È questo l'uso classico che si fa di un simile contratto.

E qui tutto potrebbe andare bene. Dov'è allora il problema? «Fino a qualche anno fa - risponde Fabio Amatucci, economista dell' università del Salento e dello Sda Bocconi - simili contratti sono stati, in realtà, spesso utilizzati come strumenti di finanziamento e non di semplice copertura del rischio». Cosa intende dire? «Capitava che, per esempio, il derivato potesse prevedere la clausola dell'up front, cioè l'anticipazione al Comune di una determinata somma di denaro che, poi, sarebbe stata compensata dal gioco delle reciproche rate».

 

  Flussi di cassa  
     
... ...
 

Fonte - Il Sole 24 Ore 22/03/10

 




Il caso di un comune del sud Italia

Così è stato, ad esempio, per un contratto tra un piccolo comune del sud Italia e un istituto finanziario. La municipalità aveva un debito di 4 milioni di euro, ad un tasso medio del 5,09%, con la Cassa depositi e prestiti (Cdp). L'intesa prevede che: da un lato, l'istituto bancario anticipa alle casse comunali 248.000 euro; dall'altro, il Comune - oltre ad un complesso incrocio di cedole con la banca- si obbliga a sborsare una rata supplettiva del 7,7% se il tasso di mercato (l'Euribor a 6 mesi) supera, in un primo lasso di tempo, la soglia del 5,4 per cento. «Un rischio non da poco - spiega Amatucci -. La differenza tra il saggio medio pagato alla Cdp e la soglia limite è di soli 31 basis points. Un cuscinetto di sicuretta troppo stretto, a fronte del rischio di dover pagare ben il 7,7 % in più sul capitale. Tanto che il costo del contratto per il comune, all'inizio dell'operazione, era ben più alto dei 248.000 euro ricevuti». Vale a dire? «Abbiamo calcolato che l'accordo valeva circa 370 mila euro, quindi molto di più dei denari dati al comune». Insomma, la municipalità si è legata mani e piedi ad un derivato che aveva dei "costi occulti" notevoli e, ancora oggi, l'eventuale uscita dall'accordo sarebbe onerosa per la municipalità.

Tra incompetenza e contabilità
In tale situazione la domanda sorge spontanea: per quale motivo l'amministrazione di una piccola comunità si infila in un simile tunnel? «La risposta non è univoca - dice Amatucci -. C'è la voglia di incassare subito del denaro, con la speranza di posticiparne la restituzione nel tempo». Cosa che, però, spesso non accade, con i problemi che tutti conosciamo. «Inoltre, esiste un importante aspetto di natura contabile: l'up front, l'anticipazione di denaro, viene considerata un'entrata corrente quando, di fatto, fa parte di un debito che dovrà essere restituito». Ebbene, proprio grazie a questo "artificio" contabile si aggira il vincolo del limite di bilancio. Attualmente il patto di stabilià interno delle pubbliche amministrazioni prevede che: il rapporto rate di debit0/ entrate correnti sia inferiore al 15 per cento.

«Considerando l'up front non come debito che dovrà essere restituito, bensì un'entrata - sottolinea Amatucci -, il denominatore di questa frazione addirittura aumenta, facendo sembrare migliore la situazione contabile dell'ente comunale». Un vero paradosso, per non dire peggio. «Tanto che - precisa l'economista - nel 2007 il limite era stato portato all'1% e, di recente, diverse magistrature contabili regionali hanno statuito il divieto dell'utilizzo della clausola dell'up front».

Basterà a risolvere la situazione? Difficile dire. Da una parte l'incompetenza, la "golosità" di amministratori che vogliono liquidità per creare consenso è dura a morire. Dall'altra, l'interesse delle banche a sfruttare l'occasione per portare a casa plusvalenze è molto forte. A ben vedere i derivati non sono il male in sé: secondo dati recenti, l'esposizione degli enti pubblici in Italia sui derivati verso le banche è oltre 35 miliardi e molti di questi sono utilizzati a fini di copertura, cioè in maniera assolutamente utile. Tuttavia, come si è visto, non sempre l'hedging è al centro dei pensiero delle due contro parti e, giocoforza, va trovato un limite al loro utilizzo. Anche perché bisogna evitare che gli istituti finanziari, facendo firmare «manleve in cui si indica che la controparte è un operatore qualificato», possano sfuggire alle loro responsabilità, ovviamente quando queste vengano dimostrate.
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

 

 

 

Corporate people

giovedì, 25 marzo 2010 - 15:06 - di Sara Silano
______________________________________________

Per gli investitori, “obbligazioni” è sempre meno sinonimo di titoli di Stato, anche se questi ultimi sono ancora ben rappresentati nei portafogli dei piccoli risparmiatori. Uno studio di Morningstar, mostra che nel 2009 i flussi si sono diretti soprattutto sui fondi specializzati in corporate bond.

I corporate fanno meno paura Il mercato del credito ha registrato un forte rialzo l’anno scorso, che ha interessato sia i prezzi dei titoli investment grade sia gli high yield (ossia quelli di minor qualità). Dopo la grande paura del 2008, gli investitori sono tornati ad amare il rischio. Ancor più rilevante, la crisi della Grecia ha segnato il sorpasso del “rischio Paese” su quello corporate in Europa. In sostanza, l’indice iTraxx dei credit default swap sulle obbligazioni societarie (che indica la probabilità di fallimento) è più basso dell’iTraxx sul debito governativo. Questo significa che i titoli di Stato sono un porto un po’ meno sicuro di un tempo e che l’aumento del rischio sovrano non implica più in modo automatico come in passato una maggior volatilità del segmento corporate.

Secondo lo studio, presentato da Morningstar nel corso di una conferenza organizzata in collaborazione con Threadneedle, nel 2009 sono entrati nei fondi obbligazionari corporate europei distribuiti in Italia circa 12 miliardi di euro, concentrati prevalentemente nel secondo e terzo trimestre, ossia quello in cui questi prodotti hanno registrato le performance più elevate. Il rendimento realizzato dagli investitori (il cosiddetto investor return , che tiene conto dei flussi) è stato a due cifre (in media il 15,66%), ma inferiore al total return che è stato del 16,64% (calcolato ipotizzando che la sottoscrizione avvenga all’inizio dell’anno e che la posizione non muti fino alla fine).

Qualcuno è arrivato tardi I dati indicano che chi ha comprato quando il rally era già cominciato ha ottenuto un rendimento più basso, una riconferma del fatto che inseguire le mode non paga. S’impongono quindi due ordini di considerazioni per chi intende entrare ora sul mercato dei corporate. La prima è che la scelta non deve essere fatta sulla base delle performance passate, anche perché il 2009 è stato un anno eccezionale e difficilmente si ripeterà nel 2010. E’ meglio, dunque, definire un’asset allocation coerente con i propri obiettivi e la propensione al rischio e rimanervi fedele. Se poi si decide di sottoscrivere un fondo corporate, più che i rendimenti è bene guardare alla qualità della gestione e ai costi (questi ultimi sono molto più predittivi delle performance passate).

Il mercato non è più lo stesso La seconda considerazione è di mercato. La situazione economica globale è in graduale miglioramento, ma i tassi di interesse rimarranno bassi ancora per un po’ di tempo. La maggior resistenza mostrata dal credito corporate rispetto a quello sovrano è un fenomeno relativamente nuovo ed è tutto da provare. Secondo alcuni analisti, questa situazione non è giustificata, perché i default degli Stati sviluppati sono piuttosto rari (per evitarlo possono aumentare le tasse o tagliare la spesa). Di conseguenza, l’aumento del rischio sovrano potrebbe influenzare l’appetito per il rischio e quindi la domanda di obbligazioni societarie. E’ anche vero però che il contesto attuale è molto diverso da quello del settembre 2008, quando fallì Lehman Brothers e i governi dovettero iniettare liquidità nel sistema, in quanto i timori oggi riguardano la solvibilità di nazioni periferiche (come Grecia, Spagna e Portogallo) e in una certa misura anche di quelle core , come il Regno Unito.
 

Fonte - Morningstar

 

 

 

Dubai World evita il default L'emirato converte i crediti

26 Marzo 2010 08:36 DUBAI - di Angelo Mincuzzi
______________________________________________

DUBAI - Il salvataggio è davvero oneroso per le casse di Dubai ma alla fine, dopo settimane di trattative serrate con le banche creditrici, la mina che quattro mesi fa aveva fatto tremare la Las Vegas del Golfo persico è stata disinnescata. Quarantotto ore prima dell'inizio della Dubai World Cup, la più esclusiva corsa di cavalli del mondo e vanto dell'emiro Al Maktoum – che si correrà quest'anno su un tracciato costato più di due miliardi di dollari – Dubai World ha raggiunto un accordo con i creditori che la salverà dal default.

La holding, sommersa da 23,5 miliardi di dollari di debiti, ripagherà interamente in otto anni le banche che le hanno prestato soldi, mentre il governo dell'emirato pomperà nelle dissanguate casse della società nuovi fondi per 9,5 miliardi di dollari. «È la soluzione migliore che si potesse trovare», è il commento di un operatore finanziario europeo a Dubai. E i mercati sono d'accordo: ieri la borsa dell'emirato ha festeggiato la notizia con un rialzo del 4,3% e il prezzo dei credit default swaps, che assicurano contro il rischio di fallimento dell'emirato, sono scesi di 50 punti base. Dubai tira un sospiro di sollievo. Finalmente.
Certo, il piano di ristrutturazione presentato da Dubai World dovrà essere accettato dalle banche creditrici, ma si tratta ormai solo di un atto solo perché i suoi contenuti sono stati discussi ampiamente all'inizio della settimana in una riunione fiume a Dubai e sarebbero stati accolti favorevolmente.

Secondo i dettagli diffusi ieri, il governo di Dubai convertirà in azioni i suoi crediti verso Dubai World (8,9 miliardi, il 38% del totale), aumentando il suo peso nell'azionariato. Gli altri creditori, che vantano un credito complessivo di 14,2 miliardi, saranno rimborsati al 100% in due tranche, a cinque e a otto anni. Attraverso il Dubai Financial Support Fund (istituito lo scorso anno per far fronte alla crisi finanziaria), il governo di Dubai assicurerà alla holding nuove risorse per 1,5 miliardi di dollari.

Al piano di ristrutturazione di Dubai World si affiancherà quello per il salvataggio della controllata Nakheel, la società che ha realizzato Palm Jumeirah, l'isola a forma di palma, e che è stata costretta a interrompere o a frenare alcuni importanti progetti. Anche in questo caso i creditori saranno rimborsati al 100%. Il governo ricapitalizzerà Nakheel con otto miliardi di dollari e convertirà in azioni la sua quota di crediti nella società, pari a 1,2 miliardi di dollari. L'iniezione di denaro fresco consentirà a Nakheel di ripagare i creditori e di portare avanti le maxiopere già avviate ma attualmente bloccate per mancanza di soldi.
Dei 9,5 miliardi di dollari di nuove risorse (gli otto destinati a Nakheel e gli 1,5 per Dubai World), la quota maggiore (5,7 miliardi) sarà prelevata dalla linea di credito garantita nei mesi scorsi dall'emirato di Abu Dhabi, mentre 3,8 miliardi saranno attinti direttamente dalle casse del governo di Dubai.
Archiviato l'accordo, domani l'emiro Al Maktoum sarà in prima fila al concerto di inaugurazione della Dubai World Cup. Sul palco Elton John e Carlos Santana, in pista i cavalli, in tribuna star e milionari. Tutto come sempre a Dubai. Il momento difficile è ormai alle spalle.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Il debito delle aziende spaventa gli Usa

lunedì, 29 marzo 2010 - 7:28 - di Marco Caprotti
______________________________________________

“Apocalisse”, “disastro”, “valanga”. Non lesinano sui vocaboli catastrofisti le società di rating sul debito quando danno il quadro del mercato obbligazionario corporate degli Stati Uniti. A preoccupare gli analisti dei bond è l'ammontare della carta che nei prossimi cinque anni arriverà a scadenza e che quelli di Moody's hanno quantificato in 1.400 miliardi di dollari. Nello scenario peggiore dipinto dall'agenzia americana di merito del credito, la maggior parte delle aziende emittenti non sarà in grado di restituire il dovuto agli obbligazionisti, imboccando in questo modo la strada della bancarotta.

Concordano sulla somma, ma sono meno pessimisti, i loro colleghi di Fitch secondo cui gli emittenti più vulnerabili potranno contare sull'aiuto delle banche (che preferiscono allungare i termini di scadenza piuttosto che affrontare un default del debitore) e su un risveglio degli investitori in obbligazioni. Spulciando i report delle due agenzie, si nota che circa 600 miliardi di dollari corrispondono all'ammontare di emissioni da parte di grandi società senza particolari problemi di bilancio e che, quindi, non dovrebbero avere difficoltà a rifinanziare il debito o a ripagare i propri bondholder .

Il ritorno dei CLO Il problema vero, quindi, è per i circa 800 miliardi di dollari che mancano. Una parte di questi, (circa 425 miliardi) potrebbero essere rifinanziati attraverso uno strumento chiamato Collateralized Loan Obligation (CLO): in pratica si tratta di chiudere all'interno di diversi “pacchetti” una serie di debiti di piccole e grandi società per poi rivenderli ad investitori interessati. Si tratta comunque di strumenti decisamente speculativi, destinati a istituzioni finanziarie e che, per inciso, hanno contribuito non poco a gonfiare la bolla che ha portato alla crisi degli ultimi tre anni. “Ma siccome i prestiti fanno guadagnare o perdere i creditori in base alle fluttuazioni dei tassi di interesse, un aumento del costo del denaro darebbe nuova linfa ai CLO. “Quando la Federal Reserve ricomincerà ad alzare i tassi dai minimi storici, le banche potrebbero essere spinte a utilizzare sempre più spesso questo strumento”, spiega lo studio di Fitch. “Al di là delle considerazioni morali sull'uso di questi asset di investimento dopo quello che è successo dal 2007, bisogna comunque riconoscere che potrebbero essere l'unica strada per salvare molte società e i loro investitori dal disastro”.

Un accordo fra le parti Un'altra via, secondo l'agenzia di analisi di Thomson Reuters (TR), potrebbe essere un accordo fra creditore ed emittente. In questo modo si potrebbero salvare bond per circa 135 miliardi di dollari. Con questo sistema, conosciuto come amend and extend (modifica ed estendi), nel 2009 in base ai calcoli di TR sono state salvate emissioni corporate per 60,6 miliardi. Resterebbero in pericolo circa 240 miliardi di dollari di bond. Una cifra decisamente ridimensionata rispetto ai 1.400 miliardi iniziali, considerando anche che non tutte le società che li hanno emessi andranno necessariamente in default .

La questione, in ogni caso, è destinata a ripresentarsi a intervalli regolari. La Corporate America , infatti, sta facendo ancora un massiccio uso delle obbligazioni per finanziarsi e rifinanziare il debito. Secondo i dati di TR, in meno di tre mesi dall'inizio dell'anno, negli Stati Uniti si sono registrate emissioni corporate per quasi 40 miliardi di dollari.
 

Fonte - Morningstar