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INDICE ARTICOLI di TESTA

 

PARTE  2

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Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Grandi obiettivi del bear market rally

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Mercati & Borsa: non è un mondo per pigri

Crisi & Mercati - Analisi impatto micro

Proteggere il mercato, non le imprese

Borsa cinese e situazione immobiliare

La "volata" della Borsa cinese e l'incognita bolla immobiliare

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Borsa: sconfitti tutti i pessimisti a tempo pieno

Crisi & Mercati - Processo accusatorio su Big Bank USA

La Sec accusa Goldman di frode

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Borsa e nuovi target, il Nasdaq già a 2500

Parallelo Grecia/Argentina - Analisi

Deja-vu: crisi greca come, e peggio dell'Argentina

Crisi greca e impatto debiti sovrani su Banche UE

Le banche tedesche e francesi rischiano il contagio dei PIIGS

 
+++   ANSA   +++   DEBITO SOVRANO: RATING REGNO UNITO A RISCHIO   +++   Fmi: Strauss-Kahn, Economia Mondiale Non e' Fuori Pericolo   +++   Grecia: Commissione Ue, Nessuna Richiesta Di Aiuto Da Atene   +++   Grecia: Bini-Smaghi, Evitata Una Lehman Nell'Euro   +++   Grecia pronta a misure di austerità, Trichet: "Evitare contagio"  +++   ANSA   +++ 
 
  Giovedì 01 Aprile 2010   Venerdì 02 Aprile 2010   Sabato 03 Aprile 2010  
       
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INDICE ARTICOLI - Seconda pagina e flash

   

I bond greci battono quelli americani

GOLDMAN: CRISI O TEMPESTA IN UN BICCHIER D'ACQUA?

Bond, il Fondo monetario lancia l’allarme

PERCHE' NON SI PUO' PARLARE DI UNA BOLLA DEI MK. EMERGENTI

Commento mensile obbligazionario governativo – Marzo

Il destino di Goldman

La settimana, 13/2010

UBS, DEUTSCHE BANK E MERRILL: ANCHE LORO COME GOLDMAN?

RALLY PETROLIO E METALLI: SCATTA L'ALLARME

CARRY TRADE: POCHE CERTEZZE, GRAN POTENZIALE

Universo bond

Goldman Sachs si difende di fronte al Senato americano

BUY E HOLD: NON PER LE AZIONI, BENSI' PER I BOND

Europa, i danni non li fanno solo i Pigs

UTILI IN CORSA? LA BORSA GIA' SCONTA L'OTTIMISMO

Alcune mosse per difendere i risparmi dallo tsunami ...

GREGGIO: DOMANDA GLOBALE VERSO NUOVO RECORD

Grecia in portafoglio

Gestori, azioni Usa e titoli di Stato europei

Haibao e i fondi Cina

   
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  Grandi obiettivi del bear market rally

01 Aprile 2010 11:03 BIELLA – di Maurizio Milano

Questo documento e' stato preparato da Maurizio Milano, resp. Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

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Il rally prosegue. Dopo lo scivolone di metà gennaio, la ripresa degli acquisti partita dai minimi toccati il 5 febbraio ha portato gli indici Usa su nuovi massimi di periodo, con una perdita di spinta sul finale della scorsa settimana.

Il Nasdaq Composite ha raggiunto e superato marginalmente l’obiettivo indicato a 2415. Una chiusura settimanale al di sopra di tale livello rimane necessaria per avere un segnale di prosecuzione della salita verso quello che da molti mesi indichiamo come l’obiettivo finale del grande movimento di bear market rally iniziato un anno orsono, la resistenza chiave a 2500 (dai minimi del 9 marzo 2009 a 1265,52 l’apprezzamento è stato finora del +92,1%). Un segnale di perdita di spinta si avrebbe sotto 2325/45, con obiettivo 2250 e quindi il forte supporto in area 2200/20, la cui tenuta è necessaria per mantenere una buona impostazione per i prossimi mesi.

Nuovi massimi anche per il Dow Jones Industrial, che raggiunge sostanzialmente l’obiettivo indicato, la resistenza chiave a 11000. Sui livelli correnti l’indice sembra sostanzialmente "arrivato", anche se un segnale di perdita di spinta si avrebbe solo su discese al di sotto di 10400/500 ed un segnale di rinnovata debolezza solamente alla rottura del forte supporto in area 10100/200 (ancora poco probabile).

L’S&P500 tocca un nuovo massimo a 1180, non lontano dalla resistenza chiave a 1200, che dovrebbe bloccare il rialzo del mercato per molti mesi a venire. Un segnale di perdita di spinta si avrebbe comunque solo sotto 1140: in tal caso si proporrebbe il test dell’area 1105/15 e quindi (al momento poco probabile) del forte supporto in area 1080/85, la cui tenuta è necessaria per mantenere una buona impostazione per i prossimi mesi.

Sul fronte volatilità, il Vix rimane sui minimi di periodo, al di sotto della resistenza a quota 20. Il superamento di tale livello darebbe un segnale di prima "allerta" anche se solo sopra 22,75 si avrebbe conferma di rinnovato nervosismo.

Il quadro tecnico rimane immutato: da un lato, non ci sono segnali chiari di esaurimento del movimento rialzista; dall’altro, il raggiungimento dei grandi obiettivi del bear market rally vecchio ormai di 12 mesi deve consigliare grande prudenza. Stiamo entrando in una fase di mercato nuova, in cui la grande liquidità che ha trascinato al rialzo i listini nell’anno passato non sembra più sufficiente a spingere ancora all’insù con decisione i mercati. Solo una ripresa dell’economia reale e dell’occupazione consentirebbe l’avvio di un trend rialzista sano. Al momento non sembrano esserci le condizioni e quindi, nonostante non emergano ancora segnali critici, l’attenzione deve rimanere focalizzata sulla protezione del capitale, senza farsi prendere troppo dall’euforia.
 

Fonte - Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

 

 

 

 

 

I bond greci battono quelli americani

01/04/2010 - di ANSA
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Le turbolenze in Europa si stanno lentamente calmando e anche l’euro si sta riprendendo. Ieri la Grecia e’ tornata nuovamente sul mercato per finanziarsi e la risposta degli operatori e’ stata molto positiva. Il governo di Atene ha offerto un bond scadenza a sette anni per un importo di 5 miliardi di euro ma la domanda e’ stata decisamente superiore e ha superato i 7 miliardi. Il successo deriva da due componenti, dalla credibilita’ del piano greco di rientro dal debito, piu’ che dal raggiungimento dell’accordo nell’Eurogruppo per aiutare la Grecia in caso di necessita’, e dal fatto che i tassi offerti sul bond hanno raggiunto quasi il 6%, oltre il doppio dei rendimenti offerti dalle obbligazioni tedesche, ritenute le piu’ sicure in Europa.
Il successo dell’emissione si affianca alla ripresa dell’euro verso il dollaro e contro le altre principali monete. Oggi la moneta unica e’ tornata a guadagnare contro il biglietto verde riportandosi sopra quota 1,35, soglia psicologica importante, risalendo da un minimo che la scorsa settimana era andato sotto 1,32. Una rafforzamento che passa anche attraverso la lo spostamento dei capitali sulle obbligazioni europee a discapito di quelle Usa.
Infatti se nel Vecchio Continente le nubi si stanno diradando, si addensano invece sull’altra sponda dell’Oceano. La scorsa settimana le aste dei titoli di stato statunitensi a 10 anni, i T- Bond, sono andate quasi deserte. Il governo americano ha chiesto al mercato 118 miliardi di dollari, ma il rendimento offerto, sotto il 4%, ha deluso il mercato, secondo gli analisti dovrebbe salire sopra il 4,50% per attirare nuovamente la domanda. Anche perche’ gli operatori hanno iniziato a farsi due conti sul debito pubblico americano. Infatti, se e' vero che viaggia appena sotto il 90% del pil, tuttavia se si considerano i debiti per 6mila miliardi delle due banche statalizzate Fannie Mae e Freddie Mac, il rapporto deficit/Pil sale al 130%.
 

Fonte - ANSA

 

 

 

Bond, il Fondo monetario lancia l’allarme

01/04/2010 - di MIAECONOMIA
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L’emissione di ieri dell’obbligazione greca ha fatto storcere il naso a piu’ di un economista e indirettamente anche all’economista degli economisti, Dominique Strauss-Kahn, il Presidente del Fondo monetario internazionale, ovvero colui che dovra’ mettere mano al portafoglio per aiutare la Grecia ad uscire dalla attuale crisi di liquidita’, con un contributo che potrebbe variare tra 7 e 15 miliardi di euro (il resto sara’ a carico della Ue).

Ieri la Grecia ha offerto sul mercato una obbligazione per 5 miliardi di euro, ricevendo una domanda di 7 miliardi di euro. Una risposta che alcuni economisti hanno valutato scarsina perche’ a fronte di un bond offerto con un rendimento di quasi il 6%, la domanda del mercato sarebbe dovuta essere molto maggiore. Lo dimostra per esempio la risposta all’emissione da 300 milioni che ieri ha lanciato Prysmian. In una sola ora gli investitori l'hanno inondata di oltre 3 miliardi di euro di ordini d'acquisto, alla fine la societa’ ha aumentato l'importo a 400 milioni. Due settimane fa era stata Italcementi a ricevere domande per 4 miliardi a fronte di un emissione di 750 milioni.

Il primo segnale di preoccupazione quindi, e’ che evidentemente in questo momento gli investitori valutano piu’ a rischio la Grecia che Italcementi o Prysmian. Il secondo riguarda il fiume di obbligazioni che sta inondando il mercato. A fronte di mercati sempre piu’ assetati di guadagni poco rischiosi rispondo aziende disposte a offrire rendimenti allettanti per raccogliere oggi capitali. Solo in Italia negli ultimi mesi abbiamo assistito alle emissioni di Enel, Edison, Italcementi, ieri di Prysmian, nel pomeriggio arrivera’ quella di Intesa Sanpaolo, e solo per citare le principali e quelle a livello nazionale. Ma il fenomeno e’ europeo.

Un bond prima o poi va ripagato. E ne sa qualcosa la Grecia che nei prossimi due mesi deve trovare tra i 20 e i 25 miliardi anche per ripagare cedole e titoli in scadenza. A livello europeo nei prossimi 5 anni e stato calcolato dagli analisti che giungeranno a scadenza corporate bond aziendali per oltre mille miliardi di euro, il 40% in piu’ rispetto ai 5 anni passati. Questo potrebbe creare un ingorgo di rifinanziamenti, soprattutto nel 2014. Ecco perche’ Dominique Strauss-Kahn ha ieri lanciato un allarme per tutta l'Europa che rischia la serie B del credito e che per questo nel giro di dieci anni potrebbe uscire dalle grandi partite economiche mondiali.
 

Fonte - Miaeconomia.it

 

 

 

Commento mensile obbligazionario governativo – Marzo

Thursday, 1 April, 2010 at 16:12 - di phastidio
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Nel mese di marzo il mercato obbligazionario governativo dell’Area Euro (a livello di indice JPM EMU) è stato caratterizzato da una sostanziale stabilità dei rendimenti, frutto di un lieve aumento nella parte a scadenza inferiore all’anno, invarianza nel tratto breve-intermedio e lieve riduzione nelle scadenze superiori alla decennale. Questo movimento di lieve appiattimento della curva ha prodotto una performance positiva di poco superiore allo 0,6 per cento. L’andamento della curva di Eurolandia è stato piuttosto differente dal generalizzato e marcato aumento dei rendimenti che ha interessato la curva governativa statunitense, conseguenza di timori dei mercati per il crescente volume di emissioni pubbliche legate all’ampio deficit (circostanza peraltro in opera anche nella zona Euro), oltre che della scadenza del programma di riacquisto da parte della Fed di mutui e cartolarizzazioni su mutui.

Sulla zona Euro continua a pesare l’elevata incertezza che circonda il “salvataggio” della Grecia da parte di Unione europea e Fondo Monetario Internazionale. Il piano, annunciato il 25 marzo, prevede aiuti del Fondo e prestiti bilaterali volontari da parte di singoli stati, a condizioni di mercato ma solo nell’ipotesi che alla Grecia sia precluso l’accesso ai mercati, ed appare solo un espediente politico per prendere tempo. La Grecia continua a finanziarsi sui mercati a condizioni proibitive, anche in relazione alla crescita negativa del proprio Pil: nel corso del mese Atene ha fatto ricorso ai mercati della syndication internazionale per collocare titoli pubblici a 5, 7 e 10 anni, con risultati modesti in termini di interesse degli investitori. La situazione resta molto problematica ed i mercati lo hanno confermato: dopo un iniziale restringimento degli spread sui credit default swap e del differenziale con il governativo tedesco, successivi all’annuncio dell’intervento, il pessimismo è tornato ad affermarsi, ed il mese si è chiuso a 343 punti-base sul bund, curiosamente lo stesso livello del Cds.

I timori sul futuro fiscale e politico di Eurolandia hanno contribuito all’ulteriore deprezzamento dell’euro contro dollaro. Se da un lato ciò fornirà ossigeno all’export europeo, dall’altro rischia di ostacolare il processo di riequilibrio statunitense, che il presidente Barack Obama vorrebbe centrato sulla crescita dell’export. Si conferma quindi uno scenario in cui è verosimile attendersi un mercato caratterizzato da volatilità, indotta dai timori per lo stato delle finanze pubbliche, in un contesto di crescita ancora esile, che impedisce quindi il recupero significativo delle entrate fiscali e frena le ipotesi di taglio di spese di welfare, ed in un quadro di elevati volumi di titoli di debito pubblico offerti dai Tesori nazionali.
Altri timori, ad oggi più remoti, deriveranno dalla possibilità che pressioni politiche possano determinare un’insufficiente restrizione monetaria ed un aumento del rischio d’inflazione, al momento del manifestarsi della ripresa. Il mese di marzo ha visto una ripresa delle aspettative inflazionistiche, come testimoniato dall’andamento dei breakeven inflation rates sui titoli governativi indicizzati all’inflazione, cresciuti di 10 centesimi di punto percentuale sul quinquennale italiano e di oltre 15 sul decennale francese, anche per reazione al dato preliminare di marzo dei prezzi al consumo, in ripresa soprattutto a causa dei rialzi nel comparti carburanti e trasporti.

Malgrado l’accresciuta volatilità dei mercati e l’aumentata avversione al rischio, i titoli di stato italiani hanno continuato a mostrare una buona capacità di tenuta, mantenendo pressoché invariato il differenziale di rendimento con il Bund, in un intorno di 85 punti-base sulla scadenza decennale. E’ utile tuttavia ribadire che tali valori restano significativamente superiori a quelli che venivano registrati prima dello scoppio della crisi, nella seconda metà del 2007; ciò segnala la persistente cautela dei mercati verso quei paesi che hanno i maggiori rapporti debito-Pil e che dall’inizio dell’euro hanno evidenziato limitate capacità di crescita. L’attenta gestione del rischio creditizio sovrano nei portafogli governativi appare un tema d’investimento centrale di quest’anno.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Mercati & Borsa: non è un mondo per pigri

01 Aprile 2010 14:49 MILANO – di Alessandro Fugnoli*

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR

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Terminato il primo trimestre del 2010 si può fare qualche bilancio. Tra le classi di asset finanziari la peggiore è stata il cash. Il cash, inteso come titoli fino a 12 mesi, ha la grande dote di non andare praticamente mai sotto zero ma in una fase come questa (che si prolungherà per tutto quest’anno e per il prossimo) ha anche il grande difetto di non sollevarsi da zero nemmeno con la gru.

Dopo il cash la performance meno brillante in questi tre mesi è stata quella dei bond governativi. Meglio sono andate le obbligazioni corporate di buona qualità. Meglio ancora i bond emergenti in valuta locale e poi, salendo ancora nei risultati, le obbligazioni di bassa qualità. A battere tutti è stata, tra le maggiori, la borsa americana, salita del 5 per cento nonostante l’ampia correzione tra gennaio e febbraio.

Dai diamanti non nasce niente, cantava De André, dal letame nascono i fior. La borsa ungherese da inizio anno sale del 14 per cento. L’Islanda che ripudia i tassi da usura che le chiedono gli inglesi sale del 15. La Romania che secondo alcuni era avviata verso anni e anni di stagnazione sale del 27. L’Estonia, smagrita dopo la feroce svalutazione interna (cambio stabile e riduzione di tutti gli stipendi), invece di trascinare nel baratro le banche
svedesi sale come borsa del 41 per cento. L’Ucraina, che deve sempre fare default a giorni e non lo fa mai, sale del 64 per cento.

Cresce del 25 per cento la borsa nigeriana, dopo la radicale operazione di pulizia del sistema bancario. 25 anche per il Kenya. In Asia non sono i temi più ovvi a distribuire soddisfazioni. La Cina, dove il governo usa la borsa come strumento di politica monetaria, Shanghai scende del 5 per cento mentre il Pil sta crescendo a una velocità annualizzata del 13 per cento. La borsa cinese va comprata quando l’economia va male e venduta quando cresce sopra la velocità di crociera dell’8 per cento. L’eccezione, in questo momento, sono i titoli delle grandi banche, che la banca centrale, per bocca del vicegovernatore Zhu, definisce sottovalutati.

Anche l’India smaltisce l’ipercomprato del 2009 e chiude il trimestre esattamente dove l’aveva iniziato. Il Giappone delude un’ennesima volta i cacciatori di outperformance e si limita a concedere un 5 per cento. In compenso il Bangladesh sale del 23 per cento, molto buono ma pur sempre la metà della borsa di uno dei paesi più ricchi e meno popolati del pianeta, la Mongolia (più 54 per cento).

Descritta così, sembra una trascrizione dal manuale della ripresa ciclica perfetta, con le performance che migliorano con il salire del livello di rischio. Questa però non è (o meglio, non è solo) una normale ripresa ciclica. E’ qualcosa a metà strada tra la normale ripresa ciclica e la New Normal di Pimco, un mondo malaticcio che passa anni, non mesi, in dolorosa disintossicazione.

Le materie prime si incaricano di stravolgere il pigro schema della ripresa classica. Dovrebbero avere reso più di tutto, più ancora delle azioni, e invece sono state la classe di asset peggiore, l’unica con segno negativo, peggio ancora del cash. Ma come, si dirà, con il greggio a 84 dollari e il rame di nuovo fortissimo? Sarà, ma l’indice Crb delle materie prime, che il 31 dicembre stava a 283.38, chiude il trimestre a 273.34. Non di solo greggio e rame vive l’uomo, ma anche di gas e di carbone, in questa fase abbondantissimi (si scoprono continuamente nuovi giacimenti e l’estrazione viene effettuata con nuove tecnologie che aumentano notevolmente la resa).

Non di soli minerali vive l’uomo, ma soprattutto di derrate agricole abbondantissime grazie ai raccolti record di cereali e al minore utilizzo del mais per produrre etanolo.

La bolla delle materie prime non si riesce a scorgerla nemmeno con la lente d’ingrandimento. Il petrolio è agli stessi livelli di inizio 2006, i cereali idem, il gas naturale è sotto. Quanto all’inflazione salariale, per la prima volta da trent’anni le retribuzioni nominali dei paesi sviluppati hanno smesso completamente di crescere. Gli aggregati monetari non salgono e le riserve in eccesso delle banche continuano a essere depositate a tassi irrisori presso le banche centrali. Nemmeno la caduta recente dei corsi dei Treasuries induce le banche a comprarli. La Fed, dal canto suo, chiude ufficialmente il capitolo del quantitative easing e cessa di acquistare governativi e agenzie.

In questo quadro di inflazione invisibile e in discesa il dibattito sulla fine dell’età dell’oro dei bond è paradossalmente più vivace che mai. Dopo tutto i bond salgono di prezzo dal 1982 e i rendimenti sono ai minimi. E’ comprensibile che il tema del loro destino appassioni gli animi.
La dispersione delle opinioni è impressionante. A un estremo si dice che all’età dell’oro dei bond sta per seguire un’età di orrori senza fine. Ogni uomo, donna e bambino sul pianeta deve stare al ribasso sui titoli di stato, dice Nassim Taleb.

Il pessimista più autorevole e articolato è Greenspan. La montagna del debito sanitario e previdenziale è così imponente che sarà impossibile non ricorrere all’inflazione. In realtà Greenspan va ancora più in là e sostiene che nemmeno stampando dollari giorno e notte si verrà a capo del problema, semplicemente perché non ci sono i beni fisici che sono stati promessi. Ai pensionati, infatti, si potranno in futuro consegnare i dollari nominali promessi (freschi e fruscianti di stampa), ma ai malati sarà materialmente impossibile garantire le prestazioni sanitarie.

Greenspan non lo dice, ma è evidente che la soluzione arriverà con il sistema delle code sempre più lunghe per le prestazioni e con il mancato accesso ai nuovi farmaci, tipicamente i più costosi. Si può allargare la copertura sanitaria anche ai marziani, ma se le macchine per la risonanza magnetica sono sempre le stesse (o vanno addirittura tagliate) i tempi si allungano. Per fortuna nel frattempo qualche paziente sarà così cortese da ritirarsi dalla scena da solo.

Per Greenspan, quindi, i bond sono un incidente che aspetta di accadere. La sua è però un’analisi strutturale, non ciclica. La ripete infatti da più di un decennio, un po’ come un vulcanologo che consigli di non prendere casa sotto il cratere perché sarà fra un anno o magari tra dieci, ma finirà comunque malissimo.

Scendendo di intensità nel pessimismo troviamo varie scuole di pensiero a sfondo più o meno ciclico. La scuola più classica è formata da quelli che non appena sentono parlare di ripresa ciclica portano automaticamente la mano ai bond per spingerli fuori dal portafoglio. Ci sono qui due sottoscuole. A quella ortodossa è sufficiente una ripresa qualsiasi, a quella riformata per liquidare i bond occorre una ripresa sostenibile. Poiché in questi giorni, in previsione del primo dato positivo sull’occupazione, si moltiplicano le voci (provenienti anche da dentro la Fed) che parlano di sostenibilità (ovvero irreversibilità) della ripresa, ortodossi e riformati si ritrovano uniti come venditori.

Chi professa il credo della ripresa ciclica dovrebbe essere per coerenza pieno di azioni per l’appunto cicliche e di materie prime. Questa incombenza è invece risparmiata a quanti motivano il loro rifiuto per i bond non con la crescita economica ma con lo squilibrio tra un’offerta di titoli in continuo aumento da parte dei governi e una domanda che nella migliore delle ipotesi si può immaginare stabile. Nelle versioni più radicali il rifiuto per i titoli di stato viene motivato sulla base del deterioramento del merito di credito del debitore. Qualcuno, sentendo questi discorsi, passa dalle parole ai fatti e paga titoli corporate (anche bancari e malmessi) più del debito sovrano del loro paese (negli Stati Uniti il tasso swap a 10 anni rende da giorni meno dei Treasuries di pari durata).

All’estremo opposto di quanti sostengono la fine dell’età dell’oro per i bond (in particolare governativi) ci sono pochi arditi che sostengono che l’età dell’oro è appena cominciata e che potrà durare altri dieci anni e forse anche di più. Viene in mente David Rosenberg, ma il più articolato sostenitore di questa tesi è Richard Koo. Prima di passare a Nomura, Koo ha lavorato alla Fed e ha studiato quella che ha definito la crisi da stato patrimoniale del Giappone. Quando c’è una massa enorme di debiti e quando su questa massa non si fa un bel default risolutivo ma si cerca di ripagare faticosamente e lentamente il creditore, la domanda privata tende a implodere e va sostituita con spesa pubblica, pena il collasso del sistema. Il debito pubblico sostituisce quello privato e va considerato provvidenziale.

L’errore più grave, dice Koo, è quello di invocare la rapida fine del sostegno pubblico richiedendo quanto meno una exit strategy precisa nei tempi e nei modi. Il paziente è in terapia intensiva e la peggiore cosa che si può fare a un infartuato appena operato è parlargli di quando e quanto dovrà pagare per le ingenti spese di ricovero. E’ il modo migliore per deprimere e fare agitare il malato, prolungando la convalescenza e alzando i costi per le cure.
Passate in rassegna alcune tra le posizioni più significative, proviamo adesso a dire qualcosa di nostro.

E’ possibile che nei prossimi anni la crescita globale sia buona, ma i paesi sviluppati sono e resteranno la componente più fragile. La ripresa ciclica dura ormai da nove mesi ma è solo buona in America (quando di solito è molto forte dopo una caduta verticale) e mediocre in Europa.

Il fatto che si tratti comunque di una ripresa ciclica può produrre legittimamente quello che qualcuno ha definito un bear market a bassa intensità sui governativi lunghi. Il fatto che si tratti di una ripresa fragile e che già nella seconda parte dell’anno possa scendere di velocità rende difficile il riproporsi di scenari di bear market duro, come fu il caso ad esempio nel 1999 dopo la fine della crisi asiatica. La fragilità, inoltre, rende reversibile un’eventuale correzione dei bond.

I corporate di ogni ordine, grado e qualità (in particolare con emittenti basati in paesi emergenti) assorbiranno meglio dei governativi la ripresa ciclica e potranno perfino dare vita a qualche piccolo ulteriore rialzo di prezzo. Niente di paragonabile, in ogni caso, con l’erosione dello spread di credito e con i recuperi di prezzo già avvenuti negli ultimi dodici mesi.
L’età dell’oro è certamente finita, ma quella che si apre potrebbe essere l’età dell’argento. Anche senza tracolli, tuttavia, la pigra vita dell’obbligazionista con i suoi rendimenti da qui in avanti modesti si dovrà confrontare non tanto con chi ha azioni tout court ma con chi un paio di volte all’anno cambia l’allocazione del suo portafoglio comprando le correzioni di borsa e vendendo i rialzi.

Strategicamente continuiamo a preferire il merito di credito dei titoli governativi rispetto a quello dei debitori corporate. E’ vero che le imprese in questo momento sono poco indebitate e hanno conti in ordine, ma nell’improbabile caso (ma non impossibile) di un double dip gli stati possono tassare e stampare denaro, le imprese no.

A proposito di tasse, il mercato le sottovaluta nei suoi scenari. Abbiamo visto qualche settimana fa come si potrebbe organizzare a tavolino un’uscita inflazionistica dalla crisi fiscale. I mercati la temono molto e l’inflazione è certamente la più iniqua delle imposte, ma proprio perché iniqua qualche investitore più accorto e veloce degli altri può riuscire a destreggiarsi tra oro e beni reali o indicizzati. Nell’Italia degli anni Settanta o nel Brasile degli anni Ottanta quasi tutti alla fine avevano imparato a organizzarsi.

I mercati, a dire il vero, temono l’uscita finale inflazionistica al punto da chiedere in certe fasi (come questa negli Stati Uniti) un premio di extrarendimento per comprare i titoli pubblici. Gli stati lo possono anche concedere, questo extrarendimento, per riprenderselo poi tranquillamente indietro sotto forma di un aumento delle imposte sulle rendite. Più alti i tassi sui bond, più alte le tasse sui bond.

Il Congresso e l’Amministrazione Obama sono già abbastanza avanti nella definizione degli aumenti delle imposte. In sintesi aumenterà l’aliquota sul quintile di reddito più alto, crescerà la pressione sulle imprese, verrà introdotta una carbon tax, verrà introdotta una sales tax federale in aggiunta a quelle statali già esistenti. Per i redditi da capitale, oltre al 3.9 per cento di maggiorazione già introdotto per finanziare la riforma sanitaria, l’aliquota attuale del 15 passerà molto probabilmente al 25 già l’anno prossimo. Alec Phillips di Goldman Sachs ritiene che questo sarà solo un primo passo in vista di un 29 per cento nel 2013.

Attenzione quindi a quello che si desidera. Chi reclama un risanamento fiscale veloce per evitare l’uscita inflazionistica chiede di pagare subito più tasse. L’ultima parola, inflazione o tasse, spetta comunque ai governi.
E’ questione di gusti, naturalmente, e per questo lasciamo aperta la questione se sia più divertente morire d’inflazione o di tasse.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

  Martedì 06 Aprile 2010   Mercoledì 07 Aprile 2010   Giovedì 08 Aprile 2010  
       
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GR1 RAI - 06 Apr. ore 22:00

   

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GR1 RAI - 08 Apr. ore 22:00

   

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La settimana, 13/2010

Friday, 2 April, 2010 at 15:26 - di phastidio
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L’indice azionario mondiale MSCI World ha toccato giovedì 1 aprile il massimo da 18 mesi, mentre il petrolio ha chiuso sopra gli 85 dollari al barile per la prima volta da ottobre 2008, sulla spinta dell’andamento della manifattura globale, che mostra continua espansione in Cina, Europa e Stati Uniti. L’indice ISM manifatturiero statunitense è cresciuto in marzo al livello di 59,6, massimo da luglio 2004 e meglio del consenso.

In Europa, l’indice dei direttori acquisti di imprese manifatturiere è passato in febbraio da 54,2 a 56,6 mentre in Cina l’equivalente indice, elaborato da Hsbc, è cresciuto da 55,8 a 57 in marzo. Positivi riscontri anche per la manifattura britannica, con l’indice che in febbraio si è portato al massimo dal 1984, al livello di 57,2 (valori superiori a 50 indicano espansione). Si conferma quindi la spinta globale esercitata dalla manifattura, sia per effetto del brillante andamento congiunturale nei paesi emergenti che per la presenza di evidenze di più generale ricostituzione delle scorte.

Questi dati, oltre al ritorno di una lieve debolezza del dollaro, hanno spinto al recupero le quotazioni delle materie prime, in particolare del petrolio, mentre i rendimenti dei Treasury hanno proseguito nella tendenza rialzista, sulla spinta di rinnovati timori relativi alla capacità di assorbimento degli enormi volumi di nuove emissioni necessarie a finanziare il deficit del Tesoro. Il 31 marzo si è inoltre concluso il programma di riacquisto di cartolarizzazioni da parte della Fed, e vi sono timori che questo possa indurre un aumento dei costi dei mutui, che causerebbe una nuova gelata all’immobiliare.

I dati dei prezzi al consumo dell’Area Euro relativi a marzo mostrano un aumento degli indici tendenziali, causato soprattutto dalla ripresa dei prezzi di carburanti e costi di trasporto. Ciò ha causato una reazione dei titoli di stato indicizzati all’inflazione, che hanno visto marcati aumenti dei breakeven inflation rates.

Tornano timori anche sulla Grecia e sulla sua capacità di uscire dalla grave crisi di finanza pubblica in cui si trova. nel corso della settimana il governo di Atene ha collocato titoli pubblici a scadenza 5,7 e 10 anni tramite consorzio di collocamento internazionale. L’accoglienza degli investitori è stata tiepida, ed il mercato è tornato a far crescere (a nuovi massimi da quattro mesi) i differenziali di rendimento tra titoli greci e tedeschi, oltre al credit default swap sul paese ellenico. Appare evidente che la Grecia continua a finanziarsi sul mercato a condizioni proibitive, soprattutto considerando che la contrazione della sua economia è destinata ad aggravarsi dopo le misure di austerità fiscale decise dal governo Papandreou il 3 marzo scorso, e vi sono quindi seri rischi di un avvitamento della situazione. Sintomatico della profondità della crisi è il dato sull’attività manifatturiera in febbraio, il cui indice segnala un incremento della contrazione, unico tra i maggiori paesi, sviluppati ed emergenti.

Negli Stati Uniti nel mese di marzo sono stati creati 162.000 nuovi impieghi netti, massimo da tre anni, a fronte di attese poste a 184.000. Il dato è inferiore alle prime stime di consenso, che erano giunte a prevedere fin0 a 275.000 nuovi impieghi netti. Tali stime sono poi state progressivamente ridimensionate. La revisoone del bimestre precedente hainoltre aggiunto 62.000 impieghi netti. Il dato di marzo include 48.000 lavoratori temporanei assunti dal governo federale per aiutare a condurre il censimento 2010.

Il maggior impatto di queste assunzioni è atteso tra aprile e giugno. Parte dell’incremento complessivo di occupazione riflette verosimilmente la normalizzazione delle condizioni meteorologiche, dopo le tempeste di neve di febbraio. La settimana lavorativa media aumenta a 34 ore, da 33,9. Il tasso di disoccupazione resta fermo al 9,7 per cento, quello della sotto-occupazione, che include i lavoratori part-time involontari (quelli cioè che vorrebbero lavorare a tempo pieno) sale lievemente al 16,9 per cento.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

RALLY PETROLIO E METALLI: SCATTA L'ALLARME

02 Aprile 2010 10:03 NEW YORK - di IL SOLE 24 ORE
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Ieri i prezzi dell'oro nero del Nymex hanno toccato punte superiori a 85 dollari al barile, il massimo dall'ottobre del 2008. Mai così alti dall'estate 2008 anche i prezzi segnalati a Londra per rame, nickel e platino. Ripresa economia a rischio?
«Un rialzo delle materie prime ucciderebbe in culla quel poco di ripresa che comincia a vedersi. Rischiando di accendere una pericolosa spirale inflazionistica». L'allarme arriva dai comparti produttivi del sistema Italia, alle prese con una difficile uscita dalla recessione.
Tutta colpa del nuovo "cartello" del ferro siglato dai big minerari mondiali con i grandi consumatori, soprattutto le acciaierie asiatiche, che supera il vecchio sistema degli accordi annuali sulla determinazione del prezzo, aprendo alla speculazione sulle fluttuazioni.
Al nuovo accordo si aggiunge poi «la pressione della locomotiva cinese ormai uscita dalla crisi», spiega Guidalberto Guidi, presidente di Anie, l'associazione di Confindustria che raccoglie le imprese elettroniche ed elettrotecniche. «Sono tornati a mangiarsi tutto quel che viene prodotto nel mondo spingendo i prezzi di rame e acciaio. Nel nostro comparto, ad esempio, stanno rincarando anche i componenti di base».
Per alcuni è fisiologico. Nel corso del 2009 molti hanno tagliato capacità produttiva. E insieme si sono ridotti i prezzi su base annua: -3,7% l'acciaio, -19,5% il rame, -22,8% lo zinco, -36,5% l'alluminio, -35,6 il nickel. Con i primi refoli di ripresa la pressione sta aumentando.
Ieri il petrolio Wti al Nymex ha toccato punte superiori a 85 dollari al barile, il massimo dall'ottobre del 2008. Mai così alti dall'estate 2008 anche i prezzi segnalati a Londra per rame (7.881 dollari per tonnellata), nickel (25.475 dollari per tonnellata) e platino (1.660 dollari per oncia).
«La richiesta di rincari da parte dei nostri fornitori è ormai quotidiana e annulla quasi completamente il vantaggio monetario sul dollaro – prosegue Guidi – accendendo una potenziale rincorsa prezzi/tassi che non possiamo certo permetterci».
Il baco del contagio è certamente la siderurgia, con ricadute immediate sulla meccanica e sull'automotive. Ma anche chi utilizza come materia prima il rottame (gran parte dell'industria italiana), è investita indirettamente dal rimbalzo, influenzando il prezzo dei prodotti finiti.
«Abbiamo visto un forte rincaro del minerale ferroso destinato alle acciaierie e anche delle lattine di acciaio o alluminio da riciclare e fondere – spiega Rosolino Redaelli, produttore di imballaggi di metallo e presidente dell'Anfima, l'associazione di categoria – ed è prevedibile che a valle rincarerà anche la banda stagnata, cioè la latta per produrre barattoli, scatolette e bombolette. C'è preoccupazione soprattutto per gli effetti che potranno esserci sul confezionamento di pelati e conserve, visto che si avvicina il periodo del raccolto del pomodoro».
Secondo i produttori di imballaggi metallici, infatti, con ogni probabilità saranno ritoccate le forniture di latta e alluminio, che in genere hanno contratti di lunga durata.
Anche la Federalimentare guidata da Giandomenico Auricchio teme questo contagio, più che il rimbalzo delle materie prime alimentari. «Il problema è l'acciaio, ingrediente fondamentale nel nostro made in Italy», ammette Auricchio. «I nostri processi di lavorazione – aggiunge – rispondono a normative molto restrittive proprio a tutela della sicurezza dei consumatori. Dunque se non ci sarà un impatto diretto, certamente i rincari peseranno lungo la filiera».
Preoccupato per l'infiammata dei prezzi è anche Paolo Culicchi, presidente di Assocarta, un settore che valeva circa 22mila addetti per 10,1 milioni di tonnellate di produzione negli anni d'oro (oggi dopo la crisi che ha chiuso 20 cartiere vale 20mila lavoratori e 8,4 tonnellate).
«Le materie prime fibrose (le cellulose) e le carte da macero nel primo trimestre 2009 erano scese a prezzi bassissimi», ragiona Culicchi. «Cinquecentosessanta dollari a tonnellata per la fibra lunga e 460 per quella corta».
I produttori sudamericani, tanta era la crisi, avevano addirittura fermato gli stabilimenti. Oggi lo scenario è diverso: la ripresa sta investendo il Far East trascinandosi dietro la pressione sui prezzi. «Nell'ultimo trimestre – prosegue il presidente di Assocarta – c'è stato un aumento di 30 dollari/tonnellata. Siamo ormai a 880 per la fibra lunga e 780 per quella corta».
Come uscirne? «Auspichiamo almeno una detassazione sull'incremento di fatturato».
Meno lambita dal rimbalzo la filiera dell'edilizia. Banalmente perché «il comparto resta immerso in una crisi profonda, sia sul lato immobiliare che nelle infrastrutture che negli appalti pubblici», commenta il presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti.
«Già nel 2005 ci fu un'impennata dei prezzi del 108% dopata proprio dalla rincorsa cinese. Ricordo che i container pieni di acciaio venivano tenuti fermi nei porti per far salire i prezzi. Il rischio vero, piuttosto – conclude il leader dell'Ance – è di restare in balia di congiunture internazionali volatili».
 

Fonte - IL SOLE 24 ORE

 

 

Universo bond

7 aprile 2010 - 15:28 - di Sara Silano
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Bund, BTp e Treasury sono solo uno dei pianeti del vasto universo obbligazionario, che è popolato da titoli dei mercati emergenti, corporate bond e high yield (emissioni ad alto rendimento e di minor qualità). Questi ultimi hanno assunto un ruolo da protagonisti negli ultimi anni, sia perché il prolungato periodo di bassi tassi di interesse nei Paesi occidentali ha indotto gli investitori a ricercare opportunità altrove, sia perché l’alto debito pubblico e la crisi economica hanno reso l’Europa e gli Stati Uniti un porto un po’ meno sicuro.

Una montagna di debiti “Ci troviamo di fronte a una montagna di debiti che sono serviti a non dichiarare un default sistemico”, dice Filippo Biagini, responsabile delle Gestioni patrimoniali di Abbacus sim. Ma per Luca Simoncelli, membro del team BlackRock Multi-asset client solutions, nel breve, le probabilità di fallimento o di una crisi di liquidità sono minime. Un caso a parte è rappresentato dalla Grecia, per la quale il rischio rimane nel medio termine, anche a causa della diminuzione della competitività del Paese, conseguente alla necessità di implementare misure fiscali drastiche. “Prevediamo che i premi per il rischio sui titoli greci continueranno ad essere alti”, dice, “generando un aumento della volatilità sul mercato obbligazionario europeo”.

Nonostante le probabilità di fallimento per i Paesi di Eurolandia e per gli Stati Uniti siano basse, è chiaro che per uscire dalla situazione attuale, senza incorrere in un’inflazione galoppante, l’unica via è l’attuazione di una rigida politica fiscale abbinata a tagli alla spesa pubblica. Gli Stati Uniti avrebbero un’arma ulteriore, ossia l’indebolimento del dollaro, ma questa opzione appare ancora piuttosto remota.

La riuscita di questa strategia, però, non è scontata. Come osserva Nicolò Piotti, executive director di Morgan Stanley investment management, gli investitori potrebbero decidere di non sottoscrivere i titoli emessi dagli Stati più a rischio, impedendogli di rifinanziare il debito. Inoltre, non è del tutto fugato il rischio di un ritorno della recessione, se non ci sarà una ripresa dei consumi privati e la disoccupazione continuerà a crescere.

Fuori dalla crisi con gli emergenti Le previsioni di crescita dei Paesi sviluppati per il 2010 sono contenute, per cui le Banche centrali dovrebbero lasciare i tassi bassi ancora per un po’. In questo contesto, gli investitori si sono riversati sulle obbligazioni emergenti e societarie, che, secondo i gestori, offrono ancora buone opportunità nonostante il rally del 2009.

“Le economie emergenti porteranno il mondo fuori dalla crisi”, dice Mark Pearce, investment specialist di Threadneedle. “Si stima una crescita media del 6% per questi Paesi nel 2010, mentre quelli sviluppati dovrebbero assestarsi intorno a un anemico 2%”. I flussi di investimento verso i titoli obbligazionari emergenti dovrebbero, dunque, continuare e in particolare dirigersi verso le emissioni in valuta locale. “Quelle in dollari potrebbero generare rendimenti tra il 5 e il 10%”, dice Piotti, “mentre quelle in local currency tra il 10 e il 15%. Metà della performance ipotizzabile deriverebbe comunque dalle cedole”. Attenzione, però, che l’espansione determinerà un aumento dei tassi che potrebbe penalizzare i titoli già in circolazione, ma nello stesso tempo rafforzerà le divise locali e determinerà un miglioramento della bilancia commerciale.

Corporate, rischio default sopravvalutato Per quanto riguarda i corporate bond, non sono da escludere default nei prossimi anni, tuttavia per Diego Cereda, gestore del fondo UBI Pramerica Euro corporate, “i timori di un’implosione del sistema non sono giustificati se si guarda al mercato investment grade ”. Il suo suggerimento è quello di adottare un’adeguata diversificazione a livello di settori, emissioni e tratti della curva. Per Pearce, il mercato sconta tassi di default maggiori di quelli che realmente ci saranno, per cui i differenziali (spread) rispetto ai titoli di Stato potrebbero restringersi. Inoltre, la domanda di corporate bond è cresciuta notevolmente, per cui gli investitori che hanno bond in scadenza dovranno reinvestire la liquidità, alimentando la domanda.

Portafogli obbligazionari Cosa suggeriscono i gestori agli investitori che vogliono costruire un portafoglio obbligazionario diversificato (fatto 100 il totale)? Per Biagini, se ipotizziamo uno stile totalmente flessibile, il 30% dovrebbe andare in titoli governativi, il 40% in coporate bond con elevato merito creditizio e duration alta, il 15% in high yield e il rimanente 15% in titoli dei mercati emergenti. Simoncelli, invece, destina il 35% alle emissioni governative, il 45% a quelle societarie investment grade , il 5% agli high yield (statunitensi) e il 15% ai bond emergenti in valuta locale. Cereda, infine, ragiona in termini di sovra/sottopeso rispetto al benchmark. “Sui portafogli investiti in emissioni statali, abbiamo un sovrappeso sull’Eurozona core (Germania) e sull’Italia (unico periferico in nostro possesso)”, dice, “Risultano in marcato sottopeso Grecia e Spagna. Abbiamo una view neutrale sui titoli corporate, con preferenza sull’area breve della curva e focus su quelli con alto rating”.

“2010, ancora anno del credito? Un’analisi delle strategie e delle principali asset class: governativi vs corporate, high yield ed emergenti” è il tema di un convegno che si terrà all’ITForum di Rimini il prossimo 13 maggio, nell’ambito del quale interverranno i gestori intervistati in questo articolo. Per leggere il programma completo, clicca qui.
 

Fonte - morningstar

 

 

 

 

 

  Proteggere il mercato, non le imprese

April 7th, 2010 – di Epistems.org

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Una storia di ordinario turbocapitalismo globalizzato del Ventunesimo secolo. E’ quella dell’acquisizione della britannica Cadbury da parte della statunitense Kraft. Lo schema è sempre quello, logoro ma ancora efficace: il CEO di Kraft, Irene Rosenfeld, porta a casa un aumento del 41 per cento della compensation, che tocca i 26 milioni di dollari, per aver compiuto l’acquisizione di Cadbury. E’ importante sottolineare che noi non sappiamo, oggi, se questa operazione produrrà valore per gli azionisti. In passato spesso è accaduto l’opposto: sinergie inesistenti, taglio di costi fantasioso.

Ma nel breve periodo la bottom line viene di solito preservata, magari spingendo la capacità d’indebitamento dell’acquisita e realizzando dei riacquisti di azioni proprie. Poi la preda viene rivenduta con margine, ed il gioco ricomincia. Ma ci sono anche altri modi per fare cassa, dopo l’acquisizione. Nel caso Kraft, la società americana ha deciso di bloccare per tre anni gli stipendi dei dipendenti di Cadbury perché ha scoperto che il loro fondo pensione presenta oneri non individuati nella fase di due diligence che ne rendono impossibile la “ristrutturazione”, cioè lo smantellamento. Questo è un caso da manuale di malafede.

Il fondo pensione di Cadbury è vecchio di 30 anni, e i contabili di Kraft non si sarebbero accorti della criticità? Se le cose stanno in questi termini, non si capisce perché la Rosenfeld debba essere premiata, visto che ha mancato ai suoi compiti, tra i quali rientra la meticolosa verifica contabile delle società-target. Ma non c’è problema, pagheranno i dipendenti di Cadbury, secondo un collaudatissimo schema. Questa è l’evoluzione del capitalismo globale, nella sua versione ormai degenerata: è diventato un’oligarchia arrogante ed autoreferenziale. Vive immerso nei suoi conflitti d’interesse, con i suoi compensation committee, che stabiliscono la retribuzione dei top manager, in palese collusione con questi ultimi. La finanza “cattiva”, cioè quella non al servizio della produzione, fa il resto.

Qui risiede anche la radice della tendenza globale alla crescente diseguaglianza reddituale tra vertici d’impresa e dipendenti, anche quelli con funzioni di middle management, e non solo rispetto alla “base”. Le imprese diventano troppo grandi, tendono a sfruttare condizioni di “arbitraggio multiplo” (della forza lavoro, dei mercati finanziari, della regolazione) scegliendosi anche la piazza ove operare. Spesso, sui mercati dei paesi di origine, contano sulla “difesa della nazionalità” da parte di un legislatore miope e attento al solito alle ricadute di consenso di breve periodo, che inevitabilmente finisce col sacrificare la difesa del mercato a quella delle imprese incumbent. Accade anche in Italia, come efficacemente documentato da Gianni Dragoni e Giorgio Meletti nel libro “La paga dei padroni“. E’ quello che vediamo anche oggi, nell’ambito delle società quotate e del loro sottoinsieme rappresentato dalle banche, con dirigenti apicali che si aumentano gli emolumenti in media del 25 per cento a fronte di un crollo dei profitti del 41 per cento, magari dopo aver inviato una letterina “a cuore aperto” ai dipendenti, in cui promettono sangue, sudore e lacrime. Ma Nimpo: not in my pockets.

Fuori dal caso settoriale specifico, resta il problema di come rendere più trasparente e puntuale il legame tra remunerazione dei top manager e risultati aziendali, anche nella ridotta scala di un paese ad oligarchizzazione fallita, quale l’Italia. E’ un problema di rapporto tra principale ed agente, a ben vedere. Il primo sono gli azionisti, il secondo il management. Non si risolve facendo accedere i dipendenti (ed i loro rappresentanti sindacali) al consiglio di amministrazione, perché ciò finirebbe con il frenare la residua propensione all’innovazione da parte dell’impresa. Ai dipendenti dovrebbe invece andare una quota di retribuzione variabile legata a risultati “industriali”, di gestione caratteristica, cioè quelli riferiti all’ambito da essi presidiato e controllabile, escludendo quindi forme di retribuzione azionaria, che è legata a funzioni strategiche tipiche del top management, come le politiche finanziarie.

In questo senso appare estemporanea e non razionale la proposta lanciata tempo addietro dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, probabilmente solo per alimentare il circuito della dichiarazia italiana e spostare la discussione da riforme di struttura autentiche ed orientate alla crescita della produttività. Dovrebbe inoltre essere potenziato il ruolo di controllo dell’assemblea dei soci, che oggi è chiamata solo a ratificare le scelte del management. Quello che possiamo fare in casa nostra è solo limitare i fenomeni più eclatanti e perversi di pietrificazione dei gruppi di controllo aziendale (l’opposto di quanto fatto da questo governo, con l’alibi della crisi globale, con l’intervento sulla passivity rule e la ridefinizione delle condizioni di opa obbligatoria), favorendone il ricambio anche attraverso la progressiva ridefinizione del ruolo dello stato, che dovrebbe ad esempio diventare l’erogatore di sussidi universali ai lavoratori e non proteggere staticamente i lavori, in un infinito suk con gli imprenditori assistiti.

Non dobbiamo farci illusioni, purtroppo: è il sistema capitalistico occidentale che si trova in una fase storica di profonda involuzione, causata dal suo gigantismo e da una sterile finanziarizzazione, cioè non al servizio della produzione. Non possiamo attenderci alcun miracolo né alcuna “rivoluzione in un solo paese”, persistendo l’attuale paradigma. Ma noi italiani dovremmo almeno tentare di non rinchiuderci nel nostro angusto recinto, fatto di “italianità” asfittica, furbetti del consiglio di amministrazione, cattura regolatoria e palese disprezzo del consumatore, travestito da paternalismo “protettivo”. Anzi, spesso è proprio la turbolenza in atto sui mercati globali ad innescare una pericolosa retorica localistica che sfocia nella imbalsamazione di oligarchie fallite e delle loro rendite di posizione. Visto quello che (non) è accaduto finora, malgrado il cicaleccio retorico-riformistico da cui siamo avvolti, c’è motivo per essere pessimisti sul sistema-paese. E’ il “primato della politica”, bellezza.
 

Fonte - Epistems.org

 

 

 

 

  Venerdì 09 Aprile 2010   Sabato 10 Aprile 2010   Martedì 13 Aprile 2010  
       
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  La "volata" della Borsa cinese e l'incognita bolla immobiliare

07 Aprile 2010 09:20 - Sole 24 ore – di RADIOCOR

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Se la sfera di cristallo fosse uno strumento di lavoro, l'analista trascorrerebbe il tempo di fronte al computer per scambiare titoli in Borsa e lucrare sui pronostici. La finanza è, invece, una materia complessa, imprevedibile e la Cina non fa eccezione. Con un ragionevole margine di incertezza, si può tuttavia immaginare una crescita dell'indice di Shanghai e Shenzhen per quest'anno nell'ordine del 20%. Se la prudenza non impedisce dunque previsioni, l'incrocio di una serie di fattori supporta le stime di crescita. Dalla loro fondazione nei primi anni '90, le capitalizzazioni delle Borse cinesi sono cresciute di 1.800 volte; il valore congiunto, il terzo al mondo, é pari al 95% del Pil cinese.

I listini hanno iniziato con 13 società quotate e ora ne contano 1.638. Shanghai e Shenzhen sono ora rispettivamente la sesta e la sedicesima Borsa al mondo per valore. La prima ha raccolto nel 2009 il maggior numero di Ipo dopo Hong Kong. Al di là di questi aspetti, esistono anche analisi positive. Anche se la ripercussione tra crescita del Pil e valore dei listini non è automatica, l'incremento cinese non potrà non farsi sentire nel medio periodo. La ricchezza del paese, ormai fuori dalla crisi, crescerà nel 2009 almeno del 9%, ma più probabilmente oltre il 10%, riprendendo un percorso tanto regolare quanto eclatante.

L'aumento sarà dovuto a una differente composizione delle variabili macroeconomiche, con un ruolo sempre più importante assunto dai consumi privati (+25%). La spia del «price earning (Pe) ratio», intorno a 25, potrebbe indurre a prudenza, essendo infatti più alto rispetto alla media mondiale. Non sembra tuttavia ridurre le aspettative perché appare compatibile con la crescita robusta attesa del Pil. È anche probabile una progressiva rivalutazione dello yuan, se le minacce di guerra commerciale con gli Stati Uniti verranno riconsiderate. Ne conseguirà un aumento del valore dei titoli espressi in dollari Usa o in euro. Anche se gli interessi bancari dovessero alzarsi, come previsto, la borsa ha già ampiamente scontato nei mesi scorsi questo evento con un leggero ribasso da inizio anno, e non si prevede che ciò possa spostare i risparmiatori verso impieghi diversi dalla Borsa, considerato l'alto flusso di investimenti immobiliari già avvenuto nel 2009-2010.

Sta infine rafforzandosi la maturità strutturale delle Borse, in uscita da una fase pioneristica. Dopo un percorso di molti anni, secondo una prassi cinese consolidata, sono state adottate nuove misure che consentono un maggiore leverage e possibilità di profitti anche quando gli indici scendono permettendo ai listini un riequilibrio più rapido in caso di fibrillazioni. In sintonia con gli altri mercati, sono consentiti ora il «margin trading», lo «short selling» e la compravendita di «financial future». Sono misure in vista del prossimo lancio dell'International Board dello Shanghai Stock Exchange.

Le incertezze che rimangono sulle Borse sono legate all'inflazione e al settore immobiliare. L'aumento dei prezzi potrebbe raggiungere nel 2010 il 5%, contro un 3% previsto dal programma di governo. È una soglia pericolosa. Se fosse necessario, il Governo potrebbe intervenire con una stretta monetaria più forte del previsto.

Un altro rischio di stampo negativo proviene dalle costruzioni. Il comparto è cresciuto a dismisura e gli intenti speculativi, soprattutto nelle grandi città, stanno interrompendo il sogno delle famiglie cinesi di acquistare un appartamento.

La crescita dei valori al metro quadro degli appartamenti, che è stata fino al 50% annuo dal 2008 a oggi, ha riproposto il pericolo dello scoppio della bolla immobiliare. L'esecutivo é impegnato in una battaglia, poco analizzata in Occidente, con un nemico interno. Esistono infatti interessi forti che premono per attrarre sempre nuova finanza per cantieri edilizi. È il collante tra investitori, costruttori e amministrazioni locali che dalla vendita dei terreni ricavano profitti e la maggior parte delle entrate fiscali. Rispetto al pericolo di una fragorosa caduta dei prezzi immobiliari, che penalizzerebbe a loro volta le banche, gli investimenti finanziari in Borsa, una volta considerata una rischiosa deviazione dall'economia reale, rappresentano ora un motivo di equilibrio e solidità per il paese. di Alberto Forchielli Presidente di Osservatorio Asia.
 

Fonte - RADIOCOR

 

 

 

 

 

BUY E HOLD: NON PER LE AZIONI, BENSI' PER I BOND

08 Aprile 2010 22:48 NEW YORK - di WSI
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La strategia che prevede l'acquisto di asset per poi mantenerli in portafoglio e' passata di moda per l'azionario, ma sta prendendo sempre piu' piede nell'obbligazionario. Con rendimenti record e incertezza sull'economia, dinamiche ribaltate.
La strategia del "Buy and Hold", che prevede l'acquisto di un asset per poi tenerlo in portafoglio, potrebbe essere passata di moda per il mercato azionario, ma sta prendendo sempre piu' piede tra gli investitori nell'obbligazionario.

Con gli Stati Uniti che si trovano a fare i conti con un futuro incerto dal punto di vista economico e i rendimenti che sono su livelli molto attraenti - solo qualche seduta fa quello per il decennale ha toccato i livelli record del 4% - alcuni manager hanno iniziato a suggerire ai propri clienti di tenere in portafoglio piu' a lungo i bond e fare profitti piuttosto che avere fretta di cercare guadagni sul breve termine.

Qualche giorno fa, Barclays Wealth ha consigliato vivamente ai propri clienti di cambiare, gia' a partire da questa settimana, l'approccio al mercato dei bond e di iniziare invece a tenere i titoli in portafoglio per un periodo piu' lungo. Il consiglio si basa in gran parte sul fatto che il rendimento sul benchmark del Tesoro Usa rimane vicino ai livelli del 4%, mentre il trentennale si aggira in prossimita' del 4.75%.

Barclays considera che una crescita lenta, fase tipica da post-recessione, che infatti si e' gia' vista nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, sia lo scenario piu' probabile.

Ma bisogna prepararsi alla possibilita' che quando il pacchetto di misure di rilancio economico varato dal governo terminera', visto anche che la Federal Reserve non ha piu' spazio di manovra in fatto di politica monetaria dei tassi di interesse, le finanze a disposizione dei consumatori non saranno tali da poter consentire loro di continuare ad alimentare la crescita dell'economia, che potrebbe pertanto entrare in una seconda fase di rallentamento.

Di solito la strategia in questi casi prevede una tecnica di portafoglio battezzata "laddering", in cui nel portfolio e' presente una miscela di bond con scadenze diversificate, in modo tale da trarre profitti dagli eventuali cambiamenti dei tassi di interesse.

Comprare titoli a lungo termine presenta i suoi rischi e pertanto i detrattori non mancano. Con la prova stellare dei bond ad alto rendimento l'anno scorso e il calo dei tassi di default, le dinamiche del mondo del reddito fisso sono poi inevitabilmente cambiate.

"Continuo a vedere investitori che hanno in portafoglio asset senza sapere il perche'", ha dichiarato Dennis P. Barba Jr., professore presso la Weatherhead School of Management della Case Western University. "Quando i tassi di interesse salgono, questi titoli a reddito fisso e a lungo termine finiscono ovviamente per perdere valore".

L'opposizione piu' netta viene da quelli che pensano che gli Stati Uniti stiano per entrare in una fase di tassi di interesse alti, provocata dall'inflazione e dal continuo bisogno del governo di finanziare il suo debito. In un contesto di questo tipo, i prezzi dei bond finiranno per scendere, con l'inflazione che erodera' il valore degli investimenti nel reddito fisso.
 

 

 

UTILI IN CORSA? LA BORSA GIA' SCONTA L'OTTIMISMO

12 Aprile 2010 22:24 NEW YORK - di WSI
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Alcoa da' il via alla stagione delle trimestrali. Attesi numeri sorprendenti per le societa' dell'S&P 500. Ma le stime sono gia' incluse nei prezzi di borsa. Alert: non e' escluso un generalizzato sell-off.
Per un altro trimestre, i conti delle societa' americane potrebbero centrare le stime degli analisti. I profitti dei gruppi quotati sull'S&P 500 sono visti in crescita del 36.8% rispetto un anno fa. Si tratterebbe del secondo trimestre consecutivo (su base annuale) con il segno piu'. Per la prima volta dal secondo trimestre del 2007, la performance e' tornata ad essere positiva negli ultimi tre mesi del 2009.

"Stiamo per assistere a numeri sorprendenti", ha detto Fred Dickson, capo strategist di mercato in D.A. Davidson & Co. con sede in Oregon. Il punto e' che "dati macroeconomici superiori alle stime si tradurranno in ricavi altrettanto migliori del previsto", ha concluso.

Ma le trimestrali saranno cosi' belle da spingere al rialzo i titoli? L'S&P 500 viaggia in rialzo del 75.4% rispetto ai minimi del marzo 2009. Il punto e' che sono in molti a credere che l'entusiasmo sui conti in arrivo a partire dalla settimana prossima e' gia' incluso nei prezzi di borsa. Non e' affatto escluso, dunque, che tutto cio' si traduca in un generalizzato sell-off. Durante la passata stagione delle trimestrali il principale benchmark di Wall Street ha perso il 3%.

"Non penso che la pubblicazione degli utili muovera' qualcosa", ha spiegato Joseph Battipaglia, market strategist di Stifel Nicolaus a Yardley, Pennsylvania. "Non si tratta di una brutta notizia. Si tratta semplicemente di capire che abbiamo abbandonato il peggiore degli scenari possibili per sposare quello che viene considerato come il migliore. E ora e' piu' difficile giustificare prezzi delle azioni ancora piu' alti".

Storicamente, il mercato mette a segno migliori performance al di fuori della stagione dei conti. L'S&P 500 ha guadagnato il 6.8% da quando le societa' americane hanno finito di comunicare i loro risultati.

I settori destinati a vincere sono i finanziari (+205.2% sugli utili rispetto a un anno fa), materie prime (+176.4), beni discrezionali (+114.8%). "Non ci dovrebbero essere profit warning", ha riferito Nick Kaliva, vicepresidente della ricerca finanziaria e analista azionario in MF Global a Chicago.

Si ricorda che, per quanto riguarda gli utili delle societa' dell'S&P 500, il primo trimestre del 2009 e' stato il peggiore da inizio 2008 mentre il quarto ha registrato la piu' brutta performance dal 1998.

Negli ultimi tre mesi dell'anno scorso, le societa' dell'indice hanno battuto le stime sui ricavi nel 70% dei casi, su rispetto al 59% del terzo trimestre. Per quanto riguarda gli utili, invece, hanno fatto meglio del previsto il 72% dei gruppi contro il 79% del terzo trimestre ma ancora sopra il 61% che generalmente viene messo a segno nel periodo.

 

 

 

GREGGIO: DOMANDA GLOBALE VERSO NUOVO RECORD

13 Aprile 2010 17:00 NEW YORK - di WSI
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Riviste al rialzo le stime da parte dell'AIE, previsti oltre 86 milioni di barili al giorno su scala mondiale. Il maggior contributo ai consumi di greggio arrivera' dai paesi al di fuori dell'Opec, tra cui Cina e Brasile.
La domanda mondiale di petrolio potrebbe toccare un record quest'anno. Lo ha riferito l'Agenzia internazionale dell'energia, che ha ancora una volta alzato le stime sui consumi alla luce della ripresa dell'economia su scala mondiale.

Secondo l'istituzione la richiesta di oro nero potrebbe crescere ogni giorno di 1.6 milioni di barili raggiungendo una media di 86.60 milioni di barili al giorno su scala mondiale, in rialzo rispetto agli 84.93 milioni registrati nel 2009.

L'ultimo record risale al 2007, prima dello scoppio della crisi finanziaria e della recessione economica. "Ci sono segnali di migliormanento nella domanda in Nord America e Pacifico, Asia e Medio Oriente mentre i consumi in Europa sembrano ancora deboli", ha riferito David Fyfe, capo della divisione dedicata al settore petroliferi dell'Aie.

Gran parte della domanda verra' soddisfatta dalla produzione al di fuori dell'Opec. L'Agenzia ha infatti rivisto all'insu' le stime di produzione ex-Opec per il 2010 di 220000 barili al giorno per un totale di 52 milioni di barili al giorno. Cina, Arabia Saudita, Russia, Brasile, Iran e India contribuiranno per tre quarti a sostenere la domanda globale per l'anno in corso.

Tuttavia, le scorte sempre al di fuori del cartello sono viste in crescita di 500000 barili al giorno. Come conseguenza, l'Aie stima che la domanda per il petrolio dei principali paesi produttori possa scendere di 200000 barili al giorno a 29.1 milioni.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  Borsa: sconfitti tutti i pessimisti a tempo pieno

13 Aprile 2010 01:31 MILANO – di Alessandro Fugnoli*

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR.

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Prima domanda. Perché non si parla più di double dip? Che cosa è andato storto nelle previsioni di quanti ipotizzavano la crisi a W? C’è per loro qualche speranza di tornare ad essere ascoltati con il rispetto che si deve a chi detiene la verità e con la voluttà di sofferenza che caratterizza in certi momenti la maggioranza degli umani quando si trovano lunghi di rischio e corti di speranze?

Il grande Feldstein, ad esempio, l’uomo tenace e paziente che da più di un decennio aspetta il cadavere dell’unione monetaria europea seduto sulla riva del fiume, l’uomo lucido e profondo che ha capito la gravità della crisi già all’inizio del 2008, il primo a definirla la più grave dai tempi della Depressione, nel settembre del 2009 disse che già nel quarto trimestre che stava per iniziare i germogli di crescita che i mercati celebravano tra mille paure da sei mesi sarebbero sfioriti.

Il ragionamento di Feldstein si basava sul carattere effimero degli incentivi per l’acquisto di auto, sul venir meno degli effetti dei pacchetti fiscali e su una ricostituzione delle scorte che stava per finire. Tutti e tre i temi avevano dignità, ma tutti e tre, da settembre a oggi, hanno prodotto effetti molto diversi da quelli ipotizzati da Feldstein e dai molti altri che si sono messi sulla sua scia.

Ad agosto-settembre, grazie agli incentivi per la rottamazione delle vecchie auto, le vendite si impennarono improvvisamente dai tristissimi 8-9 milioni annualizzati dei nove mesi precedenti e balzarono a 11 milioni. Che gran trovata, dissero molti economisti, così non si fa altro che rubare vendite al futuro. I concessionari di auto, privi di PhD ma dotati di fiuto ed esperienza, dissero che non sarebbe stato così. Bene, quante sono state le vendite annualizzate in marzo? Quasi 12 milioni, e i mercati sono stati pure delusi perché si aspettavano qualcosa di meglio.

La ragione? Ai tempi della crisi avevano giustamente smesso di comprare un’auto quelli che non potevano più permetterselo. Il fatto però sottovalutato dagli economisti, ma non dai concessionari, è che avevano smesso di comprare anche quelli che se lo potevano permettere.

Quanto ai pacchetti fiscali, più che lo sparo di sostanze dubbie iniettato in vena con la siringa, sono stati una flebo che ha continuato e continuerà ancora per qualche tempo a centellinare acqua zuccherata. L’errore è stato quello di pensare di avere raschiato il fondo del barile fiscale, sottovalutando la capacità dei politici di chiamare le cose con un nome diverso da quello abituale. Si è anche sottovalutata l’inefficienza della macchina pubblica nello spendere i soldi. Eolico, rinnovamento della rete elettrica, alta velocità, tutto è ancora sulla carta.

Le scorte, infine, hanno un ciclo lungo e diversificato per settore e per area geografica. Globalizzazione e Just in Time non hanno ancora sincronizzato tutto (per fortuna). La ricostituzione delle scorte è iniziata a Taiwan con i semiconduttori un anno fa esatto e sta ancora girando il mondo. In America è un poco più avanti, in Europa è ancora indietro. Quanto alla Cina, buona parte del riaccumulo è strategica, non ciclica, e non sembra ancora terminata. Per la Cina è del resto razionale, avendo i soldi per farlo, mettere da parte materie prime in una fase iniziale del ciclo, quando costano meno.

Seconda domanda. Perché non si parla più di bolle? Molte classi di asset sono oggi più care di quando se ne parlava, eppure oggi si tace. Le ragioni sono varie.

La prima, psicologica, è che i più feroci censori di bolle sono stati a loro tempo proprio i teorici del double dip. Se i mercati non tornavano depressi
come da loro indicato, allora erano in bolla. Prima ti dico che la tua vita sarà una valle di lacrime, ma se poi capita che sia passabile o piacevole ti colpevolizzo subito, ti faccio sentire frivolo e sciocco, così non hai scampo. I Savonarola e i Robespierre hanno la loro stagione, ma quando il vento cambia fanno presto una brutta fine.

La seconda ragione è che il carry trading, causa tecnica di molte bolle, ha avuto e mantiene tuttora dimensioni molto ragionevoli. Le banche non vogliono guai e noie con le vigilanze e approfittano senza strafare dei mesi che restano prima che la Volcker Rule, Basilea 3 e le tasse studiate apposta per loro comincino a farsi soffocanti. I fondi hedge hanno ridotto tutti la leva in modo strutturale. Le valute di finanziamento a tasso zero abbondano, ma si muovono molto tra loro e se si sbaglia a scegliere tra euro, dollaro e yen la pena è severa.

Il carry di curva è ormai vissuto come pericoloso, le valute emergenti sono già salite molto, le borse hanno le loro correzioni come in gennaio. Non c’è in giro quell’illusione di progresso lineare e inarrestabile che stimola l’avidità e poi c’è sempre una Grecia che incombe. Il carry trader, in questa fase, non ha da temere troppo inversioni di ciclo, ma deve stare molto all’erta rispetto a quelle cadute improvvise anche se temporanee che per lui possono essere devastanti.

La terza ragione è che le valutazioni hanno una certa logica. Le borse sono salite anticipando gli utili, ma gli utili non hanno deluso, anzi. David Rosenberg, sempre piacevole da leggere, si affanna ogni giorno a trovare paragoni tra dati meravigliosi del 2007 e orrori odierni (si pensi alle case, al numero dei disoccupati, alla produzione industriale ancora ben al di sotto del livello di tre anni fa), ma trascura il fatto che le borse sono nel business dei margini, dei Roe e degli utili delle società quotate (non delle altre).

Se si escludono le banche, i profitti dell’SP 500 saranno quest’anno gli stessi del 2007 e nel 2011 saranno del 17 per cento superiori e quindi al massimo storico. Jason Todd di Morgan Stanley trova le stime di consenso sul 2011 esagerate, ma che la crisi sia perfettamente superata non lo contesta neanche lui. Ricordate quando si diceva che una volta tagliati gli utili all’osso non c’era più niente da fare, perché la top line sarebbe rimasta in eterno depressa? Erano discorsi che si facevano con l’S&P500 a 900 e ora siamo in vista di 1200. Quanto alla finanza il recupero è più lento, ma certe tesi che circolavano molto l’anno scorso sulle banche utility che avranno per sempre un Roe da utility si sentono già meno.

Terza domanda. Perché non si parla più dell’imminente crisi cinese, della manipolazione delle statistiche cinesi, della crisi bancaria inevitabile? Perché sono tutti tornati a raccomandare la borsa cinese? Noi non pensiamo che la Cina sia invulnerabile e che non avrà mai una crisi, ma è evidente che il mercato sottovaluta strutturalmente la solidità finanziaria di quel paese, l’efficienza dei canali di trasmissione della volontà politica, la velocità degli aggiustamenti. La ricapitalizzazione delle banche, per esempio, è stata completata in tre mesi. Ancora di più si sottovaluta la volontà politica di crescere a ogni costo. Certo, un giorno i mercati si convinceranno di queste cose e passeranno da un eccesso di scetticismo a un eccesso di fiducia, ma siamo ancora lontani da quel momento.

Provando a sintetizzare, la ripresa ciclica globale più solida delle previsioni è dovuta a quattro fattori. Di tre abbiamo parlato (il buon andamento dei mercati finanziari, la determinazione delle grandi imprese a difendere i margini, il forte impegno cinese), ma è il quarto che sembra sorprendere di più molti osservatori.

Parliamo della ripresa dei consumi in America. Abbiamo passato un anno a dirci che l’America, volente o nolente, era avviata a un tasso di risparmio delle famiglie del 10 per cento. Si era partiti dal risparmio zero degli anni d’oro e si era rapidamente saliti, a un certo punto, al 6 per cento. Oggi, invece di essere al 10, siamo tornati al 3. E’ anche per questo potente fattore che le cose vanno meglio. L’America ha un Pil di 15 trilioni e consumi di 10, la Cina ha un Pil di 5 e consumi di poco più di 2. Sui consumi, tra America e Cina non c’è gara.

Vuole questo dire che l’architetto della ripresa, Larry Summers, vuole riproporre per l’ennesima volta il modello della crescita drogata? E’ presto per dirlo, ma è molto probabile che Summers abbia cercato fin dall’inizio una
via intermedia tra la disintossicazione drastica e la reintossicazione pura e semplice, magari con dosi ancora maggiori.

Un tasso di risparmio del tre, invece che del sei, comporta ovviamente un riequilibrio più lento tra America e resto del mondo, ma permette di accorciare i tempi della quaresima, di creare più crescita e più entrate fiscali e soprattutto di evitare di camminare sempre sull’orlo dell’abisso della ricaduta.

Se dal tre torneremo di nuovo a zero anche noi grideremo alla bolla, ma il tre non è lo zero e finché rimarremo a questi livelli saremo più compiaciuti che preoccupati.

Questo spirito, questo provare a godere un minimo della vita anche nelle fasi difficili di aggiustamento senza allontanarsi troppo dall’obiettivo, è consigliabile anche agli investitori. Chi è rimasto ai margini del rialzo delle borse, delle valute emergenti e degli asset di rischio in generale non deve capitolare proprio adesso e comperare massicciamente. Può però entrare con qualcosa, vendere qualche put, fare qualche assaggio e soprattutto stare pronto a sfruttare qualsiasi crisi greca, da Treasuries o di altra origine per ingrandire la sua posizione. Il rialzo ha buone motivazioni, ma da qui in avanti sarà difficile avere tante sorprese positive quante ne abbiamo avute in questi mesi.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

  Mercoledì 14 Aprile 2010   Venerdì 16 Aprile 2010   Sabato 17 Aprile 2010  
       
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GR1 RAI - 14 Apr. ore 22:00

   

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GR1 RAI - 15 Apr. ore 22:00

   

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  La Sec accusa Goldman di frode

17 Aprile 2010 09:38 NEW YORK – dal nostro corrispondente Mario Plater

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NEW YORK. Dal nostro corrispondente - È stato un terremoto improvviso: la Sec ha accusato ieri mattina Goldman Sachs in procedura civile di aver truffato i suoi clienti con operazioni speculative sul mercato subprime nel 2007, quando stava per esplodere la crisi finanziaria. La storia di quelle operazioni era conosciuta e dibattuta da tempo: si diceva che la banca dopo aver venduto pacchetti di mutui ai suoi clienti andava sul mercato per giocare al ribasso su quegli stessi titoli. Goldman ha sempre respinto con indignazione le accuse emerse sul mercato e sulla stampa, persino un paio di settimane fa in una incomprensibile lettera agli azionisti.

Il problema per la banca è che ieri la Sec non ha soltanto formalizzato i capi d'accusa, ha anche rivelato particolari sconosciuti, e cioè che la banca aveva organizzato le operazioni per conto di una parte interessata, il grande gestore di fondi hedge John Paulson senza informare il mercato di questo dettaglio, come richiede la legge. Il fondo di Paulson, Paulson and Co, aveva anche pagato 15 milioni di dollari alla banca per creare lo strumento, chiamato in gergo Cdo (collateralized debt obligation). La Sec inoltre ha menzionato anche il nome di una persona fisica responsabile delle operazioni, Fabrice Tourre, un "vice president" della banca che aveva concepito e realizzato le operazioni. Ma John Paulson o il suo fondo non sono stati per ora chiamati in causa.

È stato un uragano. Il titolo Goldman ha perso il 12,64% in poche ore, scendendo a quota 160,4 dollari per azione. E visto che la Sec sta conducendo inchieste parallele su veicoli di investimento collocati da altre banche, simili a quelli messi a punto da Goldman, Wall Street teme che altre istituzioni possano cadere nella stessa rete. O che, comunque, il settore uscirà destabilizzato da questa vicenda. Come si è detto, per ora la causa ha natura civile, ma i danni possibili che Goldman potrebbe essere chiamata a rimborsare sono stimati in oltre un miliardo di dollari, senza contare le multe possibili.

«Il prodotto realizzato da Goldman era nuovo e complesso, ma il metodo di occultamento e i conflitti sono antichi e semplici», ha dichiarato Robert Khuzami, il responsabile della divisione coercitiva della Sec. La risposta di Goldman all'azione della Sec è stata di nuovo ferma e aggressiva: «le accuse sono prive di fondamento sia nei fatti che nelle componenti giuridiche» ha detto la banca in un comunicato.

La vicenda riguarda genericamente un veicolo di investimento controverso, di cui abbiamo riferito più volte su queste pagine, il cosiddetto "collateralized debt obligations" sintetico, che raggruppava diversi portafogli mutui, molti dei quali rappresentativi del mercato subprime. La tesi era che uno strumento formato da più portafogli ad alto reddito aveva una forte diversificazioen del rischio e consentiva ritorni medi anche di molto superiori al mercato. Questi strumenti venivano poi collocati sul mercato con il marchio dell'istituzione che li vendeva. Il marchio Goldman, forse il più prestigioso a Wall Street era sinonimo di garanzia per chi cercava un investimento a basso rischio. Le accuse generiche di cui si è parlato finora a Wall Street affermavano che le banche cercavano in realtà di scaricare dai loro portafogli strumenti che apparivano sempre più fragili. E, nel caso di Goldman, l'accusa è quella di aver poi giocato contro quegli stessi strumenti vendendoli a breve sul mercato.

Nel caso specifico la Sec menziona in particolare uno strumento, l'Abacus 2007-AC1, costruito a tavolino su specifica richiesta di un importante hedge fund, Paulson and Co. L'investitore aveva scommesso sul fatto che il mercato immobiliare sarebbe caduto. Aveva però bisogno di uno strumento attraverso il quale veicolare le sue operazioni ribassiste. Goldman accettò di costruire lo strumento e Paulson, che aveva identificato titoli immobiliari secondo lui molto fragili e destinati all'inevitabile collasso, indicò i titoli da impacchettare nello strumento. Goldman vendette poi lo strumento a banche e istituzioni oltre che a clienti privati riferendo che il portafoglio era stato creato da una terza parte indipendente. Non rivelò mai che il pacchetto era stato invece scelto da Paulson per la sua connotazione di fragilità. Ne che Paulson avrebbe subito venduto a breve i titoli rappresentativi di quel pacchetto. È questo dunque il punto debole di Goldman. E pare difficile che «fattualmente e giuridicamente» almeno in questo caso riesca a dimostrare il contrario.

Tutte le polemiche sul «big»

Goldman Sachs è la più celebre fra le grandi «firm» statunitensi. Come le altre banche è stata duramente colpita dalla crisi finanziaria. ha ricevuto aiuti pubblici dal governo per 7,8 miliardi di dollari. Molte le polemiche che hanno seguito la misura: il ceo Lloyd Blankfein ha ricevuto negli ultimi anni compensi record (nel 2007 ben 68 milioni). La banca ha restituito lo scorso giugno tutti gli aiuti ricevuti. Per placare le polemiche ha inoltre varato una politica di restrizione dei bonus : a dicembre il management ha deliberato una distribuzione di bonus solo in azioni.

La lettera agli azionisti

Con una mossa inusuale pochi giorni fa Goldman ha pubblicato una lettera agli azionisti nella quale afferma con forza di non aver «mai penalizzato i propri clienti».

L'accusa

Ieri la nuova svolta: la Sec guidata da Mary Schapiro (nella foto) ha accusato Goldman di truffa: secondo l'authority la banca ha ingannato gli investitori confezionando e vendendo prodotti derivati legati ai mutui subprime senza comunicare cruciali informazioni ai clienti.

La difesa

Goldman ha respinto le accuse: «Sono completamente infondate. Ci difenderemo e difenderemo la reputazione della banca». Ma la notizia ha creato un vero e proprio terremoto finanziario: i titoli bancari sono stati sotto pressione per tutta la seduta e le azioni di Goldman hanno perso il 12,64%.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

Gestori, azioni Usa e titoli di Stato europei

17 aprile 2010 - 13:47 - di Sara Silano
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I gestori continuano a preferire le azioni alle obbligazioni, ma la predominanza non è assoluta. Nei portafogli bilanciati, l’equity pesa tra il 50 e il 60%, mentre i bond rappresentano in media il 42% del totale. Gli ultimi mesi, dicono i fund manager interpellati nell’ultimo sondaggio mensile di Morningstar, sono stati volatili e alcuni hanno attribuito questo trend ai timori relativi alla fine delle politiche di stimolo all’economia; altri ai livelli record raggiunti dal debito sovrano in molti Paesi occidentali; altri ancora alla fine della corsa ai cosiddetti “titoli spazzatura” e al rinnovato interesse per quelli di qualità.

Europa, nel breve prese di profitto I gestori non escludono qualche presa di profitto sulle Borse del Vecchio continente nel breve, mentre nel lungo periodo dovrebbero prevalere gli acquisti, grazie alla ripresa economica e all’aumento degli utili. La debolezza dell’euro, infatti, favorisce le esportazioni, con riflessi positivi sui bilanci aziendali. Come sottolinea in una nota Ing Investment management, esistono tuttavia tre ordini di rischi: l’esito non scontato delle elezioni in alcuni Paesi come Grecia, Spagna e Regno Unito, l’estensione della crisi da Atene ai cosiddetti Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), l’incertezza sulla politica monetaria cinese, i piani di Barack Obama sul sistema bancario e la riduzione del debito pubblico e privato. Poco più di un gestore su due prevede un rialzo dei listini nei prossimi sei mesi, in aumento rispetto al 45% del mese scorso.

Wall Street vede la ripresa Per i gestori, negli Stati Uniti sono tangibili i segnali di ripresa sia nel settore manifatturiero sia nel terziario. Inoltre, il tasso di disoccupazione è fermo al 9,7% da tre mesi consecutivi e l’inflazione non desta preoccupazioni. Le aziende sono tornate a fare utili e hanno 1,8 mila miliardi di dollari di liquidità da investire, impiegare per acquisizioni o distribuzione di dividendi. Per queste ragioni, è leggermente aumentato il numero di gestori ottimisti: quasi il 62% contro il 59% di marzo.

Tokyo corre sulla domanda asiatica L’indice Msci Giappone ha guadagnato il 15% da inizio anno (in euro al 14 aprile), facendo meglio delle Borse internazionali. Il risultato è da attribuire alla domanda asiatica, che sostiene le esportazioni, e all’indebolimento dello yen, che influirà positivamente sugli utili. Il Sol Levante, però, continua a fare i conti con i problemi strutturali che limitano la crescita interna. Sul listino nipponico, i gestori scelgono la prudenza: solo il 38% si aspetta un rialzo nei prossimi sei mesi (era il 50% a marzo), contro il 52,4% che prevede una stabilità intorno agli attuali livelli.

L’Asia scaccia le paure Dai minimi di marzo 2009, l’indice Msci Asia-Pacifico (escluso il Giappone) ha raddoppiato il proprio valore, perché le economie dell’area hanno dimostrato di saper resistere alla crisi di quelle occidentali, a dispetto delle preoccupazioni degli investitori. Oggi le valutazioni azionarie non sono più a sconto, ma i gestori continuano ad essere ottimisti sulle prospettive dell’Asia. I tassi di crescita sono superiori al 5% e le esportazioni sono in aumento. Inoltre, le società sono impegnate a raggiungere migliori livelli di governo societario. I gestori, però, ricordano che questo tipo di investimenti deve avere un orizzonte di lungo periodo. La loro previsione è per un rialzo nei prossimi sei mesi (quasi 62% degli intervistati), anche se il 9,5% dei manager non esclude una possibile pausa.

Convivere con tassi bassi I rendimenti dei titoli governativi sono bassi sia negli Stati Uniti sia in Europa, ma quest’ultima è ritenuta più interessante dai gestori, i quali, però, non sottovalutano i rischi specifici dei singoli Paesi (ad esempio la Grecia). E’ convinzione diffusa che le Banche centrali continuino l’opera di contenimento del rialzo dei tassi sui tratti medio e lungo della curva dei rendimenti. Per questa ragione i prezzi non dovrebbero subire sostanziali oscillazioni. Nel dettaglio, il 47,6% dei gestori stima una stabilità dei prezzi dei titoli europei e il 33% di quelli americani.

Tempi duri per l’euro La moneta unica continua a soffrire l’eterogeneo panorama economico e le fratture interne ad Eurolandia. La maggior parte dei gestori, però, è convinta che il dollaro abbia già corso molto e che potrebbe rallentare il passo o mantenersi attorno agli attuali livelli. In particolare, il 38% prevede oscillazioni intorno ai valori odierni e il 42,9% un ulteriore indebolimento dell’euro (erano il 63,7% a marzo).

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 6 e il 13 aprile, 21 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa il 90% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Asset Managers, Albemarle Asset Management, Aletti Gestielle, Allianz Global Investors Italia, Axa IM, Banca Profilo, Bnp Paribas Am Sgr, Clariden Leu, Eurizon Capital, Fideuram Investimenti, Ing IM, Investitori Sgr, MC Gestioni, M&G Investments, Nemesis Asset Management, Norvega Sgr, Pioneer Im, Sella Gestioni, Swiss&Global AM Sgr, Threadneedle, VG.SA.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

GOLDMAN: CRISI O TEMPESTA IN UN BICCHIER D'ACQUA?

19 Aprile 2010 14:20 NEW YORK - di WSI
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Secondo molti analisti la reazione del mercato avra' vita breve, ma non per Jim Rogers, convinto che lo scandalo che vede coinvolta la piovra della finanza verra' usato come scusa per vendere. Vista correzione del 15-20%.
Questa volta Goldman Sachs potrebbe svolgere il ruolo di Lucifero, piuttosto che quello di Dio dei mercati.
Se e' vero che molti analisti sono convinti che la reazione del mercato allo scandalo Goldman Sachs sia come una tempesta in un bicchier d'acqua e pertanto presentera' delle opportunita' di guadagno, l'investitore miliardario Jim Rogers non e' affatto dello stesso avviso.
Il presidente di Rogers Holdings sostiene che i mercati siano destinati ad attraversare una fase di correzione. In un'intervista con l'emittente Usa CNBC, l'influente investitore ha detto che "un mercato che va su cosi' tanto e lo fa senza correzione non e' normale. Quando una cosa del genere succede, il mercato e' facile che sia destinato ad accusare una correzione del 15-20%".
Rogers pensa che le accuse di frode mosse dalla SEC contro l'istituto finanziario non provocheranno una correzione, bensi' fungeranno da catalizzatrici. "Quando i mercati sono pronti per una correzione, un evento di questo tipo e' la goccia che fa traboccare il vaso".
L'investitore guru non sembra sorpreso delle misure intraprese dall'autorita' di controllo dei mercati Usa. Rogers ha infatti sottolineato che questo tipo di indagini sono molto comuni dopo una crisi finanziaria, citando il caso dello scoppio della bolla Internet.
 

 

 

PERCHE' NON SI PUO' PARLARE DI UNA BOLLA DEI MERCATI EMERGENTI

19 Aprile 2010 02:34 MILANO - di Legg Mason*

*Questo documento e' stato preparato da Batterymarch Financial Management, una società affiliata interamente posseduta da Legg Mason
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I mercati emergenti stanno mostrano una eccellente capacita' di tenuta economica su livelli di valutazione non indicativi di una bolla informazione. I rischi sono nettamente inferiori al passato e...
Secondo Batterymarch Financial Management, società d’investimento del gruppo Legg Mason, i mercati emergenti stanno dimostrando una eccellente capacità di tenuta economica e i livelli a cui sono valutati non sono indicativi di una bolla in formazione in questi mercati.

Ray Prasad, gestore senior del portfolio e responsabile del team di Batterymarch per i mercati emergenti, spiega che "verso la fine di una recessione e davanti alla prospettiva di una ripresa, i prezzi dei titoli azionari spesso tendono a salire. Ciò non vuol dire però che il mercato sia sopravvalutato. In effetti, a nostro avviso, i mercati emergenti attualmente sono valutati in maniera equilibrata o addirittura leggermente per difetto. Inoltre, la nostra previsione è che l'abbondante liquidità disponibile sui mercati del capitale nazionali e globale, continuerà a fornire ai mercati emergenti un buon supporto ".

"Le bolle precedenti si sono caratterizzati per valutazioni eccessive e per un rapporto prezzo /libro quintuplo. La situazione attuale è molto differente: nei mercati emergenti, il comparto azionario è valutato due volte il rapporto prezzo/libro con l'aspettativa di un tasso di crescita a due anni del 25%. Sono parametri in linea con le valutazioni storiche che includono semmai ancora un leggero sconto rispetto ai mercati avanzati".

Il team di Batterymarch è convinto che i mercati emergenti presentino attualmente molto meno rischi che nel passato e che a livello di debito sovrano siano fondamentalmente più forti dei paesi sviluppati. Diversamente da questi ultimi, i mercati emergenti contano su bilanci fiscali migliori e su consistenti surplus dei conti correnti, mentre detengono la maggior parte delle riserve di valute estere del mondo.

Prasad fa notare che "nei mercati emergenti si assiste anche a una maggiore solidità a livello aziendale. Per tutti gli ultimi anni, i mercati emergenti hanno continuato a generare un ROE più alto a fronte di un livello d’indebitamento ben più basso di quello che si riscontra nei paesi sviluppati.

Le attuali stime per il 2010 e per gli anni successivi appaiono molto forti. Dai nostri dati rileviamo che, stando alle previsioni attuali, la crescita dell’utile per azione nei mercati emergenti per i prossimi due anni tocca il 24%. Questi elementi sono segno di una forte capacità di tenuta economica e sempre più numerose ed eccellenti opportunità di crescita economica nel lungo periodo".

Secondo l'analisi di Batterymarch, in Cina, il processo di restrizione della politica monetaria si protrarrà per i prossimi 12-18 mesi, mentre è improbabile che le autorità alzino i tassi di interesse nel breve termine". Inoltre, aggiunge Prasad, "questa politica monetaria rigorosa ha come obiettivo rallentare la crescita del paese senza fermarla. Dal momento che la Cina è una locomotiva dell'espansione economica anche per altri mercati emergenti, la crescita in questi ultimi perderà inevitabilmente un pò di spinta, ma questo non sarà evidente prima di altri sei-nove mesi.

Indipendentemente da questi cambiamenti, i mercati emergenti dovrebbero continuare a crescere a un ritmo molto più accelerato di quello del mondo avanzato e i prezzi delle azioni dovrebbero continuare a beneficiarne a mano a mano che si rafforzano gli utili delle imprese".

"I mercati emergenti, conclude Prasad, "sono ben posizionati per beneficiare nel lungo termine dai volani su cui poggia questa crescita secolare, quali lo sviluppo dell'infrastruttura e il rafforzarsi della domanda locale. La correzione dell'inizio del 2010 ha fornito delle opportunità eccellenti per costruire un'esposizione verso questi mercati".
 

Fonte - Batterymarch Financial Management

 

 

 

 

 

 

  Borsa e nuovi target, il Nasdaq già a 2500

20 Aprile 2010 15:21 BIELLA – di Banca Sella

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La scorsa settimana è proseguito il rialzo dell’azionario, trascinato dal balzo del Nasdaq Composite che ha superato marginalmente la resistenza chiave a 2500, per poi ripiegare. L’indice tecnologico dai minimi di marzo 2009 è raddoppiato: la forza del trend rialzista ha trovato conferma nell’apertura in gap-up di mercoledì scorso, per poi però venire subito messa in dubbio dal veloce ripiegamento della seduta di venerdì. D’altra parte, quota 2500 è un livello davvero importante, quello che da molti mesi indichiamo come l’obiettivo finale del bear market rally in essere dal marzo 2009. Che si vada ancora più su rimane ovviamente possibile – un trend si deve infatti considerare in essere fintantoché non emerga un segnale convincente di esaurimento – ma ci troviamo comunque su livelli tecnici che devono suggerire grande prudenza.

Ogniqualvolta il quadro tecnico appare contrastato, di difficile lettura, l’unica cosa da farsi è ragionare in termini di gestione del rischio. La forte asimmetria della volatilità – molto più elevata nelle discese che non nelle salite – rende poco attraente, in termini di prospettive di rischio-rendimento, entrare lunghi sui livelli correnti. Anzi, sarebbe opportuno preoccuparsi soprattutto di portare a casa i forti utili messi a segno nei mesi passati. Per chi vuole proprio rimanere investito sarà comunque necessario mettersi degli stop di protezione nel caso le quotazioni dovessero invertire tendenza.

Discese sotto 2395-2430 confermerebbero i segnali di perdita di spinta della seduta di venerdì scorso. Il tono del mercato, tuttavia, si indebolirebbe chiaramente solo al di sotto del forte supporto in area 2325/45 (ancora prematuro). L’area 2500-2550 deve comunque considerarsi come un’occasione per ridurre, in ottica tattica, l’esposizione sul mercato, per poi incrementare nuovamente le posizioni sfruttando periodi di debolezza nei mesi a venire.

Nuovi massimi anche per il Dow Jones Industrial che riesce a superare marginalmente la resistenza chiave a quota 11000 (nuovo massimo a ridosso di 11150). Valgono le stesse considerazioni fatte per il Nasdaq: da un lato, il trend rialzista rimane solido, nonostante la scivolata di venerdì; dall’altro, siamo su livelli in cui le quotazioni appaiono "tirate". L’area compresa tra 11000 e 12000 rappresenta una sorta di "tetto" per il grande movimento di bear market rally iniziato nel marzo 2009, e dovrebbe quindi arrestarne il rialzo per molti mesi a venire. Per le prossime sedute è importante la tenuta del supporto in area 10700/900, pena una correzione verso 10400/500.

Nuovi top anche per l’indice S&P500 che supera marginalmente l’obiettivo indicato, la resistenza chiave a 1200, per poi riscendere velocemente sotto 1200. Un segnale chiaro di perdita di spinta si avrebbe solo sotto 1160/75 per un test del supporto in area 1105/15. Gli acquisti riprenderebbero sopra 1215, con obiettivo la resistenza in area 1255/65, sopra cui (prematuro) si avrebbe un’estensione verso la resistenza chiave a 1315, che dovrebbe comunque arrestare il rialzo dell’indice per molti mesi a venire: in altri termini, tra 1200/15 e 1315 si dovrebbe esaurire il bear market rally.

I primi segnali di tensione sono arrivati dall’impennata della volatilità implicita. Dopo settimane di continui nuovi minimi, che l’avevano riportata sui livelli del luglio 2007 – quando la crisi dei mutui subprime non si era ancora allargata a macchia d’olio – nella seduta di venerdì scorso il Vix ha infatti registrato un forte incremento, pur rimanendo ancora al di sotto dei livelli di guardia (prima resistenza a quota 20, poi 22,75 e quindi, critica, 25).

Qualora il Vix dovesse superare i livelli indicati sarebbe opportuno ridurre sensibilmente – e velocemente – l’esposizione sull’azionario. In caso contrario, si può anche lasciare correre, nella consapevolezza però che il mercato rimane sulla "coda" del bear market rally e che la "Fase 1" della ripresa – spinta dalla liquidità e focalizzata sul sistema finanziario, sugli attivi patrimoniali e sugli asset tossici – dovrà progressivamente lasciare il passo alla "Fase 2" – centrata invece sull’economia reale e sugli utili aziendali, con un occhio molto attento alle dinamiche occupazionali e ai consumi. In altri termini, rasserenati dalla tenuta del sistema finanziario iniziamo ora a guardare sempre meno alla "carta" e sempre più alla realtà, in uno scenario economico che si preannuncia ancora molto confuso. Occorre quindi prudenza, e molta pazienza.
 

Fonte - Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

 

 

 

 

  Domenica 18 Aprile 2010   Mercoledì 21 Aprile 2010   Sabato 24 Aprile 2010  
       
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GR1 RAI - 19 Apr. ore 22:00

   

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GR1 RAI - 21 Apr. ore 22:00

   

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Il destino di Goldman

Tuesday, 20 April, 2010 by phastidio - di XXX
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Venerdì 16 aprile la SEC ha aperto una procedura civile contro Goldman Sachs ed uno dei suoi vice presidenti, Fabrice Tourre, per frode ai danni degli investitori per non aver svelato informazioni fondamentali riguardo un prodotto finanziario legato a mutui subprime, nel momento in cui il mercato immobiliare americano iniziava a deteriorarsi visibilmente. Il titolo Goldman ha accusato una forte contrazione, trascinando al ribasso i mercati azionari.

Lo strumento in questione, costruito e commercializzato da Goldman, era un collateralised bond obligation (CDO) sintetico, la cui performance era legata a quella di cartolarizzazioni su mutui residenziali. Goldman ha detto ai propri investitori che i titoli inseriti nel CDO erano stati scelti da una terza parte indipendente, ACA Management. La SEC sostiene invece che Goldman non avrebbe rivelato che un’altra società, Paulson & Co., un grande hedge fund, aveva in realtà avuto un ruolo nella scelta dei titoli inseriti nel CDO.

Questa è stata un’omissione cruciale perché Paulson & Co., gestita da John Paulson, che nel 2007-2008 ha fatto enormi guadagni scommettendo contro il mercato immobiliare, aveva preso una posizione corta contro il CDO. In altre parole, il suo hedge fund avrebbe tratto profitto da un cattivo andamento dello strumento.
Goldman ha definito le accuse “totalmente infondate”, e ha detto che le contesterà vigorosamente. Paulson & Co. non è finora stato accusato dalla SEC. Il fondo ha emesso un comunicato affermando che ACA, in quanto gestore terza parte del collaterale, era l’unico responsabile della selezione dei titoli da introdurre nel CDO. Goldman ha in seguito dichiarato di avere perso denaro dalla transazione, ed ha insistito di avere fornito “informazioni estensive” sul portafoglio agli acquirenti, che peraltro erano investitori istituzionali, quindi qualificati e non al dettaglio, per ciò stesso consapevoli dei rischi.

La SEC sostiene che Paulson aveva un incentivo a scegliere titoli ipotecari che sarebbero andati in dissesto. Secondo l’accusa, Paulson ha venduto allo scoperto titoli del portafoglio che ha contribuito a scegliere, comprando protezione contro il default di alcune tranche del CDO attraverso credit default swaps (CDS), in contropartita con Goldman. La SEC sostiene che questi derivati avrebbero fornito all’hedge fund l’incentivo a scegliere titoli destinati al dissesto. E così è andata. L’operazione è stata lanciata ad aprile 2007; entro la fine di gennaio 2008 il 99% del portafoglio aveva subito downgrades da parte delle agenzie di rating.

Fabrice Tourre era responsabile del CDO, chiamato Abacus. Secondo l’accusa, non solo egli sarebbe stato a conoscenza delle posizioni corte di Paulson, ma anche di aver fuorviato ACA, facendo credere che Paulson & Co. aveva investito 200 milioni di dollari nella tranche più rischiosa del CDO.

Le accuse non potevano giungere in un momento peggiore per Goldman, sotto accusa da tempo su molti fronti; incluso il rimborso integrale ottenuto, per disposizione della Fed di New York, come controparte sui derivati di American International Group (AIG), l’assicuratore quasi fallito nel 2008. Goldman ha scelto una posizione pubblica in cui giustifica il proprio successo non come conseguenza dei rapporti con il potere politico ed i regolatori, ma come frutto dell’eccellenza del proprio sistema di risk management.

Goldman è accusata da tempo di anteporre i propri interessi, e quelli dei propri maggiori clienti, al resto dei rapporti d’affari intrattenuti. Le accuse della SEC potrebbero segnare una escalation contro il sistema-Goldman, oltre che accelerare il percorso al Congresso del disegno di legge di riforma del settore finanziario, una parte fondamentale del quale copre i derivati non quotati su borse regolamentate. Il presidente della commissione Agricoltura del Senato ha proposto che le banche siano obbligate a scorporare le unità di trading sui derivati. Le recenti vicende potrebbero rendere più difficile per Goldman ed il sistema finanziario disinnescare questa minaccia.

Il costo per Goldman, se trovata colpevole, potrebbe essere nell’ordine delle decine o più probabilmente delle centinaia di milioni di dollari. La SEC chiederà, come prassi, la restituzione dei guadagni illeciti maggiorati da una penalizzazione. Gli investitori nel CDO Abacus hanno affermato di aver perso oltre un miliardo di dollari. Ma il danno potrebbe essere molto maggiore, con la compromissione della già fragile reputazione di Goldman. Altri organi di controllo dei mercati finanziari stanno muovendosi autonomamente aprendo inchieste, come la FSA nel Regno Unito.

Negli Stati Uniti, si è saputo che la SEC ha votato di misura (3 contro 2), e secondo linee partitiche, per aprire la procedura contro Goldman: la presidente, Mary Schapiro, indipendente, ha votato con i due esponenti Democratici, mentre i due Repubblicani si sono opposti. Questa rivelazione ha dato forza al titolo, perché suggerisce che il partito Repubblicano potrebbe assumere atteggiamenti più favorevoli a Goldman, in caso di vittoria alle elezioni di mid term, a novembre.

Nel complesso, sul destino della società e del settore bancario (statunitense ma non solo) grava un elevato event risk, legato all’evoluzione della vicenda in relazione, ad esempio, al suo eventuale passaggio dall’ambito amministrativo-regolatorio (della SEC) a quello penale, oppure all’estensione delle indagini della SEC a tutti i prodotti simili collocati negli ultimi anni dall’intero sistema delle banche d’investimento.
Posted in: Credito, Mercati, Stati Uniti.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

UBS, DEUTSCHE BANK E MERRILL: ANCHE LORO COME GOLDMAN? LA SEC INDAGA

20 Aprile 2010 10:40 NEW YORK - di LA REPUBBLICA
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Intanto, in un editoriale che rispecchia bene gli stati d'animo della comunità degli investitori, il Wall Street Journal minimizza:"Le accuse sembrano una pistola ad acqua e non permetteranno certo di scoprire le ragioni della crisi...",
Dopo aver turbato i mercati finanziari di mezzo mondo, con perdite pesanti da Shanghai (-4%) a Milano (-0,99), l'onda dello scandalo Goldman Sachs si è smorzata ieri poco prima di sommergere Wall Street. Risultato: il Dow Jones a fine giornata ha guadagnato e persino i titoli della Goldman hanno ottenuto un +1,5%.

A questa "tenuta" della Borsa americana hanno contribuito gli ottimi risultati trimestrali del Citigroup (4,4 miliardi di dollari di utili: a conferma della ripresa del settore bancario) e i dati del superindice economico, cresciuto il mese scorso del 1,4%.

Ma il vero motivo della reazione composta di Wall Street - spiegano gli analisti - è la convinzione sempre più diffusa tra gli investitori che la vicenda giudiziaria della Goldman Sachs sia destinata ad afflosciarsi, nonostante la discesa in campo di Barack Obama che andrà a Wall Street per sostenere la sua riforma contro gli eccessi della finanza. Allo stesso tempo tuttavia lo scandalo sembra allargarsi ad altre banche.

Ma andiamo con ordine. Venerdì scorso la banca più ricca (e odiata) di New York è stata accusata di frode dalla Sec. Secondo l'incriminazione, negli anni della finanza allegra la Goldman ha favorito la creazione di un Cdo, uno strumento ad hoc per speculare sui mutui subprime, offrendolo a grandi investitori, ma senza avvertirli che l'hegde fund di John Paulson aveva contribuito a selezionare una parte dei titoli inclusi nel pacchetto, né che lo stesso Paulson avrebbe scommesso sul collasso del Cdo.

Un altro caso di doppio gioco da parte della Goldman? Paulson ci ha guadagnato miliardi di dollari, mentre il suo ex-braccio destro, e vero ispiratore della manovra sui mutui subprime, il milanese Paolo Pellegrini, ha incassato 175 milioni di dollari: ma nessuno dei due è stato incriminato dalla Sec. "Io personalmente non ho mai contattato la Sec, ma sono stato chiamato a testimoniare dopo che la Sec ha parlato con Paulson", chiarisce a Repubblica lo stesso Pellegrini.

La Sec intanto sta cercando le prove di frodi compiute da altre banche attraverso la vendita di titoli analoghi. Altri grandi istituti infatti - Deutsche Bank, Ubs, Merrill Lynch - hanno creato strumenti finanziari come "Abacus", il pacchetto di obbligazioni garantite da mutui subprime.

Per il momento però è la Goldman nell'occhio del ciclone: la banca, che oggi diffonderà i propri dati trimestrali, ha promesso di battersi in tribunale contro accuse che considera ingiuste e ha lanciato una controffensiva a tutto campo, ottenendo già i primi risultati.

"Le accuse sembrano una pistola ad acqua e non permetteranno certo di scoprire le ragioni della crisi finanziaria", minimizza il Wall Street Journal in un editoriale che rispecchia bene gli stati d'animo della comunità finanziaria. Il quotidiano ritiene che gli addebiti della Sec siano destinati a sgonfiarsi: come è possibile che la banca abbia fatto il doppio gioco se poi ha perso in quella operazione 90 milioni di dollari e ne ha guadagnati solo 15 di commissioni?

La parziale assoluzione di Wall Street non basterà a risolvere i problemi della Goldman. L'iter giudiziario finirà per costarle almeno 700 milioni di dollari, cui si aggiungeranno una perdita di immagine e di credibilità, specie dopo la scoperta che i massimi vertici della banca erano al corrente delle operazioni contestate. E Londra e Berlino promettono di aprire inchieste giudiziarie parallele.

 

Fonte - LA REPUBBLICA

 

 

 

CARRY TRADE: POCHE CERTEZZE, GRAN POTENZIALE

20 Aprile 2010 22:40 NEW YORK - di WSI
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Con lo scoppio della crisi il dollaro ha preso il posto dello yen come valuta preferita. Ma ora il biglietto verde e' minacciato da euro, sterlina e dalla stessa valuta giapponese. Quali fattori determineranno il delinearsi dello scenario futuro?
La giuria si ritira per deliberare. Al momento sono poche le certezze sul carry trade: il dollaro ha guadagnato terreno, ma lo yen, l'euro e la sterlina potrebbero minacciare la sua posizione. Come si delineera' il futuro del valutario e quali posizioni prendere?

Prima della crisi finanziaria lo yen era utilizzato come il principale asset per portare avanti operazioni di carry trade. La moneta giapponese offre ancora un'attraente opportunita' di scambio, consentendo di fare leva sui tassi di interesse molto bassi, ma la valuta americana ultimamente e' diventata la scelta numero uno di molte operazioni di carry trade - la pratica che prevede prendere a prestito valute a basso rendimento per poi investire il ricavato in asset ad alto rendimento.

E' difficile dire quanto sia cambiato lo scenario del carry trade per effetto di questo passaggio di consegne e quale futuro aspetta il panorama del valutario. Provando a dare una misura di cosa e' cambiato nel passaggio da yen a dollaro, si scopre una solo punto fermo: il potenziale di guadagno da investimenti speculativi di questo tipo e' ora enorme.

Risulta complicato fare una valutazione accurata perche' e' difficile separare le attivita' di carry trade dalla categoria degli investimenti non speculativi, o per meglio dire gli investimenti che si basano sulle possibilita' di crescita dei fondamentali da quelle offerte invece dagli scambi tecnici sul breve termine.

E' difficile giudicare inoltre quando l'economia finanziaria nel suo complesso si distacca dall'economia reale. Che e' poi quello che e' successo durante la crisi dei mutui subprime. A ogni problema c'e' pero' una soluzione.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

  Deja-vu: crisi greca come, e peggio dell'Argentina

28 Aprile 2010 12:40 NEW YORK – di Daniele Chicca

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Tante analogie tra la crisi del default argentino (2002) e quella greca di oggi. Solo che adesso gli effetti potrebbero essere piu' deleteri. La differenza? Per Atene, c'e' l'Europa e l'euro. Il cui futuro per la prima volta e' in dubbio.
Nessuno dimentichera' mai il giorno in cui venne dichiarato il default dell'Argentina. Era il 2002 e Buenos Aires venne scaricata da tutti. Gli investimenti stranieri abbandonarono letteralmente il Paese e i flussi di capitale nelle casse argentine hanno cessato di esistere. Il governo ha dovuto fare i conti con ostacoli insormontabili per provare a rifinanziare il debito. Lo stato si e' visto allora costretto a privarsi di denaro e le riserve della Banca Centrale in valute straniere sono andate utilizzate quasi interamente.

Sotto il profilo macroeconomico, tutto e' iniziato con la diminuzione del PIL nel 1999 e finito nel 2002 con il ritorno alla crescita economica, ma le origini del collasso dell'economia argentina e gli effetti sulla popolazione risalgono a molto tempo addietro. Lo stesso si puo' dire della situazione greca.

Come otto anni fa, non saranno solo i cittadini greci a pagare per la crisi di Atene, bensi' tutto il mondo e tutti i possessori dei famigerati tango-bond. Il rischio di un contagio e' reale e correre in soccorso di una nazione non sara cosi' semplice come offrire un piano di aiuti alle banche (crisi subprime docet).

Anche allora le politiche del presidente Carlos Menem prima (il peronista arrivo' al potere in un contesto iperi-nflazionistico collegato al tentativo del presidente radicale Alfonsin di applicare un programma neoliberale di svalutazione della moenta) e Fernando De La Rua poi, a cavallo tra fine anni '80 e primi anni '90, non sono state le sole responsabili del caos, ma sono state utilizzate come un capro espiatorio politico conveniente. Lo stesso vale per Atene, dove a causa dello scontento generale, le proteste popolari sono dilagate come un fiume in piena.

Sia analizzando l'uragano dei CDS, che il debito, la politica e i disordini vari, si scopre che le analogie sono tantissime: la crisi del debito sovrano, un tasso di cambio sopravvalutato, e anche l'appartenza ad un blocco: L'Argentina faceva parte di un'unione monetaria di cui non e' riuscita a rispettare i criteri fondamentali.

Cosi' come la Grecia, l'Argentina ha tentato di tagliare gli stipendi e i prezzi, ma la deflazione si e' rivelata un ostacolo troppo grande. Come e' finita lo sappiamo tutti, con un default del debito sovrano nel 2001 (dopo che gli argentini sono corsi in massa a ritirare i soldi dalle banche per convertirli in dollari) e con i legami tra peso e dollaro interrotti, anche se avevano solo dieci anni di vita ed erano considerati un rapporto importante. Non solo la Grecia, ma anche gli altri PIIGS ora sembra che potrebbero fare la stessa fine.

Il PIL greco rappresenta solo il 2.5% della crescita economica complessiva dell'UE, ma se il sistema bancario greco dovesse lasciare la zona euro, il conto da pagare sarebbe salato. Tuttavia se si guarda al caso argentino, Buenos Aires ha dovuto vedersela con problemi simili ed ha finito per abbandonare il dollaro, percio' mai dire mai. La crisi greca sottolinea quanto sia importante che tutti rispettino i criteri stabiliti dall'unione monetaria.

Per quanto riguarda la situazione dei mercati, i punti di incontro diventano addirittura impressionanti. Il CDS (credit default swaps) sui titoli di stato di Atene avevano registrato un minimo assoluto il 4 agosto 2009 a quota 100, prima del downgrade di S&P di martedi' quotavano 710 e subito dopo sono saliti di 104 punti base a un massimo di 814. Mercoledi' il livello e' arrivato sino a 900 punti. Livelli simili furono toccati dai CDS (il costo per assicurarsi contro il rischio di bancarotta del paese, con riferimento ai tioli di Stato emssi sul mercato finanziario, cioe' all'indebitamento complessivo del paese) sui tango-bond prima del default.

Ma a livello di rapporto tra debito e Pil e tra deficit e Pil la Grecia e' messa molto peggio. Nel 2001 il rapporto in Argentina’ era rispettivamente del 62% e del 6.4%. Alla fine dell'anno scorso, quelli greci sono al 114% e al 12.7%, praticamente il doppio. L'Argentina usci' dai circuiti della finanza mondiale con un buco da 95 miliardi di dollari. Ad oggi il deficit di bilancio della Grecia e' pari a 32.34 miliardi di euro, il 13.6% del PIL.

Lo swap offerto agli argentini e alle altre persone in possesso di tango-bond e' stato del 35%, il peggior "recovery rate" nella storia del debito sovrano. Solo il 76% accetto' i termini, gli altri si rifiutarono. Ma il triste record e' destinato ad essere presto superato. Con oltre meta' dei bond greci circolanti che scambiano ad un prezzo in contanti degli anni 90, se la Grecia dovesse fallire (il rischio implicito dal mercato dei CDS e' di oltre il 30% nei prossimi cinque anni) allora gli investitori perderanno meta' dei loro soldi.

Per arginare la crisi il messaggio di Bruxelles continua a essere quello di lasciare risolvere il problema Grecia all'interno della mura di casa. Ma la realta' e' molto piu' complessa. Una crisi innescata dalle decisioni dell'amministrazione greca e' poi finita per svilupparsi in tre temi portanti: la riluttanza di Atene a ingoiare la pillola dal cattivo sapore dei tagli di bilancio prescritta loro dalla Ue, l'outolook a medio termine della moneta unica e il ruolo a lungo termine che avra' l'Europa nello scenario in rapido cambiamento dell'economia mondiale.

Come ha detto bene Nouriel Roubini, il professore di economia della New York University che previde la scorsa crisi finanziaria: "Se la Grecia va a picco per la Zona Euro e' un problema, se va giu' la Spagna e' un disastro".

La differenza e' che la Grecia ha l'euro e fa parte di un blocco mai prima d'ora cosi' in crisi. Il caso dei PIIGS e' emblematico del problema che Bruxelles si trova a dover risolvere. I Paesi non sono dotati delle infrastrutture umane e fisiche necessarie per essere piu' competitivi, tuttavia e' proprio in quelle aree – investire nella costruzione di strade, universita' e capacita' personali - che la scure si abbattera'.

Cio' presenta un problema che non riguarda solo il presente, ma anche il futuro e pertanto va affrontato subito, prima che l'invecchiamento della generazione dei baby boomer non riempia troppo le mani dei governi nazionali. L'Europa rischia di accusare un netto calo della popolazione lavorativa.

Nel caso dell'Argentina allora la medicina somministrata dal FMI non fu sufficiente. Difficilmente lo saranno i 135 miliardi di euro promessi da Ue e Fondo ad Atene.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

Goldman Sachs si difende di fronte al Senato americano

27 Aprile 2010 18:22 - di Sole 24 ore
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Dopo il primo stop imposto dai repubblicani al Senato alla riforma della finanza voluta dai democratici e in particolare dall'Amministrazione Obama, l'attenzione di Wall Street si concentra sulle audizioni al Senato dei vertici di Goldman Sachs e delle persone coinvolte nell'inchiesta per frode della Sec.
Goldman Sachs ha cominciato a scommettere contro il mercato dei mutui nel 2007 tramite il trading "short" (al ribasso attraverso vendite alle scoperto), in modo da bilanciare le perdite della società in quel settore. E' quello che ha detto durante la propria testimonianza alla sottocommissione di indagine permanente del Senato il direttore finanziario David Viniar, sentito durante le audizioni al Senato assieme all'amministratore delegato Lloyd Blankfein. Nel dicembre 2006 «abbiamo cominciato a registrare perdite su base quotidiana nei prodotti collegati ai mutui» e nella società regnava «crescente preoccupazione» a causa della «maggiore volatilità e del calo dei prezzi degli asset collegati ai subprime». Il risultato è stato il passaggio allo short trading, ma «nel 2008 si è tornati alle scommesse al rialzo». L'obiettivo della società «era ridurre il rischio e in questo senso abbiamo avuto discreto successo», dirà invece Craig Broderick, responsabile della gestione del rischio dal 2007.

Mentre il settore immobiliare colava a picco, infatti, Goldman Sachs riuscì nel 2007 a generare «ampi profitti» scommettendo contro il mercato. «Goldman dice che queste scommesse sono state ragionevoli, ma i documenti interni mostrano che non si é trattato di una cosa ragionevole, anzi uno dei dirigenti ha descritto la situazione come 'the big short'», ha detto il presidente della sottocommissione di indagine permamente del Senato Carl Levin, che sente oggi i vertici di Goldman Sachs, a partire dall'amministratore delegato Lloyd Blankfein e il direttore finanziario David Viniar. La sottocommissione indaga da 18 mesi sul Goldman, accusata di avere scommesso contro il mercato dei mutui nel 2007 tramite il trading "short" (al ribasso attraverso vendite alle scoperto). I «conflitti di interesse» citati dalla Securities and Exchange Commission, la Consob americana, «potrebbero non essere illegali, ma sicuramente sembrano eticamente discutibili», ha detto la repubblicana del Maine Susan Collins, uno dei più agguerriti membri della commissione.
Fabrice Tourre, il trader di Goldman Sachs al centro delle accuse di frode della Sec alla banca d'affari newyorkese, si è difeso oggi di fronte al Congresso americano. Il 31enne francese, un "enfant prodige" della finanza, ha negato «categoricamente le accuse della Sec. E mi difenderò in tribunale contro queste falsità». Tourre ha partecipato a un'operazione in cui Goldman ha venduto agli investitori Aca Management e Ikb Deutsche Industriebank uno strumento finanziario chiamato Abacus 07AC-1 legato ai mutui subprime e rivelatosi fallimentare. Secondo le autorita di Borsa agli investitori sarebbero state date informazioni fuorvianti sulla composizione di quello strumento. Tourre, oltre che per il suo ruolo, è stato criticato anche per una serie di e-mail rese pubbliche in cui si commentava con soddisfazione alcuni guadagni fatti scommettendo sul fallimento di alcuni mutui.

La Sec infatti sostiene che Goldman avrebbe venduto Abacus alla società Aca non rivelando la posizione dell'hedge fund Paulson &Co., coinvolto nella creazione di Abacus e con una visione ribassista sul mercato immobiliare. «Sebbene non mi ricordi le parole esatte che ho utilizzato, mi ricordo di aver informato Aca che il fondo di Paulson avrebbe assunto delle protezioni di credito sulla transazione AC-1. Questo significava necessariamente che Paulson avrebbe anche scommesso al ribasso», ha detto Tourre. Il manager ha concluso che la transazione «non è stata pensata per fallire», anche perché Aca e Ikb «erano due dei miei clienti più importanti».
Questa sera il presidente Barack Obama parlerà dell'economia americana e del debito degli Stati Uniti. Non è previsto che riparli della riforma finanziaria fino a domani. Ma non è detto che lo stop al Senato, dove i democratici non sono riusciti per ora a stoppare la minaccia di filibustering, ostruzionismo, dei repubblicani, non riaccenda il dibattito. Non è ancora chiaro quale effetto produrrà nell'elettorato americano l'intreccio tra l'inchiesta Goldman e le negoziazioni a Capitol Hill tra democratici e repubblicani. E' certo però che Obama è determinato ad andare avanti con una riforma di Wall Street, come ha spiegato di recente dal blog della Casa Bianca.
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

Europa, i danni non li fanno solo i Pigs

mercoledì, 28 aprile 2010 - 13:35 - di Marco Caprotti
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I Pigs tornano a fare danni in Europa. Il ministro delle Finanze della Grecia, George Papaconstantinou, ha annunciato che il Paese non riesce più a collocare i titoli del debito pubblico e, dunque, non potrà fare a meno degli aiuti di Fmi e Ue. L’agenzia di rating Standard & Poor’s, intanto, ha tagliato a livello junk (spazzatura) il merito di credito di dei bond di Atene che rischiano di diventare inutili come merce di scambio con la Bce per ottenere liquidità. Perché ciò avvenga, comunque, anche le altre agenzie di rating dovrebbero ridurre il voto sul debito sovrano di Atene. Il differenziale di rendimento rispetto al Bund decennale tedesco, nel frattempo si è ampliato, raggiungendo i 682 punti base.

L’Unione europea si riunirà il 10 maggio a Bruxelles per affrontare la situazione greca. L’incontro avverrà il giorno dopo le elezioni regionali in Nord Reno Vestfalia. La chiamata al voto è la principale ragione per cui la Germania sta mostrando intransigenza nella concessione degli aiuti alla Grecia. Gli ultimi sondaggi, infatti, indicano che i tedeschi sono contrari a dare una mano ad Atene e i politici non vogliono inimicarsi l’elettorato. Sul piano di soccorso, peraltro, l’Unione Europea ha posizioni diverse e questo, ha detto Papaconstantinou parlando ai deputati socialisti in vista della scadenza cruciale del 19 maggio quando dovranno essere ripagati 9 miliardi di euro di debito pubblico, non sta aiutando.

La situazione nel resto dell’Europa, nel frattempo si sta deteriorando: S&P ha annunciato il taglio del rating del Portogallo e ha espresso outlook negativo. “Gli investitori hanno sempre più l’idea che la crisi possa espandersi ad altri Stati dell’Unione”, spiega in un’intervista Jeremy Glaser, analista di Morningstar (per vedere l’intervento completo Clicca qui ). “A questo punto ci sono due possibilità. Il mercato può avere la percezione che Eurolandia sia instabile e quindi gli operatori possono decidere di spostare i loro investimenti verso altre aree. Se, invece, la Ue si muoverà compatta nel fronteggiare la crisi, si potrebbe arrivare a un livello maggiore di coesione fra gli Stati e a politiche fiscali più omogenee”

Ma non ci sono solo i Pigs a preoccupare gli investitori. L’indice Msci Europe nell’ultimo mese (fino al 27 aprile e calcolato in euro) ha perso lo 0,8%, anche se la maggior parte del calo è stata registrata negli ultimi giorni. “I dati resi noti da Eurostat, indicano che la zona è a rischio di stagnazione e corre il pericolo di un’altra frenata”, spiega una nota di Morningstar. L’ufficio statistico dell’Unione europea ha abbassato le stime riguardanti il Pil dei 16 Paesi che condividono la moneta unica per i prossimi trimestri: se prima si parlava di una crescita dello 0,1% ogni tre mesi, oggi si parla di andamento laterale (un termine tecnico che indica l’assenza di crescita).

Le notizie che arrivano dai singoli Stati di Eurolandia, del resto, non invitano a vedere rosa. La Germania ha registrato una crescita dello 0,4% nel secondo trimestre e una frenata della produzione industriale, mentre l’Italia ha subito una contrazione del Pil dello 0,3%. “Questo è uno scenario poco incoraggiante per l’Europa”, spiega uno studio di Howard Archer, economista della società di analisi IHS Global Insight. “La domanda domestica della regione è scesa dello 0,2%, i consumi non si riprendono mentre gli investimenti, da un trimestre all’altro, sono scesi dell’1,3%”, recita lo studio. “Insomma, l’area è ancora in una situazione economica e finanziaria difficile. I segnali di ripresa sono stati momentanei. E i pericoli di una contrazione sono decisamente forti”.

Non tutte le letture sono così negative. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha portato le stime sulla crescita delle sette maggiori economie della zona dall’1,5% all’1,9%. Non tutte viaggeranno, comunque alla stessa velocità. Se l’Inghilterra avrà un’accelerazione del 2%, la Francia crescerà del 2,3% (dato peraltro rivisto al ribasso dal precedente 2,7%). Con questo scenario l’Ocse ha raccomandato alla Banca centrale europea di non alzare i tassi di interesse mentre ai governi ha suggerito di ridurre i deficit di bilancio entro il 2011.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

 

  Martedì 27 Aprile 2010   Mercoledì 28 Aprile 2010   Giovedì 29 Aprile 2010  
       
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GR1 RAI - 28 Apr. ore 22:00

   

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GR1 RAI - 29 Apr. ore 22:00

   

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Alcune mosse per difendere i risparmi dallo tsunami-Grecia

28 Aprile 2010 16:01 MILANO - di Vittorio Carlini
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Come difendere i propri risparmi in questi momenti di turbolenza? È una domanda, da molti di voi posta tramite e-mail, che non ha una risposta facile. I mercati, sia quello azionario sia quello delle commity sia quello del reddito fisso, si trovano in un momento delicato. Il sole24ore.com, senza alcuna pretesa di completezza, ha girato ad alcuni esperti i vostri dubbi e quesiti.

Come capire se ho titoli greci in portafoglio?

«C'è la possibilità - spiega Maila Bozzetto, consulente indipendente e massima esperta di reddito fisso- che diversi fondi abbiano in portafoglio titoli di stato di Atene. Utilizzando il codice Isin, un primo approccio è quello di guardare a sito di Morningstar. Lì è possibile vedere i principali investimenti del fondo». «È vero - specifica Angelo Drusiani, di Albertini Syz -. Tuttavia ricordo che gli aggiornamenti indicati dai fondi spesso arrivano in ritardo. Un altro modo, seppure indiretto, per capire se il prodotto finanziario ha in pancia titoli a rischio è guardare la quotazione del fondo stesso». Vale a dire? «In questo momento i fondi obbligazionari, seppur di poco, salgono. Al contario se la quotazione scende vuol dire che possono esserci dei bond i cui prezzi crollano». Ciò detto, «per avere un quadro completo - aggiunge Bozzetto - il risparmiatore deve recarsi dalla banca o della Sgr che gli ha venduto il fondo e farsi dare l'indicazione esatta della composizione del fondo».

Cosa fare se si hanno dei titoli greci in portafoglio?

«Dipende dalla propensione al rischio del risparmiatore e dall'esposizione sulla Grecia, o su altri paesi periferici, del fondo stesso». Vale a dire? «Facciamo l'ipotesi più favorevole. Se una persona ha investito solo il 10% dei propri soldi in un prodotto che, per esempio, ha un'esposizione del 5% sulla Grecia l'indicazione è di tenere il fondo. Aspettare, anche se si ha una propensione al rischio bassa, e monitorare attentamente la situazione. Una qualche "toppa", nel brevissimo periodo, dovrebbe essere messa con il programma di aiuti dell'Ue o dell'Fmi. Poi, successivamente si deciderà se smobilizzare il fondo».

E se invece l'esposizione è alta? «Nel caso di scuola teorico, ma utile per comprendere la strategia da seguire, in cui il fondo sia esposto, per esempio, al 40% su Atene o su altri paesi periferici e il risparmiatore abbia una quota importante, diciamo del 30%, su questo prodotto il consiglio è di vendere subito. Una scelta che vale sia per chi ha una propensione al rischio bassa, ma anche per chi ha voglia di rischiare un po'». «Sono daccordo -fa da eco Drusiani - Su queste tipologie di bond l'esposizione, anche per chi ha una alta propensione al rischio, non deve superare il 10 per cento . La diversificazione nell'asset allocation è sempre fondamentale».

E poi «sul medio periodo - aggiunge l'analista indipendente - gli interventi all'orizzonte non sono convincenti». Per quanto il presidente della Commissione Ue Manuel Barroso ha detto che la «ristrutturazione del debito non è un'opzione», la Bozzetto non se la sente «di escluderla. Noi da tempo consigliamo di stare alla larga da simili investimenti: il messaggio è uscire da queste posizioni».

Se ho della liquidità posso investirla su titoli sicuri?
«Chi cerca tranquilità assoluta -risponde Drusiani - può tenere i soldi sul conto corrente, sapendo però che la banca carica sul correntista stesso i costi di gestione». Quindi, si perdono soldi in conto capitale e non si difende il patrimonio dall'inflazione, seppure bassa, di questi tempi. «Se, invece - dice la Bozzetto -, si cerca un minimo di remunerazione può essere interessante guardare a titoli di stato di paesi del centro Europa: gli Oat francesi e i TBund tedeschi. Penso alle emissioni tedesche 2,25% aprile 2015, il 3,5% aprile 2013 e il 3,25% aprile 2014; oppure quelle francesi: il 4,5% luglio 2013, il 3% luglio 2014 e il 2,5% gennio 2015». «Io sono per duration più brevi - ribatte Drusiani -. Bisogna stare attenti all'eventuale rialzo dei tassi».

E riguardo ai titoli di stato italiano? «Certamente rimangono un'opzione interessante: non sono tra quelli che credono ci possano essere problemi per questo tipo di emissioni». «Penso che un'emissione come Btp, 1,7% settembre 2011 - aggiunge Drusiani - possa guardarsi». Seppure, in questi momenti di continui declassamenti da parte di S&P's sui debiti sovrani dei paesi cosiddetti periferici non si possono escludere possibili turbolenze. Peraltro, Drusiani aggiunge: «Chi va in cerca di qualche occasione in più può optare per l'equity. Le condizioni macro-economiche sono tali per cui potrebbe esserci un miglioramento della situazione nell'azionario».

I dubbi sull'azionario

«Non sono tanto daccordo - ribatte Sergio Pigoli, presidente di Pigoli consulenza-. Lo scenario rimane molto confuso. Diversi tasselli non sono al loro posto: penso, per esempio, alle azioni volte al contenimento della liquidità in Cina. E si sa, queste politiche smorzano gli entusiami sull'equity. Fino a 15 anni fa si viveva in un mondo a compartimenti stagni e, quindi, non dovevamo troppo preoccuparci di ciò che accadeva a Pechino. Adesso non è più così». Di conseguenza? «Non credo sia questo il momento di entrare sull'azionario, per chi ne è fuori. Assisteremo, penso, ad una correzione attorno al 15-20% e solo allora ci saranno occasioni giuste». E anche in quel caso, si tratta di occasioni da investitori abbastanza esperti, che fanno stock-picking. L'impostazione è condivisa da Maurizio Milano, responsabile analisi tecnica del gruppo Banca Sella: «Proprio ieri è aumentata la volatilità implicita dei mercati. Fino a lunedì, il Vix si muoveva in un range tra 15,2 e 20: nella scorsa seduta è balzato a 23. È un segnale di nervosimo del mercato in un momento in cui prevale la debolezza. Il Ftse Mib ieri ha chiuso a 22.036 punti, oggi come minimo intraday ha toccato 21.281. Fin quando stiamo sotto la soglia dei 23.000 l'impostazione è al ribasso». E di conseguenza? «Bisogna lasciare che il mercato si "sfoghi" e ceda ancora un 10 per cento. Adesso non è il momento, per chi è fuori dall'azionario e non è un trader, di entrare».

E riguardo l'oro: può essere visto come un porto sicuro?

«Anche qui sono abbastanza scettico - risponde Pigoli -. Lo scenario in cui il metallo giallo ha maggiore appeal è quello in cui c'è inflazione. Una condizione che, allo stato attuale, non è soddisfatta. Inoltre, le quotazioni sono già molto alte. Poi, si tratta di una asset class su cui la liquidità in giro entra, ed esce, con finalità speculative. Infine, quando si compra oro bisogna ricordardi che si compra, non solo una commodity, ma anche il dollaro. Con tutto ciò che ne consegue». Di diversa opinione Adrian Ash, capo della ricerca di BullionVault.com, mercato dove viene scambiato oro via Internet: «Durantele crisi valutarie, come quella che sta colpendo l'Euro, l'oro è un bene rifugio. Certo, i prezzi non sono scontati ma non credo ci sia una bolla sul metallo giallo. Inoltre voglio ricordare che, come asset fisico, l'oro non ha il rischio di fallimento di controparte. E a differenza, per esempio, dell'immobiliare è scambiato in un mercato internazionale e liquido».

L'Euro rimane una moneta di cui fidarsi?

A ben vedere anche l'euro non se la passa bene in questo momento. La divisa europea ha chiuso in Europa a quota 1,3147 dollari . Un valore che, a molti, fa chiedere se sia necessario rifugiarsi in asset denominati in altre valute. «Non la vedo così tragica - dice Mario Spreafico, responsabile investimenti di Schroder Italia -. Premesso che la "stella polare" di ogni asset class è la diversificazione, l'Euro è espressione di un'area economica che già esisteva e rappresenta la seconda economia del pianeta. Quindi, pur avendo ben presente le attuali difficoltà strutturali dell'Unione europea, non credo si possa pensare ad una "deflagrazione" del sistema».
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

Grecia in portafoglio

giovedì, 29 aprile 2010 - 16:19 - di Dario Portioli
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Il team editoriale e di analisi di Morningstar ha ricevuto in questi giorni numerose richieste di informazioni da parte di risparmiatori interessati a capire quali effetti potrebbe avere un eventuale default della Grecia. Sebbene molti operatori del mercato ritengano che lo scenario peggiore, ovvero l’insolvenza del governo ellenico, sia poco probabile nel breve termine, nell’ultima settimana i prezzi delle obbligazioni greche hanno subito un deciso calo. A tale risultato hanno contribuito i ritardi con cui l’Unione europea ha concordato un efficace piano di aiuti e il downgrading da parte dell’agenzia di rating Standard&Poor’s. Questi eventi hanno alimentato una vendita generalizzata dei titoli greci, che in verità era già iniziata da tempo, come dimostra l’andamento dello spread nei confronti dei Bund tedeschi, arrivato a superare i 1000 punti base.

Non riteniamo che coloro che investono in obbligazioni governative europee attraverso i fondi di investimento e gli Etf debbano allarmarsi in modo eccessivo. Le obbligazioni emesse dalla Grecia rappresentano una porzione modesta dell’intero universo di titoli governativi europei. Ad esempio, se prendiamo in considerazione alcuni indici del mercato obbligazionario europeo (come l'EuroMTS Global o il Barclays Euro Treasury Bond), è possibile constatare che il peso della Grecia è prossimo al 4%. Per coloro che investono in Etf che replicano questi indici (come il Lyxor ETF EuroMTS Global o l’iShares Barclays Euro Treasury Bond), l’esposizione al debito ellenico, quindi, è vicina a tale percentuale. Discorso in parte diverso vale per i fondi comuni di investimento.

L’esposizione media alla Grecia dei fondi obbligazionari Europa distribuiti in Italia è vicina al 3%. D’altra parte, come è legittimo attendersi in presenza di gestioni attive, le strategie dei singoli fondi variano all’interno di questo insieme. Così, troviamo alcuni fondi che hanno deciso già da tempo di ridurre o addirittura azzerare l’esposizione obbligazionaria verso la Grecia (come Fideuram Euro Bond Low Risk o Leonardo Obbligazionario). Altri, invece, hanno puntato al possibile recupero della nazione ellenica (come Alpi Obbligazionario Internazionale o Fondersel Reddito), superando così l’esposizione media di categoria. Chiaramente, questi due approcci, l’uno più conservativo, l’altro più audace, hanno determinato risultati diversi nel breve termine.

Le ricerche di Morningstar testimoniano che reagire alle notizie e ai singoli eventi, nel tentativo di ottimizzare il market timing , porta spesso a risultati deludenti. Questo, però, non vuol dire che non sia importante monitorare con attenzione le principali dinamiche dei mercati che possono avere effetti sul valore dei propri investimenti. Se i titoli di Stato che un tempo venivano ritenuti “tranquilli” assumono un profilo di rischio più elevato, simile a quello delle azioni, è opportuno verificare che il risultato in termini complessivi sul portafoglio sia ancora coerente con i propri obiettivi finanziari.
 

 

 

Haibao e i fondi Cina

giovedì, 29 aprile 2010 - 16:23 - di Sara Silano
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Haibao significa “tesoro del mare” ed è un tipico nome cinese portafortuna. E’ stato scelto come mascotte dell’Expo Universale che si aprirà il 1° maggio a Shanghai e durerà fino al 31 ottobre 2010. Parteciperanno 194 nazioni, che per la prima volta si sono date appuntamento in un Paese emergente, con un unico tema comune “ Better city, better life ” (città migliore, vita migliore). Il personaggio di Haibao si ispira all’ideogramma cinese che vuol dire “gente” e simboleggia la vitalità e le potenzialità dell’ex celeste impero e di quella che una volta era considerata la Parigi dell’est.

L’Esposizione universale cade in un momento di forte espansione economica. Gli ultimi dati dell’ufficio di statistica indicano un incremento del Prodotto interno lordo dell’11,9% nel primo trimestre (su base annua). E negli ultimi anni, la crescita è sempre stata elevata, rendendo il Paese uno di quelli con il maggior tasso di sviluppo a livello mondiale. La Cina è anche la nazione più popolata al mondo, 1,3 miliardi di persone che sempre più acquistano beni e servizi. Molte aziende sono cresciute, diventando leader nel continente asiatico o su scala globale. La Borsa di Shanghai ha guadagnato quasi il 40% negli ultimi tredici mesi e aveva corso molto anche tra il 2006 e 2007, ossia prima dello scoppio della crisi.

Lo sviluppo ha favorito la nascita di molti fondi specializzati sull’area. In Italia, tra il 2006 e il 2007 hanno debuttato una quindicina di prodotti, tutti di società di gestione estere, eccetto uno, che oggi hanno un patrimonio di circa 10 miliardi di euro (gli asset totali dei comparti Cina distribuiti nel nostro Paese ammontano a 17,2 miliardi). A questi si aggiungono sette Exchange traded fund quotati a Piazza Affari.

Uno studio di Morningstar rivela che questi fondi sono molto più complessi degli altri specializzati su singoli Paesi. Il loro portafoglio non è composto solo da titoli quotati a Shanghai, le cosiddette azioni “B”, ma anche da quelle negoziate ad Hong Kong o su altre Borse internazionali. Possono esserci inoltre società di Hong Kong, che realizzano la maggior parte degli affari in Cina, e di Taiwan. Il mercato domestico, infatti, è relativamente giovane e illiquido, mentre l’ex colonia britannica ha una storia finanziaria più lunga e consolidata. Taiwan è legata all’area da motivi storici ed economici.

Nel scegliere un fondo Cina, gli investitori devono considerare alcuni fattori. Il primo è la maggior volatilità rispetto ai mercati sviluppati, che è la caratteristica tipica di tutti gli emergenti. Il secondo è politico-economico ed è legato alle relazioni tra Pechino, i Paesi vicini e gli Stati Uniti (si pensi ad esempio alle proposte avanzate di tanto in tanto di porre dei limiti alle esportazioni). Il terzo, infine, è la maggior concentrazione del portafoglio (sia settoriale, sia di numero di titoli) rispetto ai comparti azionari internazionali.

“L’insieme di questi fattori fa sì che la Borsa cinese soffra di più in condizioni di mercato difficili a livello globale”, dice William Samuel Rocco, fund analyst di Morningstar. Infatti, durante l’ultima crisi finanziaria (tra giugno 2007 e marzo 2009), i fondi hanno perso in media il 60% del loro valore e il comportamento era stato analogo durante la crisi asiatica del 1997-’98. Nel corso degli ultimi 13 mesi, la categoria ha guadagnato oltre il 60%, una performance che per l’analista “non è sostenibile nel tempo”. Su un orizzonte di lungo periodo (10 anni), il rendimento medio annaulizzato è stato dell’11%, più degli Azionari internazionali large cap, che hanno registrato una perdita media annua del 3%, e degli emergenti (+5,5%). Un bel risultato, al quale però possono ambire solo gli investitori che hanno i nervi saldi per resistere alla tentazione di vendere di fronte a un -60%.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

 

  Le banche tedesche e francesi rischiano il contagio dei PIIGS

28 Aprile 2010 15:19 – di Nicola Borzi

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La Germania e la Francia non hanno alcuna convenienza a restare alla finestra mentre la crisi finanziaria rischia di mandare in default la Grecia. Il sistema bancario tedesco infatti è esposto direttamente al debito dei PIIGS (l'acronimo – offensivo – che indica Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, i paesi a maggior rischio dell'eurozona) per una percentuale stimata tra il 20 e il 23% del Pil tedesco (che è stato pari a 2.496 miliardi di euro nel 2008), dunque tra i 500 e i 575 miliardi di euro circa, mentre quello francese è esposto addirittura per il 27 - 30% del Pil (1.950 miliardi di euro), quindi per 530-590 miliardi di euro.
Le stime emergono da un report del desk newyorkese di analisi dei mercati obbligazionari di Deutsche Bank. Il rapporto, intitolato "Il rischio di credito sovrano in Europa: una nuova fase della crisi finanziaria globale 2007-2010" è stato pubblicato a febbraio e alcune delle sue osservazioni (ad esempio quelle sul servizio del debito pubblico della Grecia) sono ormai datate, a causa dell'andamento dei mercati che hanno allargato a dismisura gli spread sugli interessi pagati dal debito pubblico greco. Altre, però, restano molto attuali. E allarmanti.
I timori sono accentuati dal rischio di contagio in caso di default di un paese membro dell'eurozona, rischio che secondo gli autori del rapporto è molto elevato anche a causa dell'esposizione incrociata tra gli stessi PIIGS. I legami finanziari tra i cinque paesi più esposti sono eccezionalmente alti: in Portogallo "valgono" il 24% del Pil (40 miliardi di euro circa), in Irlanda il 34% (oltre 60 miliardi di euro). Solo l'Italia fa eccezione con "appena" il 3% del Pil, che nel 2008 era stato di 1.572 miliardi di euro, dunque 47 miliardi di euro, collegato agli altri quattro PIGS.

La Grecia malato d'Europa

È vero che si tratta di un paese minuscolo, che incide per il 2,7% sul Pil dell'eurozona, ma il suo debito pubblico "pesa" per il 4% del totale dell'area euro. Atene, ricordano gli autori dello studio di Deutsche Bank, Tom Joyce e Stefan Auer, ha un serio problema di credibilità sui dati pubblici. Il deficit fiscale del governo di George Papandreou è il dilemma: è il più alto in Europa (rivisto al 13,6% nei giorni scorsi da Eurostat, contro il 12,7% stimato in precedenza) e si associa a un elevato deficit delle partite correnti (11,9%). Da febbre alta anche il rapporto debito/Pil che la Ue stima al 115,1%, tra i più alti dell'eurozona. Al contrario, le banche greche non sembrano soffrire di problemi di patrimonializzazione, grazie a una solida base di depositi e a una dipendenza ridotta dal mercato della liquidità della Banca centrale europea.
Il fatto è che i 240 miliardi di euro di debito pubblico sono molto esposti nel breve termine (nel solo 2010 ne scadranno una cinquantina, di cui 8,5 il 19 maggio). Il costo del debito, con gli spread ai massimi storici, è ormai insostenibile.
Ma sbaglierebbe chi nell'eurozona restasse alla finestra. Le banche europee, secondo gli analisti di DB, rappresentano infatti un canale di contagio "significativo" attraverso il quale un eventuale default di Atene potrebbe scatenare un effetto domino devastante prima all'interno dei PIIGS e poi nel resto dell'eurozona. La ridotta capacità del sistema immunitario delle banche europee è dovuta agli effetti debilitanti già subiti con la crisi finanziaria, che ne ha appesantito gli stati patrimoniali per l'aumento dei crediti a rischio e ne ha ridotto gli utili di conto economico aumentando i costi di funding e del capitale in generale.
A nessuno quindi converrebbe un peccato di omissione nei confronti di Atene. La Banca centrale europea lo sa, lo sanno anche gli analisti finanziari e lo sanno pure gli speculatori che stanno scommettendo sul piano di salvataggio. Qualcuno, come il ministro delle Finanze Giulio Tremonti lo ha ricordato ai colleghi di Berlino e di Parigi. Il problema è spiegarlo ai contribuenti. Ma la comunicazione dovrà essere fatta e in fretta. E questo è il dilemma di Angela Merkel: la scadenza del 19 maggio per la prossima asta di titoli di stato greci è sempre più vicina, ma prima ci sono le elezioni in Nord Reno - Vestfalia e il cancelliere non vuole perderle.
 

 

Fonte - Sole 24 ore

 

 
 

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