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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Borse e Mercati - Opinioni

Borsa: obiettivi raggiunti, l'analisi tecnica getta la spugna

Borse e Mercati - Opinioni

Investire in una borsa che è partita come un missile

Crisi creditizia e Banche - Opinioni

Banche: se agiscono come Hedge Funds, colpevoli

Borse e Mercati - Opinioni

I listini hanno corso più dell'economia

Borse e Mercati - Opinioni

Mercati, nei prossimi tre mesi il Toro tirerà il fiato

Mercato obbligazionario - Corporate

Corporate Bond: dopo il grande rally

Borse e Mercati - Opinioni

Il boom delle borse

Crisi creditizia e processo normativo

Tagli agli stipendi: Wall Street in rivolta

Borse e Mercati - Opinioni

Wall Street: futuro tra liquidità e trimestrali

Borse e Mercati - Opinioni

Nyse e Nasdaq all'esame di chi investe per lavoro

   
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+++   ANSA   +++   Gio. 08 Ott. 2009 - Ws: TORNA A SALIRE, OK UTILI E LAVORO INDICI AI MASSIMI 2009   +++   Mer. 14 Ott. 2009 - Ws: IL DOW JONES RICONQUISTA LA VETTA DEI 10.000 PUNTI   +++   Lun. 26 Ott. 2009 - Ws: RITRACCIA PIEGATA DAL DOLLARO   +++   Ven. 30 Ott. 2009 - Ws: ONDATA DI VENDITE, OTTOBRE ROSSO   +++   ANSA   +++
 
  Venerdì 02 Ottobre 2009   Sabato 03 Ottobre 2009   Domenica 04 Ottobre 2009  
       
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  Borsa: obiettivi raggiunti, l'analisi tecnica getta la spugna

01 Ottobre 2009 15:31 BIELLA - di *Maurizio Milano

*Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

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Nuovi massimi, seguiti da prese di beneficio. Il Nasdaq Composite ha praticamente raggiunto la resistenza chiave a 2200 (nuovo massimo 2009 il 23.09 a 2167,70; +71,2% dai minimi di marzo), obiettivo finale del bear market rally. È in atto un ripiegamento verso il supporto a 2035, la cui rottura segnalerebbe perdita di spinta. Nuovo picco anche per il Dow Jones Industrial, che supera di poco i massimi dell’ottobre 2008 in area 9650/800 e sfiora quota 10000 (nuovo massimo 2009 il 23.09 a 9917,99; +53,2% dai minimi di marzo), per poi indietreggiare. L’indice è arrivato molto vicino all’obiettivo finale a 10350 (anche se non si possono escludere estensioni verso la resistenza chiave ad 11000). Perdita di spinta al di sotto di 9500. Nuovi massimi anche per lo S&P500, che raggiunge sostanzialmente l’obiettivo indicato, la resistenza critica a 1100 (nuovo massimo 2009 il 23.09 a 1080,15; +62% dai minimi di marzo). È in atto un ripiegamento verso 1015, la cui rottura darebbe un segnale di perdita di spinta; debolezza sotto 995, con obiettivo il forte supporto a 975.

Su tutt’e tre gli indici, vista la prossimità degli obiettivi, il focus deve spostarsi sulla protezione degli utili accumulati nel passato semestre più che sul conseguimento di nuovi profitti. Si nota infatti un certo "affaticamento" dei listini che, pur continuando a salire, stanno perdendo grinta. Il bear market rally dura da oltre 6 mesi, senza correzioni degne di nota, ed anche la rotazione settoriale, con spostamenti sempre più veloci tra i vari comparti, non può fare miracoli. Il continuo flusso di notizie positive sul fronte dell’economia reale è insufficiente ad attirare nuovo denaro per spingere con decisione i listini. Anzi, paradossalmente, questo rinnovato ottimismo – un po’ forzato, forse – si accompagna proprio alla perdita di spinta dei mercati, cosa che non ci stupisce per nulla, anzi.

Il fortissimo recupero delle Borse dell’ultimo semestre è la risultante del venir meno dei rischi di implosione finanziaria a livello mondiale innescati dal fallimento di Lehman nel settembre dello scorso anno. Fu questa paura, più che le previsioni di recessione, a fare sprofondare l’azionario, nelle due ondate dell’ottobre-novembre 2008 e del gennaio-febbraio 2009. L’abbondante liquidità riversata sui mercati, gli ingenti stimoli fiscali e straordinari salvataggi pubblici hanno scongiurato il peggio, consentendo ai mercati azionari di risalire verso i livelli pre-Lehman. Al raggiungimento di questi obiettivi (qualche punto percentuale prima o dopo, difficile essere più precisi), non ci sono ragioni valide perché la salita delle Borse debba continuare. Una ripresa a "V" dell’economia reale sembra davvero un po’ ottimistica, ed in ogni caso le dinamiche dell’azionario richiedono per lo meno una lunga fase di riaccumulazione – meglio ancora uno storno significativo (tra il 10 ed il 20 per cento, per intenderci) – prima che possa iniziare un mercato Toro vero e proprio.

Per le prossime sedute scatterebbe un campanello d’allarme qualora l’indicatore di volatilità implicita "Vix" (al momento a ridosso di 25-26) dovesse superare la resistenza in area 29,00/60; una conferma di rinnovate tensioni si avrebbe poi al di sopra della resistenza critica in area 33-34,60. Al momento non ci sono segnali in tal senso. È tuttavia opportuno tenere d’occhio costantemente questi livelli, perché se dovessero venire superati al rialzo scatterebbero molte vendite sui mercati azionari.

Siamo giunti al punto in cui l’analisi tecnica deve cedere il passo al money management: nessuna sa con certezza cosa potrà capitare nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Motivazioni di sana prudenza nella gestione del rischio, tuttavia, impongono di proteggere i forti utili accumulati per chi ha "cavalcato" il più bel rally da molti anni a questa parte. Poi si vedrà.
 

Fonte - xxx

 

 

 

  Investire in una borsa che è partita come un missile

01 Ottobre 2009 00:18 LUGANO - di Alfonso Tuor

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Mai nella storia la Borsa americana ha corso così tanto in un lasso di tempo così breve (circa sei mesi): infatti dall’inizio dello scorso mese di marzo l’indice azionario S&P 500 è salito di circa il 60%. Il rialzo è stato nettamente superiore e più rapido rispetto a quelli verificatisi dopo il crollo di Wall Street del 1932 e dopo lo scoppio della bolla dei titoli tecnologici avvenuta all’inizio di questo decennio.

All’inizio il rimbalzo delle borse era facilmente comprensibile: la paura di una seconda Grande Depressione aveva fatto cadere i mercati azionari. Le borse avevano quindi tirato un grande sospiro di sollievo quando alla fine dello scorso mese di febbraio la nuova amministrazione Obama aveva salvato Citigroup, la maggiore banca del mondo, dalla bancarotta e quando all’inizio del mese di aprile il G20 aveva ufficialmente confermato che si sarebbe fatto il possibile e anche l’impossibile per evitare il fallimente di un grande gruppo bancario e una crisi valutaria di qualsiasi Paese. Queste rassicurazioni hanno ridato fiducia alle borse, trainate al rialzo proprio dai titoli del settore finanziario che erano stati falcidiati nei mesi precedenti. Ma il rimbalzo dei mercati azionari si è via via trasformato in un rally senza precedenti che pone numerosi interrogativi.

Gli attuali corsi azionari sono compatibili solo con una forte ripresa dell’economia mondiale. Ad esempio, è stato calcolato che i prezzi delle azioni americane anticipano e sono sostenibili solo se l’anno prossimo vi sarà una crescita del 4% dell’economia statunitense. Se si escludono alcuni Paesi emergenti, non vi sono segnali di una forte ripresa economica. Addirittura alcuni dati sulla crescita del PIL devono essere presi con le pinze. Infatti, come sostiene Anantha Nageswaran della Julius Bäer, queste cifre sono positive solo perché vengono corrette tenendo conto del fatto che l’inflazione è negativa. In questo modo si oscura la realtà di una domanda ancora in forte contrazione.

Ad esempio, l’economia australiana è cresciuta nel secondo trimestre dell’anno dello 0,6% rispetto al primo solo grazie al fatto che i dati in termini reali del PIL sono stati aumentati per tener conto di una diminuzione dei prezzi che ha raggiunto il 2,2%. Inoltre, ed è ciò che più conta, la stabilizzazione dell’economia è in gran parte dovuta solo a misure di politica economica di carattere eccezionale che non possono essere continuate ancora per molto tempo.
Analogo discorso può essere fatto per valutare lo stato di salute del sistema bancario, risorto a nuova giovinezza grazie al cambiamento delle regole contabili che non obbligano più a iscrivere a bilancio i titoli tossici a prezzi di mercato.

Ma c’è di più: se si vanno ad analizzare i bilanci delle banche americane, come ha fatto l’economista della Julius Bäer, si scopre che le sofferenze (il volume dei crediti per i quali i debitori sono in forte ritardo nel pagamento degli interessi) stanno crescendo molto più rapidamente degli accantonamenti. La conclusione è che il volume delle perdite nascoste nei bilanci delle banche continua ad aumentare. Ciò dovrebbe creare non poca apprensione, dato che secondo il Fondo monetario internazionale il sistema bancario dovrà nei prossimi mesi raccogliere circa 1.700 miliardi di dollari per rispettare i requisiti minimi sui fondi propri.

Le borse non sembrano però curarsi di questi dati di fatto e continuano a salire spinte da un costo del denaro ai minimi storici e dalla grande quantità di liquidità immessa dalle banche centrali nel sistema bancario. Questi soldi, come mettono in evidenza le statistiche delle banche centrali, non vengono usati per elargire nuovi crediti e per far ripartire l’economia, ma circolano nei mercati finanziari e stanno producendo una nuova pericolosa bolla, destinata prima o poi a scoppiare.

Questa tesi è confortata dal comportamento prevalente oggi tra gli investitori. Sono pochi quelli che investono in azioni, poiché ritengono che i mercati debbano ancora salire. Sono invece in molti a ritenere che questo rally non durerà. Questi ultimi sostengono che bisogna cavalcare questa fase di rialzo, poiché gli altri strumenti di investimento non offrono rendimenti adeguati ed aggiungono subito che si sono protetti o che sono pronti a vendere immediatamente le loro azioni quando il mercato comincerà a scendere.

Si tratta di un comportamento caratteristico di ogni bolla finanziaria, che si scontra sempre con lo spiacevole dato di fatto che non è facile vendere azioni quando tutti vogliono vendere, se non accettando perdite elevate. Il momento della resa dei conti per le borse non sembra comunque vicino, ma più il mercato salirà più lo scoppio di questa nuova bolla costerà molto non solo agli investitori, ma all’intera economia.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

Siamo davvero usciti dalla depressione dei titoli bancari?

Monday, 01 October, 2009 at 9:41 - by John Christian Falkenberg
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La tabella sottostante potrebbe servire a chi pensa che le azioni bancarie siano di nuovo un investimento tranquillo, dopo il rally di Marzo. Secondo alcuni, l’intervento governativo dell’ultimo anno avrebbe riportato il sistema bancario ad un minimo di equilibrio, e quindi alleviato i sintomi, se non risolto il problema alla radice della crisi bancaria.
Come si può notare, una sola regione ha raccolto più capitale di quanto ne servisse per pareggiare le perdite del 2008-2009: l’Asia. Praticamente ovunque, invece, i governi e le imprese stanno ancora cercando di recuperare le perdite annunciate. Tutto ciò che non possono essere finanziate attraverso i mercati obbligazionari o tramite finanziamento pubblico già scricchiolante dovrà venire da aumenti di capitale, creando pressioni sui mercati azionari.

 

  Global write-downs and credit losses versus capital raised, to date  
     
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Una lettura ottimistica della tabella di cui sopra presuppone inoltre che le svalutaizoni sui crediti siano finite e che non vi saranno ulteriori perdite di venire da, diciamo, mutui residenziali, prestiti agli studenti, prestiti auto, prestiti sulle carte di credito. Si presume anche che le banche banche non stiano diciamo così stiracchiando la realtà sul reale stato del proprio bilancio, come è invece avvenuto negli ultimi anni. Per quanto riguarda l’economia mondiale, gli investitori in tutto il mondo vedono il rally dei mercati azionari , se misurato dai minimi di Marzo – e deducono che la battaglia è finita. In un certo senso, la battaglia è finita: Lehman è stata sacrificata ma sotto tutti gli altri aspetti, le banche hanno vinto, e tutti gli altri hanno perso.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Banche: se agiscono come Hedge Funds, colpevoli

02 Ottobre 2009 03:39 MILANO - di Mauro Bottarelli

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«Se alcune banche hanno deciso di non utilizzare le obbligazioni governative è una loro libera scelta ma non fanno bene il loro mestiere. Il mestiere delle banche è fare soldi con la finanza o fare la banca e dare i soldi alle imprese? È sicuramente un mestiere difficile soprattutto in una fase di crisi più che nella normalità. Ma se continuano a far soldi con la finanza, stanno solo preparando la prossima crisi». Parole e musica di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia, all'indomani della decisione di Unicredit e Intesa-San Paolo di non avvalersi dei Tremonti-bond.

Il nodo della crisi e della fase recessiva che essa ci ha regalato e che ora stiamo vivendo, cari lettori, è tutta qui. Il problema, infatti, è posto male fin dal principio: non bisogna impegnarsi nel rendere la vita impossibile agli hedge funds, ma fare in modo che le banche non agiscano come loro, ovvero come fondi speculativi invece che come erogatrici di credito e gestrici del risparmio. Anche perché ciò che attende le banche dietro l'angolo dell'autunno è tutt'altro che chiaro.

L'altro giorno, infatti, il Fondo monetario internazionale ha abbassato le proprie stime rispetto le svalutazioni globali degli istituti di credito, scendendo da 4 a 3,4 trilioni di dollari, ma questo non significa che stia arrivando il sereno: primo, perché all'orizzonte è ora ufficialmente confermato che siano in avvicinamento altri 1,3 trilioni di svalutazioni e secondo perché la crisi reale sarà, con l'aumento della disoccupazione a livello globale, basata sui mutui e i prestiti.

«La situazione sta migliorando ma i rischi di un altro cambio repentino della situazione sono alti», rendeva noto l'Fmi. Inoltre, se le riserve paiono generalmente in grado di garantire la sopravvivenza delle banche anche in caso di forte picco di crisi, i mancati introiti o comunque la capacità limitata di creare profitto a fronte delle svalutazioni certe peserà ancora per un anno e mezzo, scrive sempre l'Fmi. A questo, poi, va unito il dato che vede quasi tutti gli analisti Usa ed europei concordi nel prevedere una contrazione del 17% nel mercato borsistico a ottobre: non certo uno shock ma questo rally "liquidity driven" è durato un po' troppo e ha quasi certamente creato una bolla che lascerà molti con il cerino in mano.

Per quanto infatti i soldi pompati da governi e organismi internazionali abbiano creato entusiasmo negli investitori, c'è il forte rischio che molti soggetti si siano esposti eccessivamente e rotto le cautele dell'hedging a fronte di una leva di leverage spropositata posta in essere di nuovo per fare profitti in fretta e sfruttare il momento. Guarda caso, i soggetti maggiormente indiziati di aver dato vita a questa seconda fase di costruzione della crisi, come accennava giustamente il ministro Tremonti, sono proprio le banche: qui come altrove.

Che dire delle sdegnose scelte di Barclays di accettare il sistema di protezione o quelle di Lloyds di volerne uscire? E questo vale anche per Commerzbank, seduta su 101 miliardi di euro di titoli tossici eppure pronta a ridare parte dei fondi ottenuti dal governo tedesco. Strana velocità di ripresa in periodo di crisi dell'economia reale, davvero strana.

Siamo alla "bolla di crisi", ovvero un eccesso di denaro statale che ha fatto la gioia di banche e fondi speculativi, gettatisi a capofitto sui mercati - nonostante gli scarsi volumi e i book non liquidissimi - per sfruttare a più non posso il rally e con questa scelta, perpetuata anche grazie alle decisioni assistenzialiste di molti governi e alle scelte della Fed, lo hanno prolungato artificialmente.

Attenzione, la correzione dei corsi potrebbe fare vittime, anche eccellenti, non solo feriti. Non è un caso che Goldman Sachs parli di questo periodo come di un nuovo ottobre 1999, ovvero un periodo in cui lanciarsi nell'investimento sfrenato di titoli sottostimati grazie proprio all'eccesso di liquidità che sta spingendo il sistema.

E infatti, stando a una tabella contenuta nell'ultimo report di Goldman Sachs, vediamo che dal 9 marzo di quest'anno - inizio del mercato del toro - a guadagnare maggiormente sulle piazze europee sono stati i titoli di settore a fortissimo rischio, ovvero assicurativi e bancari, cresciuti rispettivamente del 66% e del 62%; al terzo posto, ma con una crescita "solo" del 30%, i titoli del settore minerario.

Questa crisi, stando ai numeri, non ha proprio insegnato nulla alle banche. Anzi, le ha rese ancora più avide perché timorose di venire rimesse in carreggiata e costrette a fare il loro lavoro. Quando quindi Tremonti parla di gestazione di una nuova crisi dovuta a decisioni come quelle prese dai board di Intesa-San Paolo e Unicredit non sbaglia. Anzi, ci vede lungo e temo sia molto preoccupato.

Anche perché al di là delle nuove svalutazioni all'orizzonte, l'inverno porterà con sé il rischio di default nell'Est Europa, mercato dove moltissimi banche europee sono pesantemente esposte: un domino che parta, ad esempio, dall'Austria potrebbe risultare un grattacapo non da poco non solo per i governi ma soprattutto per Bce ed Ecofin.

Speriamo di eccedere con le cautele e con i timori, ma i dati che giungono dai mercati parlano chiaro e nonostante possa non piacere la logica degli aiuti di Stato - personalmente non mi piace - le decisioni delle principali banche Ue di smarcarsi dai piani di protezione governativi per poter sguazzare ancora sulle strade della speculazione sono quantomeno criminogene: ne va, infatti, non solo del bene comune ma della tenuta stessa del sistema. Tenuta che questo autunno caldo di recessione e disoccupazione galoppante metterà di per sé già parecchio a rischio.
 

Fonte - IlSussidiario.net

 

 

 

  Martedì 06 Ottobre 2009   Mercoledì 07 Ottobre 2009   Giovedì 08 Ottobre 2009  
       
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  I listini hanno corso più dell'economia

03 Ottobre 2009 12:44 MILANO - di Walter Riolfi

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Con un ribasso finale di un modesto 0,46%, ieri Wall Street ha mostrato di sentirsi paga da una correzione del 4% dai massimi di due settimane fa. Come se i 263mila posti di lavoro persi a settembre, 62mila più di agosto e 83mila più delle attese, fossero un incidente già scontato dal mercato; come se il calo del 2,6% degli ordini di beni durevoli (dato rivisto al ribasso rispetto alla scorsa settimana) fosse già nei prezzi di borsa. Una correzione del 4% sarebbe più che sufficiente a pareggiare le delusioni provocate nelle ultime due settimane dall'attività manifatturiera che cresce meno del previsto, da un mercato immobiliare che non riprende, per quanto abbia smesso di peggiorare, da vendite di auto ben sotto le previsioni e da una disoccupazione destinata ad crescere nei prossimi mesi. Può darsi che il comportamento di Wall Street sia giustificato dalla prospettiva di una rapida e vigorosa ripresa (a forma di "V"), come scommette il mercato e come suggerisce l'Ecri, l'istituto Usa che studia il ciclo economico e il cui indicatore ha dato buone prove nel segnalare l'attuala e le precedenti recessioni. «È estremamente improbabile che si dissolva nei prossimi mesi il recupero dell'economia Usa», ha scritto ieri l'Ecri, ribadendo un concetto espresso la scorsa settimana: ossia che la ripresa statunitense «è ben lungi dall'essere fragile».

Dopo il 9 marzo, quando le borse smisero di precipitare, c'era la sensazione che si fosse toccato il fondo: perché i i titoli finanziari erano diventati carta straccia, oltre ogni ragionevole considerazione, e perché ci si immaginava la possibile fine della recessione nei successivi sei-nove mesi. Come succede in questi casi, il risveglio dei mercati finanziari e prezzi un po' più alti hanno finito per migliorare l'umore di investitori e consumatori e, apprezzandosi un poco anche le attività delle banche, i loro bilanci sono apparsi meno disastrosi. La scommessa di Wall Street s'è rivelata giusta e i livelli del 9 marzo scorso rappresentano probabilmente un minimo che non dovrebbe essere più rivisto. Ma salendo l'S&P del 58% in poco più di sei mesi (e trascinando del 56% anche lo Stoxx europeo), i listini hanno pure scommesso su una rapida e forte ripresa economica, come quelle viste dopo le recessioni degli ultimi 30 anni. Anzi su un recupero ancor maggiore, poiché un tale rimbalzo degli indici non era mai avvenuto in passato: non dopo le crisi del 1974 e del 1982 e nemmeno dopo i disastri del 1932.
C'è una forte probabilità che questa volta l'economia mondiale, e soprattutto quella statunitense ed europea, non ripartano ai ritmi visti nell'ultimo trentennio e che il futuro ci riservi una crescita ridotta. Non la depressione seguita al 1930, ma un Pil Usa che aumenta del 2-3% all'anno, la metà di quanto visto nel recente passato. Suggeriscono questo scenario l'elevato livello d'indebitamento delle famiglie, l'esplosione del debito pubblico (che impedirà ai governi di stimolare l'economia), minori investimenti privati, una leva finanziaria che non dovrebbe più ripetere le follie di due o tre anni fa e, alla fine, una minore crescita degli utili societari. È lo scenario dipinto a inizio estate (e ribadito recentemente) da Bill Gross, il numero uno di Pimco: «La nuova normalità per i prossimi 10 anni e forse anche per i prossimi 20».

È interesse di Gross, si dirà, essere pessimista, visto che Pimco è il maggior gestore obbligazionario del mondo. Ma uno scenario di crescita lenta e sotto la media è tracciato anche dagli esponenti della Fed e tra i più ottimisti si parla di «percorso accidentato», come ha detto ieri Sandra Pinalto. Mentre Eric Rosengren dichiara apertamente che «la ripresa rimane fragile e suscettibile di deludere le aspettative». E, infine, anche l'amministratore delegato di General Electric (una delle maggiori multinazionali con 300mila dipendenti sparsi nel mondo) sposa la tesi di Gross: «Ci sono ragioni per credere che questa ripresa potrebbe rivelarsi diversa da quelle passate», e potrebbe prospettarsi la «più lenta tra quelle succedute dopo gli anni '70».
Quanto al mercato immobiliare, in pochi si fanno illusioni. Robert Shiller (Yale University) sostiene che probabilmente s'è toccato il fondo, ma che resterà stagnante per altri cinque anni. E Goldman Sachs stima addirittura la possibilità di un peggioramento per gli immobili commerciali. Infine sono gli stessi costruttori a segnalare un nuovo rallentamento degli ordini a settembre. E cosa succederà, si chiedono gli economisti, quando verranno meno gli incentivi del governo all'acquisto della prima casa e quando la Fed finirà di comperare cartolarizzazioni sui mutui per sostenere il mercato? E l'economia in generale riuscirà a procedere da sola una volta che la Fed e le altre banche centrali smetteranno di pompare liquidità a costo quasi zero?
Dopo sei mesi di rialzi, Wall Street non è affatto a buon mercato. Il «Financial Times» sospetta una nuova bolla speculativa, visto che l'S&P tratta a un multiplo di 18,7 volte la media degli utili degli ultimi 10 anni. In ogni caso l'indice è valutato 17,6 volte gli utili attesi nel 2009 (dati Thomson Reuters) e 13,9 quelli 2010: in entrambi i casi è tutt'altro che sottovalutato. E se le stime degli analisti dovessero peccare ancora per eccesso di ottimismo? Va notato che il consenso sugli utili stimati per il terzo trimestre indicava un calo del 20-21% tra luglio e agosto; ma il dato era sceso a -22% a metà settembre ed è caduto a -24,7% nell'ultima rilevazione. In settimana l'S&P ha perso l'1,84% (-2,05% il Nasdaq) e lo Stoxx il 2% (-2% Francoforte, -2,4% Parigi, -1,6% Londra, -1,9% Milano).
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

ROUBINI: CORREZIONE IN BORSA TRA POCHE SETTIMANE

05 Ottobre 2009 13:04 NEW YORK - WSI
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L'economista Nouriel Roubini ritiene probabile una "correzione" delle piazze borsistiche nell'ultimo trimestre dell'anno o a inizio 2010. In un'intervista all'edizione online di The Wall Street Journal, l'economista della New York University afferma che una parte dei rialzi messi a segno di recente dalle Borse è dovuta a dati economici concreti.
Tuttavia, aggiunge, che "è successo tutto così presto e così in fretta da farmi pensare che si discosti dai fondamentali economici sottostanti". I mercati, ha continuato Roubini, "stanno scontando una ripresa a forma di V ed è necessario, invece, che inizino a prendere in considerazione piuttosto una ripresa a U, quindi, per questa ragione ci potrebbe essere una correzione nel quarto trimestre di quest'anno o all'inizio dell'anno prossimo".
E' comunque un dato di fatto che l'economia Usa è migliorata significativamente dal panico finanziario di fine 2008, ha ammesso Lawrence Summers, consulente economico del Presidente, Barack Obama, che però preferisce ancora essere cauto perché il continuo deterioramento del mercato del lavoro appanna la prospettiva. "Abbiamo fatto molta strada rispetto a dove eravamo l'inverno scorso" ha sottolineato ma, ha aggiunto, "non siamo nella posizione di dichiarare vittoria".
Il tasso di disoccupazione negli Usa, balzato al massimo degli ultimi 26 anni (9,8% della popolazione attiva), secondo gli esperti continuerà ad aumentare ancora prima che le cose comincino a migliorare di nuovo. "Avrei molta difficoltà, "ha detto ancora Summers, "ad accettare l'idea che l'economia statunitense non ritrovi il potenziale per svilupparsi molto velocemente".
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

Gestori, per i mercati è tempo di una pausa

05-10-09 - Sara Silano
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Il rally delle Borse perde forza. Secondo i gestori, interpellati da Morningstar nel consueto sondaggio sulle previsioni di mercato per i prossimi sei mesi, nel breve potrebbe esserci una pausa, prima che i mercati ritrovino le energie per ripartire. Le valutazioni dei titoli azionari non destano particolari preoccupazioni e la liquidità nel sistema finanziario è abbondante, ma il quadro economico deve ancora consolidarsi.

L’Europa tenta il salto del guado
A settembre, alcuni indicatori macro, come il Pmi (Purchase manager index) che è considerato un barometro dell’andamento congiunturale, hanno superato il livello considerato come spartiacque tra recessione e ripresa. Tra gli imprenditori la fiducia è tornata a crescere, grazie anche al risveglio del commercio internazionale. E’ convinzione diffusa, comunque, che il quadro macro rimanga modesto. Sul fronte degli utili, un’azienda su due ha riportato dati superiori alle attese nell’ultimo trimestre e i gestori sono convinti che il momento favorevole possa continuare. Gli ottimisti sulle Borse del Vecchio continente sono stabili rispetto a settembre (50%), mentre sono aumentati sensibilmente i fund manager che prevedono che i mercati non si discosteranno dagli attuali livelli (40% contro il 23% del mese scorso).

Usa, ripresa duratura?
Wall Street ha saltato il muro dello scetticismo legato alla crisi finanziaria, ma ha bisogno di convincersi che la ripresa è solida. L’uscita dalla recessione dipende soprattutto dalla domanda domestica, che resta debole a causa dell’elevato tasso di disoccupazione. Sul fronte degli utili, tre aziende su quattro hanno sorpreso in positivo, ma il forte rally degli ultimi mesi rende il mercato vulnerabile a possibili dati macro deludenti. Per questa ragione, la percentuale di gestori che si attende un apprezzamento della Borsa americana è scesa dal 47 al 35%, mentre è aumentata quella dei manager che prevedono un’oscillazione attorno agli attuali livelli.

Tokyo a fine corsa
La Borsa nipponica ha guadagnato circa il 50% dai minimi di marzo e i gestori non credono ci siano motivi per un ulteriore apprezzamento. Le trimestrali del periodo aprile-giugno sono state migliori delle attese, ma difficilmente riusciranno ancora a sorprendere in positivo. Dal punto di vista macro, il cambio di governo dovrebbe favorire i consumi privati rispetto alla spesa pubblica e alla difesa a beneficio della crescita economica. In attesa di vedere i risultati del nuovo corso politico, i gestori preferiscono puntare su altre aree geografiche. A ottobre, il Giappone è il mercato con il più alto numero di pessimisti (30%) contro il 35% che si dice ottimista.

All’Asia manca l’Occidente
Nell’area del Pacifico, i Governi continuano a sostenere l’economia in attesa che riparta la domanda Occidentale di beni di importazione. I tempi potrebbero essere lunghi, soprattutto negli Stati Uniti dove i consumatori sono poco propensi a spendere e preferiscono risparmiare. Esistono dubbi sulla capacità di ripresa basata sugli stimoli statali, tuttavia i Paesi asiatici hanno una situazione di bilancio migliore dell’Europa e degli Usa per cui possono protrarre queste misure più a lungo. Sul fronte degli utili, la discesa è stata minore rispetto a quella delle imprese occidentali e la redditività superiore. Inoltre, il sistema finanziario è più solido. Per queste ragioni l’area è favorita dai gestori: il 65% prevede un apprezzamento dei listini nei prossimi sei mesi contro il 5% che si attende un calo.

Non si spegne la domanda di bond
Le ultime emissioni di titoli di Stato e societari sono state collocate senza problemi, nonostante l’abbondanza di offerta sul mercato primario. I gestori non prevedono variazioni dei tassi di interesse fino alla seconda metà del prossimo anno, sia in Europa sia negli Stati Uniti. In questo contesto, la maggior parte degli intervistati è convinta che i prezzi rimarranno stabili attorno agli attuali livelli.

Euro, la corsa continua
Il consensus sul dollaro rimane negativo. Per il 45% dei gestori, l’euro continuerà ad avere la meglio sul biglietto verde e difficilmente la tendenza si invertirà, dal momento che una divisa debole sostiene la bilancia commerciale e la ripresa americana. Inoltre, i flussi di capitale tra Stati Uniti e resto del mondo tenderanno a tornare alla normalità dopo che molti americani hanno rimpatriato i capitali in seguito alla crisi finanziaria. Il rapporto di cambio potrebbe mantenersi intorno a 1,46 almeno fino a fine anno.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 6 e il 13 ottobre, 20 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aletti Gestielle, Allianz Global Investors Italia, Banca Finnat-New Millenium sicav, Banca Profilo, Euromobiliare AM Sgr, Bipiemme Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr, Fideuram Investimenti, Henderson Global Investors, Ing IM Asset Management, JC&Associati Sim, M&G Investments, Pictet, Pioneer Im, Prima Sgr, Sgam, Swiss&Global AM Sgr, Threadneedle, Total Return, Vontobel.
 

Fonte - MorningStar

 

 

 

 

 

  Mercati, nei prossimi tre mesi il Toro tirerà il fiato

05 Ottobre 2009 15:17 MILANO - di Maria Adelaide Marchesoni e Valeria Novellini

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I mercati azionari nelle ultime sedute hanno mostrato un andamento tendenzialmente negativo. Sono prevalse le vendite sulla scia di dati macro, ma in realtà le ragioni sono state prevalentemente tecniche: questi storni erano attesi dagli operatori.
Nell'ultimo trimestre i mercati azionari hanno infatti registrato variazioni positive comprese tra il 15 e il 20% con il mercato italiano in pole position. In particolare l'Ftse Mib ha evidenziato un rialzo del 23 per cento. Nonostante questi recuperi però il mercato italiano nell'ultimo anno presenta ancora una variazione negativa compresa tra il 7 e l'8 per cento. In tale ambito l'andamento migliore, negli ultimi dodici mesi, è stato quello delle società a media capitalizzazione, che presentano un saldo in sostanziale pareggio.
Cosa si aspettano gli operatori per l'ultima parte dell'anno?
Per i prossimi tre mesi l'intonazione rimane complessivamente positiva, ma con elevate probabilità di alcuni storni di breve periodo, considerando che le attese sul fronte macro evidenziano un trend per lo meno non peggiorativo. Sul mercato continua a non mancare la liquidità, ma gran parte di questa sta gradualmente indirizzandosi verso il mercato dei corporate bond nel quale si attendono a breve anche consistenti (nell'ammontare) emissioni destinate al mercato retail (vedi il caso Enel) dopo il positivo test dei numerosi titoli rivolti agli investitori istituzionali.

In proposito vi sono molte attese verso le caratteristiche del bond unrated annunciato in questi giorni da Campari per osservare se in questo caso sarà riconosciuto un tasso superiore a quello dei bond con rating emessi nei mesi scorsi da altre società di primario standing.
Tornando ai mercati azionari, a livello settoriale in Europa particolare attenzione sarà ancora riservata al settore automotive in previsione degli incentivi che probabilmente saranno rinnovati anche nel 2010 (sebbene con modulazioni diverse da quelli ora in vigore). Tuttavia l'appeal per il settore auto dovrà confrontarsi con il progressivo adeguamento della capacità produttiva alle nuove richieste del mercato, che non potranno essere sostenute indefinitamente dagli incentivi.
Interessante sarà osservare anche il settore bancario, in via di guarigione, ma ancora con la necessità di effettuare rafforzamenti patrimoniali e comunque penalizzato da una tuttora debole qualità del credito. Al momento la reazione dei mercati agli annunci delle operazioni sul capitale è positiva. Tuttavia questa dinamica sarà da verificare al momento dell'effettiva richiesta di nuovi mezzi al mercato, quando potrebbe anche verificarsi uno storno dei corsi.
Nell'ambito del settore bancario Intesa Sanpaolo si è contraddistinta per non aver scelto un rafforzamento patrimoniale diretto, bensì un'emissione obbligazionaria ibrida. Questa in realtà potrebbe anche essere considerata una "soluzione ponte" in attesa di verificare l'entità e la tempistica delle attese cessioni delle attività non strategiche. Queste operazioni saranno poste in essere, sebbene di entità meno rilevanti, anche dalla "rivale" UniCredit che ha invece scelto la strada dell'aumento di capitale in partenza a gennaio 2010.
Sul fronte energetico, le quotazioni del petrolio sembrano essersi stabilizzate attorno ai 70 dollari, a un livello sufficiente per consentire gli investimenti ma non tale da sostenere la speculazione. Pertanto i titoli del comparto presentano elementi di interesse solo nel medio lungo periodo.
In sintesi, il clima in Europa rimane di moderato ottimismo in attesa di una ripartenza che potrebbe essere definitivamente confermata dal ritorno delle operazioni di collocamento, negli ultimi mesi pressoché assenti e nettamente surclassate dai molto più numerosi delisting; indice, questo, di perdurante diffidenza nei confronti dei mercati azionari. (Analisi Mercati Finanziari)
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Sabato 10 Ottobre 2009   Lunedì 12 Ottobre 2009   Martedì 13 Ottobre 2009  
       
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  Corporate Bond: dopo il grande rally

Friday, 16 October, 2009 at 9:30 - by phastidio

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Nel corso del 2009 negli Stati Uniti le società hanno collocato oltre 1000 miliardi di dollari di corporate bond contro gli 873,2 miliardi del 2008 ed il record di 1170 miliardi del 2007, sfruttando i bassi tassi ed il sostegno governativo per rafforzare le posizioni di liquidità aziendale dopo la “gelata” del credito dello scorso anno. Citigroup e General Electric sono stati i maggiori emittenti dell’anno, secondo le statistiche dell’agenzia Bloomberg. Secondo molti osservatori, le politiche fiscali e monetarie accomodanti costituiscono un ambiente propizio per l’asset class. Gli investitori obbligazionari che hanno convertito i propri portafogli verso il credito sono stati premiati per il rischio assunto.
Secondo l’indice Merrill Lynch US Corporate & High Yield Master Index, gli spread sui corporate in senso lato (Investment Grade ed High Yield) quest’anno si sono finora stretti di 4,5 punti percentuali. Usando questo indice i corporate bond, incluso il reinvestimento dell’interesse, hanno reso quest’anno il 23 per cento, miglior risultato dal 1997. Andamenti analoghi si sono verificati in Europa.
Lo scorso anno, come noto, la Federal Reserve ha tagliato il proprio tasso di riferimento sui Fed Funds ad un corridoio compreso tra zero e 0,25 per cento, dopo che il governo ha creato programmi per liberare credito nel corso della peggiore crisi dalla Grande Depressione. Le società finanziarie hanno collocato 192 miliardi di dollari nel corso del 2009, nell’ambito del Temporary Liquidity Guarantee Program (TLGP), che ha aperto un nuovo canale di finanziamento per le banche che da settembre 2007 avevano visto chiudersi i mercati del debito. Il TLGP implica la garanzia del Tesoro degli Stati Uniti sulle emissioni obbligazionarie da esso coperte, assicurando alle stesse il rating sovrano, cioè la tripla A.

Le condizioni di tassi in precipitoso ribasso e di garanzie pubbliche hanno determinato mutamenti qualitativi e quantitativi della domanda degli investitori, che si sono progressivamente spostati da emissioni di elevata qualità e a breve scadenza, ad altre di minore qualità e scadenza media e lunga, capitalizzando sull’effetto congiunto della riduzione dei tassi e degli spread. Il differenziale tra i rendimenti delle obbligazioni investment grade e le emissioni del Tesoro statunitense è sostanzialmente tornato ai livelli medi del 2007. Gli spread per le emissioni high yield, invece, sono tuttora di circa 2 punti percentuali più ampi rispetto ai livelli medi di quell’anno.
L’effetto congiunto del forte restringimento degli spread ed il livello storicamente basso dei rendimenti dei titoli di stato significa che in questo momento le aziende non finanziarie sono in grado di indebitarsi sul mercato del debito a livelli prossimi ai minimi storici assoluti. E’ molto importante evidenziare, infatti, che avere rendimenti dei corporate bond intorno ai minimi storici non significa necessariamente che i medesimi siano divenuti costosi. Il rendimento di un’obbligazione corporate può essere considerato infatti come la somma del rendimento di un titolo privo di rischio e di un credit spread. I credit spreads, cioè il differenziale di rendimento tra un’obbligazione societaria ed il corrispondente titolo di stato di pari scadenza, sono oggi a livelli che normalmente si associano ad una recessione severa.

 

  Corporate bond and dividend yield gap  
     
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Investire in un titolo obbligazionario corporate investment grade presenta due tipologie di rischi, quello di tasso d’interesse e quello di credito, rappresentato dal credit spread. La persistenza di incertezze su momento ed intensità della ripresa, i rischi deflazionistici e le politiche accomodanti delle banche centrali dovrebbero impedire una rapida risalita dei rendimenti di mercato nel breve-medio termine (rischio di tasso), anche se in questo periodo è in corso un dibattito piuttosto vivace sulle cosiddette exit strategies, le misure da intraprendere per rimuovere lo stimolo fiscale e monetario utilizzato per fronteggiare la crisi, mentre l’ipotesi di ripresa, la forte liquidità presente nel sistema finanziario globale e la ripresa della propensione al rischio mantengono sufficientemente protettivo il livello raggiunto dai credit spreads.

Tra le fonti di domanda per le obbligazioni corporate possiamo quindi citare da un lato gli investitori privati ed istituzionali, alla ricerca di un rendimento più sostanzioso di quello dei titoli di stato, mentre dal versante dell’offerta è utile segnalare, oltre alla provvista di fondi a costo contenuto (sostitutiva del credito bancario e, negli Stati Uniti, delle emissioni di carta commerciale), anche la possibilità di una ripresa dell’attività di fusioni ed acquisizioni tra imprese industriali. Oggi, un emittente industriale di rating A può indebitarsi a rendimenti intorno al 3,3-3,6 per cento sulla scadenza quinquennale. Con rapporti prezzo-utile (P/E) intorno a 12, ciò significa che il rendimento degli utili, cioè l’inverso del P/E, è intorno all’8 per cento. Da questo ampio differenziale di rendimento (3,5 per cento per il costo del debito contro l’8 per cento del capitale azionario) deriva la “convenienza” ad indebitarsi, emettendo corporate bond ed utilizzare i ricavati dell’emissione per riacquisto di azioni proprie, pagamento di dividendi straordinari od operazioni finanza straordinaria quali fusioni ed acquisizioni.
Tra gli elementi che inducono alla cautela sull’asset class, segnatamente in Europa, vi è il differenziale tra il rendimento a scadenza delle obbligazioni non finanziarie investment grade ed il dividend yield sull’indice Eurostoxx 50. Tale differenziale è passato da un massimo di 2 punti percentuali a meno di mezzo punto percentuale. Il restringimento di tale differenziale potrebbe indurre gli investitori a riconsiderare l’investimento in crediti rispetto a quello azionario, anche alla luce della liquidità relativa dei due mercati (maggiore nell’azionario).

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

Bank of America, prima delusione dalla earning season

Friday, 16 October, 2009 at 13:43 - by John Christian Falkenberg
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Dopo gli ottimi risultati di JPMorgan e Goldman Sachs, i risultati deludenti di Bank of America ci ricordano che i problemi del settore finanziario americano sono tutt’altro che finiti.
La banca ha perso 1 miliardo nel terzo trimestre del 2009, equivalenti ad una perdita di 0.26 dollari per azione, su ricavi di 26 miliardi di dollari. Le attese degli analisti erano di 27.7 miliardi di dollari di ricavi e di una perdita di soli 7 centesimi per azione.
Al contrario delle altre due grandi banche che hanno già riportato, Bank of America non ha un’attività di trading tanto imponente da poter compensare con la speculazione sui mercati le perdite sui crediti concessi ad aziende e consumatori americani. Insomma, se a Wall Street il diluvio di moneta stampato dalla Fed e i maxi-aiuti di Obama hanno fornito ampie opportunità di profitto, poco ha giovato all’attività economica sul territorio.
Il panorama bancario americano si sta segmentando sempre più: da un lato esiste una netta cesura fra le banche troppo grandi per fallire, generosamente sostenute e sussidiate dal governo anche a spese di istituzioni più piccole, ma più sane, e le piccole banche regionali, che continuano a fallire e ad essere commissariate dall’FDIC. Dall’altro, anche fra i giganti esistono i vincenti, ossia JPMorgan e Goldman Sachs, ed i perdenti come Citigroup e Bank of America. I perdenti sono banche che si sono espanse a tutti i costi, anche con acquisizioni discutibili ed hanno prestato poca attenzione ai livelli di capitale proprio durante gli anni del boom. Fra i vincenti, abbiamo due istituzioni con profili alquanto differenti, anche se entrambe ben collegate al potere politico ed in rapporti fin troppo stretti con le autorità di vigilanza. JPMorgan sta emergendo vittoriosa grazie alla propria prudenza, alla diversificazione fra banca d’affari e banca commerciale e ad una discreta efficienza nel controllo dei costi. Goldman Sachs è ancora la regina, grazie soprattutto a risultati da trading che hanno quasi dell’incredibile, oltre che ad una reputazione poco edificante di commistione con il potere politico al limite dell’insider trading macroeconomico: è vero che la banca non aveva bisogno dei fondi del TARP, ma è altresì vero che il livello di connivenza con il Tesoro americano e la Fed è andato oltre il livello di guardia in più di un’occasione.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

BANCHE: OCCHIO ALLA NUOVA ONDATA DI SVALUTAZIONI

19 Ottobre 2009 13:48 SIENA - Mirko Porciatti
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Tassi di interesse: in area Euro i tassi di mercato hanno chiuso la sessione contrastati, in rialzo sul tratto a breve ed in calo sul lungo termine a fronte di un calo dei listini azionari. Il differenziale 2-10 anni si è portato a 187pb, mentre quello sul decennale Italia-Germania a 88pb da90. Bini Smaghi, membro della Bce, in un suo intervento ha dichiarato che potrebbe essere imminente un’altra ondata di svalutazioni bancarie. Malgrado i recenti segnali di miglioramento del mercato finanziario, restano ancora numerosi i rischi e l’incertezza e per questo le banche dovrebbero rafforzare il loro patrimonio di base onde evitare che il recupero dell’economia possa essere danneggiato.
Tumpel-Gugerell si è invece focalizzata sulla strategia di uscita della Bce, dichiarando che l’istituto sarebbe pronto a ritirare le proprie misure di stimolo quando necessario (ma non è ancora il momento) e che i tempi di implementazione potrebbero essere diversi tra Europa ed Usa. Il presidente di Barclays ha dichiarato che le banche UK saranno danneggiate se i regolatori implementeranno rigidamente le misure di riduzione dei bonus e dei requisiti di capitale.
Questo poiché se gli Usa restano negligenti in tal senso, si potrebbe creare una sorta di "arbitraggio legislativo" che favorirebbe le banche di paesi meno rigidi nell’implementazione di tali misure. Oggi non sono attesi dati di rilievo, gli operatori resteranno in attesa dell’apertura dei mercati statunitensi. Sul decennale governativo la resistenza si colloca in area 3,32-3,35%. Negli Usa i tassi di mercato sono saliti sulla parte a breve e calati sul lungo in un contesto caratterizzato da dati macro contrastanti e borse in calo. Lo spread 2-10 anni si è attestato a 246pb da 251. Sul fronte macro la produzione industriale di settembre ha evidenziato un aumento maggiore delle attese (+0,7% m/m dal +1,2% di agosto, rivisto al rialzo dallo 0,8%) mentre il dato relativo alla fiducia dei consumatori calcolata dall’università del Michigan è calato in modo inatteso in ottobre (69,4 da 73,5).
Questa notte il governatore della Fed Bernanke ha evitato di commentare circa i tassi e l’andamento dell’economia in un discorso di apertura alla conferenza della Fed di San Francisco. Il governatore terrà un altro discorso nel pomeriggio ed il prossimo venerdì. Durante la settimana sono attesi numerosi interventi da parte di vari membri della Fed aventi ad oggetto l’outlook economico. A Wall Street i pubblici ministeri stanno investigando su un giro di operazioni di insider trading che coinvolgerebbero gestori di hedge fund, avvocati ed altre figure del settore. Venerdì è stato arrestato Rajaratnam, fondatore di Galleon Group, in quello che i pubblici ministeri hanno definito il maggiore caso di insider trading che coinvolge un gestore alternativo. Per oggi sul decennale la resistenza si colloca al 3,50%.
 

Fonte - MPS Capital Services

 

 

PETROLIO: BARILE SFONDA $80 MA ANALISTI SCETTICI

20 Ottobre 2009 15:39 NEW YORK - APCOM
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Il rally dei prezzi non sembra trovare giustificazioni nei fondamentali del mercato. Numerosi i fattori dietro la corsa ma il livello di scorte diesel e' troppo alto per credere in un proseguimento del rialzo.
Il barile di petrolio prosegue la sua corsa, fino a superare brevemente la soglia psicologica degli 80 dollari sul mercato di New York, anche gli analisti continuano a mettere in guardia da questo rally dei prezzi, che non trova giustificazioni nei fondamentali di mercato. Le ultime spinte al rialzo sono state innescate dai dati trimestrali giunti dalle grandi società quotate, ieri sera Apple ha riferito di utili superiori alle attese, così come Texas instruments. Allo stesso tempo anche la perdurante debolezza del dollaro - la valuta co cui si scambiano tutte le materie prime - sostiene i prezzi, oggi l'euro ha sfiorato quota 1,5.
Ma appunto questi sviluppi non hanno implicazioni dirette sugli aggregati di produzione e domanda di petrolio, si limitano a sostenere il clima di euforia generale dei mercati. "Questo rally non è basato sui fondamentali. Deriva unicamente da rinnovati appetiti sulle prese di rischio", afferma Jonathan Kornafel, direttore per l'Asia della Hudson Capital Energy. "I capitali cercano qualche canale di rendimento".
Stamattina, durante gli scambi elettronici sul New York Mercantile Exchange, il barile di West Texas Intermediate ha toccato un picco a 80,05 dollari, nuovo massimo da inizio anno. Successivamente queste spinte al rialzo si smorzano, e a metà mattina in Europa i futures in prima consegna calano di 47 cents rispetto alla chiusura di ieri, con il barile a 79,14 dollari. Nel frattempo a Londra il barile di Brent, il petrolio del mare del Nord cala di 36 cents a 77,41 dollari.
Sempre oggi anche il Financial Times mette in guardia dai rischi che gravano su queste inattese impennate dei prezzi. Le scorte dei paesi consumatori sui prodotti distillati sono a livelli massicci e "potrebbero deragliare l'impennata del greggio - dice il quotidiano -: i prezzi sono aumentati ma il nascente rally potrebbe naufragare tra fiumi di diesel".
A sostenere i prezzi è una combinazione di fattori, si legge, tra la speranza che il peggio della crisi sia passato, dati trimestrali migliori delle attese dalle grandi società Usa; l'arrivo della stagione invernale nell'emisfero nord - in cui si assiste a un aumento ciclico della domanda di prodotti petroliferi - e infine la debolezza del dollaro.
Tuttavia, in una pagina di analisi, il quotidiano finanziario esamina l'andamento delle scorte e dei consumi di diesel, il carburante che è una sorta di cartina di tornasole sulla dinamica dell'attività economica. I consumi dovrebbero aumentare, ma allo stesso tempo l'elevata consistenza delle scorte potrebbe contenere gli aumenti dei prezzi. Negli Usa le scorte di distillati 'medi', che includono il diesel per autotrazione e il gasolio da riscaldamento, sono ai massimi da decenni.
"Possiamo giustificare il rally del petrolio, ma non possiamo crederci", avverte in un rapporto JP Morgan. Secondo l'Agenzia Internazionale dell'energia, le scorte offshore euroepee di prodotti raffinati sono aumentate del 25 per cento a settembre. E livelli ai massimi storici si registrano anche in Asia, come a Singapore.
 

Fonte - APCOM

 

 

 

 

 

  Il boom delle borse

22 Ottobre 2009 15:40 MILANO - di Giuseppe Turani

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Fino a qualche mese fa chi aveva investito soldi in Borsa era convinto di averli gettati in un cratere fumante e di averli definitivamente persi. Le cose, poi, si sono girate, come si sa. E ci sono stati rialzi importanti, anche del 30-50 per cento. In realtà, tutto ciò non è servito a recuperare il terreno perso, ma insomma, il cratere fumante, se non altro, si è spento. E le quotazioni sono tornate a muoversi, lasciando intravedere la possibilità di recuperare quei soldi che si davano ormai per bruciati, svaniti, persi dentro il grande fuoco della crisi.

Adesso sui mercati circola una voce secondo cui il tempo del recupero potrebbe essere ancora più vicino di quello che si pensa. Si dice, in sostanza, che prima della fine dell’anno c’è da attendersi un boom di Borsa, forse anche più consistente dei rialzi visti fin qui. L’unica avvertenza che conviene ripetere è che con le Borse non si sa mai quello che può davvero succedere e che anche i ragionamenti in apparenza più logici alla fine vengono smentiti. Infine, i primi dati sui bilanci del terzo trimestre mostrano che il recupero degli utili è molto selettivo (non tutte le aziende ci riescono in uguali misura). E questo lascia immaginare che anche il boom di Borsa, se ci sarà davvero, sarà molto selettivo. Non basterà, insomma, comprare a caso, ma bisognerà sapere esattamente quello che si fa.

Ma ecco le ragioni dei fan del prossimo boom. Sono tre in tutto:

1- Al primo posto vengono messi gestori dei fondi di investimento e delle fortune private. Negli ultimi due anni tutta questa gente ha profondamente deluso i propri clienti (ai quali hanno fatto perdere montagne di soldi). E’ del tutto evidente che adesso abbiano voglia di chiudere un’annata (il 2009) in grande bellezza, con performance all’altezza dei vecchi tempi. Denaro e amicizie non mancano, e quindi si ritiene che faranno un tentativo molto serio per dare una spinta ai listini, anche al di là di quello che sarebbe giusto. Dal loro punto di vista quello che conta è fare bella figura con i clienti in modo da non perderli. In molti sono convinti che il loro tentativo alla fine avrà successo: bene o male, queste sono le "mani forti" dei mercati finanziari. Perché non dovrebbero farcela?

2- La seconda ragione per un eventuale recupero rapido delle quotazioni sta nel fatto che gli utili delle aziende (sia pure in misura difforme) stanno tornando. Non tutto è andato a fuoco dentro il cratere fumante e c’è chi sta tornando a fare utili apprezzabili e, soprattutto, in crescita trimestre dopo trimestre. Quindi perché non sperare in un rialzo dei listini che anticipi il recupero dei profitti, ormai giudicato inevitabile?

3- Infine, c’è il terzo e ultimo motivo: il basso rendimento dei titoli di Stato e delle obbligazioni in genere. Il mondo (proprio a causa della crisi) è pieno di liquidità (cioè di soldi), ma nel reddito fisso tutto questo denaro ha rendimenti assolutamente ridicoli. Perché allora non puntare qualche gettone sull’azionario? E’ vero che negli ultimi due anni si sono prese bastonate orribili. Ma quelli, ormai, erano altri tempi. Adesso si può tornare a rischiare.

Questi ragionamenti convincono anche operatori di solito molto prudenti e molto attenti, a riprova del fatto che sui mercati finanziari il vento è davvero cambiato. Ciò che ancora sei mesi fa era assolutamente proibito (investire sulle azioni), adesso viene invece consigliato. La grande macchina si è rimessa in moto e quindi investire sul capitale delle corporations non è più un errore, ma anzi una scelta consigliata. Solo che, si avverte, i recuperi aziendali (e quindi i rialzi di Borsa) saranno molto, ma molto selettivi.

E quindi bisogna stare molto attenti a quello che si fa. Anzi, i più prudenti consigliano di non lasciare del tutto il reddito fisso, ma di mediare con le azioni. Insomma, è meglio avanzare con una piattaforma larga piuttosto che mettere tutte le mele nello stesso cesto.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Giovedì 15 Ottobre 2009   Sabato 17 Ottobre 2009   Martedì 20 Ottobre 2009  
       
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  Tagli agli stipendi: Wall Street in rivolta

22 Ottobre 2009 23:30 NEW YORK - di WSI

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Privilegi difesi coi denti. I top manager delle piu’ importanti societa’ Usa, come Citi, BofA e AIG, non ci stanno. Rabbia furiosa ("e' una stupidata") per la decisione presa da Obama di tagliare del 50% gli stipendi dei grandi ricchi.
La decisione dell’amministrazione Obama di porre un freno agli stipendi dei dirigenti delle aziende americane si e’ attirata le critiche di Wall Street, con un gruppo di istituti finanziari tra cui Bank of America che si ribella, giudicando le misure un duro colpo per le stesse societa’ che gli Stati Uniti stanno cercando di salvare.

"La gente vuole lavorare per noi ma vuole anche essere pagata quanto si merita", ha commentato in un'intervista rilasciata a Bloomberg Scott Silvestri, un portavoce di Bank of America, banca che ha ottenuto $45 miliardi di fondi governativi. "Le concorrenti hanno identificato i nostri migliori elementi e stanno approfittando dei timori sul fronte degli stipendi per tentare di assumerli offrendo loro retributi adeguati al mercato".

Kenneth Feinberg, il membro del Dipartimento del Tesoro incaricato di prendere decisioni in questioni riguardanti gli stipendi, ha annunciato di aver ordinato tagli in busta paga in media del 50% ai manager di societa’ tra cui Bank of America, Citigroup e AIG.

La Federal Reserve, agendo in tandem con il governo, ha stabilito linee guida che hanno lo scopo di rendere le compensazioni delle banche piu’ legate alla gestione del rischio.

Inoltre le misure messe a punto hanno l’obiettivo di strozzare le pratiche che vengono definite dall’amministrazione Obama rischi eccessivi fuori controllo, alimentati da stipendi esageratamente elevati.

Il collasso del mercato creditizio che ne e’ scaturuito ha provocato la crisi finanziaria che tutti conosciamo, che a sua volta ha portato a oltre $1.600 miliardi di perdite, a innumerevoli svalutazioni in tutto il mondo e 7.2 milioni di licenziamenti.

In un intervento tenuto venerdi' a Washington Feinberg ha spiegato che il vero obiettivo era quello di "trovare un equilibrio ideale tra l'insoddiffazione della gente con le decisioni di principio sulle compensazioni che placheranno le proteste, attireranno talento e faranno si che le societa' prosperino in modo da poter pagare il contribuente".

Stuart Grant, investitore e managing director di Grant & Eisenhofer PA non ha dubbi. "Quello che avrebbe dovuto accadere e' semplice: il CdA di queste societa' avrebbe dovuto fissare compensazioni appropriate sia a livello di dimensioni, che di bonus che di rischi intrapresi. "E' orribile, ma era inevitabile e la dannata colpa e' tutta loro" e di nessun altro.

Il settore finanziario resta uno di quelli piu’ lucrativi per i top manager. Anche dopo l'ordine di ridurre gli stipendi, 66 dei dirigenti delle sette societa' le cui compensazioni sono finite sotto la lente di Freinberg potranno contare su una compensazione a lungo termine di almeno $1 mlione. BofA, ad esempio, paghera' i suoi top manager una media di $6.04 milioni quest'anno.

Tali cifre sono ritenute esagerate da una schiera di parlamentari, primo fra tutti il senatore Democratico Christopher Dodd, presidente del comitato bancario: "Per la gente di Wall Street concedere pacchetti di compensazione oltraggiosi, nel bel mezzo di una recessione, con soldi che sono stati prelevati dai contribuenti, e' semplicemente osceno".

Intanto l'amministratore delegato di AIG, il colosso assicurartivo di New York salavato dal governo con aiuti complessivi pari a $182 miliardi, Robert Benmosche ha provveduto a rassicurare i propri dipendenti, rendendo loro noto che non saranno costretti dall'amministrazione Obama a restituire i soldi che hanno gia' ricevuto.

"Il Signor Feinberg non ha giurisdizione sulla gran parte dei dipendenti di AIG", ha sottolineato in settimana Benmosche in un memo ai lavoratori della compagnia di assicurazione. C'e' da dire che Feinberg aveva gia' approvato il pacchetto di compensazioni di Benmosche da $10.5 milioni.

Alcune banche, come Goldman Sachs, stanno gia' cambiando le politiche salariali. Le riduzioni decise da Feinberg nella porzione di contanti degli stipendi dei dirigenti si applica solo alle compensazioni guadagnate dai dipendenti nel periodo compreso tra novembre e dicembre e verranno comunque riviste all'inizio dell'anno prossimo.

Feinberg ha aggiunto che il suo obiettivo non e' quello di ottenere indietro gli stipendi o i bonus che sono gia' stati pagati. I taglim anche se riguarderanno solo due mesi, sono importanti perche' sono il punto di partenza da cui avviare le trattative sugli stipendi dell'anno prossimo.

Tra le proteste alla decisione di ridurre gli stipendi, una delle piu' pesanti arriva da Kenneth Langone, confondatore di Home Depot ed ex membro del board della Borsa di New York, il New York Stock Exchange. "I tagli agli stipendi sono una stupidita' bella e buona", dice Langone, precisando che "i contribuenti hanno un rischio finanziario enorme in queste societa' e, per dirla semplice, io voglio sempra la persona migliore. Se avessi bisogno di un neurochirurgo, vorrei il miglior dottore che riesco a trovare, non importa quanto poi lo dovro' pagare".
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

BOND IN YUAN, BOOM CON PRIMA EMISSIONE ESTERO

22 Ottobre 2009 20:01 NEW YORK - WSI
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La prima emissione di bond governativi in yuan emesso dalla Cina fuori dalle frontiere ha fatto subito il pieno: richieste per 18 miliardi a fronte dei 6 mld disponibili. E le autorita' lanciano un nuovo avvertimento alle banche per...
La prima emissione di bond governativi in yuan emesso dalla Cina fuori dalle frontiere è stata un successo. Lo ha reso noto il ministero delle Finanze di Pechino, spiegando che molti investitori sono corsi a Hong Kong (ex colonia britannica divenuta regione amministrativa speciale nel settembre 1997) contribuendo ad alimentare la domanda per tre volte il volume disponibile. Le richieste hanno raggiunto quota 18 miliardi di yuan mentre Pechino ha emesso effetti per 6 miliardi (circa 590 milioni di euro). Solo gli istituzionali sono stati autorizzati a sottoscrivere buoni a cinque anni (tasso del 3,3%). Sul mercato sono stati piazzati anche titoli biennali (2,25%) e triennali (2,70%), rivolti anche dagli investitori privati.
Ma per le banche arriva una stretta. Le autorità cinesi, intanto, lanciano un nuovo deciso avvertimento alle banche del Paese affinché si preparino a un possibile cambiamento dell'attuale politica monetaria ultra-accomodante (che è alla base del rally borsistico: +64% l'indice Msci Cina contro il +35% del Msci Asia Pacifico) ponendo grande attenzione alla gestione dei prestiti sofferenti presenti nei loro libri contabili. L'ultimo avviso in ordine di tempo è giunto oggi da Liu Mingkang, presidente della China Banking Regulatory Commission, cioé la principale agenzia statale di controllo sul sistema bancario del paese. Le banche, ha detto Liu in un comunicato pubblicato sul sito, devono essere «ragionevoli» nelle loro attività di prestito e devono proteggersi da un aumento dei prestiti sofferenti.
Proprio il sistema bancario è protagonista l'attuale fase di forte crescita dell'economia. Accogliendo l'invito di Pechino a sostenere la ripresa, le banche hanno aperto drasticamente i loro forzieri e nei primi nove mesi del 2009 hanno già erogato nuovi prestiti per 1,27 miliardi di dollari, cioé il 75% in più di tutto il 2008. «I rischi sono accresciuti di pari passo con l'aumento del credito - ha detto Liu - e ora dobbiamo assicurarci che venga posta effettiva attenzione alla gestione di questi rischi». La scorsa settimana un primo avviso era giunto direttamente dal presidente della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan. In un discorso, il governatore aveva spiegato che la politica monetaria accomodante abbracciata dalla Cina era stata una risposta necessaria alla crisi finanziaria globale ma che non poteva continuare indefinitamente. E lo stesso Zhou, aveva invitato le banche ad accantonare almeno il 150% del valore dei propri prestiti sofferenti.
A causa della grande quantità di nuovo credito concesso, la percentuale di prestiti sofferenti è in realtà scesa, stando alle statistiche ufficiali, all'1,66% dal 2,42% della fine del 2008. Un eventuale deterioramento del nuovo credito concesso diventerà dunque evidente solo nel corso dei prossimi anni quando i finanziamenti giungeranno a maturità. Ma la lezione degli ultimi due anni insegna che occorre agire per tempo per evitare che il dubbio su alcuni asset a rischio coinvolga anche le altre classi di attivi. «Occorre stabilire rapidamente e perfezionare sistemi di gestione del rischio - ha detto Liu - e occorre porre grande attenzione ai possibili impatti sulla liquidità dei flussi di capitali internazionali, dei trend macroeconomici e delle variazioni di politica monetaria». Domani la Cina pubblicherà la sua prima stima sull'andamento del Pil nel terzo trimestre e gli economisti si attendono una crescita dell'8,9% su base tendenziale.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

«Le banche si dividano» Il piano di King e Volcker

22 Ottobre 2009 09:02 MILANO - Mario Platero
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NEW YORK - Banche al servizio del pubblico o pubblico al servizio delle banche? Il dibattito infuria con toni polemici accesi e ieri è giunto a un punto di rottura: due giganti del "servizio pubblico", Paul Volcker consigliere di Obama in materia di riforma e Mervyn King, il governatore della Banca d'Inghilterra hanno chiesto di tornare alla vecchia separazione delle attività di banca d'investimento da quelle della banca commerciale, un'anatema sia per Wall Street che per Canary Wharf. «Il salvataggio di molte istituzioni ha prodotto il più grande caso di azzardo morale nella storia - ha detto King - di fatto oggi la situazione resta invariata ed è nel nostro interesse collettivo ridurre la dipendenza di così tante famiglie e aziende da così poche istituzioni che si lanciano in operazioni altamente rischiose. Il caso per una revisione della struttura delle banche è molto forte». E ha aggiunto: «È difficile conciliare il fatto che vi sono istituzioni troppo grandi per poter fallire (e che dunque godono dell'appoggio incondizionato dello stato, ndr) con il fatto che operano nel settore privato».
King non ha voluto fare proposte specifiche né ha chiesto un immediato smembramento delle quattro grandi banche britanniche, ma il suo messaggio è chiaramente in quella direzione. Gordon Brown ha subito preso le distanze dal suo governatore mentre George Osborne, che diventerà il ministro delle finanze se i conservatori vinceranno le elezioni ha detto di essere d'accordo con il Governatore. Entrambi, in sintonia quasi "coordinata", chiedono che in futuro nessuna istituzione sia «troppo grande per poter fallire» e suggeriscono un ridimensionamento delle attività di molte delle più grandi istituzioni nazionali. Un appello accorato e razionale sotto molti punti di vista visto che l'ultima crisi è esplosa per la sottoscrizione di rischi eccessivi e ha poi messo in ginocchio le economie mondiali.
«Le banche esistono per servire il pubblico ed è quello su cui si dovrebbero concentrare. Le altre attività provocano conflitti di interessi e rischi. E se si cerca di controllare questi rischi con una supervisione più mirata si creano frizioni e difficoltà e alla fine si fallisce», ha detto Volcker in uno sfogo pubblico inusuale per lui, "civil servant", ex governatore della Fed fra il 1979 e il 1987, sempre molto discreto. «Non batto il pugno sul tavolo, ma esprimo il mio punto di vista». Il suo appello per avere banche al servizio del pubblico richiama la posizione di molti economisti, politici e di buona parte dell'opinione pubblica, secondo cui istituzioni come Goldman Sachs ritengono invece che il "pubblico" sia al loro servizio. Proprio Goldman è riuscita ad ottenere garanzie federali simili a quelle delle banche commerciali, ricade ormai sotto l'ombrello della Fed, ha ottenuto fondi dello stato attraverso la Aig per il rimborso dei Cds e oggi sfrutta al massimo il carry forward grazie a bassi tassi di interesse che dovrebbero sostenere la crescita economica. Secondo le stime avrebbe già stanziato 23 miliardi di dollari da distribuire in bonus ai propri dipendenti. Secondo Volcker, che resta tuttavia non ascoltato alla Casa Bianca su questo punto, Jp Morgan Chase dovrà rinunciare alle attività di trading che hanno ottenuto con l'acquisto di Bear Stearns. Bank of America e Merrill Lynch dovrebbero tornare ad essere separate e Goldman Sachs dovrà rinunciare allo status recente di Bank Holding Company.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

BORSA IPERCOMPRATA? SI, MA NESSUN CALO IN VISTA

23 Ottobre 2009 01:30 NEW YORK - WSI
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Assisteremo ad una correzione ma non ad una seconda fase ribassista. Gli utili societari stanno mostrando segnali di miglioramento, ma gli investitori non si accontentano. Fondamentale vedere una crescita della domanda nel quarto trimestre.
Negli ultimi giorni si e' assistito ad un'elevata volatilita' in Borsa, dopo che gli investori hanno digerito una serie di risultati societari contrastanti, e le notizie giunte dal comparto finanziario relative alle perdite sui prestiti.

Bob Doll, vice presidente e CIO globale dell'azionario per BlackRock, e' convinto che "i mercati hanno reagito bene [alle notizie trimestrali] fino a lunedi'" e che "le linee guida di alcune societa' dicono che le attivita' stanno migliorando, ma che non e' sufficiente, la gente ha bisogno di qualcosa di piu'". In un'intervista concessa all'emittente americana CNBC, Doll spiega che proprio per questo motivo i mercati stanno dando qualche segnale di stanchezza.

Se da un lato gli utili societari stanno mostrando evidenti segnali di miglioramento, in particolare grazie alla crescita del fatturato, Doll sottolinea pero' che la maggior parte del merito va all'offerta, e non tanto alla domanda, che invece "e' quello che abbiamo bisogno di vedere migliorare. Speriamo questo avvenga nel quarto trimestre".
Nel frattempo - sottolinea sempre Doll - nonostante il mercato sia leggermente ipercomprato, "assisteremo ad una correzione senza che si apra necessariamente un fase ribassista. Finche' la ripresa e' cosi' timida, le autorita' faranno di tutto perche' l'economia torni a crescere con decisione".

Ma gli investitori possono dormire sonni tranquilli, almeno stando alle previsioni di Doll: una seconda recessione non e' nell'aria. "Ci saranno momenti in cui il mercato fara' fatica, ma ritengo che ci troviamo in un punto di miglioramento, lento ma evidente".
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

Timori di bolla creditizia, stress test per le banche cinesi

23 Ottobre 2009 13:23 PECHINO - Il Sole 24 Ore
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Mutui subprime in salsa cinese? Forse non siamo proprio a questo punto. Ma di certo le autorità di vigilanza sul settore creditizio del paese asiatico sono allertate. Non si spiegherebbe altrimenti la decisione, di cui ha dato notizia il China Securities Journal, di ordinare degli stress test per le banche commerciali. Il timore infatti è che queste ultime si siano fatte prendere troppo la mano negli ultimi mesi, approfittando delle politiche di stimolo varate in questi mesi.
I bassi tassi d'interesse hanno contribuito, come riportato dalla Banca centrale cinese, a far crescere il credito del 34,16% rispetto all'anno scorso. Nei primi nove mesi dell'anno i nuovi crediti erogati hanno raggiunto la quota record di 8,67 mila miliardi di yuan (circa 1,27 miliardi di dollari). Questo ha contribuito a far crescere il Pil più del previsto (+8,9%). Soprattutto il settore dell'edilizia, trainato da mutui immobiliari che hanno toccato la stratosferica cifra di 1,84 mila miliardi di yuan.
L'altra faccia della medaglia riguarda però i timori sulle possibili conseguenze del «credito facile» (che nel caso americano hanno dato il via alla recessione più pesante dal secondo dopoguerra). I rischio più temuto è quello di una bolla immobiliare (e la crescita consistente dei prestiti per l'acquisto di case è il campanello d'allarme). Ma c'è anche da considerare il rally della Borsa cinese. Lo Shanghai composite index è salito di oltre il 70% in un anno e sono diversi i commentatori a valutare questa performance come frutto della speculazione. C'è infine l'incognita inflazione. Un problema che in realtà hanno tutte le banche centrali che in questi mesi hanno adottato una politica monetaria espansiva per far fronte alla stretta creditizia.

 

  Offerta di moneta, variazione percentuale annua  
     
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Tutti guardano alla Cina come alla locomotiva che trainerà l'economia mondiale fuori dalla crisi. Lo scoppio di un'altra crisi finanziaria con epicentro Pechino pero' rischia di vanificare queste speranze. Non è escluso quindi che la Banca centrale cinese rialzi i tassi d'interesse nel 2010. Sono in molti a scommetterci.
E poi ci sono gli stress test a cui la China Banking Regulatory commission vuole sottoporre gli istituti di credito. Un po' come aveva fatto la Federal Reserve americana, che nei mesi scorsi infatti aveva messo sotto la lente di ingrandimento i libri contabili dei maggiori istituti di credito. Il dato che allarma è la crescita delle sofferenze sui prestiti. La percentuale è salita dallo 0,76% dall'anno scorso, all'1,66%. Il dato di per se non è così allarmante. Ma potrebbe diventarlo, specie se si scoprisse che le banche non sono state così trasparenti nel registrarle. In una nota ufficiale del 16 di ottobre poi, la China Banking Regulatory commission si è raccomandata maggiore rigore nel segnalare, alla voce svalutazioni, i crediti in sofferenza e gli scoperti da conto corrente. È di pochi giorni fa un'altro invito alle banche a prestare il loro soldi «con ragionevolezza», e a mantenere stabile il loro coefficiente di patrimonializzazione.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Crisi: 106 banche Usa fallite in 2009, record dal 1992

24 Ottobre 2009 09:31 NEW YORK - ANSA
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(ANSA) - NEW YORK, 24 OTT - Il bilancio delle banche Usa vittime della crisi si allunga, nonostante i segnali di stabilizzazione e ripresa dell'economia. Nel 2009 sono 106 gli istituti di credito falliti negli Usa, di cui sette solo nelle ultime ore. Mai dal 1992 si era superata quota 100 fallimenti in un solo anno. Anche se si tratta per lo piu' di istituti regionali di piccole dimensioni, il crescente numero di fallimenti continua a testimoniare le difficolta' ancora presenti. Dopo la chiusura di venerdi' di Wall Street le autorita' americane hanno annunciato ora dopo ora la chiusura di ben sette banche, di cui tre in Florida, uno degli Stati maggiormente colpiti dalla crisi e dove il mercato immobiliare, in lieve ripresa in piu' aree degli Usa, continua a soffrire. Poco dopo la fine degli scambi la Fdic ha comunicato di aver chiuso Partners Bank, la banca numero 100 dall'inizio dell'anno a gettare la spugna: i suoi 64 milioni di dollari di depositi e i 65,5 milioni di dollari di asset sono stati ceduti a Stonegate Bank, che ha rilevato anche i depositi di Hillcrest Bank Florida, altro istituto crollato nelle ultime ore. Il titolo di maggiore fallimento delle ultime ore va a Bank of Elmwood, istituto con 327,4 milioni di dollari di asset e 273,2 milioni di dollari di depositi. (ANSA).

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

  Wall Street: futuro tra liquidità e trimestrali

26 Ottobre 2009 15:13 MILANO - di Vittorio Carlini

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L'S&P500? «Non dovrebbe crollare - risponde Laurea Solei, responsabile team azionari gestioni patrimoniali di Banca Sella- . Possibile, comunque, l'avvio di una fase consolidamento». «Il momento resta positivo - fa da eco Giovanni Vietti, responsabile equity di Allianz Gi Italia Sgr -. Il paniere potrebbe salire del 5-10% entro fine anno». Christian Blaabjerg, chief equity strategist di SaxoBank specifica: «Nel breve periodo dovrebbe andare anche oltre quota 1.121. Poi però, chiusa la stagione delle trimestrali, ritraccerà: discesa verso 1.050 punti». Insomma, da qui a fine anno gli esperti consultati dal Sole24Ore.com rimangono in generale «ottimisti sulle prospettive della Borsa Usa», come sottolinea Carla Scarano, portfolio manager azionario di Bipiemme gestioni sgr. Forse, «più incerta è la situazione nel 2010, anno in cui il meglio degli stimoli di politica economica sarà alle spalle», dice Marco Piersimoni, Investment advisors di Pictet Fund.

Tuttavia, «l'enorme massa di liquidità immessa nei mercati - aggiunge Giorgio Giovannini, country manager Italia di Henderson Global Investors - è il pilastro fondamentale del rialzo delle Borse fino a fine anno». Tutti d'accordo, quindi? Manco per ridere. Quando, infatti, si discute se l'S&p500 sia più o meno caro, le posizioni divergono. Così come non c'è unanimità sull'affidabilità di fondamentali e multipli aziendali.

Il ritorno ai fondamentali
Dimenticato in fondo ai bilanci e sostituito nelle analisi dal più "favorevole" profitto operativo (le società chiudevano spesso in rosso), l'utile netto è di nuovo al centro dell'attenzione degli esperti. Thomson Reuters ha alzato le stime di consensus sull'Eps del paniere di Wall Street: nel terzo trimestre 2009, il calo rispetto allo stesso periodo del 2008 sarà del 22,6% è non più del 24,6 per cento. In termini assoluti vuol dire un profitto aggregato di 137,7 miliardi di dollari, contro i 177,8 dello scorso anno. «La spinta al rialzo - scrive Thomson Reuters -è dovuta essenzialmente all'ottima profittabilità del settore finanziario». E qui il dubbio sorge spontaneo: come attribuire rilevanza a un simile dato, visto che le banche fanno gran parte dei profitti grazie al trading e ai derivati, cioè le attività messe sotto accusa nella crisi? «La critica è valida - risponde Scarano -. Tuttavia, anche epurando i dati del settore finanziario le stime rimangono buone». «Nel quarto trimestre - fa da eco Solei - potremmo rivedere la crescita positiva degli earning, seppure attorno all'1 per cento. Un eventuale punto di svolta che, dopo nove quarter negativi, sarebbe molto rilevante».

Già rilevante. Diversi esperti, però, sollevano un'altra obiezione. Le aziende hanno posto in essere drastiche politiche di taglio dei costi, cercando sinergie ovunque: gli utili, spesso, mostrano più la capacità di razionalizzare che una ripresa dell'industria. Guardare solo ai profitti è fuorviante. «È vero - ribadisce Vietti - Il principale fattore positivo è stato il taglio dei costi, cui si aggiunge il calo delle materie prime nell'ultima parte del 2008. Senza, peraltro, dimenticare gli aiuti statali che», per esempio nel settore automobilistico, «sono stati essenziali. Ciò detto, le aziende hanno mostrato una grande capacità di reagire alla crisi: la ripresa dei profitti sembra strutturale». «E, in qualche caso- dice Scarano -, stiamo vedendo buoni fatturati: gli stimoli alla domanda incominciano a incrementare gli ordini. Tanto che, se fino ad ora, le società quotate sono salite un po' tutte inidistintamente, di qui in avanti assisteremo alla selezione. Come mostra, peraltro, il crollo del tasso di correlazione».

Insomma, non sarebbe solo razionalizzazione aziendale. «L'impostazione non convince - ribatte Blaabjerg - Gli utili delle società», oltre ai fatturati, «non corrispondono alla realtà economica. In particolare, le banche dovranno affrontare svalutazioni legate ai mutui immobiliari e al credito al consumo». «E poi - si chiede retoricamente Giovannini - quale valore possono avere delle stime sugli utili depurate da quelle del sistema bancario? Abbastanza scarso: il comparto finanziario ha un peso fondamentale sulle borse». Se i meccanismi legati al trading e ai derivati viene meno «l'effetto sui listini sarebbe pesante».

L'indice è sottovalutato (anzi no)
La diversa visione sulla "qualità" degli utili e sulla loro reale consistenza si riflette, anche, rispetto alla valutazione dell'indice. L'S&P500 che, secondo Bloomberg ha un P/e 2009 di 18 (in euro ha guadagnato da aprile il 36%), è caro oppure no? «Non ritengo sia sottovalutato - risponde Scarano - Ma non vedo grossi rischi di un indice che diventa caro. Il multiplo sugli utili operativi dell'anno prossimo, consensus di 75 dollari per azione, è di 14,6, cioè in linea con la media storica che è 16,5». «Il nostro fair value - specifica Vietti - è pari a 1100. Quindi, a questi livelli, il paniere è correttamente valutato». C'è chi non la pensa così: «Bisogna tenere conto - ribatte Blaabjerg - del punto di partenza. Guardiamo alla crescita del Pil Usa; analizziamo bene la dinamica degli utili: come non sostenere che non sia sopravvalutato!» Insomma, le valutazioni sono discordi.

Liquidità, basta la parola
Il che porta a domandarsi: come mai, alla fine, gli analisti rimangono comunque positivi sull'indice da qui a fine anno? La risposta è nella parola magica: liquidità. La massa di denaro immessa nel sistema, attraverso la politica di tassi zero della Fed e il quantitative easing, è in cerca di rendimenti. Con il Treasury decennale che rende il 3,3% lordo «mentre - spiega Scarano - il free cash flow yield dell'indice è pari al 5%», il mercato azionario è appetibile. «L'easy money - conferma Blaabjerg - è il vero motore del rally. E lo sarà fino alla fine dell'anno». Semmai, il problema è quando le banche centrali inizieranno l'exit strategy: «Se lo si fa troppo in fretta - dice Giovannini - il rischio è di togliere ossigeno al sistema; se lo si fa tardi si "droga" eccesivamente la Borsa con il rischio di un'altra bolla». Che, peraltro, sarà difficile affrontare perché le armi a disposizione degli istituti centrali e degli stati (già schiacciati dal maggiore debito pubblico dopo gli interventi anti-crisi) rischiano di esaurirsi.

«Trend is you friend»
Al di là della cause del rally, seppure gli esperti non lo dicono espressamente, l'impressione è che in questo momento vada di moda l'adagio: "Trend is your friend", segui il trend. Come dire, insomma: fondamentali, o non fondamentali, gli ordini d'acquisto ci sono e io mi accodo. Già, ma su quali settori? ««Tra i comparti preferiti -risponde Piersimoni- ci potrebbero essere discrete possibilità per le tecnologie. Le valutazioni attuali sono ragionevoli e lo stato di salute delle società è piuttosto buono, come dimostrato dai recenti dati di alcuni giganti dell'informatica. Peraltro, il crollo degli investimenti in strutture e macchinari vedrà la rispresa del settore hi-tech in anticipo rispetto a quello di altri comparti». Una tesi sui cui sembra concordare Cormac Weldom, head of Us equity di Threadneedle: «Vediamo bene la tecnologia dove la valutazioni sono basse e alcune aziende hanno ottime prospettive».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Sabato 24 Ottobre 2009   Venerdì 27 Ottobre 2009   Sabato 31 Ottobre 2009  
       
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  Nyse e Nasdaq all'esame di chi investe per lavoro

26 Ottobre 2009 15:13 MILANO - di Vittorio Carlini

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L'S&P500? «Non dovrebbe crollare - risponde Laurea Solei, responsabile team azionari gestioni patrimoniali di Banca Sella- . Possibile, comunque, l'avvio di una fase consolidamento». «Il momento resta positivo - fa da eco Giovanni Vietti, responsabile equity di Allianz Gi Italia Sgr -. Il paniere potrebbe salire del 5-10% entro fine anno». Christian Blaabjerg, chief equity strategist di SaxoBank specifica: «Nel breve periodo dovrebbe andare anche oltre quota 1.121. Poi però, chiusa la stagione delle trimestrali, ritraccerà: discesa verso 1.050 punti».

Insomma, da qui a fine anno gli esperti consultati dal Sole24Ore.com rimangono in generale «ottimisti sulle prospettive della Borsa Usa», come sottolinea Carla Scarano, portfolio manager azionario di Bipiemme gestioni sgr. Forse, «più incerta è la situazione nel 2010, anno in cui il meglio degli stimoli di politica economica sarà alle spalle», dice Marco Piersimoni, Investment advisors di Pictet Fund.

Tuttavia, «l'enorme massa di liquidità immessa nei mercati - aggiunge Giorgio Giovannini, country manager Italia di Henderson Global Investors - è il pilastro fondamentale del rialzo delle Borse fino a fine anno». Tutti d'accordo, quindi? Manco per ridere. Quando, infatti, si discute se l'S&p500 sia più o meno caro, le posizioni divergono. Così come non c'è unanimità sull'affidabilità di fondamentali e multipli aziendali.

Il ritorno ai fondamentali

Dimenticato in fondo ai bilanci e sostituito nelle analisi dal più "favorevole" profitto operativo (le società chiudevano spesso in rosso), l'utile netto è di nuovo al centro dell'attenzione degli esperti. Thomson Reuters ha alzato le stime di consensus sull'Eps del paniere di Wall Street: nel terzo trimestre 2009, il calo rispetto allo stesso periodo del 2008 sarà del 22,6% è non più del 24,6 per cento. In termini assoluti vuol dire un profitto aggregato di 137,7 miliardi di dollari, contro i 177,8 dello scorso anno.

«La spinta al rialzo - scrive Thomson Reuters -è dovuta essenzialmente all'ottima profittabilità del settore finanziario». E qui il dubbio sorge spontaneo: come attribuire rilevanza a un simile dato, visto che le banche fanno gran parte dei profitti grazie al trading e ai derivati, cioè le attività messe sotto accusa nella crisi? «La critica è valida - risponde Scarano -. Tuttavia, anche epurando i dati del settore finanziario le stime rimangono buone». «Nel quarto trimestre - fa da eco Solei - potremmo rivedere la crescita positiva degli earning, seppure attorno all'1 per cento. Un eventuale punto di svolta che, dopo nove quarter negativi, sarebbe molto rilevante».

Già rilevante. Diversi esperti, però, sollevano un'altra obiezione. Le aziende hanno posto in essere drastiche politiche di taglio dei costi, cercando sinergie ovunque: gli utili, spesso, mostrano più la capacità di razionalizzare che una ripresa dell'industria. Guardare solo ai profitti è fuorviante. «È vero - ribadisce Vietti - Il principale fattore positivo è stato il taglio dei costi, cui si aggiunge il calo delle materie prime nell'ultima parte del 2008. Senza, peraltro, dimenticare gli aiuti statali che», per esempio nel settore automobilistico, «sono stati essenziali. Ciò detto, le aziende hanno mostrato una grande capacità di reagire alla crisi: la ripresa dei profitti sembra strutturale».

«E, in qualche caso- dice Scarano -, stiamo vedendo buoni fatturati: gli stimoli alla domanda incominciano a incrementare gli ordini. Tanto che, se fino ad ora, le società quotate sono salite un po' tutte inidistintamente, di qui in avanti assisteremo alla selezione. Come mostra, peraltro, il crollo del tasso di correlazione».

Insomma, non sarebbe solo razionalizzazione aziendale. «L'impostazione non convince - ribatte Blaabjerg - Gli utili delle società», oltre ai fatturati, «non corrispondono alla realtà economica. In particolare, le banche dovranno affrontare svalutazioni legate ai mutui immobiliari e al credito al consumo». «E poi - si chiede retoricamente Giovannini - quale valore possono avere delle stime sugli utili depurate da quelle del sistema bancario? Abbastanza scarso: il comparto finanziario ha un peso fondamentale sulle borse». Se i meccanismi legati al trading e ai derivati viene meno «l'effetto sui listini sarebbe pesante».

L'indice è sottovalutato (anzi no)

La diversa visione sulla "qualità" degli utili e sulla loro reale consistenza si riflette, anche, rispetto alla valutazione dell'indice. L'S&P500 che, secondo Bloomberg ha un P/e 2009 di 18 (in euro ha guadagnato da aprile il 36%), è caro oppure no? «Non ritengo sia sottovalutato - risponde Scarano - Ma non vedo grossi rischi di un indice che diventa caro. Il multiplo sugli utili operativi dell'anno prossimo, consensus di 75 dollari per azione, è di 14,6, cioè in linea con la media storica che è 16,5». «Il nostro fair value - specifica Vietti - è pari a 1100. Quindi, a questi livelli, il paniere è correttamente valutato». C'è chi non la pensa così: «Bisogna tenere conto - ribatte Blaabjerg - del punto di partenza. Guardiamo alla crescita del Pil Usa; analizziamo bene la dinamica degli utili: come non sostenere che non sia sopravvalutato!» Insomma, le valutazioni sono discordi.

Liquidità, basta la parola

Il che porta a domandarsi: come mai, alla fine, gli analisti rimangono comunque positivi sull'indice da qui a fine anno? La risposta è nella parola magica: liquidità. La massa di denaro immessa nel sistema, attraverso la politica di tassi zero della Fed e il quantitative easing, è in cerca di rendimenti. Con il Treasury decennale che rende il 3,3% lordo «mentre - spiega Scarano - il free cash flow yield dell'indice è pari al 5%», il mercato azionario è appetibile. «L'easy money - conferma Blaabjerg - è il vero motore del rally. E lo sarà fino alla fine dell'anno».

Semmai, il problema è quando le banche centrali inizieranno l'exit strategy: «Se lo si fa troppo in fretta - dice Giovannini - il rischio è di togliere ossigeno al sistema; se lo si fa tardi si "droga" eccesivamente la Borsa con il rischio di un'altra bolla». Che, peraltro, sarà difficile affrontare perché le armi a disposizione degli istituti centrali e degli stati (già schiacciati dal maggiore debito pubblico dopo gli interventi anti-crisi) rischiano di esaurirsi.

«Trend is you friend»

Al di là della cause del rally, seppure gli esperti non lo dicono espressamente, l'impressione è che in questo momento vada di moda l'adagio: "Trend is your friend", segui il trend. Come dire, insomma: fondamentali, o non fondamentali, gli ordini d'acquisto ci sono e io mi accodo. Già, ma su quali settori? ««Tra i comparti preferiti -risponde Piersimoni- ci potrebbero essere discrete possibilità per le tecnologie.

Le valutazioni attuali sono ragionevoli e lo stato di salute delle società è piuttosto buono, come dimostrato dai recenti dati di alcuni giganti dell'informatica. Peraltro, il crollo degli investimenti in strutture e macchinari vedrà la rispresa del settore hi-tech in anticipo rispetto a quello di altri comparti». Una tesi sui cui sembra concordare Cormac Weldom, head of Us equity di Threadneedle: «Vediamo bene la tecnologia dove la valutazioni sono basse e alcune aziende hanno ottime prospettive».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

La Fed controllera' i bonus Usa?

26/10/2009 - MIECONOMIA
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Affidare alla Federal reserve, la banca centrale Usa, il controllo delle politiche salariali delle banche statunitensi, per evitare quei rischi eccessivi che hanno portato alla crisi.
E' questa una delle ultime idee lanciate la scorsa settimana dall'amministrazione di Barack Obama per tenere sotto controllo gli eccessi di Wall Street, idea accolta in modi diversi dagli ambienti finanziari. Se alcuni esperti ci vedono un buon inizio, altri considerano già la sua applicazione impossibile.
Per gli scettici si tratta di un mezzo provvedimento, che evita la sostanza del problema: fino a quando lo Stato sara' presente per rigonfiare i bilanci delle grandi banche in caso di pericolo, nulla potra' scoraggiare sul serio i trader dal puntare su titoli o su prodotti finanziari potenzialmente devastanti. Perche' davanti a enormi guadagni diventa spontaneo il prendersi dei grossi rischi, senza dimenticare che, alla resa dei conti, il sistema comunque perda fara‘ sempre pagare il conto al contribuente Usa, che alla fine della storia e' un ostaggio.
Se non paga - con aiuti di emergenza attraverso il sistema pubblico - vedra' i suoi risparmi e la sua pensione andare in frantumi. Insomma, a un anno dallo scoppio della crisi finanziaria, la situazione sembra essere tornata alla normalita' a Wall Street, con le grandi banche che sono tornate ad annunciare enormi profitti.
Forse troppi profitti, come sottolineano alcuni osservatori al punto che che Barack Obama deve intervenire per impedire che gli istituti tornino a impegnarsi su titoli a rischio (o almeno ridurne l'esposizione). E questo per non ricadere in una grossa minaccia per tutto il sistema.
Da qui la necessita', per il presidente Usa, di mettere mano alle retribuzioni e ai mega bonus dei dirigenti, spesso ingolositi da grandi premi e pronti a tutto per raggiungerli. Allora l'amministrazione di Obama e la Federal Reserve stanno optando per un'altra soluzione: affidare proprio alla banca centrale i controlli sulle banche e sulle loro retribuzioni, evitando eccessive prese di rischio.
Secondo questo progetto, tutte le 28 maggiori banche Usa - come Goldman Sachs, Citigroup o Bank of America - dovranno sviluppare un proprio sistema di remunerazione che non incoraggi l'assunzione di rischi eccessivi. Ogni piano dovra' essere convalidato dalla Fed, che potra' dire la sua anche sulle banche che hanno beneficiato del piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari.
 

Fonte - MIECONOMIA

 

 

Picco o baratro?

Wednesday, 28 October, 2009 at 9:34 - by John Christian Falkenberg
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Bill Gross, gestore del maggior fondo di reddito fisso del pianeta, sostiene che il rally sarebbe arrivato “al picco” . E non è il solo: Jeremy Grantham, guru del value investing e noto per aver pronosticato correttamente sia il grande crollo del 2008 che la ripresa di Marzo, è tornato “bearish” .
Bill Gross è probabilmente l’uomo più potente del mercato obbligazionario mondiale: è il fondatore e presidente di PIMCO, il numero uno globale nel settore. E’ anche l’uomo che, con Mohamed El Erian, ha reso popolare il concetto di “new normal”, ossia di una modifica permanente nei tassi di crescita nei prossimi anni. Recentemente, il suo consiglio è stato di scommettere tatticamente sulla riuscita, nel breve termine, dell’intervento governativo: la quantità di liquidità gettata in pasto alla crisi era semplicemente troppa, per non produrre almeno un rimbalzo, anche perché il mercato era talmente pessimista da essere pronto per un’inversione di tendenza.
La prospettiva è ora drasticamente cambiata. Nella sua più recente lettera mensile al mercato, Gross sostiene che, nonostante il mercato dei titoli governativi renda il 3.5% al massimo, il rendimento atteso da una strategia di esposizione a mercati più speculativi non è sufficiente a compensare i rischi: i mercato azionario sta già scontando ogni realistica speranza di ripresa economica. Gli spread sul mercato del credito, inoltre, sono mantenuti artificialmente bassi dalle continue iniezioni di liquidità da parte della Fed, una politica che non potrà essere mantenuta all’infinito. E’ giunto, quindi, il momento della prudenza.
Jeremy Grantham è un investitore di lungo corso, noto per le sue capacità di analisi e previsione. Normalmente, il suo unico difetto è quello di prevedere con troppo anticipo i punti di svolta, ma in Marzo il suo tempismo è stato impeccabile: a pochi giorni dall’inizio del rally, aveva rovesciato le proprie raccomandazioni e sostenuto la necessità di scommettere il tutto per tutto su di una ripresa. Il motivo, ancora, erano l’inevitabilità di un rimbalzo tecnico e le prospettive di un rally di Borsa causato dall’eccesso di liquidità generato dalle azioni della Banca Centrale; la previsione si è sinora dimostrata assolutamente corretta, sino ai livelli assoluti per l’indice S&P. Grantham aveva pronosticato un ritorno delll’indice ad un livello fra 1000 e 1100, seguito da circa sette anni di movimenti laterali fra questo nuovo picco ed i minimi del 2008. Grantham è ora tornato pessimista: il rally è ormai vicino all’esaurimento e ritiene probabile una discesa di almeno il 20 per cento, per eliminare la sopravvalutazione del mercato azionario.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

MICHELI: SIAMO ALLE SOGLIE DELL' ESPLOSIONE DI UNA NUOVA BOLLA FINANZIARIA

28 Ottobre 2009 23:41 MILANO - di Francesco Micheli
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Il peggio non è ancora alle spalle e sta per arrivare una nuova crisi dovuta allo scoppio di un'altra bolla finanziaria. Ad annunciarlo è il finanziere milanese, Francesco Micheli, che in occasione della presentazione a Milano dell'ultimo libro di Francesco Rutelli, "La svolta. Lettera a un partito mai nato", dà una nuova interpretazione delle cause della recessione che ha travolto il mondo intero. Nessuna crisi, finanziaria, assicura il manager, questa è stata in tutto e per tutto una crisi economica.

"Il futuro a breve sarà un po' lacrime e sangue - spiega il manager -, visto che la situazione economica ci sta per colpire in modo pesante. In realtà le misure prese contro la crisi non sono servite a nulla".

Non solo, per Micheli "siamo alle soglie dell'esplosione di una nuova bolla finanziaria. Perché di fatto, la crisi è stata chiamata crisi finanziaria, ma si trattava di una crisi economica".

Secondo il manager infatti le cause sono da cercare non nei subprime ma ben oltre. Dove? "In un sistema legato alla Cina o ai finanziamenti alle famiglie in America, che hanno poi portato all'utilizzo di particolari prodotti finanziari, ma la crisi era sostanzialmente economica e durava da 15-20 anni. C'è stato un accanimento terapeutico che ha continuamente esasperato la situazione di malattia. C'è stato un inquinamento dei pozzi proprio da parte delle istituzioni: tutti hanno dimenticato le regole e si è creato un guazzabuglio, nel quale i manager erano autoreferenziali e le agenzie di rating dipendevano da loro. Quando si dice trovare le regole, è ridicolo perché di regole ce ne sono già troppe".
Per il manager quello che è mancato è stata "la capacità, come avvenne nel New Deal dopo il 29, di mettere attorno al tavolo fini pensatori. Oggi c'è una crisi della sinistra, e una crisi c'è nel momento in cui c'è una crisi di ideologia".

E adesso ne siamo tutt'altro che fuori. "Le stesse persone - continua Micheli - si sono trasferite in altri posti a fare esattamente quello che facevano prima. Questo ha creato una nuova bolla finanziaria. Si è creato lo stesso gonfiamento, perché l'economia reale non è andata di pari passo. Siamo sulla soglia di qualcosa che aggraverà il nostro sistema".

In Italia poi "uno dei grossi problemi che dovrà essere affrontato è lo 'scandalo delle perizie immobiliari'. E' un Paese il nostro in cui le vigilanze si sono distratte e si sono diffuse delle forme che fanno pensare al comandamento che dice di non rubare. Quando si dice svolta, non bisogna distrarsi", conclude il manager.

 

Fonte - Affaritaliani.it.

 

 

Obbligazionario governativo: commento mensile

Friday, 30 October, 2009 at 11:39 - by phastidio
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Nel mese di ottobre il mercato obbligazionario governativo dell’Area Euro (a livello di indice JPM EMU) ha fatto segnare un lieve rialzo dei rendimenti, dell’ordine massimo di 10 punti-base, che hanno prodotto ritorni nulli o frazionalmente negativi sui singoli tratti di curva, con la sola eccezione della scadenza trentennale, che ha segnato un ritorno negativo mensile per circa l’1,3 per cento.
Nella prima parte del mese i rendimenti sono saliti in parallelo al rally dei mercati azionari e, più in generale, delle asset class rischiose; sul finire del periodo si è assistito ad un recupero delle quotazioni dei titoli di stato, in parallelo allo sviluppo della correzione dei mercati azionari (interrotta a sua volta dal dato relativo alla prima stima del Pil statunitense del terzo trimestre) ed all’aumento di volatilità attesa. In conseguenza di ciò, il ritorno sull’indice JPMorgan EMU è stato pressoché nullo.

Anche il differenziale di rendimento tra Btp e Bund, sulla scadenza decennale, dopo un iniziale allargamento, è rientrato sui livelli di fine settembre, in un intorno di 85 punti-base. E’ utile osservare che tali valori restano significativamente superiori a quelli che venivano registrati prima dello scoppio della crisi, nella seconda metà del 2007, segnalando la cautela dei mercati verso quei paesi che hanno i maggiori rapporti debito-Pil e che dall’inizio dell’euro hanno evidenziato limitate capacità di crescita.
I mercati obbligazionari globali restano caratterizzati da elevata incertezza, e condizionati da due forze divergenti: da un lato condizioni di persistente debolezza del mercato del lavoro, attese proseguire fino al prossimo anno, inducono timori di pressioni deflazionistiche, che depongono a favore dell’investimento obbligazionario; dall’altro, l’aggravamento delle condizioni di finanza pubblica determina un aumento delle emissioni di titoli di stato ed il timore che le banche centrali siano costrette a proseguire nella monetizzazione del debito pubblico, eventualità che suggerirebbe di assumere posizioni difensive sull’asset class.

I mercati obbligazionari governativi sono inoltre interessati, soprattutto nella parte a lunga scadenza, da flussi di acquisto provenienti sia dallo smobilizzo di posizioni di liquidità (ormai da tempo infruttifera) e da progressivo allungamento delle scadenze, alla ricerca di maggiori rendimenti. Altre correnti di acquisto sono inoltre originate da movimenti riconducibili al cosiddetto carry trade sul dollaro, l’indebitamento nella valuta statunitense per finanziare l’acquisto di attivi ad alto rendimento. Tale movimento ha finora interessato soprattutto le valute maggiormente esposte alle materie prime quali il dollaro australiano e la corona norvegese, espressione di economie ove la ripresa pare aver posto solide basi. Queste condizioni di mercato rendono anche l’obbligazionario particolarmente esposto al rischio di movimenti di rafforzamento del dollaro, aumentandone la volatilità potenziale. Di tutto questo, oltre che della futura attuazione di strategie di rimozione dell’eccezionale stimolo monetario offerto al sistema negli ultimi due anni, occorre quindi tener conto, nella formulazione di un portafoglio d’investimento sul reddito fisso governativo per l’Area Euro, anche se eventuali movimenti di irripidimento delle curve, nell’attuale contesto di assenza di pressioni inflazionistiche, si tradurrebbero in rendimenti piuttosto allettanti, espressi in termini reali, alimentando nuove correnti di acquisti.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

La crisi falcidia gli utili delle oil company

30/10/2009 - MIAECONOMIA
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C’era un tempo in cui il petrolio viaggiava oltre i 100 dollari al barile e le compagnie petrolifere facevano soldi a palate. Poi e’ arrivata la recessione economica e la domanda di greggio ha subito un ridimensionamento, portando il prezzo del petrolio verso i 40 dollari al barile, quasi un quarto del massimo storico di 147 dollari al barile.
Il brusco calo della domanda seguito dal calo del prezzo del petrolio sono all’origine delle deludenti trimestrali dei colossi delle oil company. Eni nel terzo trimestre dell’anno vede ridurre del 57% gli utili aziendali rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, arrivando a un risultato di 1,24 miliardi di euro. Anche se Banca Akros individua in 18 euro il valore corretto ad azione e consiglia ai suoi clienti di mantenere il titolo in portafoglio.
Ancora peggiori di Eni sono i conti di Royal Dutch Shell che chiude il terzo trimestre con un utile in flessione del 62%, pari a 3,25 miliardi di dollari, contro gli 8,45 dello stesso periodo del 2008. Eppure se si escludono le voci straordinarie di entrate e le modifiche al valore delle riserve, l'utile, sarebbe di 2,62 miliardi, oltre le attese degli analisti, di 2,5 miliardi.
I conti peggiori pero’ gli presenta il colosso americano e mondiale Exxon Mobile che ha visto l’utile netto scendere a 4,37 miliardi di dollari, segnando una flessione del 68% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, deludendo le aspettative del mercato. Scende anche il fatturato da 137,74 a 82,26 miliardi di dollari, malgrado nel terzo trimestre la produzione del gruppo sia aumentata del 3%.E in questi dati e' chiaro come la domanda in calo abbia pesanto sul bilancio trimestrale.

Le prospettive per il prossimo trimestre non sembrano tanto migliori anche se il prezzo del greggio da qualche settimana e’ tornato a viaggiare verso gli 80 dollari al barile. Il prezzo dell’oro nero puo' aiutare a ridare smalto ai conti, ma servira’ anche la ripresa della domanda e questa ci sara’ solo con la ripresa dell’economia. Che potrebbe tardare o frenare con un costo del greggio troppo alto. Il famoso cane che si morde la coda.
 

Fonte - MIAECONOMIA

 

 

 

 
 

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