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PARTE  1

 

INDICE ARTICOLI di TESTA

 

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Crisi creditizia e debiti sovrani - USA

La grande battaglia: l'asta dei titoli sovrani

Crisi creditizia e Tassi

I giorni delle banche centrali. Tassi fermi, occhio alla liquidità

Quadro Macro - Analisi Turchia/Grecia

Ankara batte Atene tre a zero

Crisi creditizia e empasse Grecia - UE

La Grecia, l’Unione Europea e il dilemma del prigioniero

Crisi creditizia e empasse Grecia

La Grecia contro tutti e tutto

Crisi creditizia e Riforma settore finanziario USA

Su Obama l'ombra di 13 uomini d'oro

Crisi creditizia e Mercati - Opinioni

Obama e i mercati: quattro parti di realismo e una di idealismo

Crisi greca e impatto USA

Perché Atene spaventa gli Stati Uniti

Crisi creditizia e empasse Grecia

Grecia: comunque vada, niente lieto fine

 
+++   ANSA   +++   DEBITO SOVRANO: RATING REGNO UNITO A RISCHIO   +++   Fmi: Strauss-Kahn, Economia Mondiale Non e' Fuori Pericolo   +++   Grecia: Commissione Ue, Nessuna Richiesta Di Aiuto Da Atene   +++   Grecia: Bini-Smaghi, Evitata Una Lehman Nell'Euro   +++   Grecia pronta a misure di austerità, Trichet: "Evitare contagio"  +++   ANSA   +++ 
 
  Giovedì 01 Aprile 2010   Venerdì 02 Aprile 2010   Sabato 03 Aprile 2010  
       
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INDICE ARTICOLI - Seconda pagina e flash

   

Occupazione Usa, una rondine non fa primavera

«La bolla sul mattone cinese non sarà il nuovo ...

Obama e le armi nucleari: «Uso in circostanze estreme»

IMMOBILIARE USA: A MIAMI TORNA A SPLENDERE IL SOLE

BERNANKE: STABILITA', MA NON SIAMO FUORI DA TUNNEL

PAULSON CAMBIA IDEA, E' BULLISH SULL'IMMOBILIARE

USA: TASSI BASSI A LUNGO RISCHIANO DI CREARE BOLLE

RIPRESA A V, PAROLA DI GOLDMAN SACHS

Grecia: a Un Passo Dai Junk Bond. Europa Scioglie Nodo...

Obama pronto all'affondo sulla riforma della finanza

ECONOMIA: SCORTE USA, NO A DOPPIA RECESSIONE

Ecco la riforma finanziaria anti-crisi di Obama

PIIGS, DEBITI E DEFICIT: E ORA SCATTA L'ALLARME SPAGNA?

Al G 20 dei ministri finanziari exit strategy e ...

LA CINA CORRE: ALLE PRESE CON POSSIBILI BOLLE

Crisi: La Recessione Ha Ridisegnato Mappa Del Rischio ...

   
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  La grande battaglia: l'asta dei titoli sovrani

01 Aprile 2010 01:34 NEW YORK – di Leon Zingales* e Carmen Vitanza**

Leon Zingales* e Carmen Vitanza**, collaboratori di Wall Street Italia, sono PhD in Fisica, Dipartimento di Matematica, Università di Messina e Professore Ordinario di Analisi Matematica, Dipartimento di Matematica, Università di Messina. Zingales cura il blog ilcignonero.

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La fase di apparente normalizzazione dei mercati finanziari è semplicemente l’occhio del ciclone; una nuova crisi nel giro di non molto tempo ci avvolgerà con conseguenze economiche e geopolitiche imprevedibili: la crisi dei debiti sovrani.

E’ partita una guerra all’accaparramento dell’ultimo risparmio e gli stati stanno utilizzando tutte le armi a disposizioni, convenzionali e non, per procurarsi l’ossigeno necessario per continuare a respirare.

Il salvataggio del sistema finanziario boccheggiante ha necessitato di uno sforzo immane: la nave dei debiti sovrani è stata colmata all’inverosimile, ben oltre la capacità della stiva, ed è in procinto di essere inghiottita dal mare in tempesta. E’ una lotta all’ultimo sangue: come prigionieri in un relitto i singoli contendenti si stanno contendendo il poco cibo e la poca acqua a disposizione in una guerra che non ammette prigionieri. Chi vi scrive ha più volte espresso le proprie critiche su come è stato concepita la moneta unica attaccandone la rigidità dogmatica e la mortale staticità. Ma il repentino precipitarsi della crisi del sistema Euro deve essere vista come conseguenza di questa battaglia finale per la sopravvivenza.

Il Debito sovrano USA raggiunge i 12700 Miliardi di Dollari (quasi il 90% del PIL) ed, aggiungendo i debiti delle agenzie nazionalizzate (Fannie Mae e Freddie Mac) si perviene a 18800 Miliardi (il 130% del PIL). Nel contempo le entrate fiscali crollano e 48 dei 50 degli stati USA sono in deficit (la California ha un budget gap del 56%, l’Arizona del 51% e l’Illinois del 41%); il sistema USA divora il proprio futuro in maniera sempre più vorace: un report della Pension Modernization Task Force, commentando il buco pensionistico dell’Illinois di 90 Miliardi di Dollari, ha evidenziato come il sistema pensionistico sia ormai usato come carta di credito per mantenere i servizi essenziali in uno stato in cui si spendono 3$ per ogni 2$ effettivamente incassati.

Il mercato immobiliare continua ad essere in profonda sofferenza (considerando anche che le banche USA hanno messo in vendita solo il 30% delle case pignorate onde evitare di segnare subito le perdite nei rispettivi bilanci) e la nuova ondata di svalutazioni ARMS è in prossimo arrivo. Con questi fondamentali si comprende come l’affidabilità finanziaria degli USA sia sempre più minata e, pur di assicurarsi l’ossigeno (gli USA hanno tra l’altro il respiro corto perché la duration media del proprio debito è 4.5 anni, due anni in meno della media europea) fornito dalla vendita dei TBills, qualsiasi arma diviene lecita.

L’enfasi delle strutturali debolezze del Sistema Euro è attualmente lo strumento più utile per consentire un rafforzamento del Dollaro. Convincere dell’ineluttabilità del fallimento della moneta unica (tra l’altro non mentendo del tutto) è l’unico modo per continuare ad essere attrattivi nei confronti dei risparmi stranieri.

Ma, malgrado tutto, l’ultima asta settennale da 32 Miliardi di Dollari dei titoli USA ha evidenziato tempo nuvoloso e nel contempo il titolo decennale ha raggiunto il massimo rendimento dall’Ottobre 2008 (epoca preistorica nell’attuale evoluzione della crisi sistemica), ossia il 3.89%. Aspettiamoci dunque ulteriori scombussolamenti e tremende sollecitazioni al rigido sistema Euro: gli USA non possono permettersi di perdere la guerra dei titoli sovrani.
 

Fonte - WallStreetItalia.com - Blog Il Cigno Nero

 

 

 

 

  I giorni delle banche centrali. Tassi fermi, occhio alla liquidità

04 Aprile 2010 16:55 MILANO – di Vittorio Carlini

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La settimana delle banche centrali. Quella che inizia domani è un'ottava, come in gergo borsistico è chiamata il susseguirsi delle cinque sedute di mercato, che vedrà il riunirsi di tre istituti centrali. Inizia mercoledì 4 aprile la Bank of Japan. Il costo del denaro nel Paese del Sol levante è allo 0,1 per cento. Il consensus di mercato è per il mantenimento del tasso di riferimento invariato.

La banca d'Inghilterra e la Bce
Poi arriverà il turno degli istituti centrali del vecchio Continente, giovedì 5 aprile. Alistair Darling (AFP)Ad aprire le danze, se così si può dire visto che il tempo dovrebbe essere "andante senza alcuna sorpresa", è la Bank of England. In inghilterra, si sa, il tasso di riferimento è allo 0,5% e, secondo l'indicazione degli esperti di mercato, dovrebbe rimanere tale. Così come non dovrebbero arrivare sorprese poco dopo, alle 13.45 sempre di giovedì, quando la Banca centrale europea dirà la sua sul Refi: anche qui l'attesa è per un mantenimento del saggio principale di rifinanziamento all1' per cento.

La prima mossa sarà della Fed
Com è noto, più volte gli esperti hanno sottolineato -salvo cataclismi finanziari sempre possibili - che la prima mossa spetterà alla Federal reserve americana. Un po' perché, di fatto, Ben Bernanke "ha" i Fed fund target allo zero per cento e, quindi, lui dovrà dare il «la» formale che porta ad una politica monetaria più restrittiva. E un po' perché le attese di crescita degli Stati Uniti, seppure sempre deboli soprattuto a causa di un tasso di disoccupazione che rimane al 9,7%, sono comunque migliori rispetto ad Eurolandia.

È ben vero che la Fed, a differenza della Bce, ha un mandato che tiene anche conto del supporto Ben Bernanke (AFP) all'economia e, quindi, c'è maggiore sensibilità rispetto ad una mossa che potrebbe uccidere nella culla la debole ripresa a stelle e strisce. E tuttavia, gli esperti pensano che Bernanke (c'è chi indica già l'inizio dell'estate prossima chi, invece, settembre) toccherà all'insù i Fed fund target; così, per fine anno, potremmo avere un costo del denaro negli Usa anche oltre l'1 per cento. Un appuntamento, comunque, per ri-sentire la strategia della Fed è quello di mercoledì 4 aprile quando Bernanke terrà un pubblico discorso.


Un'inflazione che non preoccupa
Tornando su questa sponda dell'oceano Atlantico, il mantenimento dei saggi all'1% non sembra essere intaccato dalle fiammate inflazionistiche degli ultimi giorni: tasso all'1,5% annuo, massimo dal dicembre 2008, dopo lo 0,9% in febbraio. Il balzo, infatti, è legato soprattutto alla componente energia ( il petrolio è salito, due giorni fa, sopra gli 85 dollari in Asia) e all'alimentare (con i prezzi delle commodity che sono cresciuti spinti dalla solita speculazione). Al contrario, l'inflazione core non è in aumento. Anzi, continua a rallentare risvegliando
timori di deflazione: in particolare pesano le difficoltà sul settore edile. In questo scenario pensare ad un Jean Claude Trichet che ripete il grave errore dell'estate 2008, quando alzò i tassi dell'eurozona in piena deflagrazione della crisi finanziaria, sarebbe pura follia. E poi c'è una linea di pensiero che, seppure mai troppo esplicitata dagli esperti, spesso rimbalza nelle sale operative e nei convegni tra operator.

L'euro debole
Come sanno anche i sassi, il differenziale dei tassi d'interesse tra Stati uniti e Eurolandia ha permesso, per parecchio tempo, l'attività di carry trade. Cioè, il prendere in prestito denaro negli Usa, ad un tasso più basso, per comprare asset denominati in Euro, lucrando così sul più alto rendimento di questi ultimi. Un'attività che ha sostenuto, molto più che la forza dell'economia stessa di Eurolandia, le quotazioni della divisa unica europea. Un'operazione puramente finanziaria che così come appare poi sparisce per lasciare il valore dell'euro legato ai fondamentali macro economici, come testimoniato dal caso-Grecia. Una situazione che, a livello formale, dà molto fastidio a tutte le istituzioni europee ma che, alla fine, ha una conseguenza: tenere un po' più bassa la quotazione della divisa unica; un trend che non dispiace troppo, vista la spinta che può dare all'export europeo, soprattutto quello tedesco. Ora, immaginare la Bce paladina di una divisa unica debole è fanta-finanza. Ma pensare che Eurotower voglia dare di nuovo linfa al carry trade, oltre che rischiare la ripresa europea con un anticipo di rialzo del Refi, è altrettanto fanta-finanza.

La road-map di uscita dalle operazioni straordinarie a sostegno della liquidità
Tuttavia non è solo tassi di riferimento. Il vero fronte dove gli istituti centrali, peraltro già da tempo hanno avviato l'exit strategy è quello del ritiro dell'enorme massa di liquidità presente sui mercati. Proprio durante la conferenza stampa, che Trichet terrà alle 14.30 di giovedì prossimo, dovrebbero essere indicati maggiori dettagli sulla tabella di marcia delle operazioni di rifinanziamento, in particolare sul volume della prossima asta a tre mesi (prima della crisi era all'incirca di 70 miliardi).
Una tappa importante nella strategia di uscita della Bce si avrà, poi, in luglio, quando giungerà in scadenza la prima asta a 12 mesi, condotta nel giugno scorso con un volume record di 442 miliardi. L'Eurotower ha già interrotto le aste a 12 e a 6 mesi e limita ormai le condizioni più generose decise contro la crisi (tasso fisso dell'1% e ammontare illimitato) alle sole aste settimanali. Nuovi dettagli dovrebbero emergere inoltre sul collaterale accettato dalla Bce, dopo che Trichet ha di recente indicato di fronte al Parlamento europeo che no farà problemi, anche dopo la scadenza prevista di fine 2010, di fronte ai titoli con un rating minimo 'BBB-'. Si tratta di una scelta che va incontro alla Grecia, impegnata nel difficile piano di evitare il default delle finanze pubbliche. Ma che la dice lunga su come l'abbandono dell'easy money non sarà asolutamente una strada facile.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Occupazione Usa, una rondine non fa primavera

05/04/2010 - di miaeconomia
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Il mercato del lavoro negli Usa batte un colpo. Venerdi' a mercati chiusi per la festivita' del venerdi' santo sono usciti i dati sull'occupazione americana a marzo. Secondo il Dipartimento Usa del Lavoro nel terzo mese dell'anno l'economia statunitense ha creato 162mila posti di lavoro in piu', segnando l'aumento piu' forte mai registrato dall'inizio della recessione quasi tre anni fa. Un dato che e' certamente positivo anche in relazione al trend in crescendo degli ultimi mesi. Infatti se a febbraio si sono perduti 14mila posti di lavoro questi sono stati controbilanciati dalla creazione di posti nella stessa misura a gennaio. E se a dicembre i posti persi sono stati 109mila a novembre lo scarto e' stato positivo con 69mila nuovi contratti di lavoro.

Fin qui le buone notizie. L'aspetto negativo del dato e' che nonostante il bilancio positivo, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti e' rimasto fermo al 9,7%. Non solo. Di questi 162mila posti 48mila sono dovuti al censimento partito in questi giorni, quindi posti destinati a essere temporanei. Inoltre altri 40mila sono posti, non legati al censimento, sono ugualmnte di natura temporanea. Ecco perche' gli analisti si sono apprestati a sottolineare che nonstante il dato sia incoraggiante una rondine non fa primavera.

La crescita dell'economia Usa e' legata al livello dei consumi che rappresentano oltre il 60% del Pil. Senza una ripresa dell'occupazione difficilmente i consumi riprenderanno a salire. E senza consumi e senza domanda la produttivita', l'altro grande pilasto fondamentale della crescita, difficilmente tornera' a crescere. Perche' l'economia americana esca definitivamente dalla recessione occorre che il mercato produca posti di lavoro a un ritmo di 100mila al mese e finora solo marzo e' riuscito nell'impresa, con la variabile, pero', dei 40mila temporanei piu' i 48mila necessari al censimento. Per creare una ripresa duratura occorre che la disoccupazione Usa scenda almeno sotto il 7,5% e a questi ritmi il tasso di crescita e' troppo lento perche' cio' avvenga entro quest'anno. La prossima settimana vedremo cosa ne pensano i mercati
 

Fonte - miaeconomia.leonardo.it

 

 

 

Obama e le armi nucleari: «Uso in circostanze estreme» Rischi veri dal terrorismo

06 Aprile 2010 20:06 - di Sole 24 ore
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Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato oggi la nuova linea americana sulle armi nucleari, dicendo che il loro uso è ipotizzabile solamente «in circostanze estreme».

Gli Stati Uniti «vogliono sottolineare che prenderebbero in considerazione l'utilizzo di armi nucleari solamente in circostanze estreme per difendere interessi vitali degli Stati Uniti o dei loro alleati e partner», si legge in un documento diffuso dalla Casa Bianca. La nuova politica nucleare americana, sostiene Obama in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca, rappresenta «un significativo passo avanti» nella riduzione del ruolo delle armi nucleari nella sicurezza nazionale.

La nuova strategia Usa lascia comunque aperta la possibilità dell'autodifesa dalle minacce nucleari rappresentate da Iran o Corea del Nord. Il Nuclear Posture Review descrive anche il rischio di «terrorismo nucleare» come una minaccia immediata ed estrema, più pericolosa dei paesi dotati di armi atomiche.

Intanto il presidente russo Dmitri Medvedev proprio alla vigilia della firma (l'8 aprile a Praga) con il presidente americano Barack Obama del nuovo trattato Start sul disarmo nucleare lancia un aut aut sullo scudo antimissile Usa in Europa. In realtà è stato il ministro degli esteri Serghiei Lavrov a mettere nuovamente in guardia Washington: «La Russia avrà il diritto di uscire dal trattato Start se lo sviluppo quantitativo e qualitativo del potenziale della difesa antimissile degli Usa comincerà a pesare sull'efficacia delle forze nucleari strategiche».

Media ed esperti sembrano comunque d'accordo: un «buon compromesso». Rispecchia l'equilibrio degli interessi di entrambi i Paesi e ristabilisce una condizione di piena parità, ribadisce il Cremlino, per il quale questo «avvenimento di grandissimo rilievo» segna «il passaggio della cooperazione tra i due Paesi ad un livello più alto» e «getta le fondamenta di relazioni strategiche qualitativamente nuove».

L'annuncio sulla postura nucleare degli Stati Uniti rappresenta «un segnale estremamente importante anche per i suoi risvolti internazionali», ha commentato il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, ribadendo che «l'Italia sostiene pienamente la scelta degli Stati Uniti nel cammino per il disarmo e per un mondo senza armi nucleari».

«Il segnale giusto al momento giusto - ha proseguito il titolare della Farnesina in una nota - in vista della firma, l'otto aprile prossimo, del nuovo Trattato per la Riduzione delle Armi Strategiche tra Stati Uniti e Federazione Russa, del Summit sulla Sicurezza Nucleare, del 12-13 aprile a Washington e della Conferenza di riesame del Trattato di Non Proliferazione, che si aprirà il 3 maggio prossimo a New York».

«I principi contenuti nella nuova postura nucleare statunitense, inclusa la circoscrizione delle condizioni per l'uso dell'arma nucleare - ha rimarcato Frattini - creano condizioni nuove e più favorevoli per il rafforzamento del regime di non-proliferazione fondato sul Tnp, mantenendo al contempo una credibile capacità di dissuasione tanto necessaria fintantochè esisteranno armi nucleari».
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

 

BERNANKE: STABILITA', MA NON SIAMO FUORI DA TUNNEL

07 Aprile 2010 20:12 NEW YORK - di Agi
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Dopo aver sofferto la recessione piu' grave dagli anni '30, l'economia americana si e' stabilizzata ed e' tornata a crescere. I problemi del mercato immobilare e del lavoro, tuttavia, sono tanti e rappresentano la vera sfida per gli Stati Uniti.
L'artimetica parla chiaro: l'economia Usa "non e' ancora uscita fuori dal tunnel". Lo ha detto il presidente della Fed, Ben Bernanke, secondo il quale c'e' ancora vento contrario: l'occupazione soffre e anche il settore immobiliare deve avviare una ripresa convincente.
Nei commenti preparati per la comunita' industriale in un intervento tenuto a Dallas, il numero uno della Banca Centrale ha precisato di non vedere ancora segnali di una "ripresa sostenuta" nel mercato immobiliare, aggiungendo che i pignoramenti continuano a crescere. Anche il real estate commerciale resta un punto debole.
Ma i problemi piu' gravi sono quelli del mercato del lavoro. Anche se il numero di licenziamenti e' diminuito ultimamente le assunzioni sono ancora poche. Bernanke ha fatto notare che il tasso di disoccupazione, attualmente fermo al 9.7%, e' ancora vicino ai livelli piu' alti dagli anni '80.
 

 

 

USA: TASSI BASSI A LUNGO RISCHIANO DI CREARE BOLLE
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Il falco della Fed, Thomas Hoening, lancia l'allarme: un periodo prolungato di tassi ai minimi record e' il modo migliore per provocare la creazione di un boom creditizio e inevitabilmente di un suo scoppio. L'ideale e' alzare il benchmark all'1%.
Un periodo prolungato di tassi di interesse ai minimi record e' il modo migliore per provocare la creazione di pericolose bolle. Per questo l'ideale sarebbe alzare i tassi di riferimento all'1%, il che avrebbe il doppio effetto benefico di mantenere il costo del denaro su livelli estremamente bassi e allo stesso tempo manderebbe un segnale chiaro che la politica monetaria troppo accomodante per rispondere alla crisi e' ormai acqua passata.
Lo ha detto Thomas Hoening, uno degli esponenti votanti del comitato di politica monetaria della Federal Reserve, precisando che se mantenuti su livelli cosi' bassi per tanto tempo, i tassi di interesse incoraggiano la messa in atto di operazioni finanziarie rischiose. Il consiglio e' quello di alzare il costo del denaro per prevenire la creazione - e lo scoppio - di un'altra bolla.
"Sono convinto che mantenere lo status quo sui tassi a questi livelli cosi' bassi per un periodo prolungato incoraggi la formazione di bolle, perche' privilegia il debito sull'equilibrio e i consumi sui risparmi", ha dichiarato ad una comunita' industriale il presidente della Fed di Kansas City Thomas Hoenig, noto falco del FOMC.
"Anche se non si sa da dove la bolla potrebbe emergere, se lasciate cosi' come sono le condizioni attuali invitano ad un boom creditizio e, inevitabilmente, ad uno scoppio della bolla".
Per due volte Hoening ha votato contro la decisione della Fed di mantenere i tassi guida allo 0-0.25% per un periodo di tempo prolungato, suggerendo che non e' piu' necessario avere le mani legate in un contesto di ripresa economica.
 

Fonte - Agi

 

 

 

 

 

  Martedì 06 Aprile 2010   Mercoledì 07 Aprile 2010   Giovedì 08 Aprile 2010  
       
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  Ankara batte Atene tre a zero

07 Aprile 2010 08:20 – di Sole 24 ore

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Tra Grecia e Turchia c'è una rivalità che ha radici antiche e coinvolge ogni aspetto della vita dei due paesi. Una vicinanza difficile costellata da tensioni diplomatiche su Cipro e Ue e da sconfinamenti aerei nell'Egeo. Ma che dopo dieci anni Ankara potesse battere tre a zero Atene nella partita dell'economia è stata una sorpresa per tutti gli osservatori.

Nel 2001 la Turchia era nel pieno di una crisi finanziaria che portò a un calo del 5,7% del Pil, a una svalutazione del 46%, con un sistema bancario al collasso salvato da un provvidenziale prestito dell'Fmi da 25 miliardi di dollari e da un piano di salvataggio pari al 30% del Pil, un'inflazione al 54%, la fiducia nel paese ai minimi, i capitali in fuga dal Bosforo e le elezioni anticipate all'orizzonte che spazzarono via una classe dirigente inetta e corrotta.
La Grecia, al contrario si stava preparando alla trionfale entrata nell'euro, il Pil cresceva del 3,4%, la produttività era migliorata del 4,2% e i capitali arrivavano copiosi sia privati sia dai Fondi strutturali Ue, consentendo di avere un'ampia liquidità e tassi reali in rapida discesa. Atene aveva in tasca una valuta solida come il marco tedesco: un traguardo storico.

Dopo quasi un decennio la situazione si è rovesciata. Atene è nel pieno della peggiore crisi dal dopoguerra con un Pil che quest'anno è previsto in calo del 2,25% (la Commissione europea prevede -2%), un deficit stellare nel 2009 del 12,9%, debito al 115% (sempre nel 2009), 54 miliardi di euro da rifinanziare in titoli di stato a un tasso attorno al 6%, con un differenziale di oltre 300 punti base con i bund tedeschi e i credit default swaps (Cds), l'indice che calcola il rischio solvibilità di un paese, che ha toccato il 27 gennaio il record di 400 punti. E con l'ipotesi di dover ricorrere a un piano di salvataggio composto da prestiti bilaterali europei e soccorso dell'Fmi. Una situazione finanziaria disastrosa e un'immagine a pezzi.

Tutto questo mentre la Turchia ha deciso di non chiedere il rinnovo del prestito del Fondo monetario, ha messo sotto controllo l'inflazione (gli ultimi dati la indicano al 7,2%), i tassi sono stabili, il deficit 2009 è al 5,5%, il debito al 50,8% del Pil, e sebbene la crisi abbia fatto crollare l'economia del 4,9% quest'anno si stima un tasso di crescita del 4,5 cento.

Cosa è successo in questo decennio per spiegare l'incredibile sorpasso? «La Grecia - dice Tullia Bucco di Unicredit - è un paese dell'Eurozona, ma non ha saputo mettere a frutto i vantaggi derivanti dall'ingresso nella moneta unica. Il governo Karamanlis di centrodestra (all'opposizione da ottobre 2009, ndr) non ha saputo adottare le riforme strutturali per frenare il deterioramento della competitività del paese. Una politica poco accorta ha indotto un aumento dei salari pubblici a un tasso di crescita superiore a quello della produttività, spingendo così al rialzo i costi unitari del lavoro». Insomma si è dissipato, invece di investire.
Non solo. «La Grecia ha perso competitività rispetto ai partners, ha attratto pochi capitali stranieri e quando la crisi globale è scoppiata è rimasta più colpita rispetto agli altri paesi», ha detto Angel Gurria, segretario generale Ocse, pochi giorni fa in occasione della sua visita ad Atene. «Ora la Grecia deve come prima cosa rimettere a posto i suoi conti per rassicurare i mercati. Poi - ha aggiunto - Atene dovrà mettere mano alla riduzione dei salari pubblici, riformare il sistema fiscale, combattere l'evasione e ridurre i costi del sistema pensionistico».

«La necessità delle riforma delle pensioni – dice Gikas Hardouvellis, professore di finanza all'Università del Pireo – è urgente. Il deficit di bilancio, combinato alla piaga del lavoro nero, significa che finanziare il sistema pensionistico diventerà insostenibile in pochi anni. Già oggi alcuni fondi pensione riescono solo a far fronte al finanziamento delle pensioni in atto. Per questo una commissione di esperti di nomina governativa ha appena consegnato un rapporto al ministero del Lavoro che a breve presenterà una riforma».
Nell'impossibilità di utilizzare la leva del cambio per riguadagnare competitività, il governo greco avrebbe dovuto rispondere con riforme di stimolo della crescita. Ma la litigiosità interna e il basso grado di concertazione politica hanno rinviato il varo dei provvedimenti fino al collasso.
«La Turchia invece, dopo il via libera per il negoziato alla Ue nel 2005 ha ritrovato nuovo vigore per ristrutturare l'economia - dice l'economista Matteo Ferrazzi - e avere stabilità macroeconomica. Il debito pubblico (50,8%) e il deficit turco (-5,5%) sono meno della metà dei corrispettivi greci (115% e 12,9%), ed è questa l'anomalia più stridente tra un mercato emergente, come la Turchia e un paese dell'Eurozona che avrebbe dovuto avere una maggiore stabilità».

Ma la vera differenza è stata la fiducia degli investitori internazionali che hanno premiato Ankara con un flusso incessante di capitali sia in Borsa che negli investimenti diretti esteri rispetto ad Atene che ha visto assottigliarsi i capitali. Ankara, tra il 2005 e il 2007, ha ottenuto 60 miliardi di dollari, tre volte il flusso ottenuto nei venti anni precedenti.

E mentre il settore bancario greco, pur cauto, ha subìto gli effetti della crisi (Moody's ha declassato recentemente le cinque maggiori banche) il settore creditizio turco si è mostrato uno dei più solidi tra i paesi emergenti, dopo la crisi del 2001, con un ottimo rapporto tra prestiti e depositi (80%), alta capitalizzazione e basso finanziamento esterno.

Ora però la crisi può diventare un'occasione per Atene per recuperare il decennio perduto a condizione di rimettere i conti a posto, modernizzare il sistema impositivo, riformare pensioni e istruzione, investire nell'economia verde, combattere la corruzione. «L'economia greca - dice Yannis Stournaras, economista di Atene – ha bisogno di una ventata di liberalizzazioni». Ma nemmeno Ankara può dormire sonni tranquilli. Sebbene il premier Tayyp Erdogan guidi dal 2002 il paese verso lo sviluppo in un quadro di stabilità politica e macroeconomica, restano, secondo l'Ocse, alcune priorità quali il miglioramento del sistema scolastico, la riduzione del costo del lavoro, l'incremento del peso del settore privato, il taglio della burocrazia per le Pmi.

La sfida, per entrambi i paesi, è di nuovo aperta in un quadro di maggior collaborazione che permetta l'incremento dei commerci bilaterali e la riduzione delle spese militari (2,8% del Pil per Atene, 1,8% per Ankara secondo la Nato), un fardello che secondo il ministro turco per i rapporti con la Ue, Egemen Bagis, pesa troppo sui rispettivi bilanci. Forse è tempo di ridurre la tensione politica su un confine caldo che resta pur sempre quello tra due paesi appartenenti all'Alleanza atlantica. A chi il primo passo?
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

 

 

 

Grecia: a Un Passo Dai Junk Bond. Europa Scioglie Nodo Tassi (Il Punto)

venerdì, 9 aprile 2010 - 20:01 - di ASCA
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(ASCA) - Roma, 9 apr - Scende ancora il merito di credito sul debito pubblico della Grecia. Fitch ha portato il rating di Atene da BBB+ a BBB-, l'Outlook e' negativo e su Atene pende la mannaia di un nuovo declassamento. Con un rating a BBB-,i titoli di stato della Grecia si trovano appena uno scalino sopra i ''junk bond'' (bond spazzatura), se scendessero a tale livello ci sarebbero due implicazioni di non poco conto. La prima e' che i titoli di stato di Atene non sarebbero piu' acquistabili dalle assicurazioni e dai fondi pensione che escludono dalle loro politiche di investimento i titoli spazzatura (non investe grade). La seconda riguarda la stanziabilita' dei titoli di stato greci nelle operazioni di pronti contro termine con cui le banche, in particolare quelle elleniche ma non solo, si rifinanziano presso la Bce. Ieri l'Eurotower ha prorogato oltre il 2010 la possibilita' per le banche di offrire, in garanzia dei finanziamenti ricevuti dalla Bce, titoli con rating da BBB+ a BBB-. Un concreto aiuto alla Grecia, che potrebbe rilevarsi effimero e di breve durata se il debito pubblico di Atene fosse declassato sotto BBB-. Non vanno meglio le cose sul mercato dei Cds, dove si quota il premio assicurativo da pagare per proteggersi contro l'insolvenza di un emittente di obbligazioni. Basta guardare i dati forniti dalla Cma sul debito degli stati sovrani. La Grecia, da qualche settimana, occupa tra la quinta e la settima posizione dei paesi finanziariamente piu' rischiosi del pianeta. La probabilita' di insolvenza di Atene e' del 29%, un livello persino superiore a quello dell'Islanda (24%). In Europa, peggio della Grecia sta solo l'Ucraina (35%). Oggi i titoli di stato ellenici hanno segnato una modestissima rimonta, quasi invisibile, tanto che il rendimento dei bond a dieci anni viaggia a 7,40% dal record di 7,50% di ieri. Non puo' essere altrimenti considerando il balletto delle cancellerie europee. Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha detto che l'Europa e' pronta a intervenire. Sulla stessa onda il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. E, come sempre, il primo ministro greco, nonostante il costo del debito stia toccando livelli insostenibili, ha fatto sapere che per ora Atene puo' fare da sola. Insomma per ora i prestiti bilaterali di ultima istanza che i paesi dell'Eurozona sono disponibili a offrire ad Atene restano ''in standby''. L'impressione e' che proprio sui prestiti bilaterali si nasconda un problema non di poco conto. Atene avrebbe convenienza a ricorrere ai soldi dei partner dell'Euroclub solo nel caso il tasso d'interesse fosse inferiore a quello che deve pagare sul mercato. Il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha chiarito che il tasso sara' deciso dai paesi che forniranno i fondi, ''da osservatore esterno, immagino che sara' almeno pari al costo che il paese finanziatore paga sul mercato quando raccoglie capitali''. Al momento, la Germania paga poco piu' del 3% per finanziarsi a dieci anni, la Grecia il 7,50%. Quanto dovra' pagare Atene? Questo il nodo che le cancellerie hanno appena detto di aver sciolto. Se poi uscisse anche un numero, 4,50%, 5,50% o altro, la speculazione al ribasso avrebbe un limite, sopra il quale comincerebbe a perdere soldi invece di guadagnarli. Certo il terreno e' scivoloso. I paesi dell'Eurozona, quando e se metteranno mano al portafoglio, dovranno giustificare alla loro opinione pubblica che si stanno indebitando per concedere delle agevolazioni alla Grecia.
 

Fonte - ASCA

 

 

La settimana, 14/2010

Friday, 9 April, 2010 at 16:30 - di phastidio
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Riesplode la crisi greca: nel corso della settimana alcuni episodi hanno riacceso i riflettori sull’”accordo” di salvataggio Ue-FMI della fine di marzo. Dapprima un funzionario del governo greco ha dichiarato che il ricorso al Fondo Monetario Internazionale non risulterebbe gradito ad Atene, a causa di condizioni particolarmente dure che ne deriverebbero.

In seguito sono stati diffusi i dati sull’andamento dei depositi del sistema bancario ellenico, da cui si ricava una non trascurabile fuoriuscita di capitali. In precedenza si erano registrate prese di posizione del governo tedesco in cui veniva ribadito che l’accesso della Grecia ai finanziamenti di emergenza sarebbe avvenuto a “condizioni di mercato”, cioè senza sussidi impliciti. Infine, il 7 aprile, il governo greco ha autorizzato le quattro maggiori banche del paese ad utilizzare fondi e garanzie pubblici per 17 miliardi di euro, rafforzando sospetti e timori di crescenti tensioni di liquidità, incluse voci incontrollate di tagli di linee di credito da parte di banche estere.

Appare di giorno in giorno più evidente che l’annuncio del salvataggio rappresentava solo un espediente politico per prendere tempo, forse con la speranza che la presa di posizione sarebbe stata di per sé sufficiente a determinare la riduzione del differenziale del costo del debito tra Grecia e gli altri paesi europei in condizioni finanziarie precarie, come il Portogallo. Nella giornata di giovedì 8 aprile il credit default swap sulla Grecia ha toccato il nuovo massimo, sfiorando i 440 punti-base, mentre il differenziale con la Germania, sul titolo di stato decennale, si è portato a circa 427 punti-base.

Si ha la sensazione che per la Grecia il tempo stia per esaurirsi. Il fortissimo rialzo dei rendimenti anche sulla parte a brevissimo termine della curva mette a rischio il rinnovo dei t-bill di Atene (equivalenti ai nostri Bot), anche se le casse del Tesoro greco sono verosimilmente dotate, in questo momento, di un temporaneo surplus di liquidità (derivante dalle emissioni internazionali del mese scorso), col quale fare fronte ad eventuali fallimenti delle aste dei titoli corti. La situazione potrebbe precipitare intorno al 20 aprile, quando giungerà a scadenza un titolo di stato da 8,2 miliardi di euro.

Tra i dati macro della settimana, gli indici dei direttori acquisti di imprese manifatturiere e di servizi in Area Euro raggiungono a marzo livelli di espansione confortante, mentre l’andamento delle vendite al dettaglio in febbraio mostra una contrazione dello 0,6 per cento. Negli Stati Uniti, in febbraio è ripreso il processo di riduzione dell’indebitamento delle famiglie, in particolare dal versante delle carte di credito, come suggerito dai dati relativi al credito al consumo. L’Australia ha aumentato i tassi ufficiali d’interesse, per contrastare il surriscaldamento della propria economia, la più esposta alla locomotiva cinese.

Sui mercati finanziari, la crisi greca torna ad indebolire l’euro e le borse europee (segnatamente le banche), mentre l’azionario statunitense continua a mostrare capacità di recupero, pur con le abituali dinamiche di volumi piuttosto ridotti sul rialzo. La correlazione negativa tra materie prime e dollaro sembra essere stata per il momento archiviata: nel corso della settimana si è avuto un apprezzamento della divisa statunitense ed un contemporaneo rialzo di oro e petrolio, probabilmente frutto di accresciuta avversione al rischio dei flussi internazionali di portafoglio e di attese di più rapido recupero congiunturale per gli Stati Uniti.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

ECONOMIA: SCORTE USA, NO A DOPPIA RECESSIONE

12 Aprile 2010 16:20 NEW YORK - di WSI
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Le aziende americane tornano a riempire i magazzini, fiduciose sulla ripresa economica. Effetti: piu' produzione e maggiori assunzioni. Non manca pero' qualche pessimista: la domanda potrebbe non centrare le attese innescando una nuova frenata.
Da Tiffany a Home Depot, sono molte le societa' americane che sono convinte che la crescita economica sia una realta' e che sia debba mantenere il passo della ripresa per tutto il 2010.

Il colosso dei gioielli sta mettendo in conto un incremento a singola cifra delle proprie scorte per quest'anno, merito anche dell'apertura di nuovi negozi. Il piu' grande retailer a stelle e strisce di articoli per la casa, dal canto suo, "ricostituira' le proprie scorte di magazzino" per supportare le vendite, ha riferito Carol Tome, direttore finanziario del gruppo.

"Ci stiamo muovendo in una fase caratterizzata dalla ricostituzione delle scorte", ha spiegato David Hensley, direttore del coordinamento economico globale di JpMorgan Chase. "Dopo quella del primo trimestre, vedremo una crescita anche nel secondo e terzo".

La casa d'affari con sede a New York lo scorso 2 aprile ha consigliato alla propria clientela di preferire l'azionario all'obbligazionario sovrappesando i titoli ciclici pronti a correre non appena la ripresa economica si fara' evidente. Un esempio per tutti: il Consumer Discretionary Select Sector SPDR Fund (l'Etf che traccia l'andamento del settore dei consumi discrezionali) e' rimbalzato del 112% rispetto ai minimi del 9 marzo 2009.

"L'aspetto su cui le persone non stanno ponendo sufficiente attenzione e' l'importanza che la ricostituzione delle scorte sta per assumere", aveva detto soltanto lo scorso 4 aprile l'ex numero uno della Fed Alan Greenspan in un intervista alla Abc all'interno del programma "This Week". Secondo il predecessore di Ben Bernanke le probabilita' di una doppia recessione "sono calate in modo significativo negli ultimi due mesi".

Stando a una ricerca targata Bloomberg, le possibilita' di una ricaduta dell'economia per quest'anno sono pari al 15%, in calo rispetto al 25% rilevato a settembre. L'economia e' cresciuta del 5.6% su base annua nell'ultimo trimestre del 2009, il miglior dato da sei anni, con le scorte che hanno registrato il maggior incremento contribuendo per il 3.8% del Pil.

Le previsioni per il secondo trimestre in corso parlano di un Pil in crescita del 4.5% e di un contributo in arrivo dalle scorte del 2%. Almeno secondo Joseph LaVorgna, capo economista per l'America di Deutsche Bank con sede a New York. La media di 60 esperti interpellati da Bloomberg e' invece di un +2.8%.

E' il comparto manifatturiero ad aver invertito rotta tornando a riempire i propri magazzini dopo 46 mesi di contrazione. Il motivo della riduzione delle merci sugli scaffali era legato al calo della domanda. Le scorte di magazzino hanno registrato una flessione di $1.3 mila miliardi a settembre dal record di $1.51 mila miliardi nell'agosto del 2008. Secondo i dati forniti dal Dipartimento del Commercio, a Gennaio hanno raggiunto i $1.3 mila miliardi e sono pronti a guadagnare un altro 0.4% a febbraio (il dato verra' pubblicato il prossimo 14 aprile).

"Se le vendite riprendono quota, le aziende hanno tutte le ragioni per rifornirsi", ha riferito Stephen Stanley, capo economnista in Pierpont Securities. Tutto cio' si potrebbe tradurre anche in un ritorno alle assunzioni, effetto di un aumento della produzione.

Il punto piu' rischioso e' rappresentato dal ritmo della ripresa della domanda. "C'e' il rischio significativo" che si assisti a una doppia recessione, ha ammonito Martin Feldstein, professore alla Harvard University. L'idea e' che le vendite non saranno sostenute come ci si aspetta e dunque le aziende si troveranno a gestire piu' lavoratori del necessario e merce invenduta. "I consumatori stanno attraversando tempi difficili. La disoccupazione resta molto alta", ha concluso.

Gli fa eco Jan Hatzius, capo economista per gli Stati uniti di Goldman Sachs, che si aspetta una crescita del 2% nel secondo trimestre e dell'1.5% nella seconda parte dell'anno.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  La Grecia, l’Unione Europea e il dilemma del prigioniero

April 12th, 2010 – di Mario Seminerio

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Dopo una fase di calma apparente, più mediatica che reale, seguita all’annuncio dell’accordo tra Unione europea e Fondo Monetario Internazionale sulla predisposizione di un intervento di sostegno finanziario per la Grecia, la scorsa settimana il problema è riesploso in tutta la sua gravità, innescato da una serie di circostanze, dichiarazioni ed eventi.

Ad esempio alcune dichiarazioni di funzionari governativi greci, non è chiaro in che misura ispirate da fonti ufficiali, sull’eccessiva onerosità di un intervento di quello stesso FMI a cui il governo di George Papandreou minacciava di ricorrere se la Ue non avesse accettato di soccorrere Atene. Poi, il dato sui deflussi di depositi bancari dalla Grecia, in quella che sembra essere una fuga di capitali neppure troppo al rallentatore. Ancora, la richiesta delle quattro maggiori banche del paese di utilizzare il sistema di garanzie pubbliche per 18 miliardi di euro, ed i conseguenti boatos su tagli di linee di credito da parte di altre banche europee. Nella mattinata di venerdì 9 aprile lo spread tra titoli greci e tedeschi, sulla scadenza decennale, ha toccato livelli mai visti dal debutto della moneta unica europea, in un climax che pareva preludere ad una imminente dichiarazione di insolvenza da parte del governo di Atene.

Nel pomeriggio dello stesso giorno sono giunte le “provvidenziali” dichiarazioni di anonime fonti della Ue, secondo le quali sarebbe stato raggiunto un accordo sul livello di tasso al quale la Grecia potrà accedere al finanziamento di emergenza erogato dal FMI e, in via concorrente, da paesi dell’Ue. Questa notizia, ed il particolare momento in cui essa è giunta (imminenza del fine settimana, con liquidità rarefatta sui mercati) hanno innescato frenetiche ricoperture e chiusure di posizioni. L’oggetto del contendere è noto: la Grecia intende fruire di fondi di emergenza ad un costo “non superiore” a quello medio di altri paesi europei, mentre i tedeschi esigono che gli aiuti siano erogati “a tassi di mercato”. Domenica 11 aprile è giunto l’annuncio dell’Eurogruppo, un compromesso che prevede la messa a disposizione del governo greco, per quest’anno, di un massimo di 30 miliardi di euro a un tasso che dovrebbe situarsi intorno al 5 per cento, a cui si aggiungerebbero i fondi del FMI.

Il costo del salvataggio è l’essenza della partita tra greci e tedeschi. Sul piano logico, il “principio” dell’intervento di salvataggio enunciato il 25 marzo era un non senso assoluto. Secondo i tedeschi, la Grecia poteva accedere ai fondi di emergenza solo in caso di impossibilità di accesso ai mercati, ma facendolo “a condizioni di mercato”. Come sia possibile pagare il “costo di mercato” (qualunque cosa ciò significhi) quando il medesimo non intende più prestarti denaro lo sanno solo a Berlino, evidentemente. Nella Ue vi è soprattutto un problema di coordinamento che deriva da differenti funzioni di utilità di breve termine dei paesi membri. I tedeschi e gli altri paesi “rigoristi” vogliono impedire qualsiasi forma di moral hazard futuro, derivante da un salvataggio “a bassa condizionalità” della Grecia. Altri paesi, da sempre europeisti a parole, come l’Italia, vorrebbero invece evitare di dover sborsare alcuni miliardi di euro di prestiti più o meno agevolati alla Grecia. Il punto della questione è che Atene non sarà in grado in alcun modo di tagliare in tre anni il rapporto deficit-Pil di dieci punti percentuali (anche se ottenesse il costo del debito della Germania), neppure se riducesse il paese un cumulo di macerie fumanti.

Per questo motivo sul tavolo vi sono due opzioni: o finanziamenti a tassi sussidiati, oppure la ristrutturazione del debito greco, cioè il default. Vediamo separatamente le due ipotesi. Nel primo caso, resta da definire il quantum del tasso d’interesse del sussidio. L’ipotesi dell’Eurogruppo di un tasso intorno al 5 per cento (ammesso che riesca a superare le fortissime resistenze della Bundesbank), pur rappresentando un parziale cedimento tedesco, resta proibitivo per le condizioni dell’economia greca, che si trova in un infernale circolo vizioso in cui la stretta fiscale deprime il Pil che a sua volta fa crollare il gettito ed impone nuove manovre correttive. Nei giorni scorsi sono stati pubblicati due dati macroeconomici greci più eloquenti di qualsiasi paper o convegno: in febbraio la produzione industriale si è contratta del 9,2 per cento sullo stesso mese dell’anno precedente, ed in marzo l’indice tendenziale dei prezzi al consumo è schizzato dal 2,8 al 3,9 per cento. La prognosi è infausta e pare rafforzare la seconda opzione, la ristrutturazione del debito-default, ad esempio ipotizzando un taglio del valore nominale dei debiti greci del 30-40 per cento.

In questi casi il paese che dichiara il default diventa il paria dei mercati, e può tornare ad indebitarsi solo con differenziali punitivi rispetto ai paesi solvibili. Ma la storia ha anche dimostrato che i mercati possono avere la memoria corta, se solo il reo si incammina su un sentiero virtuoso di crescita, che di solito inizia con una robusta svalutazione della moneta. Ma nel caso greco ciò è ovviamente precluso dall’adesione all’euro, e ad oggi nessuno pensa ad un’uscita della Grecia dalla moneta unica; meno che mai Atene, che in questa permanenza ha il proprio maggiore asset negoziale verso l’Ue. In caso di default, inoltre, le banche creditrici (in prima fila quelle tedesche e francesi) sarebbero costrette ad incassare pesanti perdite, con ovvie ridondanze sul sistema finanziario europeo, visto che il dissesto greco innescherebbe un effetto-contagio sugli anelli deboli della catena che andrebbe a sommarsi all’effetto sistemico: banche tedesche che posseggono titoli greci si indeboliscono e contagiano banche italiane, che “non parlano inglese” e neppure greco, ma in compenso posseggono titoli di banche tedesche, e così via. In breve, rischieremmo di finire con un sistema bancario europeo schiantato e devastanti impatti sull’economia reale, causati dall’inevitabile stretta creditizia che da questo evento deriverebbe.

Come uscirne? Questa vicenda, oltre che della storia dell’Unione europea, diverrà anche un capitolo dei manuali di teoria dei giochi. Quello che oggi sembra evidente è che la scelta è tra un danno ed una catastrofe, ma non scommetteremmo sulla capacità della politica di approdare al primo esito.
 

Fonte - Epistems.org

 

 

 

  Venerdì 09 Aprile 2010   Lunedì 12 Aprile 2010   Martedì 13 Aprile 2010  
       
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  La Grecia contro tutti e tutto

mercoledì 14 aprile 2010 – di Giuseppe Sottile*

Giuseppe Sottile è curatore del sito http://www.countdownnet.info/ che si occupa di economia nell’ambito della teoria Marxiana.

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“Greeks have been living beyond their means”. Sono oramai trent’anni che governi e istituzioni economico-finanziarie ripetono questo motivetto per ogni Paese. L’Europa si dotò di strumenti finalizzati a far fronte a questa presunta opulenza con il trattato di Maastricht, il quale ebbe come scopo principale quello di giustificare tagli alla spesa sociale in ragione di una crisi fiscale sorta a partire da un declino economico che ha la sua origine nei primi anni ’70. E’ chiaro che presunti “eccessi” di spesa hanno senso solo in ragione d’una riduzione relativa delle entrate fiscali. Negli ormai lontani anni ’50 e ’60 nessuno si lamentava della crescita della spesa pubblica e dunque del ruolo dello Stato nel computo del PIL, nel mentre le lamentele iniziano a fare la loro comparsa proprio quando questa crescita rallenta ed addirittura si riduce (esclusa la parte di spesa pubblica che sempre più in forma diretta o indiretta – ossia in uscita o entrata - si è rivolta al sostegno del settore privato).

Sono ormai trent’anni, appunto, che sono in voga e vanno di moda presso i governi e le istituzioni “scientifiche” che li supportano in veste di apparati economico-finanziari politiche economiche (monetarismo deflazionistico) e legislazioni sul lavoro che, tentando inutilmente di creare condizioni adatte alla ripresa della crescita economica (ossia dell’accumulazione), hanno aggravato le condizioni di vita dei salariati. Una ripresa in verità v’è stata, consistente nella nascita di una nuova dinamica economica: lo speculative capital, che da tempo impedisce una espansione dell’accumulazione in forma classica, ossia sottrae reddito monetario dalla cosiddetta economia reale, grazie soprattutto ad uno sfruttamento intensivo di una forza-lavoro in permanente diminuzione. Esso così svolge de facto un ruolo rivoluzionario poiché genera tutte le condizioni necessarie al superamento della barbarie che il capitalismo ci sta consegnando.
E tuttavia v’è da precisare come quelle politiche economiche sono state sostenute e continuano ad esserlo nei fatti dai salariati, i quali identificando la ricchezza prodotta con la sua forma monetaria hanno anch’essi creduto, e sembrano ancora credere, che siano necessarie “politiche dei sacrifici”. Incremento della tassazione indiretta (e anche in diversa misura sul lavoro dipendente), tagli alla spesa pubblica in specie sociale (si vedano ad es. le modifiche nei regimi pensionistici), incremento dell’età pensionabile, detassazione dei redditi da capitale, deregulation, riduzione del sostegno all’occupazione ecc, ecc, ecc, tali misure hanno prodotto un peggioramento della qualità (capitalistica) della vita e null’altro.

La novità di questi ultimi mesi è che per la prima volta in trentacinque anni di declino economico (non crisi, termine ideologico usato nella bagarre politica) i lavoratori d’un paese marginale della UE stanno dicendo a gran voce: Basta! E per giunta in forma relativamente organizzata, contro i sindacati di regime ed un governo di sinistra che vorrebbe propinare politiche volte all’incremento della barbarie sociale con i soliti, monotoni e criminali argomenti.
I lavoratori greci si trovano al momento contro tutti poiché in Europa non si è ancora formato un movimento che sostenga la loro lotta. Tuttavia la situazione è assai interessante e direi rivoluzionaria giacché ciò che sta accadendo in Grecia sarà la condizione che si troveranno di fronte anche i lavoratori di ogni altro Paese. La situazione di default della Grecia, infatti, è quella che tutti affrontano e affronteranno nei prossimi anni per via dell’indefinito acuirsi del declino economico. Ai lavoratori greci non resta al momento che continuare nella resistenza o subire le conseguenze di un ulteriore riduzione del deficit pubblico dal 12 al 3 % per il 2012 ed il pagamento di miliardi di nuovo indebitamento pubblico via emissione di nuovi bond. In aggiunta a ciò, va rilevato che governi ed istituzioni finanziare UE si troveranno costretti a soccorrere i vari Paesi per impegni finanziari in scadenza di vario tipo (bond, deficit fiscali dei degli stati membri etc.) e sistemi bancari, con una previsione di spesa stimata più di €1,5 trilioni, che ricadrà sui conti pubblici con ulteriori tagli. In realtà si tratta di un indebitamento che si autoalimenta fagocitando il sistema economico, in analogia a quanto succede tra questo e la dinamica della speculazione. La ciliegina sulla torta viene offerta dai Cds (le scommesse sui default di vari Paesi), che concorrono grandemente ad aggravare il quadro della situazione finanziaria della Grecia.

Di là dalle cifre sul debito pubblico greco, sullo stato comatoso del welfare state, sulla situazione fortemente critica del sistema bancario, sullo stato della performance economica nel suo complesso e sullo stato della “lotta di classe” dei lavoratori greci, che non ha impedito loro nel corso degli ultimi decenni di darsi governi caratterizzati da una diarchia politica, questi ultimi si trovano per necessità costretti o a subire un ulteriore imbarbarimento sociale, che è quanto un capitalismo morente e non più in grado di riprodursi può esprimere, o tentare di sperimentare un sistema sociale che non faccia più della merce “la forma generale della ricchezza” (mercato capitalistico, ma mercato tout court giacché quella forma generale si presentata solo con il capitalismo), cercando di trainarsi dietro altri settori del lavoro salariato nel resto d’Europa. Il sentore di una via verso un socialismo tutto da inventare in ciò che si produce e nel come si distribuisce è presente in parecchia pubblicistica, ma solo individui che vivono di lavoro salariato, un lavoro che non garantisce più gli standard di vita conosciuti, possono mettere fine a questa esperienza storica di riproduzione della specie in direzione di una superiore.
Tutti coloro che dall’alto dei loro troni al momento inneggiano alle politiche di austerità in Grecia potranno così essere messi nel posto in cui la Storia potrebbe destinarli.
 

Fonte - www.countdownnet.info

 

 

 

 

 

PIIGS, DEBITI E DEFICIT: E ORA SCATTA L'ALLARME PER LA SPAGNA?

15 Aprile 2010 10:00 NEW YORK - di IL SOLE 24 ORE
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Se la sfiducia dei mercati dovesse abbattersi su Madrid (un assaggio c'è stato lo scorso 4 febbraio quando la Borsa è crollata in una sola seduta del 6%) con la stessa intensità con cui ha colpito ultimamente altri paesi della...
José Luis Zapatero in una recente intervista ha detto che adotterà qualsiasi misura pur di rilanciare l'economia spagnola e pur di riordinare i conti pubblici entro il 2013 così come promesso a Bruxelles e ai partner europei.
La dichiarazione è importante perché la Spagna è la quarta economia nella Ue e ha quindi un peso specifico ben superiore a quella di altri "pigs" come Grecia e Portogallo.
Se la sfiducia dei mercati dovesse abbattersi su Madrid (un assaggio c'è stato lo scorso 4 febbraio quando la Borsa è crollata in una sola seduta del 6%) con la stessa intensità con cui ha colpito ultimamente altri paesi della zona euro, per la moneta europea sarebbe un vero disastro.
La domanda è dunque se la Spagna sia realmente una nazione a rischio come di volta in volta sembrano indicare le analisi delle principali agenzie di rating internazionali (il debito a lungo termine è sotto osservazione con possibili implicazioni negative ed è stata tagliata la notazione ad alcune casse di risparmio) o di alcune banche.
Tanto più che il Tesoro dovrà emettere quest'anno debito per oltre 210 miliardi di euro per far fronte al rimborso di quello in scadenza e per finanziare gli interventi varati a sostegno dell'economia.
«Il peggio - dichiara Juan Ignacio Crespo, responsabile di Thomson-Reuters - è ormai alle spalle e non vedo all'orizzonte alcun default. Le ultime emissioni sono andate bene e sui Cds il differenziale con la Germania si sta gradualmente riducendo. Pur nelle difficoltà contingenti, sulla Spagna non ci sono mai stati grandi problemi di fiducia. Il paese è solvibile, paga con puntualità e continuerà a farlo anche in futuro, tant'è vero che il debito in scadenza (90 miliardi di euro restano da rimborsare nel 2010) viene continuamente rinnovato senza sforzo e così quello addizionale che corrisponde all'incremento del disavanzo pubblico».
Secondo l'analista di Thomson l'economia spagnola ha sì 6-9 mesi di ritardo rispetto alla ripresa degli Stati Uniti, ma ci sono segnali che la situazione stia gradualmente migliorando.
In particolare, secondo Juan Ignacio Crespo è importante il fatto che il tasso di risparmio degli spagnoli non sia stato mai così elevato (18%) come negli ultimi mesi. Ma anche che l'inflazione sia contenuta. Due fattori, che permettono di guardare all'aumento dell'indebitamento spagnolo (dall'attuale 55% all'80% circa del Pil in 3 anni) e al deficit (che verrà ridotto dall'attuale 11,4% al 3% nel 2013), con relativa tranquillità.
In realtà i rischi non mancano. La crisi provocata dallo scoppio della bolla immobiliare, che è stata lenta e non improvvisa come quella sui prodotti tossici di altri paesi, è entrata nel profondo del tessuto economico del paese e si è allargata ad altri settori come l'auto e il turismo, ma anche a quello bancario.
Le cifre che danno un quadro della realtà quotidiana sono quindi il milione di case invendute; gli oltre 4 milioni di disoccupati (20% del totale); le sofferenze bancarie che crescono di mese in mese; l'indebitamento delle famiglie (176% del Pil, secondo McKinsey) che porta il totale dell'esposizione del paese (pubblico e privato congiunti) al 400% del Pil circa; il calo della produzione industriale (-2,5% a gennaio).
Il tutto mentre i conti pubblici sono fuori controllo e c'è chi dubita che possano essere rimmessi in ordine entro il 2013.
La Spagna è passata in 5 anni dall'essere un paese virtuoso, in forte crescita, a una nazione con uno dei maggiori disavanzi nella Ue e una delle recessioni più marcate.
Qualcuno dice che il paese ha fatto il passo più lungo della gamba e che sarebbe stato meglio restare fuori dall'euro: sarebbe bastata infatti una modesta svalutazione della "peseta" per superare la crisi.
Invece questa crisi ha messo a nudo i limiti di un modello basato sulla "old economy" fortemente "labour intensive". Per questo, per superare la cultura conservatrice del paese, urgono riforme strutturali a tutti i livelli: sociale, economico-produttivo, educativo.
Riforme che il paese ha i mezzi per varare, potendo contare sulle basi di un sistema sanitario e di un sistema pensionistico solidi, garanti del benessere sociale.
Zapatero ha intuito che la fase di stallo non può continuare e che è urgente rimodernare il paese. I tempi sono però lunghi: c'è bisogno infatti di ripianare l'attuale situazione, che prenderà i prossimi due anni di quel che resta della legioslatura, ma anche e soprattutto del consenso politico. E questo è lo scoglio principale da superare.
 

Fonte - IL SOLE 24 ORE

 

 

 

LA CINA CORRE: ALLE PRESE CON POSSIBILI BOLLE

15 Aprile 2010 18:45 NEW YORK - di WSI
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Il ritmo di crescita e' il migliore da tre anni. Yuan destinato ad apprezzarsi. La banca centrale temporeggia sui tassi. Preoccupa di piu' il rialzo dei prezzi nel real estate. Gli analisti ritoccano all'insu i target sul Pil di fine anno.
Il ritmo di crescita piu' veloce da almeno tre anni. E' quello registrato dal Pil cinese nei primi tre mesi dell'anno. Si alimentano gli interrogativi su se e quando il governo locale possa cambiare la propria politica valutaria che ha tenuto a freno lo yuan a quota $6.83 negli ultimi 21 mesi.

Il prodotto interno lordo e' cresciuto dell'11.9% rispetto a un anno prima. Si tratta di un risultato superiore all'11.7% atteso dagli analisti interpellati da Bloomberg.

Un rialzo piu' ristretto del previsto sui prezzi al consumo (+2.4% a marzo su base annuale contro un +2.6% atteso e un +2.7% registrato a febbraio)riaccende il dibattito in corso a Pechino sulla tempistica da adottare per rialzare i tassi di interesse, tagliati nel 2008 per rispondere alla crisi finanziaria globale. Australia e India si sono gia' mosse in questo senso mentre Singapore ieri ha permesso una rivalutazione della sua valuta con la fine degli stimoli a sostegno dell'economia, volendo evitare rischi inflativi e bolle speculative.

"La prossima mossa sembra orientata a una rivalutazione dello yuan", ha detto Glenn Maguire, capo economista per l'area Asia-Pacifico di Societe Generale con sede a Hong Kong. Secondo l'esperto, l'andamento dell'inflazione potrebbe portare la banca centrale a ritardare il rialzo del costo del denaro fino alla seconda parte dell'anno.

In seguito alla pubblicazione dei dati sul Pil e al rialzo record dei prezzi nel comparto immobiliare, il governo cinese ha oggi annunciato misure idonee a raffreddare la situazione. Allo studio nuove tasse, incluse quelle sui profitti derivanti dalla vendita di immobili. A marzo i prezzi rilevati in 70 citta' sono cresciuti dell'11,7% rispetto allo stesso mese del 2009. A preoccupare e' soprattutto il trend crescente: a gennaio l'aumento era stato del 9,5% e a febbraio del 10,7%.

Sono molti gli investitori, incluso Jim Chanos (operante nel settore degli hedge funds) a scommettere su una bolla riguardante case ed edifici a uso commerciale. Se esplodesse, le conseguenze sarebbero devastanti per tutto il mondo. "Le misure annunciate quest'oggi fanno capire quanto il governo sia riluttante ad alzare i tassi di interesse ma sembra molto improbabile che nuove tasse siano sufficienti a frenare il mercato immobiliare", ha osservato Brian Jackson, strategist con sede a Hong Kong di Royal Bank of Canada.

A tutto cio' si aggiungono le pressioni inflazionistiche. I dati odierni fanno pensare che il target previsto dal governo per fine anno del 3% potrebbe non esser raggiunto. Per meta' anno dovrebbe attestarsi al 2.5%. Intanto c'e' chi vede un apprezzamento della valuta di oltre il 3% nei prossimi 12 mesi.

D'altra parte, invece che guardare a un rialzo del costo del denaro, la Cina ha pianificato una riduzione del 22% sull'accensione di nuovi prestiti rispetto al record di $1.4 mila miliardi registrati l'anno scorso. Gli analisti sono divisi su quando potrebbe aumentare il costo del denaro preso in prestito. Royal Bank of Canada si aspetta una mossa entro il mese in corso mentre Bank of America - Merrill Lynch guarda al quarto trimestre. Si ricordi che l'ultima volta che la Cina ha registrato una crescita dell'economia superiore all'11% (era il primo trimestre del 2006), la banca centrale ha alzato i tassi entro il mese successivo.

I policy makers, dal canto loro, hanno tenuto a precisare che la crescita messa a segno da gennaio a marzo e' legata alle misure di stimolo fiscale. Il rialzo, poi, sembra notevole perche' confrontato con i bassi livelli del 2009. se le esportazioni sono rimbalzate, le importazioni sono cresciute a un passo piu' veloce.

Quanto al Pil odierno, Royal Bank of Scotland si aspettava un +14.5%, piu' del consensus. La reazione delle case d'affari e' stata comunque immediata. Citigroup ha alzato il target per fine anno al 10.5% dal 9.8%. JPMorgan Chase & Co. si spinge un pochino piu' in alto, al 10.8 per cento dal 10% mentre RBS risulta la piu' ottimista: +11% da +10%.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

«La bolla sul mattone cinese non sarà il nuovo subprime»

16 Aprile 2010 08:24 NEW YORK - di Vittorio Carlini
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«Lo yuan verrà rivaluto? Credo di sì e sarà un bene per l'economia mondiale». C'è una bolla sulle banche cinesi che rischia di scoppiare? «Non credo. L'unica bubble che vedo è quella sul mercato immobiliare commerciale delle grandi città cinesi della costa». Creerà problemi sistemici? «No, la situazione è ben diversa da quella dei subprime americani». Jim Rogers, noto investitore americano, da tempo trasferitosi nel Far East, è un fiume in piena. Raggiunto al telefono dal sole24ore.com, in una pausa dei suoi continui viaggi, spazia da un argomento all'altro. Non rimane, quindi, che estrapolare alcune delle indicazioni per definire i punti essenziali del suo pensiero.

La Cina e le bolle

Dal paese del Dragone non si contano le mille voci su possibili scoppi di bolle pronte a seminare il panico sui mercati: dalle quotazioni delle banche al mondo immobiliare. In un recente report Citigroup, per esempio, pur non indicando un imminente pericolo, ha sottolineato che la capitalizzazione dei grandi istituti finanziari è pari circa al 30% del Pil cinese. Un livello, tra i paesi emergenti, (o presunti tali) che è avvicinato solo dal Brasile (poco meno del 25%). «Non credo ad una bolla sulle banche di Pechino - afferma Rogers -. I titoli non sono sottovalutati e, quindi, io me ne sto ben alla larga; tuttavia, non penso che non ci sia pericolo sul fronte bubble». La stessa Citi sottolinea che un supporto al sistema bancario è la crescita degli utili. Un incremento sostenuto dalla «forte espansione economica - dicono gli esperti della banca- , da bassi rapporti di cost/income e da un mercato contraddistinto dell'oligopolio». Anche se, va detto, l'opacità del sistema non induce certo a traquillizzare gli animi. Cui deve aggiungersi un'ulteriore considerazione: nel report di Citigroup si fa notare che, nel 2006, il rapporto maggiore tra market cap e Pil si aveva in Spagna (quasi il 40%), dove poi la bolla è scoppiata.

«Al contrario - aggiunge il guru delle commodity - il rischio è concreto e reale nel real estate commerciale delle grandi metropoli lungo la costa». Insomma, è il famoso tema della speculazione immobiliare del Dragone che impensierisce molto gli investitori occidentali: si teme un nuovo tsunami subprime. «Non facciamo confusione - dice Rogers con forza -. Si tratta di un mondo completamente diverso. La speculazione sta già scoppiando ma non avrà delle conseguenze sistemiche: ci saranno persone che perderanno i loro soldi, altri ne guadagneranno. Come sempre accade nel mondo degli investimenti. Ma il fenomeno dei subprime» è stato un'altra cosa. Per quale motivo? «Negli Usa è saltato un sistema basato su un eccesso di debito e su prestiti erogati a chi non aveva alcuna garanzia. In Cina, invece, i mutui sono dati solo dietro garanzia di depositi». E, comunque, il livello di risparmio è molto più alto che negli Stati Uniti. Quindi, sembra dire Rogers: non parliamo a vanvera...

La rivalutazione dello yuan

Rispetto, invece, alla questione della svalutazone del dollaro contro la divisa cinese Rogers non si appassiona troppo. «Sarà rivalutato lo yuan- dice-. Credo che avverà e sarà un bene per le economie. L'america riuscirà a migliorare le esportazioni verso le aree dell'Estremo Oriente». Ma, come dire: non prevedo chissà quali rivoluzioni.

Attenzione alle obbligazioni governative Usa
Dove, al contrario, Rogers insiste nel mettere in allerta gli investitori è sul fronte dei titoli governativi americani a lunga scadenza. «Lì c'è una "new bubble"- dice- . A fronte di una montagna di debito emesso dal governo di Washington il rendimento di emissioni, come quella trentennale, è troppo basso». Non viene prezzato il rischio di credito, insomma. E questo è la conseguenza di massicci acquisti dei bond, spesso da parte di quelle banche che li usano come collaterale per incamerare liquidità dalla Fed e quindi dallo stesso governo. Un meccanismo che fa alzare i prezzi, schiacciando lo yield. «Entro la fine dell'anno la bolla può scoppiare - afferma Rogers -. Ci sarà la necessità di una stretta della politica monetaria con le note conseguenze, per esempio, sui mercati azionari». Quindi prevede una recessione a doppia «W»? «Ma cosa vuol dire doppia "W"? La crisi l'abbiamo superata, lo dicono tutti - risponde Rogers, con un tono che si fa sarcastico -. Come sempre nei sistemi capitalistici ci sarà un'altra recessione, prima o poi. È il sistema che funziona così. Ne abbiamo viste tante. Ne vedremo tante altre. Certo, con il peso degli interventi già realizzati sarà più dura dell'ultima. Quando accadrà? Chi può dirlo: tra un anno, tra due..ma ci sarà».
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

 

 

 

 

  Su Obama l'ombra di 13 uomini d'oro

18 Aprile 2010 15:32 WASHINGTON – di Enrico Brivio

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«La mia amministrazione è l'unica cosa che ancora rimane tra voi e le forche popolari». A parlare, con tono fermo, è Barack Obama, di fronte a 13 banchieri convocati alla Casa Bianca. Sono gli amministratori delegati dei più importanti gruppi di Wall Street, da Lloyd Blankfein di Goldman Sachs a Jamie Dimon di JP Morgan. È una gradevole giornata di sole, quel 27 marzo 2009, per chi passeggia negli ariosi parchi di Washington. Meno propizia per l'economia globale, ricordano l'ex capoeconomista del Fondo monetario internazionale, Simon Johnson, e il consulente di McKinsey, James Kwak, in 13 bankers: the Wall street takeover and the next financial meltdown (13 banchieri: la conquista di Wall Street e il prossimo collasso finanziario) libro fresco di stampa negli Stati Uniti.
Un giorno poco felice - secondo gli autori - non solo perché a quel punto la borsa americana è arrivata a perdere il 40% nel giro di sette mesi, l'economia statunitense ha subìto un'emorragia di 4,1 milioni di posti di lavoro e il Pil mondiale per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale si trova in fase di contrazione. Ma perché quell'incontro primaverile simbolizza, più di altri, il "patto scellerato" stretto dall'amministrazione Obama con i big di Wall Street. La scelta di proteggere in qualche modo i grandi banchieri dall'ira popolare, di condividere il destino con i manager che avevano generato il disastro, di sentirsi tutti su una stessa barca. «L'amministrazione Obama decise, come precedentemente quelle di George W. Bush e di Bill Clinton, che aveva bisogno di questo sistema finanziario, dominato da tredici banchieri», chiosano gli autori.
La tesi di Johnson, brillante docente alla Sloan School of Management del Mit e co-autore con Kwak anche del cliccatissimo blog Baseline Scenario, è che Wall Street da vent'anni ha assunto un indebito potere su Washington. E il frutto avvelenato di questo "takeover" del potere economico su quello politico è che non si è colta l'occasione del crack del 2008 per effettuare una vera riforma del sistema finanziario.

A Obama i due economisti riconoscono di aver tentato di ottenere concessioni dai banchieri, per attuare una profonda revisione delle regole dell'economia e arginare stratosferici bonus, che fanno infuriare la gente. E a onor del vero proprio ieri, nel discorso radiofonico settimanale, il presidente ha affermato che se il Congresso non approverà la legge di riforma dei mercati finanziari gli Usa vivranno presto una nuova crisi che graverà sui contribuenti.«Ogni giorno di inattività - ha detto, riferendosi alle lungaggini dell'iter parlamentare - significa che lo stesso sistema che ha dovuto portare ai salvataggi rimane al suo posto, con gli stessi difetti».
Ma il risultato appare per ora deludente a Johnson. Anche il progetto di riforma presentato dal senatore democratico Chris Dodd non viene considerato sufficiente, in quanto si limita a delegare più potere alle autorità di controllo, invece d'istituire tetti alle dimensioni delle banche, ritenuti indispensabili. «Obama ha chiamato i 13 banchieri per salvarli nel modo più generoso mai immaginabile nella storia finanziaria - ribadisce Johnson, parlando di fronte a un annacquato cappuccino nel refettorio del King's College di Cambridge - nessuna condizione, nessuna ripercussione negativa per le banche e per i manager che avevano portato al disastro. Il sistema di incentivi non è stato cambiato e la situazione è addirittura peggiorata negli ultimi due anni». Apre il suo libro a pagina 203 per additare un grafico che dimostra come le sei più grandi banche d'investimento (Morgan Stanley, Goldman Sachs, Wells Fargo, Citigroup, Jp Morgan Chase e Bank of America) abbiano aumentato le proprie attività in relazione al Pil americano, anche dopo la crisi. «Prima del settembre 2008 si poteva dibattere se esistessero banche troppo grandi per fallire - osserva Johnson - dopo quell'incontro alla Casa Bianca i partecipanti hanno saputo di esserlo. E così hanno continuato a ragionare all'insegna dell'adagio: meglio vanno le cose, più grandi dobbiamo diventare».

Il co-autore Kwak, commentando dal suo blog le ultime inchieste su Goldman Sachs, precisa che «la crisi finanziaria non è stata creata da comportamenti criminali» e che, se anche ce ne sono stati, non hanno rappresentato l'elemento determinante di un crack, che sarebbe avvenuto anche senza alcuna palese infrazione della legge. Ma grazie a un'arrendevole compiacenza di Washington nei confronti del rampante clima di laissez faire voluto da Wall Street.
Per questo Johnson e Kwak non ritengono che sia sufficiente reintrodurre la suddivisione tra banche di raccolta dei depositi e commerciali o di investimento, come previsto dal progetto Dodd, riecheggiando il Glass Steagall Act, approvato dopo la crisi del '29 e abolito ai tempi di Clinton. «Ci dovrebbero essere dei tetti sulle dimensioni - sostiene Johnson - più alti per le banche che svolgono attività tradizionali e più restrittivi per chi opera come Goldman Sachs». Nel libro si specifica che sarebbe utile limitare a non oltre il 4% del Pil americano (circa 570 miliardi di dollari) il tetto delle attività di ogni istituto finanziario operante negli Stati Uniti, mentre per le banche d'investimento come Goldman Sachs il limite dovrebbe scendere al 2% del Pil Usa, (circa 285 miliardi di dollari). Limiti che imporrebbero riduzioni delle attività proprio delle sei banche citate precedentemente, che vanno da Bank of America con attività pari al 16% del Pil Usa a Morgan Stanley con il 5 per cento.

Fondamentale è per Johnson e Kwak scolpire questi interventi nell'ordinamento giuridico e non limitarsi a migliorare la supervisione finanziaria. «Anche se il governatore Ben Bernanke e i suoi colleghi sono diventati più sensibili ai problemi dei rischi finanziari - afferma l'economista del Mit - se non ci saranno regole chiare, la prossima volta che ci sarà un'amministrazione repubblicana si ritornerà a lasciare totale libertà alle grandi banche».
Il rischio? Ritrovarsi nell'abisso di una crisi ancor più nera. Ma dov'è la prossima bolla? «Non credo sarà nei subprime o nei mutui - risponde Johnson - perché lì ora si fa più attenzione. Potrebbe essere provocata dagli investimenti nei mercati emergenti. Ogni consulente finanziario che incontro mi dice: i mercati emergenti andranno benissimo, negli ultimi due anni sono andati meglio del resto, la Cina può solo salire».
Per l'economista c'è il rischio che si crei una spirale vorticosa con investitori asiatici che convogliano i guadagni in banche too big to fail negli Stati Uniti e in Europa, che a loro volta prestano i soldi ad altri operatori probabilmente anche nei mercati emergenti. «È un po' come riciclare petrodollari negli anni 70, è un ciclo che andrà bene per un po' di anni e poi salterà per aria di nuovo - prevede Johnson - e quando salterà le conseguenze saranno ancor più dure per gli Stati Uniti». Per esorcizzare questi problemi, Johnson e Kwak si augurano che Obama e il Congresso dimostrino il coraggio di Theodore Roosevelt quando, nel nome della concorrenza, nel 1902 attaccò Northern securities, sfidando l'idea comune del tempo che i trust industriali fossero naturali. E che, per il bene del mercato, s'imponga una cura dimagrante all'oligarchia finanziaria delle grandi banche di Wall Street.
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

 

 

  Mercoledì 14 Aprile 2010   Venerdì 16 Aprile 2010   Sabato 17 Aprile 2010  
       
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  Obama e i mercati: quattro parti di realismo e una di idealismo

22 Aprile 2010 12:08 MILANO – di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR.

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Il fisico può contare su una costante ripetibilità dei risultati di un esperimento o quanto meno su una prevedibilità statistica. Per contro, lo scienziato sociale non può fare esperimenti e, anche se li potesse fare, non potrebbe contare sulla ripetibilità dei risultati in contesti storici differenti. Al fisico che studia come cade un sasso non interessa se il sasso, soggettivamente, attribuisca un significato al suo cadere per terra, mentre lo scienziato sociale deve indagare la soggettività e interpretarla se vuole capire qualcosa di quello che studia.

Proviamo allora a utilizzare questo metodo per capire ad esempio che cosa si propone l’Amministrazione Obama quando attacca Goldman Sachs, o il governo cinese quando aziona i freni sulle case e sul credito o, ancora, che cosa possono avere in mente la Bundesbank e la classe politica tedesca quando pensano alla Grecia.

Obama non è un idealista alla Woodrow Wilson. Ha probabilmente quattro quinti di realismo e un quinto di idealismo. Se non fosse così, difficilmente avrebbe potuto emergere nella Chicago politica, uno dei mondi più duri e spietati che si possano immaginare in un contesto democratico. Possiamo quindi supporre che il suo imperativo darwiniano sia, come per quasi tutti i politici, quello di sopravvivere (ovvero avere consenso ed essere rieletti) facendo in più qualcosa, se possibile, che vada nella direzione della componente ideale.

Come dice giustamente Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario, i presidenti sono ricordati (ed eventualmente rieletti) per un massimo di due o tre scelte politiche o eventi che hanno caratterizzato il loro primo mandato (nel secondo fanno in genere ben poco). Obama ha incassato la riforma sanitaria, ma dovrà rinunciare all’ecologia, se non nella forma di una carbon tax sulla benzina. Il secondo e il terzo punto della sua eredità saranno quindi, probabilmente, la ripresa economica e la riforma della finanza.

La ripresa economica è molto più importante della riforma della finanza. Lo è oggettivamente, ma lo è anche e soprattutto dal punto di vista soggettivo di qualcuno che vuole essere rieletto. L’opinione pubblica notoriamente non ama le grandi banche e in periodi di crisi detesta qualsiasi figura o atteggiamento che le ricordino Gordon Gekko. I mercati finanziari, tuttavia, seguono un’altra logica. Accettano una volontà riformatrice prudente e gradualista ma si rivoltano immediatamente se colgono nell’aria un atteggiamento punitivo.

E’ stato così in gennaio dopo che la sbandata psicologica seguita alla sconfitta elettorale in Massachusetts ha risvegliato velleità populiste, subito rientrate quando si è visto che le borse cominciavano a pensare al peggio.

Come dice Greenspan, il rialzo delle borse non ha seguito e nemmeno anticipato la ripresa, l’ha trainata. Questa funzione di traino verso l’alto puo' in un attimo trasformarsi in un traino verso il basso. Un politico accorto come Obama sa fare i suoi conti. Una borsa spaventata può indebolire la ripresa e accrescere il senso di insicurezza in chi è disoccupato e in chi ha un lavoro ma non è più tanto sicuro di poterlo conservare. Gli elettori americani non perdonerebbero in nessun modo un presidente che non li facesse uscire dalla crisi.

Quanto all’attacco alle banche, può certamente portare consenso, ma i repubblicani sono abbastanza accorti da non lasciare questa bandiera ai democratici e seguono un doppio binario. Alla Sec votano contro la messa in accusa di Goldman Sachs, ma in Congresso e in televisione criticano le banche tanto quanto i democratici.

Simon Johnson e molti liberal invocano la dissoluzione di Goldman. E’ più probabile però che ci si limiti a mantenere una certa pressione e che si provi a indurre qualche cambiamento ai vertici. Un attacco duro può essere tenuto nel cassetto per un momento successivo nel caso drammatico di una ricaduta del ciclo economico. Il populismo aggressivo è l’ultima spiaggia cui si ricorre se non si possono vantare successi economici. Anche Roosevelt divenne quasi anticapitalista solo quando il ciclo tornò a volgere al peggio nel 1937.

Solo con le spalle al muro, quindi, la classe politica si rivolgerà contro una delle poche industrie, la finanza, in cui l’America ancora primeggia. Simon Johnson cita la dissoluzione della Standard Oil nel 1911 e quella della Att nel 1982 per dire che l’attacco ai monopoli può non essere devastante.

Dimentica però di dire che l’America di quei tempi era più forte e non considera che le banche non sono un settore qualsiasi, ma un ganglio vitale del sistema. Obama quindi cercherà di arrivare a una riforma moderata e bipartisan. Dopo la lacerazione politica prodotta dalle forzature sulla riforma sanitaria, una riforma più tranquilla e consensuale gli darà modo di ribadire uno dei tratti che lo hanno portato alla Casa Bianca, quello di essere un unificatore.

Veniamo ora alla Cina, dove il crescendo di misure restrittive sul credito (in particolare immobiliare) ha rimesso in circolazione i timori di gennaio su una brusca caduta della crescita con effetti negativi a cascata sulle materie prime.

Se ci mettiamo nei panni dei governanti cinesi vediamo che la percezione che hanno della solidità del loro potere è corretta. In altre parole sanno che il loro grande potere non è assoluto come appare ma è il risultato di un patto implicito che li impegna ad assicurare ai governati crescita e posti di lavoro. Da un punto di vista soggettivo, dunque, una frenata brusca o addirittura una crisi immobiliare e bancaria sono semplicemente impensabili e irricevibili.

Alla bolla immobiliare cinese vanno poi prese le misure correttamente prima di proclamare crolli imminenti e inevitabili. Nel lungo termine i prezzi delle case sono funzione del Pil nominale e della sua crescita. Come nota Capital Economics, il Pil nominale cinese è cresciuto dal 2005 del 15 per cento l’anno. Questo significa, aggiungiamo noi, che il prezzo delle case ha diritto di crescere del 15 per cento l’anno senza violare nessuna legge anti-bolle. Nell’ultimo anno i prezzi sono saliti del 19 per cento e il governo sta già intervenendo.

Molti commentatori sopravvalutano la bolla perché vivono o guardano a Pechino e a Shanghai, dove effettivamente i prezzi (in particolare a Pechino) sono saliti di molto. A Pechino (dati di Morgan Stanley) il prezzo di un metro quadro ha raggiunto i 25mila renminbi, circa 2700 euro. A Shanghai siamo sui 1850 euro e la salita è stata meno impressionante. La Cina però ospita 1300 milioni di persone e solo 36 vivono nelle aree metropolitane di Pechino e Shanghai. Nel resto del paese i prezzi sono molto più bassi e soprattutto si sono mossi poco.

Nessun occidentale vive a Chongquing e nessun turista va a visitarla perché è brutta e inquinata, ma Chongquing è pur sempra la più grande metropoli cinese (35 milioni di abitanti) e le case costano 445 euro al metro e salgono molto lentamente. Non a caso, se si leggono con attenzione le misure di questi giorni, si nota un’enfasi sulla selettività regionale. Solo nelle aree surriscaldate si interviene con energia.

Quanto alle materie prime, la Cina continuerà a comprarle. Il ritmo di crescita rallenterà, ma va ricordato che la Cina accumula materie prime non solo per usarle ma anche come riserve. C’è poi una motivazione cosmetica. Comprare rame o qualsiasi altro metallo fa diminuire il surplus commerciale e può alleggerire (così almeno sperano i cinesi) le pressioni per una rivalutazione del renminbi.

Indossiamo ora panni tedeschi e proviamo a guardare la Grecia da Berlino. Il Wall Street Journal riporta di una riunione a porte chiuse in cui il presidente della Bundesbank Axel Weber ha presentato al governo il vero costo finale di un salvataggio della Grecia. La cifra indicata da Weber è di 80 miliardi di euro, ovvero 35 in più dei 45 già messi a disposizione (30 dai paesi europei e 15 dal Fondo Monetario).

Facciamo ora l’ipotesi che i 35 miliardi in più siano tutti a carico dei paesi europei e facciamo i conti in tasca alla Germania. La quota tedesca, stabilita con il bilancino utilizzato nella linea di credito già annunciata, sarebbe di ulteriori 9.78 miliardi, facciamo 10.

Dieci miliardi sono dunque il prezzo tedesco per risolvere in modo radicale e credibile la crisi greca, evitare il contagio a Spagna e Portogallo, impedire che un euro del nord schizzi verso l’alto e tolga competitività all’industria tedesca, risparmiarsi l’ennesimo salvataggio delle banche che sono piene di titoli greci e spagnoli (e che costerebbe ben più di 10 miliardi) ed evitare il naufragio politico dell’Europa.

Che cosa sono 10 miliardi (prestati, si noti, non regalati) per la Germania? Sono 30 giorni di surplus commerciale. Può la Germania fare a meno per 30 giorni del suo surplus con l’estero e accontentarsi di un pareggio per il quale gli Stati Uniti metterebbero cento firme? Fate voi.

In conclusione, abbiamo provato a soppesare i tre problemi che hanno procurato ansia ai mercati negli ultimi sette giorni, Goldman Sachs, la Cina e di nuovo la Grecia, e ne abbiamo ricavato l’idea che non sono insormontabili, soprattutto in una fase di crescita globale senza inflazione e con alti margini di profitto. I mercati sono arrivati alla stessa conclusione e la correzione, in sette giorni, è stata dello 0.93 per cento sull’S&P 500. In compenso il long bond è salito dell’1.29 per cento. Rimanere investiti.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

 

 

IMMOBILIARE USA: A MIAMI TORNA A SPLENDERE IL SOLE

22 Aprile 2010 22:40 NEW YORK - di WSI
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Posizione attraente e grandi affari. Prezzi in ripresa (era sotto -51%). Vendite e affitti di condomini aumentano a South Beach. Chi visiono' ma poi preferi' non comprare il complesso Caribbean sull'Oceano Atlantico ora si morde le mani.
Nonostante offra una vista unica sull'Oceano Atlantico e una serie di strutture extra di lusso come una cantina di vini e un umidificatore per sigari, il complesso di condonomi Caribbean a Miami Beach fino all'estate scorsa sembrava solo una delle tante vittime della crisi che ha colpito il mercato immobiliare del sud della Florida.

Ci sono state persone interessate a tutte e 103 le unita' abitative del complesso, che comprende un piccolo edificio Art Deco completamente rinnovato e una nuova torre di vetro, ma solo 14 di loro hanno espresso l'intenzione di chiudere l'operazione. Gli altri alla fine se ne sono andati via con la caparra e la coda tra le gambe.

Il Caribbean, all'angolo tra la 37ma strada e Collins Avenue, ha portato ingenti perdite ai suoi creatori, Christa Development of Victor e Bluerock Real Estate, e al suo mutuante, Corus Bankshares di Chicago.

Allo stesso tempo, tuttavia, ha significato un buon profitto per un altro investitore nel real estate Melohn Properties, che ha assunto il controllo della proprieta' dopo aver comprato il mutuo da Corus per $127.7 milioni, ad agosto dell'anno scorso. Melohn ha dovuto sborsare meno della meta' del valore di facciata del mutuo, secondo quanto si legge sul New York Times.

Ci sono solo 15 unita' immobiliari rimaste al Caribbean, Originariamente al prezzo di circa $1100 per piede quadrato, i condomini del complesso ora costano in media $600 per piede quadrato, con quelli al piano piu' alto con terrazze da sogno che valgono $750. La maggior parte degli acquirenti ha pagato la quota in contanti e tutti hanno intenzione di utilizzare i condomini per se'.

Peter Zalewski, proprietario di Condo Vultures, una societa' di brokeraggio specializzata nella vendita di unita' in blocco, ha riferito al quotidiano che una decina di altri investitori hanno chiesto informazioni sul complesso immobiliare di Caribbean, ma che avrebbero poi preferito soprassedere. "Ora hanno tutti dei rimpianti".

Anche se il mercato del mattone a Miami continua a navigare in acque agitate, non e' piu' moribondo. Stando a quanto riferito al New York Times dagli specialisti del settore, l'attivita' e' in ripresa, anche se gli acquirenti che hanno intenzione di vivere nelle abitazioni sono per lo piu' interessati alle proprieta' di lusso situate nelle localita' migliori.

Robert Kaplan, dell'Olympian Capital Group, una banca di investimento nel real estate di Miami, fa sapere che nonostante il complesso Caribbean sia a nord della localita' balneare di South Beach, la sua vista sull'oceano e la costruzione molto solida e affascinante lo rendono attraente.

Jack McCabe, consulente immobiliare della Florida, ha reso noto che gli affitti sono calati cosi' tanto che un nuovo condominio da 1200 piedi quadrati potrebbe essere preso in prestito per soli $1200 al mese, meno di quanto costi ai proprietari coprire tutte le spese.

Il mini-boom non e' molto salutare per il mercato in generale, ma il flusso in entrata di affittuari significa che downtown Miami non e' piu' una citta' fantasma. Ci sono sempre piu' luci e nuovi bar e ristoranti stanno sorgendo.

Tra i motivi della ripresa anche il fatto che sia Fannie Mae che Freddie Mac, due agenzie governative che erogano mutui, hanno allentato le restrizioni imposte, che complicava, limitandole, le attivita' di prestito e le operazioni di acquisto.
 

 

 

PAULSON CAMBIA IDEA, E' BULLISH SULL'IMMOBILIARE

22 Aprile 2010 22:49 NEW YORK - di WSI
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Colui che ha fatto soldi scommettendo contro titoli legati ai mutui subprime e' ottimista sul settore residenziale. Chi ha sofferto di piu' (la California) si riprendera' piu' in fretta. Invariata la strategia sull'oro.
Nel 2007, subito prima dell'inizio della crisi, aveva fatto (probabilmente) carte false per scommettere contro titoli strutturati legati ai mutui subprime. Adesso il famoso manager nell'industria degli hedge fund John Paulson sembra aver cambiato idea dicendosi bullish, ossia molto ottimisita, sul settore immobiliare a stelle e strisce e sull'economia in generale.

Il timing dell'annuncio, dato nel corso di una conference call con gli investitori, e' quanto mai curioso, visto che arriva nel bel mezzo delle indagini avviate dalla Sec, che ha accusato di frode Goldman Sachs per aver ingannato grandi operatori su derivati collegati proprio ai mutui subprime. Vicenda in cui lo stesso Paulson sembra aver avuto un ruolo chiave.

Saranno le indagini a portare a galla la verita' sul passato. Nel frattempo meglio guardare al futuro. Il famoso money manager soltanto tre mesi fa si era detto preoccupato di una possibile doppia recessione ma ora non c'e' piu' da temere. "Al giorno d'oggi non sono piu' preoccupato. La forma della ripresa potrebbe essere a V", ha detto l'esperto aggiungendo che i prezzi delle case si sono stabilizzati e potrebbero crescere dell'8-10% in media negli States nel 2011.

Gli utili societari si stanno rivelando in generale al di sopra delle stime, l'azionario e' ben impostato e c'e' un mercato del credito che mostra segni di "vitalita'". L'outlook per il settore residenziale "nel 2011 potrebbe essere davvero molto solido", ha spiegato.

Paulson gestisce masse per $32 miliardi, cifra che pone la sua societa' al terzo posto tra gli hedge fund mondiali dietro a JP Morgan Chase e Bridgewater Associates. Il gruppo e' cresciuto rapidamente macinando miliardi. Come? Scommettendo contro prodotti legati ai mutui prima che il settore immobiliare andasse a gambe all'aria nel 2007. E guarda caso, una di queste scommesse era proprio contro un cdo (collateralized debt obligation) chiamato Abacus 2007-AC1 confezionato da Goldman Sachs. Lo stesso diventato famoso da venerdi' scorso, da quando l'autorita' della borsa americana l'ha messo sotto la lente.

L'accusa, ormai lo sanno tutti, e' di frode. L'istituto avrebbe omesso informazioni rilevanti che avrebbero potuto evitare grandi perdite a chi aveva scelto di investirci mentre lo stesso cdo avrebbe garantito lauti guadagni a chi lo aveva voluto (Paulson) per scommetterci, ma in modo contrario a quanto stava facendo la clientela.

Ma torniamo alle prospettive future. Paulson si dice molto piu' rassicurato sul fronte di doppia recessione e bancarotta di un paese dell'Europa del sud. "Attualmente sono molto meno preoccupato delle probabilita' che una di queste due eventualita' possa realizzarsi", ha ribadito. I problemi della Grecia, ha spiegato, ora sono molto chiari e compresi e ci si sta lavorando su.

Tornando al comparto immboliare, per il gestore del fondo hedge, la caduta dei prezzi si sta per arrestare. E gli ultimi saranno i primi: la California, la prima ad aver sofferto, sara' la prima a risollevarsi, ha sostenuto. I prezzi nello stato governato da Arnold Schwarzenegger hanno fermano la loro discesa oltre sei mesi fa e i dati piu' recenti dimostrano che ora sono in crescita dell'8-10%. A livello nazionale, ha ricordato Paulson, un simile incremento e' atteso l'anno prossimo.

Paulson non vede rosa solo sul settore case. Siete preoccupati della montagna di debito che le aziende hanno accumulato e che deve essere rifinanziato a partire dai prossimi tre anni? Non serve, ha detto Paulson. Lui si dice tranquillo a tal proposito liquidando coloro che ne sono preoccupati dicendo "c'e' cosi' tanta domanda di debito...". "La fame di credito e' simile a quella di chi e' ingordo", ha aggiunto facendo notare che l'offerta supera "ampiamente la domanda".

Cosa dire sul bene rifugio per eccellenza? Paulson e' stato recentemente il piu' grande investitore in SPDR Gold Trust e possiede importanti quote in almeno una miniera d'oro. All'inizio dell'anno, inoltre, ha dato il via a un hedge fund dedicato al trading del metallo prezioso che pero' ha perso il 14% nel primo mese con la ritirata dei prezzi dell'oro. Ma la sua strategia non cambia: l'oro e' visto come un buon modo per contrastare un'inflazione galoppante. La corsa dei prezzi al consumo pero' non ci sara' fino ai prossimi 3-7 anni, ha anticipato.
 

 

 

RIPRESA A V, PAROLA DI GOLDMAN SACHS

22 Aprile 2010 23:34 NEW YORK - di WSI
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Sfatati i timori di una doppia recessione. La Cina, dove le importazioni cresceranno, fungera' da traino. Il fair value del cross euro/dollaro visto a $1.22. Comprare la sterlina nella seconda meta' dell'anno, a patto che...
Altro che doppia recessione. L’economia mondiale si trova chiaramente lungo la strada della ripresa, la cui forma e’ quella a V. A sostenerlo e’ il capo della ricerca economica globale di Goldman Sachs, Jim O’Neill.
Le azioni offrono un "valore rispettabile", l’unica minaccia del recente rally e’ il rischio di un rialzo significativo dei tassi di interesse, ha aggiunto l’esperto parlando ai microfoni di Cnbc. Questo scenario non e’ ancora chiaro in generale nel breve termine visto che politici e addetti ai lavori temono il ritorno di una recessione che metta nuovamente a tappeto tutto il mondo.
"Gli stessi indicatori che indicavano una frenata dell’economia ora suggeriscono una ripresa nei paesi sviluppati cosi’ come in quelli in via di sviluppo" ha spiegato colui che e’ diventato famoso per aver coniato il termine BRIC, riferito alle economie emergenti di Brasile, Russia, India e Cina.
Intervenendo a una conferenza a Londra (dove si e’ rifiutato di rispondere alle domande riguardanti l’accusa di frode arrivata dalla Sec alla banca per cui lavora) O’Neill si e’ detto preoccupato soltanto della debolezza della spesa da parte dei consumatori a stelle e strisce. Una solida spesa da parte delle aziende americane sta compensando la reticenza dei cittadini statunitensi a spendere di piu’.
Una cosa e’ certa: per l’analista il traino della crescita globale sara’ la Cina. E proprio su questo punto O’Neill lancia un messaggio alla classe politica americana: continuare a parlare di una guerra giocata sul piano commerciale e’ sbagliato. "La leadership politica qui a Ovest e’ debole e non comprende che il surplus commerciale cinese sta calando", ha continuato.
Il vero punto e’ che la domanda interna in Cina sta crescendo del 15% o piu’ e anche le importazioni stanno accelerando. "Basta guardare alla Germania, che presto esportera’ piu’ beni verso l'impero del Dragone che non verso la Francia", ha riferito. Secondo O’Neill, le esportazioni europee stanno andando molto bene, la domanda da parte di Cina e India sta crescendo e in generale i manager tedeschi non sono preoccupati della crisi greca.
Su Atene sono puntati i fari di tutto il mondo, visto che ha iniziato i colloquio con Fmi e Ue sui dettagli del piano di aiuti ma per la Germania, che di fatto fornira’ la maggior parte dei fondi, quella greca e’ una storia positiva.
Cosi’ ha continuato O’Neill sostenendo che gli esportatori tedeschi stanno registrando buone performance nonostante il rafforzamento dell’euro negli ultimi anni. L’esperto vede il fair value per il cross euro/dollaro a $1.22 e crede che la Germania possa spingere la valuta verso tale livello. Come? Essendo pessimista sul salvataggio della Grecia.
Con la sterlina in difficolta’ in vista delle elezioni del prossimo 6 maggio, O’Neill si dice convinto che la valuta di Sua Maesta’ rappresenta un’opportunita’ d’acquisto per la seconda parte dell’anno.
Quanto ai conti della Gran Bretagna, il deficit di bilancio deve esser tenuto sotto controllo, ma nel breve termine non c’e’ bisogno di correre ai ripari con tagli alle spese, almeno fino a quando sara’ chiaro che la ripresa economica e’ sostenibile. Se cosi’ non sara’ il mercato vendera’ i titoli di stato inglesi e la sterlina in modo aggressivo.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  Domenica 18 Aprile 2010   Mercoledì 21 Aprile 2010   Sabato 24 Aprile 2010  
       
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Obama pronto all'affondo sulla riforma della finanza

Corrado Poggi - di Il Sole 24 Ore - Radiocor
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Senza riforma finanziaria, gli Stati Uniti «rischiano una nuova crisi». E' quanto dirà oggi il presidente Barack Obama nel discorso che pronuncerà nel pomeriggio al Cooper Union College di New York. «E' essenziale imparare le lezioni di questa crisi - dirà Obama secondo le anticipazioni del discorso diffuse dalla Casa Bianca - in modo da non condannarci a ripeterle». «E non fatevi illusioni - aggiungerà - questo è esattamente quello che succederà se lasceremo passare questo momento, un risultato che sarebbe inaccettabile per me e per l'intero popolo americano».

Obama approfitterà del discorso per rimettere sotto pressione il Congresso affinché vari in tempi rapidi la riforma del sistema finanziario. La scelta di New York non è casuale: il presidente, libero ora delle preoccupazioni legate alla riforma sanitaria, intende lanciare un messaggio deciso al mondo delle finanza andando a pochi passi da Wall Street, dove la crisi attuale ha avuto luogo ormai tre anni fa. «Uno dei fattori che più hanno contribuito a questa recessione - dirà Obama - è stata una delle peggiori crisi finanziarie mai viste in generazioni. E questa crisi è stata il prodotto di un fallimento di responsabilità, da Wall Street a Washington, che ha abbattuto molti dei principali istituti finanziari del mondo e ha quasi trascinato la nostra economia nella seconda Grande Depressione».

Obama rivolgerà un invito direttamente alle grandi banche, e al partito repubblicano, affinché sostengano il programma di riforme varato dal partito democratico e che verrà messo al voto al Senato la prossima settimana. La riforma del sistema finanziario è un tema di grande interesse per un'opinione pubblica irritata per il salvataggio delle grandi banche con soldi pubblici e preoccupata dalla prolungata paralisi del mercato del Lavoro. Per gli strateghi della Casa Bianca potrebbe anche essere il tema su cui organizzare la campagna elettorale in vista delle elezioni di metà mandato di metà novembre e non a caso nei giorni scorsi la Sec ha sferrato la prima offensiva aprendo un'indagine per frode nei confronti di Goldman Sachs. Nel discorso che pronuncerà di fronte a una platea di circa 700 figure di primo piano del mondo finanziario, Obama indicherà alcune misure concrete.

In primo luogo il presidente sosterrà l'importanza di votare a legge il piano di riforma preparato dal senatore democratico Christopher Dodd che vuole sottoporre a maggiore scrutinio gli hedge fund e i prodotti derivati riducendo le operazioni di trading rischiose e aumentando le protezioni a favore dei cittadini che acquistano prodotti finanziari. La legge prevede inoltre un sistema per liquidare in maniera indolore le grandi istituzioni finanziarie in crisi evitando al tempo stesso le catastrofi provocate da debacle del passato come quella di Lehman Brothers nel 2008. In cima agli obiettivi rimane inoltre la "Volcker rule", cioè il divieto per le banche di fare trading per proprio tornaconto oltre che per quello dei clienti. Attualmente i democratici possono contare al Senato su 59 voti contro 41 dei repubblicani: per passare la legge serve il 60esimo cruciale voto e Obama spera, aumentando oggi il livello della pressione sui repubblicani, di trovare un senatore dell'opposizione disposto a votare a favore. Un risultato che alla Casa Bianca appare ormai a portata di mano anche perché per i repubblicani potrebbe diventare molto difficile presentarsi alle elezioni di novembre esponendosi all'accusa di aver salvato le banche dalla resa dei conti con il paese.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore - Radiocor

 

 

 

Ecco la riforma finanziaria anti-crisi di Obama

Marco Valsania - di Sole 24 ore
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La grande riforma finanziaria di Barack Obama, quella che dovrebbe prevenire il ripetersi di nuove catastrofi finanziarie e dare al governo più efficaci strumenti per risolverle, è in dirittura d'arrivo. I segnali di un superamento dell'impasse tra la maggioranza democratica e la minoranza repubblicana in Congresso, che aveva tenuto il progetto ostaggio dell'ostruzionismo, si sono moltiplicati: Obama raccoglie oggi il messaggio di disgelo in un discorso a New York a Cooper Union, a due passi da Wall Street, invocando il rapido passaggio della legge e chiedendo alle banche di richiamare i loro lobbisti e accettare l'inevitabilità della riforma. Mentre dal Congresso è già giunta la prima approvazione "bipartisan" di un capitolo chiave, la più stretta regolamentazione dei derivati.

La svolta potrebbe portare fin dalla prossima settimana all'apertura del dibattito in aula e ai primi voti sull'intero progetto, il più ambizioso dell'amministrazione Obama dopo la sanità. "Non sono mai stato così ottimista - ha detto l'influente senatore repubblicano dell'Alabama Richard Shelby - credo che sapremo mettere assieme una legge molto rapidamente". Qualche tensione, certo, resta: i democratici affermano che gli avversari hanno ceduto. I repubblicani rispondono di aver costretto la maggioranza a trattare. Quel che è certo, però, è quanto il clima politico sia mutato profondamente a favore della riforma, che potrebbe ora avere vita più facile in Parlamento della sanità, varata tra intense polemiche con i soli consensi democratici. Allo sprint ha contribuito il continuo risentimento politico e popolare contro gli eccessi dell'alta finanza e la nuova offensiva a Wall Street della Securities and Exchange Commission, che ha accusato la regina dell'investment banking e del trading Goldman Sachs di frode ai danni degli investitori. Almeno un alto dirigente di Goldman, forse l'amministratore delegato Lloyd Blankfein o il direttore generale Gary Cohn, secondo indiscrezioni potrebbe trovarsi nel pubblico di circa 700 persone al quale Obama intende rivolgersi con toni duri. "Il libero mercato - afferma il presidente - non era mai stato inteso come una licenza a prendere tutto ciò che si può in qualunque momento. Invece è successo troppo spesso durante gli anni che ci hanno portato alla crisi. Qualcuno a Wall Street ha dimenticato che dietro ogni dollaro c'è una famiglia che cerca di comprare una casa, di pagare per l'istruzione, di aprire un'azienda, di risparmiare per la pensione".

La prova legislativa dei passi avanti della riforma è arrivata da una Commissione parlamentare, la Commissione Agricoltura, sullo scottante tema dei derivati, al cuore della bufera finanziaria del 2008. Il voto, 13 a otto, ha visto il cruciale sostegno del senatore repubblicano Charles Grassley dell'Iowa. Stato agricolo, l'Iowa è particolarmente sensibile alle speculazioni sui prezzi delle commodities. La normativa, proposta dal senatore democratico Blanche Lincoln dell'Arkansas, prevede che gran parte dei derivati sia in futuro trattata in modo più trasparente su veri e propri exchange, con una terza parte che garantisca la transazione (clearing). L'unica eccezione sarebbero i derivati sulle valute, grazie a un'esenzione dal Tesoro. Il piano richiede anche che le grandi banche scorporino le divisioni impegnate in queste attività, ma la misura è invisa alla stessa Casa Bianca e potrebbe decadere nei futuri negoziati.

Alla Commissione Bancaria, nel frattempo, sono scattate serrate trattative tra i due partiti sull'insieme della legge di riforma. I punti chiave su cui avanza l'intesa prescrivono maggiori poteri di controllo sul sistema finanziario alla Federal Reserve e alle autorità dei regolamentazione, con la possibilità di intervenire su colossi non bancari in crisi e di smembrarli. La legge darebbe inoltre vita a un'authority in difesa dei risparmiatori e garantirebbe maggiori risorse alla Sec per operazioni di polizia sui mercati. I protagonisti della discussione sono il senatore democratico Christopher Dodd del Connecticut e il suo collega repubblicano Shelby. Il compromesso cruciale tra i due riguarderebbe la nascita di un fondo speciale da 50 miliardi, finanziato direttamente dalle banche, da usare per interventi in caso di crisi. I democratici sarebbero disposti a rinunciare all'idea, criticata dall'opposizione come un permanente strumento di salvataggio di società in difficoltà.
 

 

 

 

Al G 20 dei ministri finanziari exit strategy e nuove regole

23 Aprile 2010 12:13 - di Sole 24 ore
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Le incognite della ripresa economica in atto, insieme allo stato di avanzamento della riforma del sistema finanziario e alla proposta del Fondo Monetario Internazionale di tassare le banche per coprire i costi di un'eventuale nuova tempesta sono al centro del vertice dei ministri delle finanze e dei banchieri centrali del G20 che si incontreranno oggi a Washington, con sul tavolo anche il nodo degli squilibri valutari e della situazione greca.

A rappresentare l'Italia saranno il ministro dell'economia Giulio Tremonti e il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, presente anche in qualità di numero uno del Financial Stability Board.
L'incontro avviene all'indomani della cena informale dei ministri finanziari del G7: una formazione quest'ultima il cui status sta perdendo peso a favore del più ampio raggruppamento dei Venti, che include anche le principali potenze emergenti del pianeta.
Il dibattito si preannuncia particolarmente acceso soprattutto sulla proposta del Fmi, una bozza di 57 pagine che arriverà alla forma finale in tempo per il G20 di luglio in Canada: se gli Stati Uniti e vari paesi europei hanno accolto con favore le idee avanzate dall'istituto di Washington, alcuni governi, tra cui quello canadese, hanno opposto resistenza bollando la regolamentazione come "eccessiva".

Il direttore del Fmi Dominique Strauss-Kahn alla luce di tali contrasti ha affermato l'importanza di un movimento comune di tutti i Paesi del gruppo nella stessa direzione di riforma delle regolamentazioni allo scopo di raggiungere l'obiettivo di eliminare quei comportamenti delle banche che hanno innescato l'ultima crisi. "La nostra principale preoccupazione - ha detto - è che tutti lavorino insieme per mantenere l'impulso alla cooperazione".
Tra le questioni in discussione ci sarà anche la situazione economica globale e la lenta ripresa, alla luce dell'allarme lanciato mercoledì dal Fmi, secondo cui "i problemi di liquidità e solvibilità della Grecia potrebbe trasformarsi una contagiosa crisi del debito sovrano" se i paesi avanzati non metteranno a punto piani credibili per rimettere a posto i propri conti. Su questo punto nella giornata di ieri Strauss Kahn ha usato toni particolarmente stringenti, sollecitando i Paesi del G20 a mettere in atto misure per riequilibrare l'economia mondiale in modo che gli enormi avanzi commerciali come quello della Cina e i corrispondenti deficit di altri Paesi non tronchino la ripresa.

I tassi di cambio, in particolare l'apprezzamento dello yuan e la necessità di correggere gli squilibri globali, come il deficit in continua crescita degli Stati Uniti, saranno anch'essi sul tavolo dei Venti. Il direttore del Fmi ha spiegato che anche se è nell'interesse della Cina di far rivalutare la sua moneta, tale cambiamento non potrà avvenire rapidamente. La previsione è dunque che il Paese del Dragone "preveda nel tempo una certa rivalutazione della sua moneta".

Sul vertice incombe, infine, il pericoloso dipanarsi della crisi greca all'indomani della 'doppia tegola' in testa al governo di Atene, sempre più nel mirino dei mercati a causa delle difficoltà sui conti pubblici. Eurostat ha nuovamente rivisto in peggio le stime sul deficit di bilancio del paese sul 2009, e avvertito che potrebbe subire altri ritocchi, mentre Moody's ha nuovamente declassato il rating che assegna ai suoi titoli di Stato, anche in questo caso avvertendo di possibili altri peggioramenti con cui la Grecia perderebbe l'ultima 'A' che vanta sui voti delle agenzie. Atene ha assicurato che questo non modifica la portata del risanamento programmato su quest'anno, ma la vicenda ha esacerbato le tensioni che da giorni si sono riaccese sui titoli di Stato del paese, e che si riflettono nei forti rendimenti che devono offrire. Strauss Kahn ieri non ha nascosto la sua preoccupazione: "E' chiaro - ha detto - che la situazione greca è molto seria e che non esiste un solo modo e nessuna 'pallottola d'argento' per risolverla". Sabato è previsto, sempre qui a Washington, un suo incontro con il ministro delle finanze greco George Papaconstantinou.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore - Radiocor

 

 

 

Crisi: La Recessione Ha Ridisegnato Mappa Del Rischio Paese (Analisi)

sabato, 24 aprile 2010 - 16:44 - di ASCA
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ASCA) - Roma, 24 apr - L'eredita' della recessione e' la nuova mappa del rischio sul debito pubblico sovrano. L'aumento di deficit/debiti pubblici nei paesi avanzati ha fatti esplodere l'offerta di titoli di stato. I paesi, in concorrenza tra loro sul mercato dei capitali, dovranno offrire programmi credibili di risanamento delle finanze pubbliche. E' il prezzo per ricevere la fiducia degli investitori. La crisi di credibilita' della Grecia rappresenta un monito importante. Per comprare titoli di stato decennali di Atene il mercato e' arrivato a chiedere il 9% all'anno. Costi impossibili da sostenere, cosi' la Grecia ha chiesto l'attivazione dei prestiti (fino a 45 milardi) del Fondo Monetario Internazionale e ai paesi dell'Eurozona. In questo modo spuntera' condizioni migliori, probabilmente un tasso d'interesse mediamente inferiore al 4%. Ma il caso della Grecia ha dimostrato come le porte del mercato si possano chiudere anche per le economie avanzate. Cosi' rendimenti sul debito pubblico della Grecia (9%) si sono avvicinati pericolosamente a quelli di paesi emergenti come il Venezuela (12%) e l'Argentina (10%), sebbene il loro debito sia denominato in dollari. Nella mappa del rischio espresso dai tassi di interesse, la Grecia figura al terzo posto. Seguono poi una pattuglia di emergenti, anche di peso, come la Russia che paga il 5,35%. Lontanissimi da Atene gli altri partner dell'eurozona, il Portogallo intorno al 4,70%, Irlanda intorno al 4,50%, Italia e Spagna intorno al 4%. La Germania, il paese piu' virtuoso, paga il 3%. Discorso diverso se si guardano le probabilita' di insolvenza negoziate sul mercato dei Cds, dove ci si assicura contro il rischio del fallimento dei debitori. Nel segmento che riguarda gli stati sovrani, al top del rischio Venezuela, Argentina, Pakistan, Grecia, Ucraina, Iraq, Dubai, Islanda, Portogallo, Lettonia. Piu' lontane Spagna, Irlanda e Italia. Per avere una idea di prezzi, assicurare 10 milioni di euro di titoli di stato della Grecia costa 632 mila euro, 144 mila per l'Italia. Per la Germania, paese piu' virtuoso dell'Eurozona si pagano solo 43 mila euro. Ma tassi di interesse e probabilita' di insolvenza disegnano fotografie differenti della mappa del rischio di sovrano. Ne' e' un esempio il Portogallo, la cui probabilita' di ''default'' e' molto maggiore del rischio espresso dal tasso di interesse. Una situazione simile per la Spagna, che paga interessi di poco inferiori all'Italia ma presenta una maggiore probabilita' di insolvenza. Al momento, il rischio di contagio sembra interessare sopratutto i paesi con mercati del debito pubblico relativamente piccoli, servono infatti meno risorse per gli attacchi speculativi che determinano il vuoto di domanda. Altri fattori scatenanti sembrano la bassa propensione al risparmio e la concentrazione di buona parte del debito in mano estera. E' il caso della Grecia, ma anche di Portogallo e Spagna. Non dell'Italia, per il momento. Ne' del Giappone che convive con un debito/pil al 200%, si tratta del record mondiale, ma Tokyo non figura mai tra i paesi con elevata probabilita' di insolvenza. Certo anche negli Usa la propensione al risparmio e' bassa, ma Washington ha il paracadute dei massicci acquisti di titoli di stato da parte della Cina, oltre alla possibilita' di stampare dollari.
 

Fonte - ASCA

 

 

 

 

 

 

  Perché Atene spaventa gli Stati Uniti

26 Aprile 2010 04:03 WASHINGTON – di Federico Rampini

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C´è bisogno di esorcismi, a giudicare dallo spazio che la crisi greca ha occupato in questo weekend di vertici globali. Tra G-20 e assemblea del Fondo monetario internazionale, è la microscopica Grecia che ha calamitato l´attenzione. Tim Geithner, il segretario al Tesoro Usa, ha esortato l´Eurozona e il Fmi a «muoversi rapidamente».

Il direttore generale del Fondo gli ha risposto, gettando la palla nel campo europeo: «Noi siamo pronti, il Fmi riconosce che c´è urgenza». Il cancelliere dello Schacchiere britannico, Alistair Darling, pur non appartenendo all´Eurozona: «Più si prolunga questa situazione più farà danni». Perfino il ministro dell´Economia canadese è apparso turbato: «Non si sta facendo abbastanza».

L´agitazione di questo week-end a Washington poteva sembrare esagerata. Dopotutto il piano di aiuti necessario alla Grecia (45 miliardi di euro) è appena un quarto di quel che gli Stati Uniti hanno speso per il salvataggio della compagnia assicurativa Aig, travolta dai mutui subprime. La spiegazione dell´ipersensibilità sul caso greco l´ha data il presidente della banca centrale del Brasile, Henrique Meirelles: «Il mondo intero dovrà fronteggiare il problema dei debiti pubblici, comprese le nazioni maggiori. La Grecia è il campanello d´allarme che segnala problemi più grossi».

Il Fondo monetario aveva accolto i leader a Washington con un rapporto che dice proprio questo: «La crisi greca può essere l´inizio della prossima fase di turbolenze». Un indizio viene dai mercati finanziari. Lo «spread», cioè la forbice dei rendimenti, che separa i titoli più scadenti dai titoli considerati più sicuri, è tornato ai livelli molto elevati che ebbe nell´estate del 2007. Cioè all´epoca in cui la Bnp Paribas fu costretta a congelare per insolvenza due dei suoi hedge fund che investivano nei mutui americani. Quel che successe dopo, lo ricordiamo. Una forbice larga è un termometro della paura.

«Non siamo ancora una nuova Atene-sul-Potomac», è vero perché nei momenti in cui la fiducia traballa, gli investitori mondiali tendono a ripiegare sul dollaro. Moneta-rifugio non per meriti suoi ma per l´effetto della debolezza dell´euro. Vista dagli Stati Uniti, dalla Cina e dal Brasile, la confusione con cui l´Eurozona affronta il problema del debito greco, conferma una diagnosi pessimista sul Vecchio continente: è in coda al resto del mondo per la ripresa economica. Non a caso questo week-end di vertici globali a Washington ha dato il via a un´operazione che sancisce il declino d´influenza dell´Europa: è iniziata la redistribuzione delle quote di capitali (e diritti di voto) all´interno della Banca mondiale.

Seguirà un analogo ribilanciamento dentro il Fmi. Il saldo netto: retrocedono gli europei, avanzano la Cina e le altre potenze emergenti, l´America mantiene le sue posizioni. E´ solo una coincidenza, ma la ratifica dei nuovi pesi relativi avviene mentre l´Eurozona offre uno spettacolo di paralisi. «Ma davvero bisogna aspettare che votino nella Renania-Vestaflia?» chiedevano esterrefatti gli sherpa dell´Amministrazione Obama, cercando sulle carte geografiche l´ubicazione del Land tedesco. Con tempi di reazione simili, il collasso finanziario che colpì Wall Street nel 2008 sarebbe stato fatale.

Questo rafforza tra gli americani la convinzione che l´euro è una gabbia troppo stretta, disegnata su misura per la disciplina germanica. Anche al Fmi c´è chi pensa che senza l´uscita dall´euro e una svalutazione competitiva Atene non ce la farà mai a riprendersi.

Ma il nervosismo americano ha anche ragioni domestiche. Quella tabellina-scenario con cui Giulio Tremonti da Washington ha cercato di rassicurare gli italiani («in proiezione sul futuro il nostro debito pubblico non è peggiore di quello americano») si può leggere al contrario. Il Fmi prevede che l´insieme dei paesi ricchi, il cui debito pubblico in media pesava il 75% del Pil alla fine del 2007, avrà raggiunto il 110% entro quattro anni.

Non siamo noi che stiamo meglio, ma gli Stati Uniti che scivolano verso livelli d´indebitamento di tipo «mediterraneo». Tanto che i Treasury Bond americani potrebbero perdere il rating «tripla A» - l´etichetta di massima solvibilità - per la prima volta nella storia (cioè da quando furono creati i rating, nel 1949).

Per adesso i tremori dei mercati sulla Grecia non si sono dilatati fino a raggiungere le economie più ricche. L´America si ripara, finché può, dietro due scudi. Da una parte il ruolo del dollaro, tuttora l´unica moneta imperiale, con uno status globale. La seconda protezione è l´effetto anestetizzante del «tasso zero» che la Federal Reserve continua a mantenere sui rendimenti a breve. Ma sulla sindrome greca quel titolo del New York Times si limita a constatare «Non ci siamo ancora...».
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

  Martedì 27 Aprile 2010   Mercoledì 28 Aprile 2010   Giovedì 29 Aprile 2010  
       
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  Grecia: comunque vada, niente lieto fine

April 26th, 2010 – di Mario Seminerio

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Nella tarda mattinata di venerdì 23 aprile il premier greco, George Papandreou, ha attivato le procedure per ottenere la linea di credito di emergenza di Unione europea e Fondo Monetario Internazionale, così come concordata nella dichiarazione d’intenti comunitaria del 25 marzo. La richiesta fa seguito ad una drammatica giornata sui mercati, in cui la curva dei rendimenti sui titoli di stato greci è schizzata al rialzo anche di due punti percentuali e si è invertita, con i rendimenti a breve superiori a quelli a lungo termine, segno inequivocabile di accresciuto rischio di dissesto.

Il problema immediato della Grecia è quello di passare indenne la scadenza del 19 maggio, quando dovrà essere rimborsato un titolo di stato per oltre 8 miliardi di euro. Il governo greco non avrà necessità di emettere per un importo equivalente, disponendo di risorse temporaneamente eccedenti, frutto di precedenti collocamenti di titoli pubblici. Ma il livello raggiunto dal costo del debito (che sulle scadenze a due anni ha superato il 10 per cento) è del tutto incompatibile con la profonda recessione che il paese attraversa, anche per effetto delle misure di austerità, mentre si rincorrono voci di una “ristrutturazione” del debito greco su base volontaria, cioè da parte di alcuni creditori, in modo da non azionare il regolamento dei credit default swap. Fuori dalle tecnicalità (per quanto è possibile, in questa vicenda), vi sono numerose criticità da analizzare. Andiamo per ordine, senza pretesa di esaustività.

In primo luogo, l’intervento servirà? Abbiamo seri dubbi. L’erogazione servirà a mantenere la Grecia in condizioni di liquidità di breve (o brevissimo) termine, ma la solvibilità del paese è sempre più a rischio. Un disavanzo previsto quest’anno al 13,6 per cento, e che appare destinato ad ulteriore peggioramento, per le note carenze di trasparenza del governo greco nella contabilizzazione dei surplus della sicurezza sociale e, soprattutto, delle operazioni di swap “fuori mercato”, quelle cioè in cui i flussi reddituali vengono scambiati a condizioni che consentono al debitore di incamerare subito (upfront) un illusorio beneficio contabile.

Altra incognita è la tenuta sociale del paese, sempre più precaria. La notizia della richiesta della linea di credito straordinaria ha causato nuove manifestazioni di piazza, perché tra la popolazione c’è consapevolezza che il FMI richiederà nuovi profondi tagli di spesa ed aumenti di entrate, in un paese che non può ricorrere all’aggiustamento strutturale attraverso la svalutazione del cambio. L’azione del FMI sarà verosimilmente modellata sul caso della Lettonia, paese candidato all’euro che ha preferito affrontare una violentissima deflazione ed un crollo del Pil di 20 punti percentuali pur di mantenere l’aggancio stretto della propria valuta nazionale all’euro. Ad oggi, pensare che i cittadini greci possano accettare lo “scenario lettone” è puro esercizio di fantasia. Il nostro timore è che lo stesso Papandreou stia tentando un bluff, richiedendo l’erogazione dei fondi senza accettare ulteriori misure. Un timore che, è bene precisarlo, riguarda il futuro dell’euro e dell’Unione europea, e tra poco spiegheremo il motivo.

Poi abbiamo la posizione tedesca. Straordinariamente ondivaga a livello governativo, ma risolutamente contraria al salvataggio tra l’opinione pubblica. Anche il governo di Angela Merkel ha a sua volta una data critica, in maggio: il 9, quando si terranno le elezioni nel Nord-Reno Westfalia, ma la posta in gioco va molto oltre. Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, ha tentato di inserire il finanziamento della quota tedesca del prestito alla Grecia (oltre 8 miliardi di euro) in una “corsia preferenziale” legislativa, ma il suo tentativo è stato frustrato, e si dovrà ricorrere ad un provvedimento separato, che porterà la Germania ad erogare i fondi solo tra alcune settimane. Quanto al nostro paese, la nostra quota è pari all’incasso dello scudo fiscale. Che farà Giulio Tremonti? Una manovra finanziaria aggiuntiva, con passaggio parlamentare (la soluzione più trasparente), oppure troverà quei fondi tra le pieghe del bilancio, magari drenando ulteriori risorse destinabili ad investimenti pubblici ed aree depresse?

Riguardo l’euro-prestito, vi è un aspetto tecnico particolarmente importante: la posizione dei nuovi creditori rispetto a quelli esistenti. Sappiamo che i crediti del FMI hanno lo stato di “super-senior” rispetto a tutti gli altri, cioè il Fondo è creditore privilegiato a priorità massima sui rimborsi. Ma quale sarà lo status dei fondi erogati dai paesi europei? I tedeschi vorrebbero lo stesso status del FMI, ma questa mossa equivarrebbe a scaricare il rischio del default (che è molto alto, giova ripeterlo) sui creditori esistenti. Si otterrebbe l’effetto di accelerare la liquidazione di posizioni sui titoli di stato greci da parte degli investitori, e con essa il dissesto. All’opposto, se gli euro-creditori fossero equiparati ai creditori preesistenti e la Grecia dichiarasse default, i governi europei avrebbero immolato svariati miliardi di euro, e dovrebbero risponderne ai propri elettori.

Come si può agevolmente constatare, la partita in corso è complessa e dagli esiti potenzialmente distruttivi. Non solo e non tanto per la Grecia, quanto per la Ue. Se il prestito non sarà assoggettato a condizioni rigorose al limite della ferocia, il mercato sarà indotto a pensare che la Ue ha deciso di salvare tutti i propri membri in condizioni fiscali compromesse. Ciò è evidentemente impossibile, non foss’altro che per gli importi coinvolti lungo un arco di tempo pluriennale. Ma nel breve termine avremmo attacchi speculativi sui candidati a nuovi salvataggi (Portogallo e Spagna su tutti), con un verosimile aumento dei rendimenti anche sui titoli di stato tedeschi. Il maggiore onere sul servizio del debito che ne deriverebbe metterebbe in serie difficoltà quei paesi, come il nostro, che hanno un elevato peso del debito sul Pil, in una spirale perversa.

Che accadrà? In molti, soprattutto in Germania, si augurano a gran voce che la Grecia esca dall’euro, per poter recuperare margini di manovra sul cambio e recidere il potenziale sistemico del paese ellenico. Sfortunatamente, le procedure di fuoriuscita dalla moneta unica non esistono, e parimenti non è giuridicamente possibile pensare ad un’espulsione. Il governo di Papandreou sta tentando di massimizzare questo suo leverage negoziale, che però è tutto fuorché un “pasto gratis”, e potrebbe essere travolto dalle proteste di piazza, secondo una traiettoria “argentina”. In quest’ultimo caso, ipotizzando una decurtazione del valore di rimborso dei debito greco tra il 30 ed il 50 per cento, resterà da valutare quale sarà l’impatto sistemico del default sul sistema finanziario europeo, e sui paesi che rappresentano gli anelli più deboli della catena. Ma per l’analisi di scenario, ad oggi non riusciamo a scorgere un lieto fine.
 

 

Fonte - Epistems.org

 

 
 

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