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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Borse & Mercati - Sentiment

Che alternativa, tra perdere soldi o perderne ancora

Borse & Mercati - Sentiment

Ritorno dal baratro le Borse ci sperano

Crisi creditizia - ingegneria finanziaria

Le obbligazioni bancarie subordinate: un primer - 1

Crisi creditizia - ingegneria finanziaria

Le obbligazioni bancarie subordinate: i Lower Tier 2 ..

Crisi creditizia - Settore assicurativo

Assicurazioni & crisi, c'è bisogno di nuovo capitali

Borse & Mercati - Sentiment

Bollinger: sento aria di rimbalzo

Borse & Mercati - Sentiment

Roubini: S&P500, prevedo nuovi minimi

Opinioni - Piano Obama per asset tossici

Obama comincia a deludere, sarà un fiasco il piano ...

   
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+++   ANSA   +++   01 Marzo 2009 14:17 BRUXELLES - Crisi: vertice Ue, oggi i 27 al capezzale dell'economia   +++   02 Marzo 2009 13:38 NEW YORK - Aig, da Tesoro Usa nuovi aiuti fino a 30 mld dlr   +++   02 Marzo 2009 22:10 NEW YORK - WALL STREET IN PROFONDO ROSSO CON FINANZIARI   +++   ANSA   +++
 
  Martedì 03 Marzo 2009   Venerdì 06 Marzo 2009   Martedì 10 Marzo 2009  
       
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GR1 RAI - 02 MAR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 05 MAR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 09 MAR ore 22:00

   

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  Che alternativa, tra perdere soldi o perderne ancora di più

01 Marzo 2009 17:31 MILANO - di Alessandro Fugnoli

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Decidere se comprare o vendere azioni in un clima come l’attuale non è facile, ma verrà a un certo punto un momento in cui sarà ancora più difficile. Sarà quando la contrazione dell’economia globale, che ora procede a grande velocità, inizierà a rallentare.
Quel giorno potrebbe non essere lontano. Attenzione, non stiamo parlando di una ripresa, per la quale bisogna aspettare nella migliore delle ipotesi il 2010, ma di un semplice rallentamento della discesa. Mettiamo che quello che oggi scende alla velocità del 45 per cento anno su anno, come le esportazioni giapponesi, inizi a scendere del 30. O che quello che scende del 35 per cento, come le vendite di camion in Europa, inizi a scendere del 20. O che il Pil americano, che sta rimpicciolendo a una velocità annualizzata del 5-6 per cento, inizi a scendere solo del 2-3 per cento, un livello che, al punto in cui siamo, ci scalderebbe i cuori.
Oggi, mentre tutto precipita, chi è ancora lungo da prima della crisi è ormai sintonizzato sul futuro profondo in termini di prospettiva d’investimento. Tutti gli altri, comprensibilmente, si guardano bene dall’entrare nel mercato se non per rapide sortite. E’ abbastanza facile restare a guardare, così come è facile e per adesso redditizio stare short.
Che sia fra due mesi, fra quattro o fra sei, verrà però il momento in cui dovremo decidere se il rallentamento della discesa sarà l’inizio della fine della crisi o se non sarà piuttosto una trappola per perdere altri soldi. Lo strategist di JP Morgan Thomas Lee in una nota recente (First Do No Harm, 23 febbraio) ricorda che durante la Grande Depressione vi furono figure tragiche diverse da quella, facilmente immaginabile, di quanti entrarono lunghi nella crisi e videro il loro patrimonio polverizzato.
Accanto a costoro (moltitudini) ci furono, come seconda figura tragica, quelli che vendettero brillantemente prima del crash del 1929 ma non resistettero alla tentazione di rientrare aggressivamente qualche mese dopo a borsa dimezzata (più o meno come è adesso rispetto a un anno fa), convinti di fare un grandissimo affare. Tra questi ci fu William Durant, fondatore di General Motors e uno degli uomini più ricchi d’America. Durant comprò nel 1930, poi comprò ancora (a margine) man mano il mercato scendeva negli anni successivi, fino a finire in bancarotta. Negli ultimi anni della sua vita sopravvisse grazie a una pensione straordinaria che gli fu erogata da GM.

Una terza figura ancora più tragica fu, sorprendentemente, quella di Jesse Livermore, uno dei più brillanti speculatori dell’epoca. Dopo avere guadagnato i primi soldi da ribassista nel crash del 1907, Livermore entrò correttamente da short nella Grande Depressione, arrivando ad accumulare il patrimonio astronomico di 100 milioni di dollari dell’epoca. La depressione, che noi oggi immaginiamo come una discesa lineare verso l’abisso, fu data prematuramente per terminata ben sette volte e produsse altrettanti bear market rally (scambiati evidentemente sul momento per inversioni di tendenza). Il rally della primavera del 1930 fu del 48 per cento, quello dell’estate del 1932 fu addirittura dell’80 per cento.
Uno di questi rally fu fatale a Livermore, che perse quasi tutto e cadde in una depressione profonda per anni fino a togliersi la vita nel 1940. Non morì sul lastrico e lasciò alla moglie Nina 5 milioni, ma la sua autostima era crollata.
Fra poco più di due mesi, in maggio, il Tesoro americano avrà completato lo stress test delle grandi banche. E’ impossibile prevedere l’esito, anche perché a non essere chiara non è solo la patrimonializzazione attuale effettiva delle banche ma anche la volontà del Tesoro di andare fino in fondo nell’esigere tutto il capitale necessario.
Quello che è certo è che in maggio il quadro apparirà più chiaro. Si sapranno cioè i nomi dei destinati all’inferno della ricapitalizzazione pubblica, di quelli assegnati al purgatorio della ricapitalizzazione privata e di quanti potranno raggiungere il paradiso della certificazione di solidità.
In maggio sarà un ricordo l’orrore del primo trimestre. I dati macro relativi li avremo già avuti in aprile e lo stesso sarà per i risultati delle società.
Può darsi (è una pura ipotesi) che l’annuncio dei risultati dello stress test coincida con qualche dato macro istantaneo che indichi un rallentamento nella velocità di discesa dell’economia globale. In quel caso potremmo avere gli ingredienti per un rally, la cui forza dipenderà dal grado di ipervenduto accumulato prima. Se invece i dati macro continueranno a essere straordinariamente pesanti come sono ora il rally non ci sarà, ma una stabilizzazione temporanea forse sì. Ben difficilmente, infatti, il Tesoro reagirà allo stress test in un modo che nuocerà ai mercati.
Qualunque decisione operativa si vorrà prendere da qui a maggio (maggio incluso) sui portafogli dovrà essere tattica, non strategica. Chi vorrà cavalcare il rally eventuale dovrà evitare di metterci troppi soldi. I venti contrari macro continueranno a soffiare ancora per parecchi mesi. Chi vorrà mettersi short approfittando di un rimbalzo dovrà usare altrettanta moderazione e tenersi davanti il grafico di borsa del 1932 per ricordare di che cosa sono capaci i bear market rally.
Per il breve termine torniamo alla nota di JP Morgan. Thomas Lee espone una considerazione interessante su come distinguere un vero segnale di inversione di tendenza del ciclo economico e di mercato da un falso segnale. Per comprare strategicamente, afferma, è bene aspettare la conferma di un indicatore, lo spread tra il rendimento dei bond AAA e quello dei bond BAA. Nella Grande Depressione questo spread si allargò fino al luglio del 1932 e l’inizio del suo restringimento anticipò la svolta positiva del mercato azionario. Ora succede che da qualche settimana questo spread, che si era andato allargando per tutti i mesi precedenti, ha preso a restringersi, dando quindi un segnale positivo.
E’ un ragionamento interessante in linea teorica, a nostro avviso, ma ci sono questa volta alcuni importanti elementi che inducono a prudenza. I mercati sembrano avere assimilato fin troppo bene la nozione che in questo ciclo la volontà politica di governi e regolatori è tutta sbilanciata contro l’azionario e a favore dei crediti.
Non c’è solo la garanzia esplicita sul debito delle banche, ma anche quella implicita, che forse prima o poi verrà resa ufficiale, del debito della grande industria. I corporate bond verranno anche sostenuti, con ogni probabilità, da acquisti diretti da parte delle banche centrali nell’ambito del quantitative easing. Sull’azionario, al contrario, si scaricano tutti i populismi di destra e di sinistra sull’azzardo morale (da cui sono evidentemente esenti i compratori di bond).
Al di là delle razionalizzazioni moralizzatrici concettualmente poco solide, la scelta di privilegiare i bond è da una parte obbligata (per non mettere a rischio il sistema nel suo complesso) e dall’altra razionale. Il mercato ha capito molto bene come stanno funzionando le cose e si butta nell’azzardo morale dell’acquisto di corporate bond di tutte le qualità (il retail le qualità alte e gli istituzionali le altre). Non si tratta certo di un bull market strepitoso, ma è quel tanto che basta a ridurre gli spread tra qualità alte e qualità basse.
Oltre a questo va considerato l’index bias, ovvero il fatto che le agenzie di rating, declassando continuamente i debitori, producono una sorta di drag negli indici. Se da una classe di rating si sfilano man mano i soggetti più deboli, quelli che rimangono appaiono migliori. In pratica, un recupero piccolo piccolo da ipervenduto e da effetto annuncio (questa volta positivo) per i dettagli sul piano per le banche è legittimo, ma per adesso non andremmo oltre.
Negli anni Trenta non tutti persero soldi. Alcuni, come Keynes, dopo avere perso quasi tutto nel crash, riuscirono a rifarsi e a diventare perfino molto ricchi. Keynes, a un certo punto, riprese a comprare. Mise tutto quello che gli era rimasto in borsa con una leva di due a uno e piramidò (reinvestendo sistematicamente gli utili realizzati). Andò bene perché seppe aspettare il momento giusto, con Roosevelt già presidente.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

  Ritorno dal baratro le Borse ci sperano

01 Marzo 2009 17:49 MILANO - di Giuseppe Turani

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In questi giorni la scena economica internazionale sembra un po´ una di quelle commedie degli equivoci in cui non si capisce mai bene chi è chi e che cosa fa.
Speranza e disperazione si muovono insieme e spesso dentro le stesse persone e le stesse istituzioni. In parte questo è dovuto al disorientamento (nessuno capisce bene a che punto siamo della crisi: a metà strada, verso la fine, solo all´inizio?), e in parte al fatto che, avendo sbagliato tutti nei mesi scorsi, nessuno si fida più della propria intelligenza e del proprio acume.
Tutto questo si è visto benissimo venerdì scorso alla Borsa di Wall Street (che dovrebbe essere il luogo dove ci sono quelli più attenti e più esperti). Quando è arrivato l´annuncio che il Pil del quarto trimestre negli Stati Uniti era sceso non del 3,8, come si pensava qualche settimana fa, ma del 6,2 per cento, molti hanno pensato che la fine del mondo fosse davvero cominciata. Con un crollo del Pil di queste proporzioni, con i consumi in discesa verticale, e con 600-700 mila posti di lavoro bruciati ogni settimana, che cosa si può pensare di diverso? Solo la fine del mondo (o il suo inizio) può spiegare numeri di questo genere.
Dopo, nel giro di qualche ora, gli animi si sono un po´ rasserenati, e le quotazioni (pur restando basse) si sono in parte riprese. Perché? Ma perché nella testa degli operatori si è fatta strada l´idea che forse Obama si stava comportando come deve fare ogni bravo amministratore delegato di azienda. Quando uno arriva in un´azienda che fino al giorno prima era stata gestita da un altro, che cosa fa? Scarica sul bilancio del predecessore tutta l´immondizia che trova in giro per gli uffici, tutte le poste di bilancio dubbie, tutte le perdite che gli riesce di scovare. Dopo di che, «ripuliti un po´ i conti», come si dice, si riparte.
Ecco, a molti venerdì scorso è venuto in mente che, forse, quel 6,2 per cento di crollo del Pil nel quarto trimestre del 2008 (ultimo dell´era Bush) potrebbe essere il frutto di una pulizia di bilancio ordinata da Obama. E quindi hanno ripreso un po´ di coraggio. Forse il mondo non finisce e, anzi, forse quel 6,2 per cento di crollo del Pil è proprio il peggio di questa crisi. E sta alle nostre spalle. Da ora in avanti si vedranno ancora dati brutti, si son detti gli ottimisti, ma sempre meno brutti e mai più brutti come quel 6,2 per cento di arretramento del Pil. Come un paziente la cui febbre è arrivata a 41, ma che poi comincia a scendere.
E, subito dopo, ecco che dagli stessi uffici da dove erano partite le vendite, la paura e la sensazione di essere alla fine dell´economia e delle Borse, ha cominciato a volare (spinta dal vento di dotte analisi) la speranza. Da qui a fine anno, si è detto, la Borsa (intesa come indice Standard & Poor´s) potrebbe anche recuperare il 25 per cento.
Tutto questo, dalla fine del mondo a un boom del 25 per cento, nel giro di poche ore e a opera delle stesse persone e istituzioni. Una vera commedia degli equivoci e della confusione.
In realtà, nessuno sa niente. E, anzi, le persone più avvedute stanno maturano un´altra sensazione, molto inquietante. Si ha l´impressione, cioè, che non sia ancora stato afferrato il bandolo della matassa. Da Obama a Tremonti tutti fanno qualcosa (o molto) o fanno finta di fare, ma tutto sommato senza mai arrivare al cuore del problema: senza mai arrivare cioè ai maledetti titoli tossici. Ci sono grandi dibattiti su come liberarsene, feroci divergenze di opinioni, ma i mesi passano, i governi corrono a salvare una banca di qui e una di là, ma i titoli tossici sono sempre lì, dentro i portafogli delle banche. Letali e misteriosi. Si sa che quello è il veleno che è finito nei pozzi e che ha creato questo immenso dramma.
Ma la sensazione è che la bonifica dei pozzi non sia nemmeno cominciata e che, anzi, nessuno sappia esattamente che cosa fare. Per essere più precisi: non si sa nemmeno a quanto ammontino e che cosa possano valere. Si sa che del veleno è finito nelle conduttore, ma non si sa se si tratta di un chilo o di una tonnellata. Soprattutto, i bonificatori non si sono ancora messi all´opera. Si spera che prima o poi tutto finisca in modo naturale e spontaneo.
Probabilmente è anche per questo che i mercati (e gli operatori che ci stanno sopra) passano nell´arco delle stessa giornata (o dello stesso pomeriggio) dall´ottimismo al pessimismo più cupo. Sono su un mare in tempesta, al buio, e non sanno niente di dove può essere la terra o il porto più vicino. E una qualsiasi buona notizia li fa sperare mentre un qualsiasi «cattivo numero» li getta nello sconforto più nero. Sono in preda a incubi e a sogni (come quello che vede un rialzo del 25 per cento entro fine anno).
Purtroppo, andrà avanti così ancora per molto. I governi, sembra di capire, un po´ non sanno fare luce su questo disastro e un po´ non vogliono (perché le loro colpe, insieme a quelle delle banche, sarebbero troppo grandi). E quindi si va avanti giorno per giorno, sperando che la «novità» di domani non sia troppo drammatica o troppo pesante. Nel frattempo, pezzi importanti del sistema industriale vanno in crisi e impiegheranno anni e anni per riprendersi.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

IL SENTIMENT NON NEGATIVO INVITA ALLA CAUTELA

01 Marzo 2009 23:16 NEW YORK - di Bernie Schaeffer
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Il sondaggio settimanale condotto da Investors Intelligence (II) misura il sentiment di numerose pubblicazioni di analisi del mercato azionario. Il sentiment è espresso in termini di percentuali di Tori e Orsi. Con lo S&P500 che di recente ha lambito i minimi di novembre, è il momento di riesaminare questa misura.
Questo tipo di indicatori vanno esaminati in termini contrarian. Storicamente, il momento migliore per comprare è quando il pessimismo è rampante, mentre il momento migliore per vendere è quando gli investitori sembrano tutti ottimisti. Con il mercato che negli ultimi 15 mesi ha realizzato una performance a dir poco orribile, ci si dovrebbe aspettare una diffusa negatività. E' proprio così?
Se si osserva insieme il sondaggio di II con l'andamento del mercato negli ultimi mesi, si nota come essi si siano mossi a braccetto. Ma quello che più irrita del recente andamento è il calo dei ribassisti sperimentati congiuntamente al ribasso del mercato: lo S&P ha toccato i minimi di novembre e ci saremmo aspettati che fosse la percentuale di rialzisti - e non quella di ribassisti - a raggiungere nuovi minimi. Al contrario, l'ottimismo è cresciuto:
Questo andamento è sufficientemente temibile da indurci a rivedere il comportamento sperimentato in occasione dei precedenti minimi di mercato. Con riferimento al periodo compreso fra la fine del 2002 e l'inizio del 2003, si nota come in occasione del secondo minimo di ottobre anche i rialzisti scesero ad un nuovo minimo rispetto al dato di luglio; poi, a marzo dell'anno successivo, il sentiment sfiorò la lettura precedente senza superarla. In altre parole il rapporto fra tori e orsi realizzò un higher low prima dell'inversione verso l'alto del mercato.
Risalendo all'inizio degli anni '90, mercato e bull/bear ratio al principio calarono congiuntamente, come ci si dovrebbe aspettare. Poi il mercato rimbalzò prima di realizzare un nuovo minimo, e questa volta il rapporto fra tori e orsi scese in prossimità del precedente minimo. Questo punto contrassegnò il minimo del mercato e l'estremo di pessimismo per II.
In definitiva gli ultimi due minimi primari del mercato sono stati contrassegnati da un picco di pessimismo. Siamo correntemente sui minimi ma il pessimismo è lungi dall'aver raggiunto un estremo, per cui ci sembra ragionevole restare cauti. L'ideale sarebbe assistere ad un'impennata del pessimismo, e di certo continueremo a seguire con attenzione questo indicatore di sentiment.
 

Fonte - SmartTrading

 

 

 

 

 

 

  Mercoledì 11 Marzo 2009   Venerdì 13 Marzo 2009   Sabato 14 Marzo 2009  
       
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  Le obbligazioni bancarie subordinate: un primer - 1

Tuesday, 3 March, 2009 at 11:29 - di Charles Dexter Ward

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Nel contesto estremamente difficile in cui versa l’intero mondo del credito, le obbligazioni bancarie subordinate rappresentano indubbiamente il segmento più complesso da analizzare e quello più pesantemente penalizzato in termini di performance: anche in questo primo scorcio del 2009 mentre i bond High Yield facevano registrare un importante rimbalzo e il mercato investment grade ritrovava slancio grazie ad un mercato primario molto attivo, i bond finanziari subordinati sono rimasti al palo, prigionieri dell’enorme incertezza che circonda questi strumenti.
Prima di addentrarci in qualche dettaglio tecnico vediamo di mettere qualche punto fermo di carattere molto generale: semplificando all’estremo possiamo dire che i bilanci dell’intero sistema finanziario sono chiamati ad assorbire due tipi di perdite, legate tra loro ma di cui la prima ha un carattere di eccezionalità mentre la seconda ha caratteristiche più cicliche:
• Le perdite legate allo sboom della bolla del credito (parte eccezionale), numeri su cui le stime sono assolutamente virtuali e sono state riviste almeno 15 volte negli ultimi quindici mesi;
• Le perdite legate al dowturn dell’economia globale che per le banche si traduce in un inevitabile aumento delle sofferenze su prestiti;

Pur senza avere certezza sui numeri, appare piuttosto evidente che a livello di sistema queste perdite sono potenzialmente in grado di mangiare l’intero capitale del sistema finanziario, ragione per cui da una parte i governi stanno studiando le forme più efficienti per ri-capitalizzare il sistema finanziario e dall’altra l’intero mondo delle obbligazioni finanziarie subordinate ha finito per essere schiacciato in questo vortice.
Già, perché a questo punto è essenziale puntualizzare che il debito subordinato delle banche ha una natura ibrida e pur essendo formalmente debito, in presenza di determinate circostante si può trasformare in uno strumento di capitale su cui potenzialmente possono scaricarsi parte delle perdite dell’emittente.

Chiarito il quadro di riferimento va fatta subito una prima precisazione: l’universo dei subordinati bancari è estremamente variegato ed è indispensabile operare moltissime distinzioni in termini di strumenti, emittenti e quadro normativo di riferimento.
Questa estrema eterogeneita e complessita tecnica non ha certo aiutato i livelli sul secondario visto che in mancanza di una risposta univoca e chiara sul futuro di questi strumenti gli investitori non hanno ad oggi gli strumenti per una valutazione corretta delle opzionalità incorporate in questi titoli: correndo ancora una volta il rischio si semplificare eccessivamente possiamo dire che i maggiori rischi legati a questi strumenti sono riconducibili a due macro categorie:
• Il cd. extension risk , quindi legato al puntuale esercizio delle call option da parte dell’emittente, che ha la facoltà ma non l’obbligo di rimborsare anticipatamente le proprie obbligazioni. Il meccanismo incentivante per le banche per l’esercizio delle call si basava su una penalizzazione in termini di spread a cui questi titoli vanno incontro in caso di mancato esercizio dell’opzione e su un generico rischio reputazionale derivante dal mancato rispetto del patto implicito con i sottoscrittori dei titoli che assumeva per prassi la prima data di call come scadenza reale del titolo. Come è facile capire questo tema è delicatissimo e sarà oggetto in seguito di specifico approfondimento;
• Il rischio di mancato pagamento della cedola, sia nella forma più soft di semplice rinvio temporale, sia nella forma più radicale di perdita definitiva al diritto di incasso della cedola.


 

 

  Le obbligazioni bancarie subordinate: i Lower Tier 2 e l’extension risk

Tuesday, 24 March, 2009 at 8:30 - di Charles Dexter Ward

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I bond Lower Tier 2 rappresentano il gradino più alto nella scala dei subordinati bancari: formalmente non sono classificabili come debito bensì come capitale, ma in questo caso parliamo di capitale debole o di bassa qualità, nel senso che ai fini della solidità patrimoniale di una banca la capacità di questi strumenti di assorbire perdite è molto limitata; rovesciando la prospettiva, dal punto di vista del sottoscrittore questi sono strumenti con una rischiosità relativamente bassa. Cerchiamo di esser più chiari in questa relazione inversa tra qualità di capitale e rischiosità.
Man mano che ci si avvicina alle azioni ordinarie la qualità del capitale aumenta, aumenta la rischiosità degli strumenti e di conseguenza aumenta il premio per il rischio richiesto per sottoscrivere/detenere questi titoli. Va sottolineato che quando parliamo di qualità poi si fa riferimento a finalità di controllo e a limiti normativi che ricordiamo impongono alle istituzioni finanziarie tutta una serie di rapporti di congruità tra “capitale” e impegni iscritti a bilancio.
Tornando ai nostri Lower Tier 2 possiamo, dire che questi titoli hanno la struttura di un bond classico con una scadenza prestabilita. Non ci sono clausole che consentono differimento temporale delle cedole. Spesso, ma non sempre, questi titoli hanno una opzione call scritta a favore dell’emittente che tipicamente dopo cinque anni dall’emissione ha la facoltà ma non l’obbligo di rimborsare anticipatamente il proprio debito. A questa struttura si fa riferimento usando l’espressione 10nc5, ovvero scadenza decennale senza opzione call per i primi 5 anni (Non Call 5). A completare il quadro di riferimento spesso, in caso di mancato rimborso anticipato, la cedola da fissa diviene variabile, con uno spread che normalmente subisce un incremento di circa una cinquantina di punti base. Cerchiamo di approfondire meglio questo punto poiché è estremamente delicato ed è il punto dove ruota l’intera questione dell’extension risk.
Pur consapevoli di correre il rischio di un’eccessiva semplificazione, cerchiamo di riassumere il tutto in poche semplici considerazioni. Questi titoli sono stati emessi sfruttando una piccola ipocrisia di sistema: per la finalità dei controlli faceva testo la scadenza naturale dei titoli, mentre gli investitori hanno sempre vissuto nella convinzione (indotta, ovviamente) che al di quanto fosse scritto nei prospetti, esistesse una sorta di tacito patto per cui tutte le emissioni finanziarie venissero rimborsate alla data della prima call. In gioco era il rischio reputazionale delle banche che non rispettando questo tacito patto avrebbero compromesso irreparabilmente la propria capacità di raccogliere finanziamenti presso gli investitori. La stringente attualità ha sconvolto le regole del gioco costringendo tutti gli operatori ad un’affannosa corsa all’analisi dei prospetti per capire quali sono le effettive clausole contrattuali al di la quanto fosse da sempre ritenuto un dato di fatto, una regola non scritta. Le regole del gioco reali sono semplici, almeno per i Lower Tier 2: le banche si trovano nella condizione di dover scegliere se esercitare l’opzione di rimborso anticipato o no.

In moltissimi casi questa opzione è out of the money, ovvero il suo esercizio non è economicamente conveniente. Questo perché a causa della crisi finanziaria gli spread hanno subito un violentissimo allargamento e le banche si troverebbero nella strana situazione di richiamare anticipatamente dei titoli che andrebbero finanziati a condizioni ben più onerose visti i correnti livelli di spread.
Questo in estrema sintesi il ragionamento che è alla base della decisione di Deutsche Bank che nel dicembre dello scorso anno ha gelato i mercati con la decisione di non esercitare una call su una sua emissione LT2. Il caso DB non è stato il primo in ordine temporale visto che già un anno fa il Credito Valtellinese non aveva onorato una call, ma per un puro motivo dimensionale e di visibilità il caso DB ha avuto un impatto e una risonanza molto ampia, di fatto rappresentando il precedente con cui bisogna confrontarsi quando si ragiona di extension risk.
Prima di proseguire occupandoci degli ultimi sviluppi su questo importante segmento di mercato va chiarito che fino ad ora ci si è sempre e comunque mossi all’interno dei rischi “contrattuali” di questi strumenti: l’extension risk è previsto nella documentazione di questi titoli e la crisi dei mercati non ha inventato o prodotto nulla di nuovo: ha semmai di fatto sottolineato il mispricing di questi strumenti in cui questo rischio era stato completamente sottovalutato attraverso un atto di fede secondo cui per non incorrere in un generico rischio reputazionale tutte le banche avrebbero avuto tutto l’interesse a richiamare il debito. Sorvolando su alcune complicazioni regolamentari legate alla scelta dell’esercizio della call, si era creato un processo autoreferenziale dove ad un livello di spread molto basso esisteva un interesse convergente dell’emittente e dell’investitore a richiamare i bond visto che il costo di rifinanziamento era estremamente basso. Fin qui puro mispricing iniziale a cui ha fatto seguito un aggiustamento che è finito per andare in overshooting, visto che si è passati improvvisamente da tutto a niente: il mercato ha infatti iniziato a temere che a questo punto nessuna opzione call venisse esercitata esasperando il discorso in senso opposto. Il cambio di passo qualitativo si è avuto a metà febbraio quando sul mercato dei LT2 si è abbattuta un’ulteriore tegola con il caso Bradford&Bingley; in estrema sintesi, a fronte di un intervento di salvataggio/nazionalizzazione della banca inglese, sono di fatto stati apportati cambiamenti unilaterali alla contrattualistica sottostante le emissioni Lower Tier 2 di B&B con il risultato di una subordinazione extracontrattuale di questi strumenti dove anche il mancato pagamento delle cedole non avrebbe più costituito un evento di default.
Per quanto appaia assolutamente legittimo considerare quanto accaduto ai bond della banca inglese un caso isolato e frutto di una situazione molto particolare, è altrettanto vero che tutto questo non ha fatto altro che creare ulteriori dubbi ed incertezze in un segmento di mercato già in grave crisi d’identità.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

AIG (SCANDALOSA): GOVERNO CORRE ANCORA IN AIUTO

02 Marzo 2009 19:53 NEW YORK - di WSI
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Washington ancora in aiuto del colosso assicurativo con un ulteriore sforzo di $30 mld. Potrebbe non essere l'ultimo. Tesoro ricevera' partecipazione in due controllate.
American International Group, considerata troppo importante per essere lasciata fallire, otterra' $30 miliardi di capitale fresco dal Tesoro, dopo aver annunciato la maggiore perdita mai registrata da una societa' statunitense. Il rosso degli ultimi tre mesi dell'anno si e' attestato a $61.7 miliardi, in peggioramento dai $5.29 miliardi dell'analogo periodo precedente.
Il nuovo accordo, che prevede un ulteriore sforzo da parte del governo nel tentativo di soccorrere il colosso assicurativo evitandone il fallimento, potrebbe mettere a repentaglio altri fondi dei contribuenti. Ma Tesoro e Federal Reserve precisano che il prezzo da pagare, nel caso di non intervento, "sarebbe estremamente elevato". In una nota le autorita' citano il ruolo di AIG sia come compagnia assicurativa di circa 100 mila societa', municipalita' e fondi pensione, un'esposizione che potrebbe potenzialmente potrebbe colpire 100 milioni di americani, che come controparte di alcune delle principali societa' del paese.
"Il governo ha accettato tutti i rischi al ribasso, con una piccola possibilita' di ricavarne un guadagno", sostiene Phillip Phan, professore di management alla Johns Hopkins Carey Business School, a Baltimore. "Stanno cercando di proteggere il sistema finanziario globale da un completo sfacelo".
La compagnia - gia' salvata in un primo momento dal collasso a settembre, con un pacchetto di finanziamenti che l'anno scorso e' salito a $150 miliardi - e' stata costretta a chiedere nuovamente aiuto dopo non essere riuscita a vendere un numero abbastanza alto di controllate, tale da permettere di ripagare il debito con il governo. La societa', spiegano Tesoro e Fed in un comunicato congiunto, potrebbe aver bisogno di un'ulteriore iniezione di capitale in futuro, nel caso in cui i mercati finanziari non dovessero dare segnali di miglioramento.
Le banche si affidano ai prodotti finanziari di AIG per assicurare circa $298 miliardi di asset tramite contratti derivati annuali, facendo della societa' "un'istituzione destinata ad un fallimento sistematico", che secondo il Tesoro deve dunque essere sostenuta a tutti i costi.
AIG paghera' il primo prestito federale, del valore di circa $38.9 miliardi, il 31 dicembre prossimo, in parte grazie ai proventi derivanti da un accordo stipulato con il Tesoro che prevede la partecipazione sino a $26 miliardi del governo nelle due controllate piu' importanti nelle polizze sulla vita. In cambio AIG ha ottenuto la riduzione delle linee di credito a disposizione, a non oltre $25 miliardi da $60 miliardi. Aig manterra' il possesso di Alico e Aia, ma la Fed di New York avra' alcuni diritti di governance. La societa' in crisi dara' inoltre al governo i diritti al cash flow derivante da decine di migliaia di polizze. Le controllate potrebbero poi essere vendute del tutto, o potrebbe essere ceduta al Tesoro solo una quota. Intorno alle 18.45 italiane i titoli della societa' guadagnano il 7% a $0.49, dopo il calo del 99% subito negli ultimi 12 mesi.
Il ruolo degli Stati Uniti e' passato da quello di prestatario su breve termine, nell'ambito del primo piano di salvataggio che prevedeva un prestito spalmato su due anni con un interesse calcolato aggiungendo l'8.5% al Libor a tre mesi, a quello di investitore a lungo termine. L'ex amministratore delegato di AIG, Maurice "Hank" Greenberg, ha dichiarato che i termini del primo prestito erano troppo cari perche' la societa' potesse recuperare.
Il governo ha accettato un tasso di interesse inferiore sui prestiti concessi ad AIG e di scambiare 40 miliardi di azioni privilegiate in cambio di azioni privilegiate non cumulabili, che "assomigliano ad azioni comuni", secondo quanto si legge sul comunicato di Fed e Tesoro. Aig emettera' titoli privilegiati convertibili pari al 77.9% dell'azionariato, che verranno custoditi da un trust indipendente che avra' come unico beneficiario il dipartimento guidato da Timothy Geithner.
Secondo una fonte, delle diverse opzioni che aveva davanti il governo, il salvataggio consente di scongiurare un collasso economico che avrebbe causato il fallimento della societa'.
 
 

 

 

JIM ROGERS SENZA PIETA': LASCIATE FALLIRE AIG

03 Marzo 2009 17:15 NEW YORK - di WSI
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Il leggendario investitore miliardario suggerisce (giustamente) di abbandonare al fallimento il gruppo assicurativo per poter uscire dalla crisi. "Meglio far saltare una societa' anziche' il Paese intero".
L’investitore miliardario Jim Rogers ha dichiarato durante un’intervista rilasciata al network finanziario CNBC che il gruppo assicurativo AIG dovrebbe essere lasciato fallire. "Mantenendo il supporto governativo sull’azienda, e su altri istituti finanziari malati, si rischia di compromettere l’economia americana".
Ieri AIG ha comunicato una perdita trimestrale di $61.68 miliardi (la maggiore che si sia mai registrata da una singola azienda nella storia) e richiesto un nuovo aiuto al governo (il quarto) per un’ulteriore iniezione di capitali per un valore di $30 miliardi, che vanno ad aggiungersi ai $150 mld. Gia’ ottenuti in precedenza.
"Qualora AIG andasse in bancarotta, dovremo fare i conti con due o tre anni orribili dal punto di vista economico, ma e’ molto meglio far fallire una sola societa’ che l’intero Paese" ha dichiarato Rogers. "AIG ha mila miliardi di dollari in obbligazioni, abbandonatela al fallimento, poi saranno i giudici a risolvere il caso e ripartire una volta per tutte. Diversamente non ne usciremo mai".

Guarda l'intervista a Jim Rogers...

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 

  Assicurazioni & crisi, c'è bisogno di nuovo capitali

03 Marzo 2009 15:28 ROMA - di Andrea Greco

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Sembra di vedere il sequel del film bancario di ottobre e novembre scorsi. Un film ancora del genere drammatico, ma con il ruolo dell’attore protagonista stavolta assunto dalle assicurazioni. Stessi sintomi, stesse reazioni del mercato, stessi tentativi di cura. Le grandi compagnie internazionali, dapprima negli Stati Uniti e ormai anche in Europa, hanno contratto il morbo che fiacca i patrimoni di vigilanza, quelli necessari a garantire l’adempimento degli impegni.
Le perdite sulle partecipazioni azionarie e l’elevata necessità di capitale delle attività vita sono un circuito vizioso che fa ormai pubblicamente parlare di ricapitalizzazioni e nazionalizzazioni anche per i grandi assicuratori. Quelli che fino a dicembre avevano sperato di lasciare la maglia nera della crisi agli operatori creditizi.
Solvency è il concetto su cui tutti nel settore si arrovellano, come sei mesi fa il mondo bancario si accorse della centralità del Core Tier 1. La prova del passaggio di testimone è avvenuta anche sui listini, dove da inizio gennaio l’indice Eurostoxx assicurativo ha perso il 33% circa, più dell’Eurostoxx bancario (meno 27%). La sottoperformance ha un’eco tra le agenzie, che da giorni vanno revisionando al ribasso il merito di credito dei principali assicuratori. «Sulle Borse gli investitori cominciano a prezzare l’eventualità che servano degli aumenti di capitale alle assicurazioni dice Massimo Figna, fondatore e gestore del fondo Tenax. Al di là delle incognite che ciò crea su chi metterà i nuovi fondi, se mani private o pubbliche, c’è il fatto certo che gli utili si diluiranno. E più si aspetta, se l’azionario scende, maggiore sarà la diluizione, perché occorrerà emettere più azioni».
I big europei sono perfettamente sintonizzati su queste frequenze. Allianz, che giovedì ha fornito i conti d’esercizio chiusi con una perdita di 2,44 miliardi di euro e gravati ancora dai problemi di Dresdner Bank (ma almeno è l’ultima volta, visto che la banca di gruppo è stata ceduta a Commerzbank) si è affrettata a informare, in conference call, che la situazione finanziaria è stabile, come dimostrato da un valore del 159% dell’indice di solvency.
Tanto è bastato perché l’azione a Francoforte tornasse a salire, fino alla chiusura in rialzo del 12%. Il mercato ha preferito vedere la buona notizia patrimoniale piuttosto che la cattiva notizia di conto economico, dove nel quarto trimestre Allianz ha perso 3,1 miliardi, quasi il doppio del consensus citato da Bloomberg e pari a 1,68 miliardi. «Negli ultimi mesi l’attenzione si sta incentrando quasi solo sulla solidità patrimoniale delle compagnie, piuttosto che sul conto economico, principalmente per l’incrementato del costo del reperimento di capitale sul mercato – dicono gli analisti del settore assicurativo di Intermonte –. Semplificando moltissimo, meglio zero utili ma margini di solvibilità costanti piuttosto che utili a fronte di erosione patrimoniale».
Sempre all’insegna del bisogno di capitale è stato il rendiconto 2008 di Axa, la maggior rivale di Allianz insieme a Generali nel continente. Il 19 febbraio il gruppo francese, nel comunicare una perdita del secondo semestre di 1,24 miliardi e un taglio del 67% al dividendo, ha informato di avere chiesto l’autorizzazione a emettere azioni privilegiate per 2 miliardi, che dovrebbero essere sottoscritte da Mutuel Axa, le mutue primo socio a Parigi.
Una ricapitalizzazione "mascherata", cui si aggiungono misure difensive «per preservare i livelli di patrimonializzazione se i mercati dovessero continuare a deteriorarsi», come ha detto l’ad Henri De Castries. Il deterioramento si vedeva già a fine anno, con l’indice solvency di Axa sceso dal 131% al 127%. E visto l’andamento di gennaio e febbraio è difficile che quel rapporto sia salito, a oggi. Gli standard impongono almeno la copertura al 100% del patrimonio, ma nelle fasi più critiche tale soglia è considerata insufficiente dagli investitori. Tra l’altro, Axa computa nel patrimonio anche le plusvalenze degli immobili, che hanno un impatto stimato tra il 5 e il 10% sul relativo indice.
Così non fa Generali, la cui solvency tuttavia è tra le più basse del sistema. Il Leone è l’ultimo grande assicuratore a non avere fornito i conti d’esercizio lo farà il 20 marzo ma la solvency è stimata in calo attorno al 115%. Potrebbe aiutare a rafforzarla l’incorporazione di Alleanza, dotata di una solvency del 175% che porterà qualche punto percentuale in più al gruppo.
E anche i conti 2008, per quanto in frenata, si dovrebbe chiudere in utile poco sotto il miliardo di euro, per dare luogo a un dividendo dimezzato. Se non altro, nell’attesa nervosa, il gruppo triestino registra una positiva notizia: il bond da 750 milioni aperto e chiuso nella giornata di giovedì ha riscontrato richieste pari al quadruplo dell’offerta, per cui il tasso spuntato dall’emittente è sceso leggermente, fino al 4,875%. Anche il rifinanziamento dei debiti è un tema cruciale in questa fase, sia per le condizioni critiche del mercato corporate sia per i costi crescenti della raccolta.
I problemi, come si vede, sono tanti. E settimana scorsa, al Pan european insurance forum, le 11 maggiori compagnie continentali hanno redatto un documento per far sentire la loro voce sulle misure che le autorità pubbliche stanno prendendo a fronte della crisi dei mercati. Ne sono uscite cinque raccomandazioni chiave: sana gestione del rischio e del capitale, supervisione unitaria sui gruppi multinazionali, convergenza sulle regole contabili, più trasparenza sui prodotti strutturati, interventi pubblici che non distorcano i mercati. Anche in questa sede tutta "privata", insomma, si para il colpo dell’arrivo delle mani pubbliche. Che, a meno di imprevedibili ripartenze convinte delle Borse, diventa ogni giorno più concreta.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

LE 19 DELLO STRESS TEST

05 Marzo 2009 16:59 NEW YORK - di WSI
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Ecco la lista completa degli istituti di credito sotto osservazione per la verifica dell'adeguatezza patrimoniale e della capacita' di reazione alla crisi. JP Morgan guida la classifica in termini di assets, presenti anche...
Nello "White Paper" del Dipartimento del Tesoro, relativo al programma di supporto agli istituti di credito in difficolta’ (CAP - Capital Assistance Program), si legge che al momento 19 grosse banche americane sono sottoposte allo "stress test", ovvero l’esame condotto dal governo per verificarne l’adeguatezza patrimoniale e la capacita’ di reazione nel caso di un peggioramento della crisi.
Il test sara’ condotto alle organizzazioni che vantano capitali superiori ai $100 miliardi, stando a quanto riferito nei giorni scorsi dalla Federal Reserve.
Nella lista degli istituti sotto osservazione, ad occupare le primissime posizioni sono JP Morgan, con asset per 2.175 miliardi di dollari, Citigroup, con 1.947 miliardi e Bank of America, con 1.822 miliardi. Seguono Wells Fargo (1.310 mld), Goldman Sachs (885 mld), Morgan Stanley (659 mld)).
Piu’ in basso troviamo il gruppo assicurativo Metlife (502 mld), mentre all’undicesima posizione c’e’ GMAC, l’ex braccio finanziario della casa automobilistica General Motors, con asset totali per 189 miliardi di dollari.
Di seguito la lista completa degli istitui e le rispettive quote sugli assets (in miliardi di dollari):
1. JPMorgan Chase 2,175
2. Citigroup 1,947
3. Bank of America (1) 1,822
4. Wells Fargo 1,310
5. Goldman Sachs 885
6. Morgan Stanley 659
7. MetLife 502
8. PNC Financial Services 291
9. U.S. Bancorp 267
10. Bank of New York Mellon 238
11. GMAC 189
12. SunTrust 189
13. State Street 177
14. Capital One Financial Corp. 166
15. BB&T 152
16. Regions Financial Corp. 146
17. American Express 126
18. Fifth Third Bancorp 120
19. KeyCorp 105

 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

BANCHE: RISCHI A ORIENTE, SERVIRANNO ALTRI $50 MLD

05 Marzo 2009 20:55 NEW YORK - di WSI
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Ma alcuni istituti gia' si oppongono alle stime di JP Morgan. Per le autorita' di controllo gli investitori dovrebbero fare una distinzione tra i singoli paesi dell'Europa dell'Est. Esposizione gestibile per Unicredit e Intesa.
Le banche del Vecchio Continente con un'esposizione ai mercati dell'Europa Centrale e Orientale potrebbero avere bisogno di altri $50 miliardi di capitale entro il 2010, alimentando ulteriormente il dibattito sulla vulnerabilita' delle banche con un'ampia presenza nella regione.
Le stime fornite dagli analisti di JP Morgan hanno immediatamente attirato la protesta di alcune delle banche citate nel report, che definiscono semplificative le analisi sul loro conto e negano di avere bisogno di capitale fresco. Secondo i calcoli dell'indagine, 32 istituti bancari europei potrebbero essere costretti a ricorrere ad aumenti di capitale dell'ordine di 32-40 miliardi di euro.
Sarebbe un altro duro colpo per le banche, gia' alle prese con 270 miliardi di euro di svalutazioni dei cosiddetti asset tossici, si legge nel report. La potenziale esposizione degli istituti dell'Europa Settentrionale e' stimata a 8 miliardi di euro, quella delle banche austriache a 5 miliardi di euro e quella delle banche greche a 4 miliardi di euro.
Le previsioni di JP Morgan si basano sulle analisi condotte sulle banche che presentano un'esposizione materiale ai paesi dell'Europa Centrale e Orientale, come pure agli Stati che facevano parte dell'Unione Sovietica.
I calcoli di JP Morgan giungono un giorno dopo che le autorita' di controllo dei mercati di sei paesi membri dell'Ue hanno pubblicato un comunicato congiunto in cui minimizzavano i rischi per le banche dell'Europa Occidentale con un'alta esposizione all'Est Europa, sollecitando al contempo gli investitori a fare una distinzione tra i singoli paesi della regione.
Le informazioni sui rischi rappresentati dall'Europa dell'Est sono infatti, secondo gli analisti, spesso semplificati e non corrispondenti al vero e "potrebbero avere delle implicazioni negative per le banche che operano in questi paesi", osservano nel comunicato le banche centrali di Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania e Slovacchia, cui si sono aggiunte le autorita' di controllo di Ungheria e Polonia.
Secondo gli analisti, per le banche che hanno una diversificazione maggiore, come le italiane Intesa Sanpaolo e UniCredit Group, l'esposizione sembra piu' gestibile.
 

 

Fonte - MarketWatch

 

 

 

 

 

 

  Giovedì 19 Marzo 2009   Venerdì 20 Marzo 2009   Sabato 21 Marzo 2009  
       
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GR1 RAI - 18 MAR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 19 MAR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 20 MAR ore 22:00

   

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BORSE IN RIPRESA: FINE DELLA CRISI O INVERSIONE DEL TREND?

11 Marzo 2009 17:21 NEW YORK - di WSI
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Analisti a confronto. Tutti concordano sul fatto che dipendera' dall'economia e in particolare dalla crisi finanziaria. Roubini allarmista, molti esprimono cautela, ma altri si sbilanciano: sara' un forte rimbalzo.
La grande domanda che si pongono analisti e investitori ora e’ se il mercato sara’ in grado di rendersi protagonista di un recupero sostenibile, sfruttando il momentum positivo partito ieri e che sta proseguendo anche oggi, o se invece si tratta dell'ennesimo fuoco di paglia, con gli indici che devono ancora toccare il fondo.
Ma su una cosa sono tutti d'accordo: molto dipendera' dall'economia e in particolare sara' importante capire se la crisi bancaria e' davvero finita.
Molti preferiscono mantenere un approccio cauto. Non sarebbe infatti la prima volta che il mercato rimbalza dopo un periodo prolungato di forti vendite e gli investitori sono ancora al corrente dei tanti problemi che l'economia si trova a dover affrontare.
Tuttavia non mancano le prese di posizione piu' forti. Se da una parte c'e' chi parla di falsa partenza, come il famoso economista Nouriel Roubini, altri esperti hanno motivo per credere che il peggio della crisi finanziaria sia ormai passato e che il mercato riuscira' finalmente a rimbalzare.
Ieri l'S&P 500 ha messo a segno il maggior rialzo da novembre, dopo che Citigroup ha annunciato di essere ben avviata, dopo due mesi in utile operativo, a chiudere in utile un trimestre per la prima volta dal 2007. La notizia ha alimentato le speculazioni secondo cui il peggio della crisi bancaria sia alle spalle. Quasi 1,2 mila miliardi di perdite e svalutazioni annunciate dalle societa' finanziarie di tutto il mondo hanno spedito l'indice di riferimento della Borsa Usa in ribasso del 20% dall'inizio dell'anno.
Secondo l'economista Roubini, che e' stato tra i primi a prevedere lo scoppio della crisi, si tratta di una falsa partenza e il rimbalzo e' destinato a spegnersi sotto l’incalzare di dati macro peggiori del previsto, di utili in calo e di notizie shock in arrivo dai mercati e dalle societa'.
"Da sei mesi vado ripetendo che, nonostante la brusca caduta delle Borse, ci sono forti rischi di nuovi rovesci. Nell’ultima recessione l’economia tocco' il fondo nel novembre 2001, la ripresa prese forza nel 2002, ma la Borsa si mosse solo nella primavera del 2003, con 18 mesi di ritardo. Potrebbe capitare ancora".
"Percio' - prosegue l'economista - e' probabile che nei prossimi 12-18 mesi vedremo nuovi minimi. Fino ad allora aspettatevi tanta volatilita'".
Sicuramente piu' ottimisti invece gli analisti di Morgan Keegan, che confermano il suggerimento sull’acquisto dei titoli bancari, la cui valutazione appare "estremamente economica" - tenuto conto che trattano ad un multiplo di 0.1-0.2 volte il book value. La banca ritiene che il rally iniziato ieri possa continuare, anche grazie alle rassicurazioni offerte dal Dipartimento del Tesoro sulla concessione di capitali che dovrebbero porre fine ai timori legati alla liquidita’ degli istituti.
Interpellato da MarketWatch, sito web finanziario americano, Jim Raid, credit strategist di Deutsche Bank, sottolinea il fatto che Citi non e’ stato il solo istituto finanziario ad annunciare un ritorno degli utili. "I margini sono in aumento e la concorrenza nel settore si e’ ridotta. Cio’ significa che nel primo trimestre assisteremo ad un buon rialzo dei profitti per diverse banche". Raid ha pero’ aggiunto che "e’ ancora da considerare il modo in cui saranno valutati gli asset illiquidi in bilancio, sperando che non controbilancino o superino la profittabilita’ del core business".
Per i trader che basano le proprie analisi dei prezzi azionari sulla serie Fibonacci, il fatto che l'S&P 500 non abbia bucato quota 665 e' un segnale rialzista. L'indice ha fatto un balzo del 7.9% da quando e' scivolato a 666.79 lo scorso 6 marzo. Se dovesse scivolare sui livelli di 665 punti, il paniere brucerebbe il 61.8% del rally iniziato 25 anni fa nel 1982.
Sente aria di rimbalzo il famoso analista tecnico John Bollinger, noto per aver inventato le "bande" che portano il suo nome: "Si sta formando un ottimo setup per un minimo di lungo termine sui principali listini azionari. Per ora - continua Bollinger - si tratta solo di una struttura in formazione, non ancora di un minimo, ma se il mercato azionario riuscisse a dare un colpo di reni, molti indicatori tecnici segnalerebbero ripresa. E a quel punto si creerebbe un circolo virtuoso per un rally".
Quest'oggi il mercato sta tentando di estendere i guadagni del 6-7% realizzati ieri. Intorno alle 17 italiane il Dow sale dello 0.43% a 6955.96 punti, l'S&P 500 avanza dello 0.76% a 725.05 punti, mentre il Nasdaq dello 0.98% a quota 1371.65.
Se oggi il paniere dei titoli a grande capitalizzazione dovesse chiudere in positivo, si tratterebbe della prima volta da inizio febbraio in cui il Dow Jones riesce a mettere a segno due sedute consecutive di rialzi. Ma di recente il mercato ha dimostrato di non avere la forza per confermare il rimbalzo. E’ gia’ successo cinque volte quest’anno che il Dow, dopo aver guadagnato piu’ di 200 punti in una singola seduta, abbia poi perso terreno in quella successiva.
"Potrebbe essere un rimbalzo temporaneo, ma potrebbe essere anche molto consistente. Prevedo un rialzo del 25-30% rispetto ai livelli attuali" dice a Bloomberg Stanley Nabi, vice presidente del gruppo Silvercrest Asset Management. "Se e' un rally momentaneo o no, nessuno e' in grado di dirlo. Dipendera' tutto dall'economia. Ma secondo me, almeno in un primo momento, sara' un rimbalzo ampio dai livelli attuali".

 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 

  Bollinger: sento aria di rimbalzo

11 Marzo 2009 01:14 MILANO - di Massimiliano Malandra

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John Bollinger non parla mai a caso. Studia e ristudia. E adesso la pensa così: «Si sta formando un ottimo setup per un minimo di lungo termine sui principali listini azionari». Sorpresa: l’inventore delle famose «bande» che prendono il suo nome invita a non farsi prendere dal panico. «Per ora - aggiunge - si tratta solo di una struttura in formazione, non ancora di un minimo, ma se il mercato azionario riuscisse a dare un colpo di reni, molti indicatori tecnici segnalerebbero ripresa. E a quel punto si creerebbe un circolo virtuoso per un rally. Ma niente illusioni, fino a quel momento continueremo a vivere in un limbo fatto di incertezza, debolezza e paura».
Mr. Bollinger, per ora si vedono solo crolli ma quali potrebbero essere a suo parere i primi obiettivi di questo teorico rally?
I miei target coincidono con le medie mobili di breve, medio e lungo termine. Quindi di quelle a 20 sedute, cioè 780 punti per l’S&P500 e 7.458 per il Dow Jones Industrial, a 50, rispettivamente a 831 e 8.118 punti, e infine la classica media di lungo a 200 sedute, che ora passa a 1.066 punti per l’S&P500 e a 9.918 per il Dow. So bene che sono strumenti tecnici semplici ma restano sempre validi. E soprattutto sono molto importanti dal punto di vista psicologico. Certo, ora tutte e tre le medie sono in caduta, ma quando saranno tagliate al rialzo dagli indici sarà un doppio segnale importante, sia tecnico sia di sentiment.
Con i chiari di luna che vediamo attualmente, quale asset allocation suggerirebbe?
La mia indicazione è quella di iniziare gradualmente a incrementare la parte azionaria. In questo momento il rifiuto della Borsa è ai massimi, ma si può rivelare, in prospettiva, un errore grossolano. Infatti, nel momento in cui ripartirà il rally, la sottoperformance di questi portafogli diverrà evidente. Facendo perdere all’investitore la possibilità di guadagnare dal movimento rialzista. E questo, almeno dal punto di vista di un consulente finanziario, quale mi considero, è un potenziale grave errore.
Il suggerimento è valido anche per chi ragiona in euro?
Direi propri di sì. Anzi, ancora di più. A mio parere, infatti, il rafforzamento della moneta unica europea contro dollaro è ormai finito da un pezzo. I tassi Usa sono ai minimi di sempre, così come quelli dell’Eurozona, ma il governatore della Bce si è dichiarato pronto a tagliare nuovamente. E siccome, come è sempre avvenuto, saranno gli Stati Uniti a uscire per primi dalla crisi economica, saranno i tassi di interesse Usa a salire per primi, tirando la volata anche al dollaro. Quindi un investitore in euro potrà contare anche sulla rivalutazione del buon vecchio biglietto verde, indipendentemente dallo scenario azionario.
E le commodity? A questi prezzi non le sembrano essere diventate irresistibili?
Certo. E quando invertiranno il trend daranno grandissime soddisfazioni. Ma non penso sia questione di pochi giorni o di qualche settimana. Ci vorrà un po’ più tempo perché le materie prime consolidino su questi prezzi.
E per quanto riguarda oro e petrolio?
A questi livelli l’oro ha un’attrattiva modesta. Soprattutto dà da pensare la divergenza enorme che si è creata fra il metallo e le società aurifere. Quindi ci andrei molto cauto. Differente invece è il discorso sul comparto energy. Sono titoli che rappresentano un buy di lungo periodo e che a questi prezzi appaiono veramente irresistibili.
Tornando all’azionario, e con tutte le cautele dovute al momento borsistico che stiamo vivendo, vede qualche settore particolarmente forte?
In generale le azioni growth stanno performando meglio di quelle value. Ma non durerà ancora per molto, credo. Quando i finanziari inizieranno a riprendersi, il trend si invertirà nuovamente. Negli Usa i tre settori su cui i grandi investitori stanno scommettendo, e che quindi si stanno comportando bene, sono i tecnologici, le telecom e l’healthcare.
Infine, quale potrebbe essere un’idea di investimento un po’ più azzardata? Un po’ stile hedge fund per intenderci...
Un’operazione long-short che mi sentirei di consigliare a un investitore esperto è questo: in acquisto sui titoli value e invece in vendita - cioè short - su quelli growth nel momento in cui partirà il rimbalzo. Per altre operazioni aspetterei che inizi effettivamente il movimento. A quel punto nuovi leader di comparto potranno emergere e soprattutto si vedrà quali saranno i settori che traineranno le Borse. Ma fino a quel momento mi sembra prematuro e soprattutto troppo azzardato fare scommesse in tal senso.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

  Roubini: S&P500, prevedo nuovi minimi

11 Marzo 2009 13:35 NEW YORK - di Nouriel Roubini

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Da sei mesi vado ripetendo che, nonostante la brusca caduta delle Borse, ci sono forti rischi di nuovi rovesci. I rally dell’Orso sono perciò destinati a spegnersi sotto l’incalzare di dati macro peggiori del previsto, di utili in calo e di notizie shock in arrivo dai mercati e dalle società. È probabile che gli utili per azione per il 2009 (Eps) per i titoli S&P 500 oscillino tra i 50 e i 60 dollari (ma qualcuno dice addirittura 40).
A quale multiplo prezzo/utili può corrispondere questo dato? È sensato pensare che, in epoca di recessione a U, il multiplo dovrebbe scendere tra 10 e 12. Perciò anche nel caso migliore (cioè eps a 60, multiplo 12), l’indice non dovrebbe stare sopra quota 720. Nel caso di un eps a 50, con un multiplo di 10 si scende, come è ovvio, a quota 500. In parallelo, il Dow Jones potrebbe oscillare tra i 7 e i 5.000 punti. Questi ragionamenti, però, io li facevo quando l’S&P era vicino a 900, il DJ a 9.000, prima che venisse infranta la barriera dei 7.000 punti.
Ma va preso in seria considerazione un altro scenario macro: la depressione ad L. In tal caso non va esclusa, sia negli Usa che sui mercati globali, un ulteriore calo dei listini nell’ordine del 40-50%. Ma in uno scenario del genere l’ultima cosa di cui preoccuparsi è l’andamento del mercato azionario. Avremmo da fronteggiare, infatti, un’emergenza disoccupazione a due cifre, non inferiore al 15%. Di contro, si può pensare che la robusta azione di stimolo dell’economia in Usa ed altrove porterà alla ripresa prima del previsto.
È difficile credere, però, che le economie, alle prese con la deflazione, possano registrare nel 2010 una ripresa accompagnata da grossi utili aziendali; anche in uno scenario a U la crescita non sarà superiore all’1% in Usa, vicina allo zero in Europa e Giappone.
Certo, è vero che il mercato azionario tende a toccare i minimi con un anticipo tra i sei e i nove mesi prima della fine della recessione. Perciò gli ottimisti che prevedono la ripresa nella seconda metà del 2009 pensano ad una ripresa su basi già solide. Ma questa recessione non finirà prima del 24esimo mese (dicembre 2009). Più probabile che nel 2010 la disoccupazione aumenti ancora e che la crescita si assesti tra lo 0 e l’1% cosicché si resti per tutto il 2010 in una recessione tecnica. In tal caso, il fondo, non verrà toccato prima della fine del 2009 o nel corso del 2010.
Poi non sempre il mercato anticipa di 6-9 mesi la congiuntura. Nell’ultima recessione l’economia toccò il fondo nel novembre 2001, la ripresa prese forza nel 2002 ma la Borsa si mosse solo nella primavera del 2003, con 18 mesi di ritardo. Potrebbe capitare ancora: nel 2010 avremo una ripresa anemica, condizionata dalla presenza di forze deflattive che freneranno i profitti.
È facile che nel 2010 ci saranno movimenti laterali, accompagnati da più di una falsa partenza del rally del Toro. Perciò, è probabile che nei prossimi 12-18 mesi vedremo nuovi minimi. E che la ripresa si manifesterà solo quando ci saranno segnali convincenti del fatto che la recessione ad U non degenererà in una depressione ad L. Fino ad allora aspettatevi nuovi minimi e tanta volatilità.
 

Fonte - Finanza&Mercati

 

 

 

 

 

I gestori vogliono un ritorno alla normalità

12 Marzo 2009 20:15 MILANO - di Sara Silano
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I gestori vogliono un ritorno alla normalità
Ancora volatilità sui mercati, ma gli Usa preparano la ripresa. Dollaro in corsa.
I mercati si riprenderanno quando gli investitori percepiranno un ritorno alla normalità del sistema finanziario e avranno scontato pienamente la recessione che si preannuncia più lunga e profonda del previsto. E’ questa l’opinione dei gestori interpellati da Morningstar nell’ultimo sondaggio sulle previsioni per le Borse mondiali nei prossimi sei mesi.

Europa, tassi ai minimi e volatilità
Nella riunione del 5 marzo, la Banca centrale europea ha tagliato i tassi di mezzo punto, portandoli al minimo storico dell’1,5%, e non ha escluso ulteriori ribassi per risollevare l’economia. Ma le Borse sono rimaste sotto pressione per le cattive notizie che arrivano dal fronte delle banche, in particolare quelle più esposte all’est Europa. Ormai, però, fanno notare i gestori, le valutazioni sono scese molto, per cui i mercati possono sopportare meglio ulteriori revisioni degli utili e misure anti-recessive. E’ possibile quindi che nei prossimi mesi si alternino salite e discese dei corsi azionari, anche se i gestori lasciano trapelare un po’ più di ottimismo rispetto al mese scorso. Quasi il 43% degli intervistati è convinto che i mercati saliranno nei prossimi sei mesi contro il 28% di pessimisti.

Gli Stati Uniti vedono una piccola luce
L’America è entrata in recessione per prima e potrebbe uscirne in anticipo rispetto all’Europa. Per questa ragione, il numero di gestori che prevede un ribasso nei prossimi mesi è inferiore rispetto al Vecchio continente (19%). Un aiuto dovrebbe venire dal piano di stimoli fiscali dell’amministrazione Obama, mentre c’è ancora grande incertezza sul sistema bancario. Quasi il 43% dei fund manager è convinto che Wall Street salirà anche per la sua capacità di resistere agli shock e per il suo carattere difensivo.

Sol Levante in sofferenza
Sul Giappone è netta la spaccatura tra i gestori che prevedono un rialzo (43%) e quelli che si aspettano un ribasso (33%). L’economia nipponica è in rapido deterioramento, anche a causa della dipendenza dal commercio mondiale, che è in rallentamento. La situazione è aggravata dalla forza dello yen e da una domanda interna anemica. Per queste ragioni, difficilmente la Borsa di Tokyo riuscirà a riprendersi prima di quelle americana ed europea.

Rendimenti bassi per i bond
Gli investitori obbligazionari devono fare i conti con tassi di interesse in ulteriore discesa, soprattutto in Europa e Gran Bretagna. In quest’area, dunque, i rendimenti dei titoli rimarranno bassi ancora per un po’ anche se successivamente potrebbero riprendersi non appena l’inflazione rialzerà la testa in seguito alle politiche fiscali espansive dei governi. Circa metà dei gestori prevede che i prezzi scenderanno nell’area Euro, mentre il 62% stima una stabilizzazione attorno agli attuali livelli negli Stati Uniti.

Il dollaro non perde la sua forza
Nell’ultimo mese è aumentata la percentuale di gestori che prevede un apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro, nonostante il fragile quadro economico e le politiche monetarie e fiscali espansive degli Stati Uniti. Nel breve, il biglietto verde beneficia dell’avversione al rischio degli investitori, che li spinge verso asset difensivi e del processo di riduzione dell’indebitamento nel sistema finanziario.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 2 e il 9 marzo, 21 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa il 85% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Allianz Global Investors, Axa Im Banca Profilo, Bipiemme Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr, Eurizon Capital, Euromobiliare AM, Fideuram Investimenti, Ing IM, Investitori Sgr, Julius Baer, Maxos sim, Mps Am, Pictet, Pioneer Im, Schroders, Sella Gestioni, Standard Chartered Bank, Vontobel.
 
 

Fonte - Morningstar.it

 

 

STRATEGIE VINCENTI: ORSO DI GIORNO, TORO DI NOTTE

13 Marzo 2009 20:15 NEW YORK - di Bloomberg
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Dal 1993 guadagni quadruplicati per chi avesse acquistato alla chiusura e venduto il giorno seguente. La strategia opposta, dettata dalla paura di non poter reagire ai cali dei mercati, avrebbe portato una perdita del 53%.
Secondo la banca Goldman Sachs gli investitori dovrebbero approfittare del buio e dormire sonni tranquilli: dal 1993 ad oggi, infatti, conservare i titoli Usa di notte, per poi venderli il giorno successivo, avrebbe significato guadagni quadruplicati.
Acquistare l'ETF sull'indice Standard & Poor’s 500 (o investire su un fondo che ricalca l'andamento del benchmark azionario Usa) alla fine delle contrattazioni e venderlo il giorno seguente avrebbe fruttato un rendimento del 309% dal 1993 ad oggi, secondo quanto riferito in una lettera ai clienti dall'analista Peter Berezin. La strategia opposta avrebbe originato una perdita del 53%.
Gli investitori e i trader negli Stati Uniti sono infatti diventati sempre piu' riluttanti a conservare i titoli di notte, quando non sono in grado di reagire ai cali degli altri mercati oltreoceano, spiega Berezin.
L'S&P 500 ha perso il 54% dai livelli record di ottobre 2007, prima che lo scoppio della crisi creditizia e il fallimento di alcune banche, tra cui Lehman Brothers, ha affossato i titoli azionari, mentre l'indice della volatilita' Chicago Board Options Exchange Volatility Index, il cosiddetto indicatore della paura degli investitori, e' piu' che raddoppiato.
"Un numero sempre piu' alto di investitori preferisce non mantenere le posizioni nella notte, il che significa vendere al suono della campanella (compromettendo i profitti intraday) e comprare all'apertura dei mercati", si legge nella nota. "Una tale avversione al rischio 'notturno' e' probabile che sia piu' elevata durante un periodo ribassista".
Il differenziale tra i prezzi alla chiusura dei mercati e quelli all'apertura si e' ampliato sino a 9 punti base da ottobre 2008, secondo lo studio, a fronte di una media a lungo termine di 5 punti base. Un punto base equivale allo 0.01%. Questo significa che la strategia proposta da Berezin avrebbe portato un ritorno degli investimenti del 507% in questo lasso di tempo.
Il modo migliore per generare profitti e' dunque quello di mantenere l'S&P500 nelle ore notturne, per poi adottare una tattica "short" nell'arco delle normali contrattazioni. L'analista riconosce che una strategia cosi' intensa ha tuttavia anche dei costi. Chi vende allo scoperto non fa altro che prendere in prestito titoli scommettendo sul ribasso degli stessi, in modo da riacquistarli ad un prezzo vantaggioso prima della scadenza del prestito.
Lo scorso 6 marzo l'indice allargato americano e' scivolato sino a quota 666.79, sui minimi giornalieri di oltre 12 anni. Dall'inizio dell'anno il benchmark ha bruciato il 20%.
"Anche se una persona e' solita rifarsi a strategie caratterizzata da scambi meno intensi, le analisi riportate sopra suggeriscono che il prezzo da pagare per chi volesse evitare il rischio di conservare i titoli di notte e' alto", ha scritto Berezin.
 

 

Fonte - Bloomberg

 

 

ANCHE I VERI CAPITALISTI SOFFRONO

16 Marzo 2009 22:16 TORINO - di Sandra Riccio
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La crisi della finanza globale sta intaccando anche le grandi fortune tanto che, oggi, molti Paperoni sono diventati meno ricchi. I loro sonni, poi, non sono più tranquilli come un tempo perché tormentati da una preoccupazione tutta nuova: riuscire a mantenere i milioni scampati ai recenti tracolli finanziari. «Prima della crisi i più benestanti avevano soltanto il timore di non riuscire a spuntare interessi abbastanza alti», racconta Alfredo Piacentini, partner di Banque Syz & Co, banca svizzera attiva nella gestione patrimoniale. Il crack di un colosso sacro come la banca americana Lehman Brothers ha, però, cambiato di colpo lo scenario e scatenato paure che prima non esistevano. «Oggi i super ricchi sono martellati dal pensiero di dove parcheggiare i propri soldi e sono a caccia di investimenti sicuri che non facciano sfumare anche il capitale rimasto», riferisce Piacentini dalla sua sede sul lago di Ginevra.
Dove investono allora? In genere sono molto prudenti. Tradizionalmente l'investitore danaroso non è uno speculatore e si muove con molta cautela senza azzardare colpi di testa. Questa crisi ha, però, colto impreparati anche loro e soltanto pochi sono usciti in tempo dai mercati.
In questo momento molti dei grandi patrimoni hanno optato per il passaggio a investimenti più sicuri come i titoli di Stato o le obbligazioni societarie con una durata non troppo lunga, intorno ai cinque anni. La fetta più grande dei grandi portafogli (40-50%) dei ricchi è investita proprio in questo tipo di prodotti. «Non rendono granché perché oggi pagano interessi che in media vanno dal 2 al 4% annuo, ma di questi tempi è meglio puntare sulla sicurezza senza guardare troppo al rendimento», dice Piacentini.
Agli investitori, l'esperto suggerisce di selezionare con attenzione i Titoli di Stato e di privilegiare le emissioni di Paesi come la Germania, la Francia oppure gli Stati Uniti e anche l'Italia, su cui non vede grandi rischi. Per le società è invece bene scegliere tra le grandi aziende solide come, per fare qualche nome, i due gruppi alimentari Nestlé e Danone o la casa farmaceutica Roche.
E le azioni? Anche molti milionari, come i piccoli risparmiatori, sono fuggiti in massa da Borse e fondi di investimento. Ora alcuni ricominciano a guardare ai titoli quotati perché invogliati dai prezzi di saldo. Il suggerimento dell'esperto di Banca Syz, in questo caso, è di non lanciarsi a testa bassa soltanto perché i prezzi sono a buon mercato. «E' bene essere molto prudenti sulla parte azionaria perché la visibilità sugli utili è ancora bassa e all'orizzonte potrebbero esserci altre brutte sorprese e, dunque, altri cali per i listini». Se proprio si vuole fare acquisti in Borsa allora è meglio scegliere tra società con una grande capitalizzazione e con attività in settori non ciclici come Nestlè, Telecom Italia o magari Eni. «In caso di ulteriori cali di Borsa verrebbero penalizzate di meno», dice Piacentini che non vede una ripresa dell'economia reale prima della seconda metà del 2010. «I mercati potrebbero però anticipare la svolta già verso fine di quest'anno».
Cosa fanno di diverso i mega milionari? Neanche a dirlo, rispetto ai piccoli risparmiatori, oggi mostrano un maggiore interesse per l'oro che di questi tempi è visto come un porto sicuro. Il metallo prezioso nel portafogli dei più ricchi ci finisce sotto forma di barre e monete, ma soprattutto attraverso strumenti d'investimento come gli Etf o i certificati. Non in grandi quantità perché la quota si ferma intorno a un 5%.
 

 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

 

 

  Mercoledì 25 Marzo 2009   Sabato 28 Marzo 2009   Martedì 31 Marzo 2009  
       
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GR1 RAI - 24 MAR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 30 MAR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 31 MAR ore 22:00

   

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WALL STREET: LUCE VERDE, CONFERMATI I SEGNALI DI INVERSIONE

23 Marzo 2009 15:00 BIELLA - di Maurizio Milano
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Sui principali indici Usa gli apprezzamenti rispetto ai minimi superano gia' +20%. I rialzi continuano ad essere trascinati dal settore bancario, in merito all’isolamento degli asset tossici. Il rally raggiunge i primi obiettivi. E dovrebbe proseguire.
*Maurizio Milano e' il responsabile dell'Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella. Questo documento e' stato preparato da Gruppo Banca Sella ed e' rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell'art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita' alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita' di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI) – Prosegue il rally dei mercati azionari. I segnali di inversione a partire dai minimi del 6 marzo sono stati confermati, e gli indici hanno raggiunto i primi obiettivi di rimbalzo indicati. Rispetto ai minimi gli apprezzamenti, sui principali indici Usa, è stato di circa un +20%. I rialzi continuano ad essere trascinati dal settore bancario, per le speranze di un piano concreto del governo in merito all’isolamento degli asset tossici ed al conseguente inizio di graduale ripristino del circuito del credito.
Dal minimo a 46,72 del 6 marzo (quasi l’89% in meno rispetto ai picchi a 414,75 del febbraio 2007), lo scorso giovedì l’indice si è spinto al test di 87, registrando un recupero dell’86% rispetto ai minimi. La tenuta del supporto a 70 dovrebbe consentire un veloce allungo in direzione della resistenza critica a 100, il cui superamento darebbe finalmente un primo segnale convincente di inizio di stabilizzazione per il settore bancario. Solo quando avremo questo segnale potremo dire che il peggio è alle nostre spalle – nel senso che il sistema tiene –, nella consapevolezza comunque che la crisi economica non ha ancora toccato il fondo.
Ma siccome le Borse anticipano di diversi mesi le inversioni dei cicli economici, una stabilizzazione del settore finanziario in un contesto di economia ancora in deterioramento sarebbe proprio lo scenario che ci consente di dire che in Borsa abbiamo davvero toccato il fondo. Una conferma di uno scenario in miglioramento per l’investimento azionario si avrebbe da un calo della volatilità implicita. Il Vix dovrebbe ridiscendere al di sotto di 41 e quindi del supporto critico in area 35-37 – cioè sui livelli di settembre 2008 precedenti al fallimento di Lehman – per avere un segnale chiaro e forte che il rally in atto sarà davvero sostenibile.
Un calo del Vix al di sotto del Vxn sarebbe poi il segnale che stiamo uscendo dall’emergenza "finanziaria" e che quindi ci sono spazi davvero ambiziosi di rimbalzo. Un bear market rally, certamente, perché ipotizzare una ripresa a "V" dei listini è sicuramente prematuro, ma comunque un rimbalzo di tutto rispetto: un ritorno sui livelli di fine settembre vorrebbe dire ancora un +40% dai prezzi correnti per l’S&P500. Per non negare tale possibilità è necessario che gli indici difendano i guadagni dell’ultima settimana.
L’S&P500 deve assestarsi al di sopra di 740, con obiettivo la forte resistenza in area 800/35; il Dow Jones Industrial deve mantenersi al di sopra di 7100 e dovrebbe salire oltre 7400/550 verso la forte resistenza in area 8000/300; il Nasdaq Composite dovrebbe mantenersi sopra 1385-1400 e quindi risalire oltre l’area 1495-1535 verso la forte resistenza in area 1600/50; il DJEurostoxx50 deve assestarsi sopra 2000 e potrebbe risalire verso la forte resistenza in area 2200/50; l’S&PMib deve mantenersi sopra 14000, con possibili salite verso 16000 e quindi a testare la resistenza a 17300; il Nikkei225 deve assestarsi sopra 7600/800 e potrebbe risalire a 8350 e quindi verso 8750/850. Solo il superamento delle resistenze indicate fornirebbe però un segnale convincente che ci troviamo di fronte all’inizio di un rimbalzo importante e sostenibile, il primo dopo il crollo di ottobre-novembre e tante false partenze.
Sul fronte valutario, l’euro/dollaro è fuoriuscito in accelerazione dalla parte alta della banda laterale tra 1,2330-1,2450 e 1,3000-1,3300 in cui si era mosso negli ultimi 2 mesi. Le quotazioni si sono spinte verso 1,3735, non lontano dalla resistenza in area 1,4000-1,4170, che dovrebbe contenere l’apprezzamento dell’euro nelle prossime sedute. La decisione della Fed di iniziare politiche monetarie espansive non convenzionali (il cosiddetto quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli governativi a fronte di stampa di cartamoneta) ha avuto un effetto ovviamente benefico sui corsi obbligazionari, "rimangiato" però da un deprezzamento del dollaro, conseguenza "inevitabile" di tale decisione.
Il dollaro si è indebolito anche contro yen, scendendo velocemente dalla resistenza in area 99,65-100 verso 93,55, per poi recuperare verso 97. Prevedere l’andamento del dollaro per le prossime settimane è ora particolarmente difficile, perché molto dipenderà da come la Fed scaglionerà i propri interventi (quando e quanto). Sembra comunque da escludere un dollaro in caduta libera, perché non sarebbe funzionale agli interessi Usa. Lo scenario più probabile è quindi di un dollaro debole, o al massimo laterale. Sul comparto obbligazionario, le politiche di easing della Fed hanno sostenuto il corso del decennale, col Treasury (decennale Usa, prezzo corrente a ridosso di 124) balzato da 120 verso 126, all’interno comunque di una banda laterale con estremi 119 – 127. Sembra prematuro ipotizzare un prossimo allungo rialzista oltre 126-127, anche se le politiche Fed dovrebbero comunque sostenerne il corso. Le prese di beneficio scatterebbero con la rottura del supporto a 121 (poco probabile).
Meno chiara la dinamica del Bund, visto che la Banca Centrale Europea non imiterà, se non in ritardo e con minor vigore, la politica Fed. Il Bund comunque balza da 122 verso 124,70, all’interno ancora di una banda laterale tra 120 e 125,65. Un segnale di perdita di spinta si avrebbe su discese al di sotto di 122,00; il trend rialzista dominante riprenderebbe invece al superamento dei massimi in area 125,65-126 (prematuro). Fintantoché le Banche centrali stamperanno banconote per acquistare titoli obbligazionari governativi e corporate è chiaro che i tassi di interesse a lunga rimarranno schiacciati, e di conseguenza i corsi dei titoli rimarranno elevati: l’impressione che si stia formando una bolla, tuttavia, rimane.
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di stabilizzazione/moderata positività in essere da fine dicembre – che interrompe una forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua anche per le prossime settimane. Apprezzamenti marcati del petrolio (il crude quota a ridosso di 52 $/barile) e delle altre materie prime (l’indice CRB quota a ridosso di 226) scatterebbero solo nel caso inizi un buon rimbalzo dell’azionario.
Il forte rialzo dell’oro, sostenuto dal clima di generale incertezza, ha portato al test dei massimi del marzo 2008 a ridosso dell’area 1000-1033, per poi ripiegare verso 884 e quindi rimbalzare verso 952/67. Discese sotto 884-900 segnalerebbero una diminuzione delle tensioni, con possibili correzioni verso 845: solo un assestamento al di sotto di tale supporto (prematuro) fornirebbe però un segnale distensivo affidabile. Nuove tensioni al di sopra di quota 1000 (poco probabile).
 

 

Fonte - Gruppo Banca Sella

 

 

Lo Zio Tim ha fatto il miracolo?

Tuesday, 24 March, 2009 at 14:38 - di John Christian Falkenberg
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Le performance di Tim Geithner comincia a somigliare a quella di Ben Bernanke: il mercato s’impenna per un certo periodo e poi torna all’abituale depressione. Il periodo di rally si riduce sempre più ad ogni nuova ”soluzione ” annunciata, sino all’apatia. Questa volta però la piega degli eventi è lievemente sinistra.
Il nuovo stratagemma elaborato dal Segretario al Tesoro Usa mostra tutti i sintomi classici del buco nell’acqua à la Bernanke: l’indice sul credito sta ritornando rapidamente verso i livelli di chiusura precedenti all’annuncio e nemmeno l’azionario sembra passarsela troppo bene. Il piano comincia sempre più a non sembrare né nuovo, né particolarmente risolutivo; i dettagli trapelati lo rendono simile ad un incrocio fra la mai abbastanza vituperata MLEC e la vecchia struttura di Fannie e Freddie: perdite pubbliche, profitti privati.
L’unica novità è che l’azzardo morale sembra essere ancora più pronunciato che nelle proposte precedenti, visto che include un paio di scorciatoie per svalutare i titoli “tossici”, adesso ribattezzati “legacy loans” , facendo pagare il costo di tali svalutazioni al contribuente senza dare assolutamente nulla in cambio. il piano Geithner permette infatti di godere di prestiti di fatto a fondo perduto, con cui comprare asset tossici, pardon, legacy, dalle banche che li detengono a prezzi di carico ben superiori a quelli di mercato; tali prestiti sarebbero da ripagare esclusivamente con gli introiti delle attività acquistate e con gli eventuali incassi in seguito ad una vendita sul mercato. Nel caso non fossero profittevoli, le perdite andrebbero essenzialmente ad intaccare il pochissimo capitale versato nell’avvenutra dai fondi coinviolti, e per il resto si scaricherebbero sul Tesoro.
 

 

 

La Voce del Padrone sui mercati

Wednesday, 25 March, 2009 at 9:04 - di John Christian Falkenberg
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Se qualcuno si volesse chiedere perché i mercati americani sono scesi tanto brutalmente dopo il salto all’insù di ieri, la risposta è semplice: interferenza, pardon, intervento governativo. Ricordiamoci che la politica può dare come è prendere - e ala lunga, prende più di quanto concede.
Il motivo del gran balzo di ieri è ormai conosciuto : il regalino fatto ad alcuni privilegiati investitori da parte del ministero del Tesoro americano. Il motivo del crollo di ieri è invece legato alle prospettive di introduzione di legislazione repressiva nei confronti delle compagnie petrolifere e dell’imposizione di una carbon tax a livelli considerati punitivi.
La differenza è che l’effetto positivo è durato soltanto qualche ora, mentre la mazzata regolamentare e fiscale sul settore energetico rischia di essere duratura ed affossare uno dei pochi settori che ha retto alla crisi.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Obama comincia a deludere, sarà un fiasco il piano salva-banche

24 Marzo 2009 15:20 LUGANO - di Alfonso Tuor

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«Sarà un fiasco» il nuovo piano salvabanche presentato ieri dal ministero del Tesoro americano e «se questo piano fallirà, come succederà senza alcun dubbio, Obama si giocherà gran parte della sua credibilità». Questo giudizio a caldo di Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, è totalmente condivisibile.
Il Programma di investimento pubblico-privato, che a regime dovrebbe raggiungere i 1000 miliardi di dollari, prevede due piani di azione: uno per l’acquisto di prestiti in sofferenza e l’altro per l’acquisto di titoli tossici detenuti dalle banche. Come tutti ricordano, anche l’amministrazione Bush aveva tentato di seguire questa strada, ma si era dovuta arrendere di fronte alla difficoltà apparentemente insormontabile di stabilire il prezzo di acquisto di titoli che non hanno mercato.
La valutazione del prezzo di questi titoli da parte dello Stato avrebbe creato un secondo problema: se acquistati al valore dato da alcuni indici di mercato, le banche non li avrebbero venduti, poiché avrebbero dovuto immediatamente contabilizzare una perdita dovuta alla differenza tra il prezzo in cui sono tenuti a bilancio e il prezzo di vendita. La differenza – si riteneva – sarebbe stata di dimensioni tali da far emergere chiaramente lo stato di insolvenza del sistema bancario e da imporre una sua ampia e immediata ricapitalizzazione. Se il prezzo fosse stato elevato, si sarebbe trattato di un sussidio mascherato al settore bancario. Di fronte a tali difficoltà l’amministrazione Bush accantonò il progetto e usò parte dei 700 miliardi di dollari del Tarp per ricapitalizzare le banche.
Ora l’amministrazione Obama cerca di rilanciare l’idea sposando la tesi di Wall Street, secondo cui il valore di questi titoli è superiore a quello che gli attribuisce oggi il mercato, e attraverso la patrnership tra pubblico e privato cerca di mascherare il dato di fatto che sta sovvenzionando il sistema bancario. Infatti la partnership pubblico-privato funziona in modo tale che se il prezzo di queste attività sale, guadagnano gli investitori privati; se invece scende saranno i contribuenti a sopportare le perdite. Si può dire che si tratta di un ulteriore passo nella politica di trasferimento allo Stato e quindi all’intera collettività dell’enorme buco nero che si nasconde nei bilanci delle banche.
Il meccanismo di funzionamento del piano è talmente macchinoso da ritenere probabile che farà la fine del Tarp voluto da Bush e Paulson, ossia non riuscirà a decollare. Ma anche se riuscirà a partire è destinato a non raggiungere i due scopi per cui è stato pensato. Il meccanismo di formazione del prezzo dei titoli tossici è talmente distorto che non riuscirà a creare un prezzo di mercato credibile. Eppure questo era l’obiettivo dell’amministrazione Bush e dovrebbe essere anche quello di Obama. In secondo luogo, anche se il piano avesse successo, estrarre 1’000 miliardi di dollari di titoli tossici e di prestiti in sofferenza dai bilanci delle banche americane produrebbe un risultato simile a quello di un bambino che si propone di prosciugare il mare con un cucchiaio.
Con questa mossa il nuovo presidente americano rischia di giocarsi, come sostiene Paul Krugman, la sua credibilità politica. Anche Obama, come Bush prima di lui e come i governi dei Paesi europei, sembra non riuscire, o meglio non avere il coraggio politico, di affrontare di petto la questione di un sistema finanziario che è in stato fallimentare. Quindi permette che il buco nero nascosto nelle pieghe dei bilanci bancari continui a risucchiare migliaia di miliardi di soldi buoni, che sarebbero invece estremamente utili per rilanciare l’economia. Questo piano non è infatti destinato a produrre alcun effetto benefico sull’economia americana, che si sta contraendo rapidamente e che sta creando ogni mese 600’000 disoccupati in più.
Secondo alcuni, Obama ha voluto compiere un ultimo tentativo di salvare il sistema bancario ed è pronto a cambiare strategia se non vi saranno risultati entro la fine dell’anno. Il tempo dirà se quest’ipotesi ha qualche fondamento. Sta di fatto che oggi Obama si è invece piegato ai voleri di Wall Street. La decisione di Obama delude anche perché la forte indignazione della popolazione americana per la distribuzione di oltre 200 milioni di dollari di bonus ai responsabili della bancarotta dell’American Insurance Group, salvato dallo Stato con l’esborso di 160 miliardi di dollari, creava le premesse politiche per l’adozione di quelle misure drastiche indispensabili per sciogliere il nodo gordiano della crisi delle banche.
Se la nuova amministrazione americana continuerà su questa strada non solo l’uscita dalla recessione sarà sempre più lontana, ma alla crisi economica si affiancherà una crisi politica ed etica dalle dimensioni imprevedibili. Infatti, pure i cittadini americani sono sempre più insofferenti di fronte ai dirigenti di Wall Street che pretendono di continuare ad incassare bonus milionari dopo che i loro istituti sono stati salvati dalla bancarotta grazie ai soldi dei contribuenti. Anche sull’affermazione di questi principi elementari Obama sta cominciando a deludere.
 

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 
 

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