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Elezioni USA

Perchè Kerry alla fine non ce la farà

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Occhi puntati sul G7

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Cosa cambia dopo la mossa della FED

 

ANSA +++  Economia USA: segnali incoraggianti dai dati macroeconomici  +++  Gestori positivi sulle borse  +++  ANSA

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  Perchè Kerry alla fine non ce la farà

Tutti gli errori dello sfidante: sta sbagliando la campagna elettorale e rischia di perdere da un presidente come Bush che è battibile su Iraq, politica economica, distribuzione del reddito e favori alle lobbbies.

16 Settembre 2004  14:11  (di Alberto Alesina)

 

John Kerry sta sbagliando la campagna elettorale e rischia di perdere da un presidente, George W. Bush, che è battibile. Persino dal suo letto di ospedale Bill Clinton ha telefonato a Kerry per dirgli di cambiare tattica!

Primo: la guerra in Iraq. Kerry fa riferimento a quella parte d'America che era contraria alla guerra fin dall'inizio o lo è diventata dopo. Ma Kerry votò a favore della guerra e recentemente ha dichiarato che, anche sapendo quello che sa ora, avrebbe votato nello stesso modo. Poi però votò contro l’approvazione di fondi per mantenere le truppe, non chiarendo mai la contraddizione.

Kerry sostiene che Bush sta sbagliando tutto in Iraq, non ci dice però cosa farebbe lui se fosse eletto. Per convincere poi gli elettori di essere affidabile in politica estera cita ad nauseam il suo servizio volontario in Vietnam, salvo poi dover giustificare il suo radicale attivismo contro la guerra stessa al suo ritorno. Insomma la sua posizione è confusa e lo espone alle critiche di essere un «flip flopper», cioè di cambiare idea troppo spesso. Inoltre concentrandosi su eventi del 1972 finisce per attirare l'attenzione sui suoi scarsi successi come senatore dagli Anni Settanta in poi.

Secondo: lo stato dell'economia. Kerry ripete due punti: l’economia non si riprende, i posti di lavoro non aumentano, non si esce dalla recessione; inoltre i ricchi stanno diventando più ricchi e la disuguaglianza aumenta. Solo il secondo punto è vero. Il primo no: il tasso di disoccupazione (5,4%) è di poco inferiore a quello ereditato da Bush che arrivò alla Casa Bianca all’inizio di una recessione e subì lo choc dell’11 settembre e l'aumento del prezzo del petrolio. Il tasso di crescita del Pil americano continua a far invidia a quasi tutti gli altri Paesi Ocse. Confondere i due punti (stato dell’economia nel suo complesso e distribuzione del reddito) non fa che rivoltarsi contro Kerry perché i repubblicani possono rispondergli sul primo a tono, imbarazzandolo, e ignorare il secondo.

Terzo: il deficit. Kerry accusa Bush di aver rovinato la finanza pubblica. Il problema è che le sue proposte per «ridurre» il deficit, basate su faraonici progetti di spesa e aumenti delle tasse solo per i più ricchi, se presi sul serio farebbero raddoppiare il deficit, altroché ridurlo! 

Invece Kerry tace proprio sulle cose su cui Bush è più attaccabile, cioè gli aumenti di spesa medica per gli anziani ricchi e poveri, un regalo a una potente lobby di elettori (gli anziani ricchi appunto). Quindi anche sul deficit Kerry è poco chiaro.

Quarto: le pensioni. I repubblicani hanno avanzato una serie di proposte coraggiose per riformare il sistema pensionistico rendendo più diretto il rapporto tra contributi individuali e benefici. La risposta di Kerry finora è stata di trincerarsi in un atteggiamento che si potrebbe tradurre in italiano con lo slogan «le pensioni non si toccano». Non basta.

Quinto: il commercio estero. Kerry sta cadendo in una retorica protezionista pericolosa. L’impressione però è che sia (appunto) solo retorica e che se eletto non farebbe un gran che di diverso dalle politiche attuali, ma anche qui la tensione tra retorica e realtà non lo aiuta. Un certo tono protezionistico in economia è poi accompagnato da uscite internazionaliste controproducenti del tipo di quella in cui annunciò che molti leader europei sperano che lui vinca. Sarà vero, ma l’averlo detto fu una gaffe colossale perché permise ai repubblicani di sbandierare che i presidenti li eleggono gli americani e non gli europei.

Insomma Bush è battibile sfruttando le difficoltà della campagna irachena, su alcuni aspetti della politica economica soprattutto legati alla distribuzione del reddito e sulla sua tendenza a favorire certe lobbies. Invece Kerry sembra stia solo sperando che Bush perda da solo. Ma, come dicono i sondaggi, non basta.

La Stampa

 

 

 

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  Occhi puntati Sul G7

30 Settembre 2004  16:39  (di *Germana Martano)

 

Oggi e domani a Washington i sette più grandi Paesi industrializzati si confrontano, insieme con la Cina , su temi di forte interesse per i mercati. I gestori non sembrano credere che le stime fornite da politici e organismi internazionali siano attendibili. Contro l’ottimismo dei governi scommettono su un 2005 povero di guadagni.

Insieme con
la Cina , invitata a sedere a questo vertice dei G7, i sette Paesi più industrializzati si ritrovano in questi giorni a discutere di petrolio, ormai sopra la soglia dei 50 dollari al barile, di cambi, con uno yuan ancorato al dollaro che fa temere ad alcuni un prossimo doloroso deprezzamento della valuta americana, e di crescita, che il Fondo monetario internazionale indica nel 2004 al 5% e in rallentamento nel corso del prossimo anno.

La comunità finanziaria sta a guardare e gli occhi sono puntati soprattutto sulle indicazioni che potrebbero emergere sui cambi, visto che l’attenzione è concentrata sul dollaro, i cui movimenti condizionano l’andamento di tutte le piazze finanziarie mondiali. Se sembra difficile che da questo G7 vengano fuori decisioni di grande impatto nel breve –assurdo immaginare un indebolimento del dollaro tale da causare un terremoto all’apertura dei mercati di lunedì- il modo in cui i mercati oggi scontano gli scenari economici futuri la dice lunga sulla non condivisione di molte stime di governi e organismi vari, in primis quelle della Federal Reserve, improntate all’ottimismo. Il petrolio, intanto, continua a viaggiare intorno a quota 50 nella speranza di un intervento del G7 sulle riserve a cui metter mano.

Stando all’ultimo European Fund Trends condotto da Morningstar tra il 17 e il 24 settembre tra i 50 più grandi asset manager europei, un campione che gestisce 2.700 miliardi di euro, da qui a un anno le Borse mondiali faticheranno a crescere a un tasso a due cifre. Scende infatti dal 70 al 65% la percentuale di gestori che si attende un rialzo delle Borse mondiali tra il 5 e il 10% nei prossimi mesi e sale dal 12 al 18% quella di chi stima performance non superiori al 5%. Non solo, il 4% del campione prevede addirittura un calo dei listini, con in testa, tra i peggiori performer, gli Stati Uniti.

Che il sentiment dei gestori sta peggiorando lo testimoniano anche una serie di altri sondaggi, tra cui quelli mensili di Merrill Lynch, e la svolta non sembra vicina. Se è vero che spesso, a distanza di mesi, ci si meraviglia delle indicazioni date nei sondaggi, perché tante volte si sono rivelate errate, e si arriva a ironizzare sulla necessità di comprare quando il mercato è pessimista e viceversa di vendere quando è ottimista, quella che emerge dai sondaggi è la fotografia di una classe di investitori istituzionali che non crede all’ottimismo delle stime governative sulla crescita né tantomeno alla serenità del governatore della Federal Reserve sul tasso a cui rallenterà la crescita americana il prossimo anno.

Se poi dalle stime si passa all’analisi delle statistiche sul 2004 il divario si fa ancora più grande. Con il +0,22% messo a segno dallo S&P500 da inizio anno, le Borse, finora, non sono riuscite a incorporare nemmeno i guadagni che sarebbero dovuti derivare dal confronto con il tasso di crescita dell’economia stimato dal Fmi per il
2004. In pratica, i mercati stanno scontando uno scenario di crescita che non è lo stesso reso noto dalle statistiche dei governi e questo testimonia il fatto che mondo economico-finanziario e mondo politico stanno ragionando su numeri diversi.

*Intervento a cura di Germana Martano - Caporedattore di Morningstar in Italia –

 

fonte Morningstar.it

 

 

 

sabato 25 sett. 2004   domenica 26 sett. 2004   martedì 28 sett. 2004   giovedì 30 settembre 2004
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  Cosa cambia dopo la mossa della FED

22 Settembre 2004   12:56  (di Luca Spoldi)

 

Mai un movimento della Fed fu più ampiamente anticipato dai mercati come quello di ieri, quando il Fomc al termine della propria riunione ha annunciato l’incremento dall’1,50% all’1,75% dei tassi sui Fed Fund’s (e al 2,75% del tasso di sconto), il terzo rialzo consecutivo nel corso dell’anno, ancora una volta di un solo quarto di punto. 

Come commentano oggi sui principali media a stelle e strisce gli economisti americani, i banchieri centrali degli Stati Uniti hanno fatto esattamente quanto ci si aspettava tra loro. Alan Greenspan e i suoi colleghi del Federal Open Market Committee hanno poi aggiunto che anche dopo i tre rialzi la politica monetaria Americana resta accomondante e che potrà essere corretta “ad un passo che è probabile sia moderato”. Come dire che di incrementi da un quarto di punto siamo destinati a vederne altri nei prossimi mesi, anche perché per i banchieri centrali quella sperimentata di recente dall’economia Usa è una frenata temporanea, che lascerà spazio ad una nuova crescita appena i prezzi del greggio scenderanno. Un punto, questo, su cui non si registra in verità un’unanimità di consensi, con alcuni esperti che temono che il rallentamento in corso sia legato maggiormente a cause strutturali che non ad eventi esogeni come gli elevati prezzi del petrolio. 

Secondo la versione di Greenspan, invece, anche tassi pari all’1,75% sono tali da far correre l’economia: resta dunque da scoprire quali sia il livello che verrà considerato “neutrale” dalla Fed ed in questo caso le opinioni degli esperti variano in un range tra i 3 e i 4 punti, con l’obiettivo che potrebbe essere raggiunto nel corso del 2005. Intanto, se non accadrà nulla di strano, il 10 novembre, appena otto giorni dopo l’elezione del nuovo presidente, il Fomc tornerà a riunirsi per portare al 2% i tassi, con l’ennesimo aumento dello 0,25%, preparandosi a restare fermo in dicembre. 

Per Wall Street sembra dunque cambiare poco o nulla rispetto alla vigilia, tanto che sul finale le azioni hanno mantenuto ieri un modesto incremento, mentre i T-bond, inizialmente in lieve calo, hanno addirittura invertito la rotta recuperando terreno per le incertezze sul fatto che il prossimo rialzo sia effettivamente da attendersi a novembre e non direttamente il prossimo anno.
Limitato anche l’impatto sul dollaro, che dopo un minimo recupero è tornato a calare nei confronti di yen ed euro. Tornando agli effetti più immediati su Wall Street, per la tecnologia sembra cambiare poco: il settore più che ai tassi guarda in questo momento agli eventuali problemi di sovrapproduzione ed è particolarmente sensibile all’annuncio di modifiche delle stime sui risultati aziendali. 

Migliora invece il clima sui titoli bancari, che con tassi in lieve rialzo possono sperare di arrotondare i propri utili; del resto ieri il settore è stato tra i migliori, dopo gli eccellenti risultati di Goldman Sachs (GS) e Lehman Brothers (LEH), guarda caso dipesi soprattutto dai risultati ottenuti sui mercati obbligazionari più che da quelli dei mercati azionari. Intanto il prezzo del petrolio, sempre alto anche a causa della relativa debolezza del dollaro, aiuta i titoli petroliferi: per Exxon Mobil (XOM), Chevrontexaco (VCX) o Marathon Oil (MRO), nonostante performance che variano a seconda dei casi dal +7% a +13% negli ultimi tre mesi, la festa, dunque, sembra lontana dall’essere finita.

 

fonte Trendonline.it