PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Finanza creativa

Addio alla favola della finanza senza rischi

Finanza creativa

Crisi dei subprime: cosa non funziona

Finanza creativa

Pulizia etnica in borsa

Finanza creativa

Processo agli Hedge

Sentiment - Borse & Mercati

La crisi delle borse non esiste

Sentiment - Borse & Mercati

Mercati: non si risolve così la crisi

Sentiment - Borse & Mercati

Borse? no, meglio stare alla finestra

   

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+++  NEWS MERCATI   +++    Venerdì 3 Agosto 2007,  22:23  - Borsa Usa chiude in forte calo su  preoccupazioni per credito   +++  Venerdì 3 Agosto  2007,  23:56  - Borsa: Allarme Credito, Bear Stearns  Affonda Wall Street    +++   4 Agosto 2007  0:53  NEW  YORK   - BORSA: USA,  INCERTEZZA SU  400-600 MLD DEBITI LEGATI A  BUYOUT    +++   Venerdì 10 Agosto  2007, 14:03   +++   L'americana  Countrywide   lancia  l'allarme: condizioni  senza   precedenti  +++   Borsa: Europa Precipita; Listini Perdono  Attorno al 3%   +++   Wall Street Giu' Con Crisi  Subprime, Dow Jones  -2,83%   +++   Giovedì 16  Agosto 2007,  18:26  +++

Giovedì 02 agosto 2007   Domenica 05 agosto 2007   Mercoledì 08 agosto 2007
   
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   Addio alla favola della finanza senza rischi

06 Agosto 2007 New York - di Massimo Gaggi
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Prestare denaro senza fare troppo caso alla solvibilità del debitore era diventato così comune che ormai questi mutui avevano anche un soprannome: «Ninja loans», con riferimento non alle tartarughe dei cartoni animati ma alle iniziali di «No Income, No Job or Assets» (in italiano, uno che non ha un lavoro, né un reddito né un patrimonio). Che alla fine per il mercato del credito sia arrivata la resa dei conti, non è — quindi — cosa che sorprende più di tanto gli operatori di Wall Street. Quello che li allarma è la velocità con la quale è mutato lo stato d’animo dei risparmiatori e la difficoltà di capire quanto sia vasto l’incendio: è già andato ben oltre i confini dei mutui «subprime », quelli concessi ai clienti meno affidabili, ha bruciato alcuni «hedge fund» e sta asfissiando coi sui fumi la banca d’affari Bear Stearns.

Arriverà fino ai grandi istituti di credito? Chuck Prince, il capo del gruppo Citibank (ora rinominato semplicemente Citi), la più esposta ma anche la più grande delle banche commerciali americane, minimizza i problemi e assicura che l’istituto «continuerà a danzare» nel mercato dei prestiti. La festa, insomma, non sarebbe finita: un’affermazione un po’ sopra le righe che non ha tranquillizzato i risparmiatori. A tenere col fiato sospeso gli operatori finanziari in attesa dell’odierna riapertura della Borsa di New York, non è tanto lo scivolone di venerdì scorso (meno 2%) quanto il repentino cambiamento d’umore del mercato.
Nonostante tutti gli scricchiolii, la «bolla» immobiliare scoppiata da un anno e la grave crisi del mercato «subprime», ancora due settimane fa gli investitori ostentavano ottimismo, con l’indice Dow Jones che il 19 luglio aveva segnato un altro record storico, superando per la prima volta quota 14 mila. Poi, giorno dopo giorno, è iniziata la fuga dagli investimenti più remunerativi ma a più alto rischio che da anni riempiono i portafogli di «hedge », fondi comuni e anche delle banche. Cosa è successo? Nessuno ha le idee chiare perché questa è una caduta diversa dalle precedenti: la prima crisi da quando i mercati finanziari sono stati trasformati (ed enormemente dilatati) dall’introduzione dei derivati e di altri strumenti finanziari sempre più sofisticati.

«Questa è la prima correzione del nuovo mercato del credito: l’ultima avvenne in epoca precedente allo sviluppo delle istituzioni e degli strumenti finanziari che oggi dominano il mercato » spiega sul New York Times, Jack Malvey, economista di Lehman Brothers. La sensazione è che fino a un certo punto gli scricchiolii siano stati ignorati nella convinzione che questo «nuovo mercato» del credito fosse strutturalmente molto meno esposto alle crisi finanziarie: i nuovi strumenti consentono infatti di diluire tutti i rischi. Il caso tipico è proprio quello dei mutui: l’istituto che li concede spezzetta poi il credito e lo trasferisce ad altri fondi e banche che a loro volta «impacchettano » il tutto sotto forma di obbligazioni che vengono rivedute sul mercato.

Negli ultimi giorni il crollo della American Home Mortgage, la crisi di Bear Stearns e l’intervento per il salvataggio di una banca tedesca, hanno mostrato che le cose non stanno esattamente così: è vero che con la «nuova finanza» i rischi sono stati diluiti, ma non fino al punto di «vaccinare» il sistema dalle conseguenze di un’ondata di prestiti concessi in modo avventato. E’ una delle disfunzioni indotte da una trasformazione del mercato che un capitalismo ben funzionante dovrebbe vedere e correggere tempestivamente: i controlli sulla solvibilità dei debitori sono spesso venuti meno perché l’istituto che emetteva il mutuo era più interessato alle provvigioni che alle condizioni di prestiti destinati comunque ad essere trasferiti ad altri. I quali, in genere, li compravano «a scatola chiusa», sempre sulla base della convinzione che il rischio sarebbe poi stato diluito attraverso l’emissione di obbligazioni.

Ora che si è tornati coi piedi per terra, si scopre che il nuovo mercato dei derivati, oltre al positivo effetto di diluizione dei rischi, si tira dietro anche un problema, in qualche modo speculare rispetto a questo vantaggio: una volta che emerge una crisi, è difficile individuare e circoscrivere i focolai perché i prodotti finanziari «avariati»— nel nostro caso i mutui — possono essere finiti ovunque. Detto questo, sono in molti a ritenere che la crisi attuale potrebbe rivelarsi salutare. Certo, ci saranno perdite significative per molti investitori, ma l’impatto complessivo sul sistema non dovrebbe essere troppo pesante: al di fuori degli Usa le economie continuano a crescere e anche l’America dà segni di vitalità: esportazioni in ripresa e Pil in aumento nonostante la crisi immobiliare e lo stallo dell’industria delle costruzioni.
Domani, martedì, toccherà alla Federal Reserve dire la sua sui tassi d’interesse: a Wall Street molti sperano in una riduzione che faccia tornare un po’ di fiducia (e di liquidità) nel mercato, ma, tra gli esperti, i più ritengono che il capo della Banca centrale, Ben Bernanke, rinvierà all’autunno il taglio del costo del denaro, lasciando che l’attuale «credit crunch» faccia pulizia nel mercato dei prestiti.
La situazione è, comunque, molto delicata, con tanta gente che cammina sul filo del rasoio: non solo i gestori di «hedge fund» che stanno vendendo yacht e ville hollywoodiane e i banchieri costretti a cancellare le vacanze estive: su un piano generale — e quindi anche per l’Europa e l’Italia — il problema principale potrebbe venire, più che dalle banche, dal consumatore americano: fin qui ha comprato di tutto, molto al di là dei suoi mezzi. Un suo comportamento più prudente veniva auspicato da tempo, mase ora—tra crollo dei valori immobiliari, benzina alle stelle e rubinetto del credito asciutto—comprimerà bruscamente gli acquisti, saranno guai per tutti.

 

Fonte - Corriere della Sera


 

 

 

 

 

E ANCHE GOLDMAN SACHS SBAGLIA 

14 Agosto 2007, Milano - di Andrea Greco
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Errare è umano. Ma quando sbaglia uno dei Masters of the universe – così Wall Street chiama gli operatori un gradino sotto la divinità – non solo gli altri sogghignano. È anche un segno che la turbolenza seguita all´implosione dei cattivi mutui tocca proprio tutti. Goldman Sachs, forse la più potente banca d´affari al mondo che affilia (o ha affiliato) il meglio di tecnici, ambasciatori, strateghi, ieri ha reso noto che tre suoi fondi hanno inciampato nella crisi dei crediti subprime.
Il fondo azionario Geo, la cui dotazione di 5 miliardi di dollari è calata di 1,4 miliardi (quasi il 30% del valore) da due settimane, ha bisogno di risorse fresche per 3 miliardi. Colpa, per l´istituto, delle condizioni del mercato, degli scambi e dell´alta volatilità, che ha fatto "saltare" gli algoritmi di analisi strategica quantitativa con cui la gestione del fondo si orienta. Saranno tre nuovi partner a ripianare le perdite: Cv Starr&Co, il gestore di fondi hedge Perry Capital e il miliardario Eli Broad. Un buon affare, secondo l´istituto: «L´attuale valore assegnato dal mercato al fondo presenta uno sconto non motivato dai fondamentali – riporta una nota – l´investimento darà a Geo maggiore flessibilità per beneficiare delle opportunità che riteniamo esistano nelle attuali condizioni».
Già che c´era, la banca d´affari ha ammesso che «è deludente» l´andamento dei suoi due fondi Naeo e Global Alpha, un hedge multistrategia da 8 miliardi di dollari gestiti ancora con criteri quantitativi (statistiche e indicatori per leggere le fasi di mercato e le inversioni di tendenza). Qui si parla di ribassi del 40% in un anno, oltre metà negli ultimi sei mesi. Ma non giungeranno nuovi quattrini, c´è solo il convincimento che «allo stato i due fondi hanno l´occasione di cogliere attivamente le opportunità di mercato». Pare fede incrollabile, ma la parola di Goldman Sachs presso gli investitori pesa. Così l´operazione trasparenza è stata ripagata con acquisti sul titolo bancario, che nel finale ha ripiegato, con perdite frazionali.
Il gruppo fondato nel 1869 da due immigrati tedeschi è leader mondiale in tutte le attività di banca d´affari, e ha come caratteristica l´arruolamento di personaggi con un passato di prim´ordine nelle istituzioni. A volte il percorso avviene all´inverso, come in Italia, dove Goldman Sachs ha avuto tra le sue teste d´uovo Mario Draghi e Massimo Tononi (oggi in Bankitalia e al Tesoro). E oggi ha per consulenti Mario Monti e Gianni Letta. Il massimo dell´interscambio tra alte sfere – sempre nel rispetto formale di ruoli e funzioni – è in patria: l´ex presidente Robert Rubin guidò il Tesoro Usa nei due mandati di Bill Clinton, il penultimo leader Henry Paulson ricopre lo stesso ruolo pubblico nell´amministrazione Bush, da un anno. Ed è stato accusato di avere sottovalutato la portata della crisi dei mutui facili negli States. «L´impatto sarà contenuto, anche nelle perdite – aveva detto Paulson il 1° agosto – Le economie godono di ottima salute. Nei fatti, si sta solo riprezzando il rischio».

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

   Crisi dei subprime: cosa non funziona

20 Agosto 2007 Londra - di Marco Onado
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Le oscillazioni, stile montagne russe, dei mercati finanziari che seminano in questi giorni il panico nei mercati sono molto di più di una inaspettata correzione dopo un periodo di crescita incontrastata che durava da 5 anni. L'Economist ha scritto che questo è un buon periodo per una stretta creditizia e ha lodato i vantaggi di condizioni più rigorose, seguendo la saggezza convenzionale secondo cui le crisi sono utili perché conducono a una più corretta valutazione delle merci e delle attività finanziarie.

L’Economist ha ragione ?

C'è una caratteristica particolare nelle ultime crisi (e in particolare in questa) che rende questa posizione meno accettabile, almeno dal punto di vista di chi sopporta oggi le perdite e di chi ha intascato i guadagni durante la fase di boom.
Ci sono quattro caratteristiche dell’attuale sistema finanziario che vale la pena ricordare:
1) L’enorme crescita delle attività finanziarie e derivati in tutto il mondo.
Alla fine del 2005 le attività finanziarie totali si attestavano al livello sorprendente di 3,7 volte il PIL mondiale(1). L'ammontare nozionale di tutti i derivati era doppio del volume di tutte le attività finanziarie, il che significa 11 volte il PIL globale. Ricordiamo che i derivati finanziari non esistevano fino a trent’anni fa.
2) Lo storico basso livello dei tassi d’interesse negli ultimi anni, dalla metà degli anni ‘90 (come effetto della politica monetaria condotta da Greenspan ed il suo tentativo di alimentare la crescita del mercato finanziario).
Come conseguenza delle condizioni monetarie favorevoli, anche il prezzo per il rischio richiesto dal mercato è rimasto a livelli molto bassi. I due grafici seguenti (IMF, ibidem) mostrano chiaramente la situazione anormale degli ultimi anni.

3) Il peso crescente delle azioni e dei bond in percentuale del totale delle attività finanziarie (quindi la diminuzione dei prestiti dalle banche e dagli altri intermediari finanziari).
A livello mondiale (e nell'Unione Europea), i prestiti bancari costituiscono il 50 per cento del totale delle attività finanziari, ma negli Stati Uniti ed in Giappone il rapporto è molto più basso. Negli Stati Uniti soltanto 1 dollaro su cinque è preso a prestito da una banca.
4) La diminuzione dei bond governativi (cioè degli asset risk-free) rispetto al debito totale.
Mentre il rapporto medio a livello mondiale è del 50 per cento e in Europa del 35 per cento, in Nord America è del 26 per cento, con una tendenza al ribasso. Gli ultimi due punti stanno a significare che i portafogli delle famiglie sono sempre più composti da titoli soggetti sia a rischio di mercato che a rischio di credito.

Questi sono gli ingredienti della magia dell’innovazione finanziaria degli ultimi decenni: in breve, le banche hanno creato un volume sorprendente di debito, frazionandolo in vari tipi di strumenti finanziari, con gradi diversi di garanzia.

Dove sta il rischio ?

Questi strumenti sono state comprati da una vasta gamma di banche più piccole, fondi pensioni, compagnie di assicurazione, hedge funds, altri fondi e anche investitori privati, tutti incoraggiati ad investire dal rating generalmente alto dato a questi strumenti. Secondo una importante scuola di pensiero, questo finanziamento "arm-length" è il più efficiente per collocare le risorse. Altri possono ricordare Dickens il quale molti anni fa definì il credito come un sistema "con cui una persona che non può pagare trova un'altra persona che non può pagare che garantisce che può pagare".
In effetti, i sistemi finanziari globali si sono dimostrati molto elastici agli shock reali e finanziari negli ultimi venti anni ma ciò che preoccupa soprattutto le banche centrali è che – diversamente da quanto accadeva nei vecchi tempi bank-based – semplicemente non sanno dove sta il rischio. Lo testimonia questa dichiarazione nel giugno 2007 nella Relazione della Banca per i Regolamenti Internazionali (p. 167):
" Posto che le grandi banche siano riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La verità è che non lo sappiamo.".
Onesto, ma assai preoccupante.

Chi ci perde ?

La sola cosa che sappiamo è che le perdite cadranno sulle spalle degli investitori finali, e non saranno condivise con le banche come è successo in forme di finanza in cui gli intermediari assumevano un peso superiore e dunque sopportavano direttamente un rischio maggiore. Il punto è che i profitti delle banche negli ultimi venti anni hanno raggiunto record storici. Il rendimento del capitale netto è stato normalmente a livelli con due cifre (la prima è preferibilmente due) e sarà probabilmente solo intaccato dalla correzione in atto sui mercati. In altre parole, la pazzia del credito è finita, una dieta era più che necessaria, ma quelli che dovranno tirare la cinghia non sono quelli che si sono ingrassati negli anni passati.

L’allocazione del finanziamento.

L'efficienza allocativa del finanziamento "arm-length" merita almeno un secondo giudizio. Le implicazioni di policy di ciò che è sotto i nostri occhi sono almeno tre.
Primo, ancora una volta, è emerso un problema di rating. Le valutazioni del rischio del credito sono stato fatte su supposizioni troppo ottimistiche, usando dati non sempre statisticamente significativi ed ignorando sistematicamente la possibilità di distribuzioni statistiche irregolari in corrispondenza di eventi estremi. Quando le banche non si fanno carico dei rischi sui loro libri, ma li vendono soltanto, la fragmentazione delle responsabilità conduce a ciò che L'Economist ha definito come "troppo denaro prestato a condizioni troppo convenienti e troppo facilmente a troppe persone". Le banche non dovrebbero disfarsi dei rischi cosí facilmente: una porzione del rischio (per esempio usando la regolamentazione sui requisiti di capitale) dovrebbe rimanere nei bilanci delle banche.
Secondo, i titoli emessi erano molto meno negoziabili di quanto le banche avevano fatto credere ai loro clienti. I bond più sofisticati venivano scambiati raramente; alcuni erano fatti su misura dalle banche d'investimento per clienti specifici e non erano mai commercializzati. Il mark-to-market (la valutazione ai prezzi di mercato) era quindi solo la conseguenza di una valutazione soggettiva frutto di complicati modelli costruiti al computer e di ipotesi altrettanto soggettive. La formazione del prezzo da parte del mercato, il vero cuore di un mercato finanziario basato sui titoli era semplicemente un'illusione. Gli investitori finali non sono adeguatamente protetti quando i loro titoli sono trattati in mercati sottili e non-regolamentati.
Terzo, c'è un problema di trasparenza nel mercato della vendita al dettaglio delle attività finanziarie. Poiché i prodotti finanziari stanno diventando sempre più sofisticati, la maggior parte degli investitori non è consapevole del rischio effettivamente sopportato.

Ci sono due reazioni ipocrite che emergono: chiedere maggior trasparenza e una maggior educazione finanziaria. La prima strada dovrebbe condurre soltanto a un ulteriore appesantimento degli attuali prospetti informativi, già oggi leggibili solo da chi ha conseguito un PhD in finanza (meglio se di un'annata molto recente). La seconda strada è perfino più assurda (come ci si poteva aspettare subito sostenuta dal Presidente Bush) poiché è semplicemente impossibile colmare il divario tra il livello attuale di educazione finanziaria ed il livello di finanza da scienziato nucleare utilizzata negli attuali prodotti. La sola soluzione è usare regolamentazioni (e in particolare le regole di comportamento degli intermediari) in modo da rendere più conveniente per gli intermediari vendere prodotti finanziari semplici. Un vasto campo di ricerca (particolarmente nel Regno Unito, promosso dal Ministero del Tesoro e dalla FSA, l’organo di vigilanza) prova che la filosofia dell’attuale regolamentazione crea una forte propensione verso la complessità e l'opacità.
Non solo maggior educazione finanziaria
E’ arrivato il momento di cambiare rotta e creare adeguati incentivi affinché gli intermediari finanziari siano spinti a vendere prodotti più semplici agli investitori finali. Solo a questo punto un più alto livello di educazione finanziaria sarà efficace. E’ bene anche che gli economisti finanziari guardino più attentamente e in una maniera più dickensiana a ciò che succede all'ultimo anello della "magia" della creazione del credito.

 

 

 

 

..... Mercoledì 08 agosto 2007   Venerdì 10 agosto 2007   Venerdì 10 agosto 2007  
       
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   Pulizia etnica in borsa

23 Agosto 2007 Siena - di Antonio Cesarano

*Antonio Cesarano e' Head of Research and Strategy MPS Finance BM S.p.A.  
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Per poter comprendere quanto accaduto e soprattutto cercare di immaginarne i potenziali risvolti è importante cercare di comprendere a grandi linee qual è stato il meccanismo finanziario che ha innescato la crisi di liquidità verificatasi nei giorni scorsi. Quanto accaduto assume una rilevanza maggiore se si considera che solo fino a poche settimane fa uno dei principali fattori addotti come spiegazione della continuazione del rialzo sui mercati azionari era rappresentato proprio dalla presenza di un elevato livello di liquidità nel sistema, come del resto testimoniato dagli aggregati monetari delle principali economie mondiali.
Come è stato possibile che la liquidità sia improvvisamente “evaporata”? Buona parte della spiegazione risiede in una delle tante forme di attuazione delle operazioni c.d. di carry trade, che in ultima istanza beneficiano del differenziale tra il costo del finanziamento ed il tasso di remunerazione delle attività acquistate con i fondi presi a prestito.
Ebbene, tipicamente gli hedge fund utilizzando lo yen come valuta di finanziamento sfruttando livelli di tasso prossimi allo zero e dirottano i fondi verso i paesi che invece presentano tassi più elevati.
Quanto accaduto negli ultimi giorni ha invece a che fare in buna misura con la creazione di veicoli finanziari strutturati in modo da investire su titoli collegati a mutui previo finanziamento soprattutto sul mercato delle commercial paper. Di seguito un apprendimento del funzionamento dei veicoli che per brevità di lettura può essere anche saltato passando alla successiva sezione.
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Il fenomeno dei veicoli finanziari conduit, SIV, SIV-lite

Il veicolo (chiamato conduit, Siv (Strucutred Investment Vehicle) o anche Siv-lite nel caso di veicoli con più alto grado di rischio collegato al più elevato livello di leva utilizzato) investe in titoli generalmente con rating elevato (spesso AAA) e finanzia tali operazioni in buona misura attraverso l’emissione di titoli a breve termine (mediamente con scadenza intorno ai 3 mesi), rappresentati in larga misura da commercial paper. Tali veicoli sono in gran parte sponsorizzati da banche che in molti casi concedono anche linee di credito che vengono utilizzate dal veicolo nel caso di temporanee situazioni di tensione sul mercato monetario tali da rendere più conveniente l’utilizzo della linea di credito piuttosto che il rinnovo delle commercial paper in scadenza. Il profitto in buona misura risiede nel differenziale di tasso tra attivo e passivo ricollegabile alla diversa durata del passivo (breve) rispetto all’attivo (lungo termine) ed all’elevato livello di rendimento offerto dall’attivo pur in presenza di titoli con elevato livello di rating.
Quest’ultima condizione è stata ritrovata in buona misura nell’investimento direttamente (ABS) o indirettamente (CDO) in titoli aventi come sottostante (ossia come garanzia collaterale) i flussi derivanti dai mutui Usa. Le commercial paper emesse per finanziare tali acquisiti a loro volta presentano pertanto una garanzia implicita rappresentata dalle attività finanziarie acquistate. Pertanto vengono denominate Asset Backed Commercial Paper, ossia le c.d. ABCP.
La breve spiegazione del meccanismo di funzionamento di tali veicoli finanziari porta pertanto alle seguenti considerazioni:
1) per il veicolo è fondamentale avere un efficiente mercato delle commercial paper tale da consentirgli rinnovi continui delle stesse per poter ripagare quelle in scadenza. E’ per tale ragione che il mercato delle ABCP ha assistito ad un vero e proprio boom dalla fine del 2004 in poi (si veda grafico allegato), parallelamente alla maggiore diffusione dei veicoli citati. Stando ai dati forniti dalla Fed, l’ammontare delle commercial paper in circolazione a metà agosto ammontava a circa 2100Mld$ di cui circa 1000Mld$ è rappresentata da ABCP. Nell’ambito di questi ultimi circa 500Mld$ (in base a stime di Citigroup) è situato in conduit europei. Infine, secondo la Fed, solo il 10% del totale delle commercial paper è rappresentato da titoli emessi da aziende non finanziarie;
2) l’acquisto di titoli aventi come sottostanti i mutui rappresenta l’anello principale di congiunzione tra economia reale (vedi mercato immobiliare) e mercato finanziario. Secondo quanto riportato da Standard&Poor’s circa il 23% dell’attivo dei SIV è rappresentato da titoli aventi come sottostante mutui residenziali. Di questi ultimi circa la metà fanno riferimento agli Usa.;
3) le banche sponsor non compaiono direttamente né tantomeno inseriscono in bilancio i titoli acquistati dal veicolo. Si limitano a concedere una linea di credito.
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Il punto di partenza di quanto verificatosi negli ultimi giorni è stato comunque rappresentato dal rallentamento del settore immobiliare Usa con forti cali dei prezzi delle case tali da metter in crisi i mutuatari statunitensi che avevano contratto mutui a tasso variabile, spesso strutturati in modo tale da comportare rate molto contenute nei primi anni (solitamente non oltre il terzo anno) e rate più elevate negli anni successivi dipendenti dall’andamento dei tassi di mercato.
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L’home equity extraction

I rialzi delle rate verificatosi nei mesi scorsi in seguito al contestuale incremento dei tassi (la Fed nel giro di due anni ha portato i tassi dall’1% al 5,25%), è stato inizialmente tollerato attraverso la continuazione dell’estrazione di valore dagli immobili. In altri termini i mutuatari hanno chiesto un prestito aggiuntivo offendo come garanzia il valore incrementato dell’immobile. Il meccanismo si è però interrotto quando anche i prezzi delle case hanno iniziato la fase discendente. In capo ai mutuatari sono pertanto rimasti un valore del debito complessivo più elevato e soprattutto livelli di rata in alcuni casi prossimi al 100% del loro reddito. Di conseguenza sono stati costretti a vendere la propria abitazione per passare in affitto. Successivamente, essendo la vendita piuttosto ardua vista l’ampia offerta nel frattempo creatasi, sono stati costretti a vedersi pignorata la propria abitazione.
Il forte rialzo dei prezzi delle case ha anche contribuito alla nascita e/o allo sviluppo di società specializzate nell’erogazione di mutui di elevata entità (i c.d. jumbo mortgage ossia quelli di entità superiore ai 417.000$ pari alla soglia oltre la quale per legge i mutui non possono essere riacquistati dalle relative agenzie Freddie Mac e Fannie Mae) e/o verso clientela con più elevato merito creditizio. Si sono pertanto diffusi i c.d. mutui subprime che in larga misura sono a tasso variabile (c.d. ARM Adjustable Rate Mortgage) in quanto in tal modo è stato più facile strutturare il meccanismo di riduzione della rata nei primi anni di vita del mutuo e renderlo pertanto sostenibile per il mutuatario. Non a caso un report del FMI su questo tema datato luglio 2007, parafrasando una nota canzone, titola un paragrafo “Brothers in ARMs”.
Le difficoltà dei mutuatari si sono a loro volta tradotte nella percezione di minore sicurezza dei titoli garantiti dai mutui stessi. Di conseguenza i veicoli hanno dovuto difficoltà a rifinanziare le proprie posizioni sul mercato delle commercial paper per assenza di compratori. Pertanto hanno fatto ricorso massicciamente alle linee di credito accordate dalle banche sponsor mettendo in forte difficoltà queste ultime nel reperimento dei fondi che in diversi casi ammontavano a diversi miliardi di Euro o di Dollari. Ecco allora che la situazione di difficoltà dei veicoli si è trasferita alle banche sponsor, in aiuto delle quali sono arrivate le banche centrali offrendo loro liquidità ed accettando come garanzia (collateral) titoli che sul mercato non trovavano più compratori né tantomeno soggetti disposti ad accettarli come garanzia.

In questo contesto occorre fare due precisazioni: 1) diversi titoli detenuti dai veicoli presentano spesso il rating massimo AAA trattandosi in buona parte di tranche c.d. senior, ossia quelle meno esposte al rischio di insolvenza dei creditori. E’ però accaduto che, malgrado i titoli continuassero ad essere caratterizzati da continuazione del flusso di pagamenti, ne è però fortemente peggiorata la possibilità di vendita se non a prezzi molto inferiori a quelli solo di qualche settimana fa. In altri termini, il rating è stato attribuito facendo riferimento al rischio di credito sottostante. Il problema di questi giorni fa invece riferimento ad un rischio di mercato in quanto ad un certo punto gli operatori non li hanno più accettati né in acquisto né tantomeno in garanzia, generando appunto una crisi di liquidità. La percezione di un basso rischio creditizio ha ad esempio portato Moody’s ad emettere un report a fine giugno scorso in cui i SIV venivano definiti “un’oasi di pace nel vortice dei subprime”.
La possibilità che le turbolenze di mercato potessero portare a rischi di liquidità seri a carico di soggetti fortemente esposti nel settore dei mutui via Abs e/o CDO, secondo quanto riportato dall’Economist era stimata praticamente essere nulla (per gli amanti della statistica 25 sigma, un valore bassissimo se si considera cha il fondo Long Term Capital Market fallito nel ’98 stimava una probabilità di default collocata a 7 sigma!).
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Se questa è la dinamica di quanto accaduto è risultato piuttosto singolare verificare come il processo di globalizzazione finanziario abbia generato riflessi soprattutto a carico di banche europee, in primo luogo quelle tedesche. Negli Ultimi anni infatti è stato soprattutto in questo paese che diverse banche hanno dato vita a veicoli strutturati nel modo prima descritto con diversi vantaggi in termini di assorbimenti patrimoniali e anche di profitto.
Perché mai l’operatività descritta dei veicoli si è diffusa soprattutto negli ultimi anni? In parte la ragione risiede nella perduranza di condizioni di curva dei tassi molto piatta: in altri termini il tasso di interesse offerto da un titolo governativo a lungo termine è solo di poco superiore a quanto offerto da titoli con scadenza ben più breve. Ecco allora la necessità di cercare di sfruttare al massimo il differenziale tra breve e lungo termine investendo in titoli che ottimizzassero il livello di rendimento incamerato con un livello di rischio (almeno creditizio) pari a quello di un treasury sulla base del rating attribuito.
Perché mai ha interessato principalmente le banche tedesche? Secondo quanto riportato dal Wsj in parte il fenomeno si ricollega alla minore concentrazione del settore bancario tedesco che presenta più di 2100 istituzioni finanziarie. A titolo di confronto ad esempio il regno unito presenta 440 istituzioni, la Spagna 359. I veicoli inoltre hanno preferito investire in titoli in Dollari dal momento che il mercato Usa offre condizioni più favorevoli sotto il profilo della liquidità sia degli asset sia delle fonti di finanziamento (commercial paper). Inoltre avere attivo e passivo denominati nella stessa valuta elimina il rischio valutario.
Gli eventi dei prossimi giorni aiuteranno probabilmente ad avere maggiore chiarezza sull’entità e sulla ramificazione del fenomeno dei veicoli finanziari. Al momento risulta probabilmente ostico anche per le banche centrali riuscire ad avere in tempo reale un quadro preciso dell’entità degli asset in circolazione e dei soggetti coinvolti, trattandosi di soggetti (i veicoli) che non rientrano nei bilanci bancari e quindi non tali da offrire un adeguato livello di trasparenza. L’assenza di certezza sotto questo punto di vista ha acuito il problema della crisi di liquidità anche di fronte ad asset con rating molto elevato, comportando la preferenza verso approdi sicuri rappresentati dai titoli governativi Usa e tedeschi.

In sintesi

Dopo il tentativo di ricostruzione del complesso intreccio che collega il mondo reale (mercato immobiliare nella fattispecie) con quello finanziario, cerchiamo di affrontare l’arduo compito di immaginare l’evoluzione futura degli eventi. Innanzitutto i primi due eventi importanti saranno la riunione della Bce del 6 settembre e quella della Fed del 18 dello stesso mese. Nel primo caso, in presenza ancora di turbolenze sui mercati è possibile che la Bce rimandi ad ottobre il rialzo preannunciato ad agosto, pur sottolineando che trattasi di rinvio e non di cancellazione. Del resto, proprio ad agosto Trichet si era premurato di metter nero su bianco il fatto che la Bce avrebbe “attentamente monitorato” gli sviluppi sui mercati che già ad inizio agosto si stavano manifestando.

Per quanto riguarda la Fed , probabilmente l’intenzione di Bernanke è quella di provare a mantenere i tassi Fed Funds fermi al 5,25% ed utilizzare, come già fatto, lo strumento del tasso di sconto per venire incontro alle esigenze delle banche in caso di necessità. Per quanto riguarda i Fed Funds, proviamo a mettere sul piatto i pro ed i contro di un eventuale taglio: da un lato aiuterebbe i mutuatari a tasso variabile (i famigerati “Brothers in ARMs” utilizzando la parafrasi del Fmi) ma in questo caso occorrerebbero manovre corpose (almeno di 50pb) e ravvicinate per avere un impatto concreto ed immediato. Dall’altro lato il repentino calo dei Fed Funds potrebbe aumentare le condizioni di liquidità del sistema contribuendo potenzialmente a creare nuovo terreno fertile per una nuova ondata di carry trade.
Per poter cercare di navigare in questo complesso contesto la Fed potrebbe appunto scegliere di manovrare per ora solo il tasso di sconto con opportune operazioni di iniezione/drenaggio di liquidità in base alle necessità degli operatori. In questo modo riuscirebbe a recuperare il tempo necessario per valutare l’impatto di quanto accaduto sull’economia reale. In questo caso riteniamo che l’impatto potrebbe essere manifesto sulla spesa per consumi già nel trimestre in corso e gradualmente anche nei prossimi due trimestri.
Fino ad ora i consumi avevano trovato supporto soprattutto nelle favorevoli condizioni del mercato del lavoro, riuscendo così ad evidenziare una buona tenuta anche dopo il venir meno del supporto offerto invece dal settore immobiliare mediante l’estrazione di valore dagli immobili. In prospettiva le aziende potrebbero far fronte agli aumentati costi di finanziamento nonché al calo della domanda ridimensionando i costi del personale. Si tratta di un rischio che potrebbe emergere in modo gradualmente crescente soprattutto nei prossimi due trimestri, dal momento che il mercato del lavoro tradizionalmente rappresenta un indicatore ritardato del ciclo macroeconomico. Di conseguenza, la Fed potrebbe operare un primo taglio dei tassi Fed Funds non prima di novembre o più realisticamente dicembre. Laddove i mercati dovessero però avvitarsi, allora il taglio conseguente dei Fed Funds suonerebbe come un provvedimento di estrema ratio che implicitamente recherebbe l’ammissione del fatto che i rischi di ridimensionamento della crescita sono già in atto.
Una precisazione a questo punto è doverosa: il fenomeno del “repricing del rischio” avvenuto nei giorni scorsi era stato a più riprese auspicato dai banchieri centrali e probabilmente rimarrà in essere anche dopo il superamento dell’attuale crisi. Dal loro punto di vista l’importante però è che tutto si svolga senza generare panico e quindi senza arrivare a compromettere i fondamentali macroeconomici. Le forti iniezioni di liquidità degli ultimi giorni sono in buona misura finalizzate a tale obiettivo.
In altri termini dal punto di vista dei banchieri centrali il corretto funzionamento dei mercati (e di conseguenza il supporto per la continuazione di favorevoli condizioni di crescita) passa di tanto in tanto attraverso la pulizia di eccessi che per qualche operatore possono tradursi anche in sonore perdite. Se tutto andrà come le banche centrali auspicano, probabilmente a fine anno il forte livello di liquidità insieme alla sensazione di scampato pericolo che in genere consegue a fasi estremamente turbolente come quella degli ultimi giorni, potrebbe comportare il ritorno del sereno sui mercati finanziari per qualche mese.
Per verificare se anche questa volta (come ad esempio accadde nel 1998) si verificherà una situazione di tal tipo occorrerà attenderà almeno un mese circa, fino alla prossima riunione della Fed del 18 settembre. Nel frattempo, su un orizzonte temporale più lungo esteso anche al 2008, occorrerà altresì verificare se i fondamentali macro presentino o meno i primi sintomi della fine del lungo ciclo espansivo, principalmente negli Usa. Quanto accaduto nel settore immobiliare presenta potenzialmente i requisiti per comportare un impatto più marcato sulla crescita. Pertanto negli ultimi mesi dell’anno occorrerà ancor di più distinguere tra posizioni tattiche di un mese o due e quelle più strategiche in ottica 2008.
Infine uno sguardo sul mercato obbligazionario: gli eventi degli ultimi giorni si sono risolti in un movimento brusco soprattutto sul mercato monetario. I tassi a lungo termine sono anche essi scesi ma molto meno di quelli a breve. Le curve potrebbero mantenere una pendenza più accentuata rispetto a quella praticamente nulla cui ci avevano abituato da molto tempo. In area Euro il processo di irripidimento potrebbe comunque essere graduale visto che la Bce ancora non ha completato il ciclo rialzista. Nel caso Usa il processo di steepening potrebbe essere più accentuato rispetto all’area Euro ma in ogni caso meno violento rispetto all’era Greenspan: gli operatori stanno gradualmente familiarizzando con una gestione della politica monetaria caratterizzata da minori inversioni brusche in cambio di più lunghi periodi di stazionarietà dei tassi.

 

Fonte - MPS Finance BM S.p.A.


 

 

 

 

LA MINA CONDUIT 

25 Agosto 2007, Milano - di Felice Meoli
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Un «condotto» verso il nulla. È stato eloquente il titolo dell’Economist sulla questione conduit, che sta rubando la scena ai mutui subprime americani. Se infatti in Italia solo UniCredit presenta uno small conduit fuori bilancio - che secondo Morgan Stanley non può destare preoccupazioni - in Europa la pratica di nascondere questi veicoli sembra essere molto più diffusa.
Come afferma Mps «sarà probabilmente ostico anche per le banche centrali riuscire ad avere in tempo reale un quadro preciso dell’entità degli asset in circolazione e dei soggetti coinvolti, trattandosi di veicoli che non rientrano nei bilanci bancari e quindi non tali da offrire un adeguato livello di trasparenza».
Alla fine di marzo, secondo Citigroup, nei conduit europei erano presenti oltre 500 miliardi di dollari di Abcp. Il mercato globale delle Abcp è stimato sui 1.200 miliardi. Ma l’ingegneria non si è fermata ai conduit semplici: la finanza strutturata ha dato alla luce i Siv, Structured Investment Vehicles, simili ma con una leva maggiore, utilizzati per arbitraggi.
Moody’s, a maggio, stimava i volumi di alcuni dei maggiori Siv europei: Solitaire di Hsbc possiede attività per 17 miliardi di dollari ed è esposto per il 70% ad asset americani. Amstel di Abn, con un volume di 14,9 miliardi di dollari, presenta un esposizione a Cdo/Cbo/Clo per l’84 per cento. Una delle più attive in questo mercato è Deutsche Bank. A marzo, in un documento depositato presso la Sec (la Consob americana), Deutsche stimava un’esposizione a perdite su prodotti strutturati per 2,3 miliardi di dollari.
E pochi giorni fa si è rivolta per la prima volta alla nuova «discount window», aperta dalla Fed per gestire la crisi, per un prestito dall’entità imprecisata. A Deutsche fanno riferimento tre conduit (Bills, Rheingold e Rheinmain) per un totale, secondo una stima di Moody’s datata ottobre dello scorso anno, di 12 miliardi di dollari. Secondo Domenico Picone, analista di Dresdner Kleinworth, «se il fermento sulla finanza strutturata persisterà, è probabile che molti conduit europei e americani si troveranno a vendere i loro asset per far fronte alle scadenze delle commercial paper».
Oggi è diventato difficilissimo trovare investitori disposti a rifinanziare le commercial paper. Per cui i veicoli sono stati costretti ad appoggiarsi sulle banche sponsor, alle quali sono venute in aiuto le banche centrali, che hanno accettato come garanzia titoli che non solo non avevano acquirenti, ma che non erano voluti neanche come collateral. Oltre a essere in una crisi di liquidità, siamo in una crisi di fiducia, «anche di fronte ad asset con rating molto elevato», che sta «comportando la preferenza verso approdi sicuri rappresentati dai titoli governativi Usa e tedeschi», conclude Mps.

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

ECCO LE BANCHE PIU' ESPOSTE SUI DERIVATI

28 Agosto 2007, Milano - di Nicola Borzi
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Dietro la grande paura scatenata sui mercati internazionali dalla crisi dei mutui subprime Usa comincia a intravvedersi qualche punto fermo. Se restano ancora incerti molti degli identikit degli investitori che, acquistando tranche di cartolarizzazioni residenziali statunitensi e derivati sintetici, finiranno con il restare col cerino in mano, non così è invece per gli intermediari che negli scorsi anni hanno realizzato ingenti profitti sulla strutturazione e vendita di collateralized debt obligation (Cdo) sulle ipoteche maggiormente a rischio. Sono queste le società più esposte all'inevitabile frenata (che già ha iniziato a manifestarsi) delle emissioni di questi titoli nei quali gli elevati rendimenti – come sempre in finanza – si sono coniugati con pari livelli di rischio.
La "top ten". La classifica dei principali intermediari dei Cdo di finanza strutturata, quella classe di collateralized debt obligation che comprende nel proprio paniere di titoli sottostanti le Rmbs, cioé le cartolarizzazioni di mutui residenziali, è stata fornita al «Sole 24 Ore» da Dealogic, uno dei principali operatori internazionali di database finanziari.
Il mercato statunitense di questi derivati strutturati è il principale a livello mondiale: dal primo gennaio al 22 agosto ha visto emissioni per 145,5 miliardi di dollari, a fronte dei 10,45 del Vecchio continente. Ebbene, da inizio anno, come mostra la tabella, più della metà delle emissioni è stata intermediata da tre grandi operatori, Merrill Lynch (con una quota che sfiora un quinto del controvalore complessivo), Citi (13,3%) e dalla svizzera Ubs (13%). In Europa, pur a fronte delle ridotte dimensioni del mercato, la concentrazione dei primi tre operatori di Cdo è anche maggiore: l'olandese Abn Amro ha gestito in meno di otto mesi il 23% delle emissioni, per un controvalore che però è meno di un dodicesimo di quello intermediato dal leader Usa, seguita ancora da Merrill Lynch (22,3%) e dalla belga Kbc (18,5%).
Un mercato opaco. Prima di valutare quale possa essere l'impatto della frenata delle emissioni di Cdo di finanza strutturata sui conti di questi operatori, occorre però prestare attenzione ad alcune peculiarità di questo mercato. I dati appena esposti includono altre asset class, oltre le Rmbs, nei panieri dei derivati. Non è possibile indicare per ciascuna emissione quanta parte del sottostante sia formata da cartolarizzazioni di mutui subprime sia perché i portafogli non sono fissi ma variano nel tempo, sia perché i manager non sono tenuti a rivelare la composizione specifica dei sottostanti, ma solo a darne indicazioni generiche.
Nessun dato sui ricavi. Un'altra caratteristica che rende particolarmente opaco questo mercato, oltre alla deregulation di questi strumenti, è la totale mancanza di indicazioni sul livello e la composizione delle commissioni che le banche d'affari ricavano dalle attività di originazione del sottostante (si possono creare Cdo di Cdo e così via in serie), dalla strutturazione dei derivati e dalla vendita degli stessi. Inoltre le banche possono sottoscrivere gli stessi Cdo e riceverne gli interessi, sia in proprio che come controparte degli special purpose vehicles o entities (Spe/Spv), i veicoli finanziari fuori bilancio utilizzati per la gestione di questi strumenti finanziari. Inoltre i manager che gestiscono gli Spe/Spv ricavano margini legati alle performance del portafoglio dei veicoli, margini che possono essere retrocessi alle banche. Infine, altre commissioni vanno ai trustee.
Emissioni in brusca frenata. Tuttavia, secondo gli ultimi dati aggiornati al primo semestre, il controvalore globale dei Cdo emessi tra aprile e giugno (141,5 miliardi di dollari) è in frenata sia sul trimestre precedente che sullo stesso trimestre del 2006. Per i Cdo di finanza strutturata, quelli che possono essere realizzati sulla base dei mutui subprime, nel secondo quarto del 2007 il calo sul trimestre precedente è stato del 25,8%. Prima luce dalle prossime trimestrali. È ancora presto per poter dire quanto la stretta peserà sui conti delle grandi banche d'affari. Ma la stagione delle trimestrali è ormai alle porte: sarà quella la cartina di tornasole dell'impatto sulla redditività degli operatori.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

OCCHIO AI DERIVATI 

29 Agosto 2007, New York - di WSI
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Il mondo dei prodotti derivati è certamente vasto e complesso e riuscire a trovare delle statistiche in grado di fornire la reale misura della piramide finanziaria mostruosa che si è venuta a creare in questi anni non è cosa facile. Abbiamo però scovato una recente analisi della BIS (Bank of International Settlement) la quale alla tabella 19 ha riportato una stima di quale potrebbe essere l’ammontare di derivati in giro per il mondo al 31 dicembre 2006 ed il numero certamente fa drizzare i capelli: 415 trilioni di dollari.

Questo significa 8 volte il Pil dell’intera economia mondiale, venti volte il valore di tutte le azioni americane e 5 volte il totale dei Treasury in circolazione, cioè 5 volte il debito americano.
Tutto questo va certamente inserito in un contesto di crescita economica tumultuosa e di maggiori opportunità di investimento oltre che di evoluzione dell’ingegneria finanziaria. Un esempio per tutti: poter scommettere tramite Etf sul ribasso dei mercati azionari rappresenta un grande passo avanti per tutti gli investitori che non devono più imbarcarsi in complicate operazioni di vendita allo scoperto.
La crescita delle masse non è però stata ordinata e nemmeno controllata se è vero che da diversi anni la Fed sta tentando invano di mappare il fenomeno. Nel 1998 il nozionale dei derivati, sempre secondo Bis, era pari a 80 trilioni di dollari, oggi siamo, dopo quasi 10 anni, 5 volte più in alto.
E che proprio gli ultimi anni siano stati i più “selvaggi” lo dimostra la percentuale di crescita del 39.5% dal 2005 al 2006 dei derivati emessi, un tasso 10 volte superiore quello medio della crescita economica mondiale. Ma allora la domanda che sorge spontanea è: dove sta il rischio? Il rischio, per ora solo teorico, lo illustreremo la settimana prossima con dati che dimostrano in modo inequivocabile come le basse valutazioni di P/E della banche americane non dipendono solo dalla crisi dei subprime.

 

Fonte - SmartTrading.it.

 

 


 

 

 

   Processo agli Hedge

28 Agosto 2007 Milano - di Elena Bonanni
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Di certo, dal crollo dell’Ltcm, l’industria degli hedge non è più troppo abituata a curarsi le ferite. Abituata, com’era, a masse sempre in aumento e performance golose: secondo Mondo Hedge infatti, i patrimoni gestiti, a fine marzo 2007, avevano un valore di 1.569 miliardi di dollari, rispetto ai 185 del 1995. Ma ora, dopo una crisi di liquidità che non si vedeva da tempo e un’estate da incubo, gli hedge dovranno fare i conti con uno degli autunni più difficili della loro storia.
E fronteggiare gli attacchi di chi, a torto o a ragione, li sbatte sul banco degli imputati. A partire dalla critica sulla scarsa trasparenza dei dati. I numeri ufficiali (performance e nav) di questo agosto di passione, infatti, inizieranno ad arrivare solo da fine settembre. Un capo d’accusa che però viene respinto da chi opera nell’industria. «Il fatto che il nav arrivi in ritardo è un problema relativo - afferma Stefano Bestetti di Hedge Invest - Un investimento in un fondo hedge deve essere inteso nel medio periodo: non ha senso entrare e uscire. Inoltre, le società elaborano durante il mese delle stime per tenere aggiornati i sottoscrittori sull’andamento settimanale».

AUTUNNO CALDO? C’è chi, poi, teme che l’emergenza non sia finita e che nei prossimi mesi altri fondi saranno costretti a correre ai ripari mettendo sotto assedio i listini. D’altra parte un monito l’ha già lanciato Moody’s, che vede nella crisi di liquidità la possibilità che un mega hedge fund vada a picco con ripercussioni anomale sui mercati. Dobbiamo prepararci ad altre turbolenze? La storia non è così semplice. «Non sono d’accordo con Moody’s - afferma Grazia Orlandini, responsabile investimenti di Mps Alternative - la crisi c’è ora. Il mercato si sta stabilizzando, a meno che la Fed non cambi atteggiamento. Molti hedge hanno già delevereggiato, la possibilità di ulteriori problemi potrebbe arrivare eventualmente solo dai riscatti che inizieranno a vedersi in maniera consistente a dicembre».
I primi rimborsi sul fronte dei fondi italiani (soprattutto fondi di fondi) che in generale hanno una tempistica mensile inizieranno, però, a emergere già da ottobre. Poi, tra novembre e dicembre arriveranno anche quelli dei fondi esteri. «Tuttavia va tenuto in conto - continua Orlandini - che, nel complesso, il saldo finale per l’investitore è dato sì dalle perdite di questo mese, ma anche dai buoni guadagni precedenti. In luglio l’industria hedge e i mercati hanno tenuto. Così le perdite sono state compensate, in un contesto in cui tutte le asset class sono scese». Ma è chiaro che, per liberarci completamente dell’incubo default dovremo attendere almeno fino alla fine dell’anno. Tuttavia, prima di emettere sentenze e farsi prendere dal panico è bene capire dove nascono i rischi e perché.

NON È SOLO LA LEVA. Sotto il nome di Hedge Fund finisce un po’ di tutto. Proprio per la loro stessa natura di «strumenti non tradizionali e non regolamentati». Si apre qui un secondo problema di trasparenza per l’investitore privato (il quale in Italia, vale la pena ricordare, ha una soglia minima d’ingresso di 500mila euro) che, vista la complessità dei prospetti e degli strumenti in portafoglio, difficilmente può essere veramente consapevole del tipo di rischio che assume. Quindi, meglio osservare con attenzione chi si ha davanti.
«Chi ha sofferto di più - afferma Massimo Maurelli, presidente per l’Italia di Aima (associazione non profit internazionale per l’industria degli hedge fund) - sono quei fondi che, pur chiamandosi hedge, in realtà fanno prevalentemente attività di carry trade (e non di hedging) e che in più hanno usato molta leva». Sì, perché il carry trade si fa con le valute, ma anche con i derivati di credito, come i Cdo. Se il derivato, per esempio, mi dà una cedola del 5% e il finanziamento mi costa il 4% ho un margine dell’1% che diventa del 20% se vado 20 volte a leva. Negli ultimi tre anni questa tipologia di hedge ha guadagnato molto ma, quando i subprime hanno iniziato a scricchiolare, la leva è risultata fatale.

È stato il caso dei fondi Bear Stearn. «La casa d’affari - spiega Grazia Orlandini - aveva verosimilmente una quota limitata del portafoglio allocata in subprime ma con una leva significativa. Il che vuol dire che le perdite derivanti da esposizioni ridotte sono amplificate dall’effetto moltiplicatore della leva ». D’altra parte il deteriorarsi dei subprime era già noto da tempo e l’assunzione di rischio è stata diversa nei singoli fondi. «Ecco perché - continua Orlandini - è bene fare distinzioni tra hedge e hedge. L’hedge fund Paulson, per esempio, prevedendo le difficoltà del comparto in America aveva già da più di due trimestri assunto posizioni corte sui subprime».
E molti fondi hanno persino guadagnato. «Non è un’industria regolamentata. Molto dipende dall’investitore che farebbe, però, meglio a passare per le liste "approved" degli esperti: negli hedge la selezione è più difficile perché il rischio non è rappresentato dal rapporto rendimento/volatilità». Antonio Foglia, direttore di Banca del Ceresio, per esempio, sulle pagine dei Quaderni Aiaf (una pubblicazione dell’associazione degli analisti finanziar) distingue più in generale tra hedge direzionali e non direzionali. «Per quanto riguarda i fondi direzionali - scrive Foglia - non abbiamo notato negli ultimi anni assunzioni di rischi significativamente diversi da quanto frequentemente visto nel passato». Con l’eccezione dei fondi activist, in genere più aggressivi, che costruiscono posizioni illiquide (difficili da vendere), problematiche in caso di riscatti. Un rischio che riguarda anche le strategie di arbitraggio messe in atto dagli hedge più market oriented (non direzionali): gli arbitraggi hanno quasi sempre all’attivo investimenti meno liquidi di quelli al passivo e tutti gli operatori sono prevalentemente posizionati in modo omogeneo.

IL NODO LIQUIDITÀ. Un problema che si è palesato proprio quando, con le difficoltà del mondo subprime, i Cdo in cui erano stati impacchettati i mutui non riuscivano più a essere venduti né prezzati. Il motivo? Nessuno sapeva, data la complessità di questi strumenti, cosa avrebbe comprato esattamente. «Così i fondi - afferma Bestetti - si sono trovati con titoli che non riuscivano a vendere o che venivano pagati la metà del loro valore e con un uso della leva che amplifica le perdite». E, per riuscire a far fronte agli impegni finanziari, sono stati costretti a vendere anche altri asset come gli azionari, su cui già pesava l’incertezza subprime. «La crisi generalizzata - dice Orlandini - è dipesa anche da alcuni prime broker che di fronte al caso Bear Stearns e, poi, al congelamento dei riscatti di Bnp Paribas si sono fatti prendere dal panico e hanno richiamato indistintamente le linee di credito». Non tutti i fondi però sono dovuti rientrare precipitosamente, qualcuno ha negoziato e altri avevano contratti blindati sulle linee di credito.

L’EFFETTO DOMINO. «Con la vendita indiscriminata sull’equity e l’aumento dell’avversione al rischio - spiega Orlandini - c’è stato un effetto a catena. Prima hanno iniziato a soffrire i fondi quantitativi (tra cui Goldman Sachs, ndr). Questi, che avevano posizioni di arbitraggio sui fondamentali delle aziende, hanno ridotto le loro esposizioni, aggravando così le perdite dei listini». Un trend che, a sua volta, ha colpito i fondi con strategia Long/Short e gli Event driven (cioè i prodotti che scommettono soprattutto sull’M&A). Appare chiaro che il problema della liquidità va ben oltre gli hedge. Ma chiama in causa anche il ruolo delle investment bank. Secondo Foglia, «nelle fasi di volatilità dei mercati degli ultimi anni la liquidità, e in particolare quella dei derivati Otc (tra cui i Cdo, ndr), dipende in maniera cruciale dalla disponibilità delle poche investment bank», attive in qualità di prime broker (cioè finanziano gli hedge).
Queste investment bank, però, spesso hanno una esposizione al rischio sul mercato simile a quella degli hedge e operano con una leva finanziaria maggiore di quella dei fondi speculativi. Paradossalmente, gli hedge potrebbero essere loro stessi gli attori della stabilizzazione dei derivati di credito. Tra i banchieri di Lugano c’è chi pensa di creare degli hedge che sfruttino le inefficienze di prezzo dei derivati create dal panic selling. «Il vero problema per una grande bolla - afferma Maurelli - è che nei portafogli di banche e investitori istituzionali di tutto il mondo, ci sono trillioni di dollari di derivati di credito che sono difficilmente vendibili».
Come mai? In realtà per i Cdo non esiste un efficace sistema per determinarne il prezzo. «Il rischio per una crisi sistemica potrebbe quindi nascere se gran parte di queste posizioni dovessero venire smobilitate». Un processo che non è ancora iniziato. A ben vedere gli hedge, seppure con i loro problemi di opacità, stanno già affrontando il problema. Ma che dire di tutti quei soggetti (come per esempio le «normali» banche), magari contagiati dal virus subprime, che hanno sì obblighi di comunicazione ma non sono in grado di rivelare in tempo la «malattia». «Il problema dei Cdo - afferma Orlandini - non è ancora emerso nelle sue dimensioni». Appare evidente il nodo più delicato: nessuno sa dove sono i potenziali rischi. E, di fronte a soluzioni di regolamentazione e autoregolamentazione che a molti appaiono difficilmente percorribili, si pone la questione di una migliore informazione.

 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza


 

 

 

Venerdì 10 agosto 2007   Domenica 12 agosto 2007   Martedì 14 agosto 2007
   
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   La crisi delle borse non esiste

13 Agosto 2007 Roma - di La Repubblica

Gonfiate a dismisura dai giornali italiani le preoccupazioni per i mercati finanziari. La Banca centrale europea "registra che le condizioni del mercato monetario sono in via di normalizzazione e che la liquidità è ampia".
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Prima le borse asiatiche, che hanno tenuto e alla fine hanno chiuso col segno più. Poi quelle europee, in positivo per tutta la giornata. Infine anche Wall Street, dove l'indice Dow Jones ha aperto a +0,31%. La reazione dei mercati - attesa con ansia dopo la tesissima settimana della crisi dei mutui Usa - è stata dunque positiva. Il merito è anche delle Banche centrali, che hanno annunciato nuove immissioni di liquidità: la Bce ha messo a disposizione 47,665 miliardi di euro e la Fed americana è intervenuta ancora. Intanto il Fondo monetario internazionale avverte: "Il 50% dei prestiti immobiliari concessi nel 2006 negli Usa è a rischio".
Borse in ripresa. Dopo una partenza in rialzo su tutte le piazze europee, i principali indici nel Vecchio continente sono rimasti in crescita anche nel resto della seduta. In alcuni casi, i recuperi sono stati significativi: Londra ha registrato un aumento del 3,23%, Parigi del 2,21%. In crescita anche Francoforte (+1,78%) e Zurigo (+1,39%). Bene Milano, dove il Mibtel ha concluso la giornata guadagnando l'1,24%.
Positiva anche l'apertura di Wall Street, per la quale c'era grande attesa. A New York l'indice Dow Jones ha aperto a +0,31% e il Nasdaq a +0,90%. A trainare i listini americani è stata anche l'ondata di fiducia alimentata dai dati sulle vendite al dettaglio, che a luglio hanno evidenziato una crescita superiore alle attese.
Gli interventi delle Banche centrali. A spiegare la serie di rialzi ci sono anche gli interventi delle Banche centrali, che hanno cercato di tranquillizzare i mercati. Nel corso della mattinata c'è stato un nuovo intervento della Bce per apportare liquidità. In un comunicato, la Banca centrale europea "registra che le condizioni del mercato monetario sono in via di normalizzazione e che la liquidità è ampia. Con operazioni di aggiustamento, la Bce sta ulteriorimente accompagnando la normalizzazione delle condizioni del mercato monetario". L'intervento odierno, da oltre 47 miliardi, è il terzo da giovedì 9 agosto. Solo la scorsa settimana la Bce ha iniettato nel mercato la cifra record di 156 miliardi.
Nel pomeriggio è intervenuta anche la Fed. La Banca centrale americana ha assegnato 2 miliardi di dollari, una cifra comunque decisamente inferiore alle richieste, che sfioravano i 53 miliardi. Sempre oggi, anche la Banca del Giappone ha immesso altre considerevoli liquidità sui mercati. L'operazione di sostegno, come annunciato dall'Istituto di emissione nipponico, ha un valore di 600 miliardi di yen (circa quattro miliardi di euro) e fa seguito a un intervento di 1.000 miliardi di yen concordato venerdì con la Riserva federale americana e la Banca centrale europea.
Dopo i 300 miliardi di liquidità immessi nel sistema dagli istituti centrali di tutto il mondo, la tesi che comincia a circolare con insistenza tra gli addetti ai lavori è che i banchieri centrali, Fed in prima linea, potrebbero anche ripensare la strategia sul costo del denaro, forse già questa settimana. Il primo intervento potrebbe riguardare i tassi di riferimento Usa, con un taglio fino a 50 punti base. Sul fronte europeo invece, si ipotizza un annullamento dell'atteso rialzo che l'Eurotower ha lasciato da tempo intendere per settembre.
L'allarme del Fondo monetario internazionale. Il 50% dei prestiti immobiliari stipulati negli Stati Uniti nel 2006 è ad alto rischio perché è stato concesso senza che venisse valutata a fondo la possibilità che i richiedenti fossero effettivamente in grado di rimborsare l'importo ottenuto e i relativi interessi. E' il quadro che emerge da uno studio del Fondo monetario internazionale. Secondo l'Fmi, negli Usa l'effetto congiunto del calo nei prezzi delle case e dell'innalzamento dei tassi "creerà significativi shock nei pagamenti per i mutuatari nel periodo dal 2007 al 2009".

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

   Mercati: non si risolve così la crisi

18 Agosto 2007 Lugano - di *Alfonso Tuor

*Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in lingua italiana.  
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La crisi è grave. Non sono bastate le iniezioni di decine di miliardi di dollari per calmare i mercati finanziari e allora si passa immediatamente alla riduzione del costo del denaro. Infatti, il Comitato direttivo della Federal Reserve americana, in una riunione straordinaria, ha tagliato di 50 punti base il tasso di sconto e ha fatto capire che si prepara a tagliare nei prossimi giorni anche il tasso giorno per giorno, attualmente al 5,25%.
Appena appresa la notizia, le borse sono rimbalzate violentemente. È dunque inevitabile interrogarsi se la riduzione dei tassi è sufficiente per riportare la calma sui mercati e per risolvere l’attuale crisi.
Vi sono buoni motivi per ritenere che il taglio del costo del denaro fornirà un po’ di sollievo ai mercati, ma non basterà per risolvere il problema dei crediti a rischio su cui galleggia il sistema finanziario. Innanzitutto, il taglio del tasso di sconto, che è il tasso al quale la banca centrale concede prestiti al sistema bancario, è assimilabile alle iniezioni di liquidità, cui le banche centrali sono ricorse ripetutamente negli scorsi giorni. Più rilevante appare l’annuncio che la Federal Reserve è intenzionata a tagliare anche i ben più importanti Fed Funds, se non tornerà la calma sui mercati. In buona sostanza, gli operatori oggi sanno che la banca centrale userà tutte le armi a sua disposizione per sostenere i mercati.
Dunque, se questo taglio dei tassi non basterà, la Federal Reserve suggerisce ai mercati che taglierà ancora il costo del denaro (e le mosse della Fed saranno presto imitate dalle altre banche centrali). In pratica, Ben Bernanke segue le orme di Alan Greenspan e fa diventare il salvataggio del sistema finanziario un obiettivo prioritario della banca centrale.

Questa scelta, che è sicuramente discutibile, dovrebbe comunque rassicurare i mercati e fungere come una polizza di assicurazione. Per questo motivo è prevedibile che la banca centrale dovrà tagliare più volte i tassi, poiché questa crisi non è causata da una momentanea fase di paura dei mercati, che in termini tecnici si potrebbe definire una temporanea crisi di liquidità. Se così fosse, la calma sarebbe già tornata dopo le iniezioni di decine e decine di miliardi di dollari effettuate dalle banche centrali di mezzo mondo negli scorsi giorni.
In realtà, il cuore del problema è la necessità di valutare nuovamente il prezzo dell’enorme quantità di strumenti finanziari creati in questi anni per finanziare la bolla del credito. E, come tutti sanno, l’operazione di «rivalutazione» di questi strumenti non è ancora cominciata. Per gli strumenti collegati al mercato immobiliare in questi giorni non esiste nemmeno un prezzo di mercato. Per altri strumenti ancora più sofisticati creati dalla finanza creativa degli ultimi anni la rivalutazione è particolarmente ardua, perché non esisteva un prezzo di mercato nemmeno prima di questa crisi, dato che il loro valore era desunto da modelli matematici.
La disponibilità della Fed di offrire capitali a prezzi inferiori e la promessa di tagliare i tassi fino a quando non tornerà la calma sui mercati, dà sollievo e tempo, ma non risolve il problema di coloro che (banche, hedge funds, fondi di investimento, ecc.) devono ancora iscrivere a bilancio le perdite derivanti dai «nuovi prezzi» di questi strumenti. Per essere ancora più chiari, si stima che il mercato americano delle ipoteche «subprime» ammonti a circa 1.300 miliardi di dollari e che le perdite ammontino come minimo a 200 miliardi di dollari. Sebbene rilevanti, queste cifre non appaiono enormi e potrebbero essere assorbite.
Il problema è che su questi 1.300 miliardi di dollari Wall Street ha costruito una serie di strumenti finanziari che moltiplicano il valore delle somme in gioco e il numero degli attori coinvolti. Quindi, o ci si illude che sia possibile una ripresa del mercato immobiliare americano a breve, oppure la mossa della Fed dà un certo sollievo, ma non risolve il problema.
Inoltre, come abbiamo ripetutamente scritto, le obbligazioni legate al mercato ipotecario americano rappresentano solo la punta dell’iceberg dell’enorme bolla del credito facile degli ultimi anni e su cui sono stati inventati strumenti finanziari nuovi e sempre più sofisticati, come i numerosi veicoli di investimento apparentemente autonomi creati dalle banche, come il fondo della tedesca IKB, i veicoli strutturati di investimenton (SIV) che usano pesantemente lo strumento della leva (ossia del debito) per moltiplicare i risultati delle loro scommesse e così via. A questi sono ancora da aggiungere gli hedge funds e i fondi di private equity.
In queste condizioni la decisione della Fed può dare un temporaneo sospiro di sollievo, ma poco più. Per riportare la calma, bisognerà abbassare i tassi a tal punto da ridare vigore all’attuale bolla del credito. In pratica, bisognerà ricreare la bolla per evitare le conseguenze del suo scoppio. Ed è quanto molto probabilmente faranno le banche centrali, anche se in questo modo si mettono solo delle toppe, ma non si risolve la crisi, poiché non si correggono i comportamenti perversi della grande finanza che l’hanno originata.

 

Fonte - Corriere del Ticino


 

 

 

Martedì 14 agosto 2007   Venerdì 17 agosto 2007   Venerdì 17 agosto 2007
   
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   Borse? no, meglio stare alla finestra

21 Agosto 2007 Lugano - di Vincenzo Sciarretta
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La notizia lo coglie all’improvviso, come tutti. La Federal reserve ha appena deciso di tagliare dello 0,50% i tassi interbancari. Ma per Marc Faber il quadro generale rimane quello di prima: «Gli operatori mostrano troppa faciloneria, danno per scontato che le Borse siano nel mezzo di una correzione passeggera, che presto lascerà spazio a una ripresa. Secondo me non ci sono le condizioni affinchè i listini possano riprendere a salire con fiducia».
Svizzero di nascita, un PhD in Economia con magna laude, l’estroso e dotto «guru» che abita a Hong Kong, fra i pochi a prevedere l’ecatombe di queste settimane, ha le idee chiare: «Anche se mi sbagliassi - prosegue - chi può pensare che i listini azionari faranno nuovi massimi a breve? E allora, perché rischiare la camicia, quando la prospettiva di guadagno appare modesta? Meglio stare alla finestra e aspettare che la tempesta faccia il suo corso».

Lei ha a lungo ammonito sui rischi inerenti alla bolla del credito. Pare che il giorno del giudizio sia arrivato… Probabilmente sì. Negli anni ’80 il rapporto fra il debito e il pil degli Stati Uniti era di circa il 130%, ora siamo al 330 per cento. Magari salirà ancora fino al 400% ma poi il giorno del giudizio arriverà. E forse è già cominciato in questi giorni.

Lei considera Alan Greenspan, l’ex numero uno della Fed, come il responsabile di questa moltiplicazione della carta finanziaria, non è vero? Certamente sì. Le sue enormi immissioni di liquidità durante la seconda parte degli anni ’90, e poi in risposta al crollo dei titoli tecnologici, finirà sui libri di storia. È stato lui che ha creato la bolla del credito e quella del settore immobiliare, punto e basta.

D’accordo. Ma ora cosa dovrebbero fare gli investitori? Sono settimane da perdere il sonno… Insisto a dire, e non da oggi, che i contanti sono lo sbocco migliore. Il punto è che non si hanno mai abbastanza soldi quando i mercati finanziari cominciano a cadere in verticale.

In molti, però, suggeriscono proprio di comprare azioni, se la flessione dovesse essere ancora più marcata. Lei cosa ne pensa? Io sono piuttosto pessimista sul futuro dell’economia e delle Borse. Ma supponiamo che mi sto sbagliando e che i fondamentali siano tuttora solidi. Penso comunque che dopo una tale batosta, difficilmente gli indici guadagneranno nuovi massimi in un breve arco di tempo. Perciò il rapporto rischio-rendimento non è per nulla allettante.

Forse è opportuno vendere allo scoperto? Gli specialisti senz’altro troveranno dei titoli che vale la pena di vendere. In un articolo di un paio di mesi fa sul suo giornale suggerivo di prendere in considerazione alcuni Etf che si muovono in senso contrario rispetto all’S&P 500 e guadagnano quando le Borse perdono terreno. Ma adesso quel suggerimento è diventato più rischioso.

Teme un rimbalzo a breve? Esatto. Bernanke potrebbe decidere di tagliare il costo del denaro pur di salvare Wall Street, innescando forti correnti di copertura. Di conseguenza, aprire posizioni corte non è adesso esente da rischi.

Quindi, il cash prima di tutto. C’è qualche altro asset? Sì, gli asset meno correlati con i mercati finanziari sono le proprietà agricole. Tenga a mente che le granaglie, il bestiame e i coloniali hanno un grande avvenire, grazie alla domanda di lungo termine che emerge dai Paesi asiatici e all’uso di prodotti come gli eco-carburanti derivati dal mais, dallo zucchero e da altri prodotti della terra. Mi rendo conto che non sono investimenti adatti a tutti, ma in ogni caso raccomando ai tanti gestori che stanno per perdere il posto di acquistare un largo appezzamento agricolo e un trattore, così da non rimanere disoccupati.

Lei diceva che con ogni probabilità le Borse non riusciranno a fare nuovi massimi a breve termine. Può articolare meglio il suo punto di vista? Siamo in una fase di contrazione del credito. Gli hedge fund scaricano le posizioni; il private equity, le banche e le assicurazioni, che finanziavano le operazioni a leva, ritirano i gettoni dal tavolo; la febbre da M&A, le scalate a debito e il riacquisto di azioni proprie subiranno una forte riduzione al ribasso. Come vede, non è un clima favorevole al Toro.

Durante il grande rialzo partito nel 2002-2003, abbiamo avuto altre correzioni, veloci e raggelanti, ma poi è sempre tornato il sereno. Mi viene in mente il capitombolo dello scorso febbraio o quello di maggio-giugno 2006. Cosa c’è di diverso stavolta? Partiamo da inizio 2007. Era già evidente la terribile dinamica del comparto immobiliare. Forse qualche lettore ricorderà che nel mio intervento di gennaio 2007, consigliai di vendere allo scoperto la New Century Financial e la Accredited Home Lenders, due società leader nei mutui ipotecari. Entrambe sono praticamente finite a gambe all’aria. A ogni modo il mercato azionario è riuscito a raggiungere nuovi massimi, per poi scivolare indietro nel mese di febbraio.
In effetti ad aprile, gli indici sembravano in equilibrio… Apparentemente, sì. In realtà la nuova gamba rialzista dava adito a qualche sospetto. In testa alla corsa vi erano i big dell’energia, le multinazionali con una grossa fetta dei profitti all’estero e le società oggetto di scalata. Al contrario, le compagnie finanziarie, che avevano guidato fino a quel momento il mercato, stentavano, fino a che hanno cominciato a cadere sotto il loro stesso peso.

Per quale motivo? Pochi se ne sono accorti, ma è stato in quel momento che le condizioni del credito si sono fatte meno accomodanti. È bene ricordare che dal 30 giugno 2004 al 29 giugno 2006, la Federal Reserve ha portato il tasso sui fondi federali dall’1% al 5,25 per cento. Ma mentre ciò accadeva, le banche allentavano le loro condizioni del credito proprio per compensare la manovra della Federal Reserve.

Insomma, la Fed stringeva, ma la sua azione risultava vanificata dalle banche? Sì, è una buona sintesi. In seguito, le banche hanno patito delle perdite sui prestiti sub-prime, e hanno reagito stringendo gli standard di accesso. A quel punto, e solo a quel punto, il mare di liquidità nel quale tutti avevano lussureggiato ha cominciato a prosciugarsi. A volte, in passato, lei ha speso buone parole in favore di alcuni mercati azionari emergenti.

Pensa che reggeranno l’urto? Ne dubito. In un recente viaggio negli Stati Uniti ho scoperto che molti fondi pensione e assicurazioni, che erano solite investire esclusivamente entro il perimetro nazionale, si sono lanciate sulle piazze estere. È abbastanza comune trovare fondi pensione con il 50% del portafoglio investito oltreoceano. E siccome siamo in una fase di svendita, tutto finisce in saldo, buono o cattivo che sia l’investimento, inclusi i mercati emergenti.

Insomma, dobbiamo aspettare che la tempesta passi nel porto sicuro del cash? È al momento la scelta migliore.

 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza

 

 

 

 

MA QUALE CROLLO. ECCO CHI FA SHOPPING
A PIAZZA AFFARI

21 Agosto 2007 Milano - di Finanza&Mercati
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Per qualcuno è un’estate di occasioni in Piazza Affari: dai manager-imprenditori che arrotondano il proprio personale portafoglio, ai piani di buyback avviati nei giorni scorsi. A inaugurare la stagione estiva dei riacquisti erano stati Tamburi investment partners (Tip) e Mutuionline lo scorso 31 luglio. Poi era toccato al gruppo Nice il dieci agosto.
E, ieri, anche per D’amico è entrato nel vivo il piano di riacquisto approvato dal cda il primo agosto. Il programma del gruppo armatoriale prevede l’acquisto fino a un massimo del 10% del capitale per un periodo di 18 mesi, entro 31 dicembre del 2008, per un controvalore di 75 milioni di euro.
I «padroni», invece, si sono dati da fare in Borsa a prescindere dai piani di buyback, come emerge negli internal dealing di ieri. Ennio Doris, patron di Mediolanum, nei giorni scorsi ha comprato 200.000 azioni per oltre un milione di euro. Luigi Zunino ha acquistato altri 365.000 titoli della sua Risanamento per 1,895 milioni (ulteriori a quelli della scorsa settimana).
Francesco Caltagirone jr, presidente di Cementir, ha acquistato il 13 agosto 16.937 azioni per 139.900 euro (lo shopping di agosto arriva a 2,45 milioni di euro). La festa degli internal dealing ha riguardato anche Pirelli&C Real Estate, Banca Profilo, Banca Ifis, Polyint e Uniland, Seat Pagine Gialle, Navigazione Montanari e Popolare dell’Emilia-Romagna. Sintomo che gli imprenditori, dopo la batosta degli ultimi giorni, credono in una futura ripresa dei corsi azionari.

 

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

RIBASSO? GLI INSIDER COMPRANO A MAN BASSA 

29 Agosto 2007 New York - di D. HAUCK e M. PATTERSON 
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L’agosto di quest’anno verrà ricordato negli annali per la crisi subprime. Ma la vera notizia in fatto di Borse potrebbe rivelarsi un’altra. Era dall’estate del 1995 che i manager degli istituti finanziari inclusi nell’indice S&P500 non compravano così tanti titoli delle società per cui lavorano. Mentre i risparmiatori vendevano le azioni in portafoglio per paura di un grande crac, i cosiddetti insider non avevano alcun dubbio: la discesa deimercati è stata un’ottima occasione fare acquisti a prezzi scontati.
Secondo gli analisti di Muzea Insider Consulting Service, una società che vende i propri servizi agli hedge fund, si tratta di un importantissimo segnale che nei prossimi mesi il mercato è destinato a salire. La somma di tutti gli acquisti effettuati dall’inizio di agosto fino a ieri ammontava a 26,9 milioni di dollari. «Il fatto che le persone che sanno come stanno andando veramente gli affari siano ottimiste è un ottimo segnale - spiega Kevin Cronin, un gestore di Putnam Investment - questo è indicativo di quanto siano a buon prezzo i titoli finanziari». Fra le società che sono state oggetto di pesanti acquisti figurano Wachovia, American Express, Cit Group e American Capital Strategis.
La legge americana prevede che le operazioni degli insider vengano comunicate con non più di due giorni di ritardo alla Sec. «Il clima era molto negativo; i piccoli risparmiatori spaventati hanno venduto gran parte del loro portafoglio e adesso arriva anche la notizia degli insider buying - dice George Muzea, socio fondatore e presidente di Muzea Insider Consulting - Chi non riesce a guadagnare in questo mercato non ci riuscirà mai».
Gli acquisti più significativi sono avvenuti nella settimana terminata il 14 agosto. Secondo Ben Silverman, direttore della ricerca di InsiderScore.com, siamo in presenza della situazione più bullish di sempre in ambito finanziario.
InsiderScore.com ha messo a punto un sistema che attribuisce un diverso valore alle operazioni degli insider in base alla loro importanza all’interno dell’azienda e al valore dell’ordine di acquisto. Nella settimana terminata il 21 agosto il valore degli insider buying ha superato quello degli insider selling come mai era successo dal 2003, ovvero da quando InsiderScore.com ha iniziato a compilare le proprie statistiche.
Ernest Rady, un dirigente di Wachovia, ha comprato titoli per 4,42 milioni di dollari il 2 e il 3 agosto. Jan Leschly di American Express ha effettuato acquisti per 2 milioni di dollari. In Cit Group e American Capital a muoversi sono stati invece addirittura i Ceo.

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

 

BORSA: E IL NOTO GUFO FA IL MENAGRAMO

29 Agosto 2007 Milano - di G.R.
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«Allacciate le cinture». L’avvertimento arriva da Robert Prechter, autore di diversi libri sui mercati finanziari e profondo conoscitore della Elliott Wave, teoria secondo cui i movimenti di Borsa corrispondono a quelli dei comportamenti della «massa » e passano dall’ottimismo al pessimismo in maniera prevedibile e calcolabile.

In base allo studio di queste onde - un vero e proprio credo per molti analisti tecnici - nelle prossime settimane si concretizzerà una lunga fase di ribassi sui principali listini mondiali. Si tratta di un calo potenzialmente paragonabile a quello registrato tra il 1999 e il 2001, periodo durante il quale Dow Jones perse circa il 50%, e il cui lento e faticoso recupero si è concluso solo con il top di quest’anno.
Andando a ritroso nel tempo - secondo gli iniziati di Elliott - un crack simile è riscontrabile solo con il crash del 1929 (-90% il Dow Jones), recuperato nel ’37, guarda caso anche in questa occasione dopo otto anni. Di conseguenza, se è vero che la storia spesso si ripete, bisognerà attendere il 2015 per rivedere il mercato ai livelli attuali. Di riflesso inoltre, la correzione accusata dalle Borse a inizio agosto sarebbe solo una prima avvisaglia di quanto accadrà in futuro.
Ma come comportarsi di fronte a questo scenario? Il consiglio di Prechter è quello di seguire il mercato (e specialmente nei prossimi due mesi quando si avranno le peggiori correzioni - vedi grafico), non solo liquidando i titoli che si hanno in portafoglio, ma anche aprendo posizioni ribassiste cioè vendendo allo scoperto titoli, corporate bond o commodity per poi ricomprarli in seguito a quotazioni inferiori. Una pratica oggi possibile con molti broker online anche agli investitori non istituzionali.
NB: La Elliott Wave Theory e' criticata per la sua inattendibilita'. Per un approccio neutrale si consiglia di leggere su Wikipedia le sezioni Criticism and Controversy

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

 

 
 

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